Pubblico
una lettera – finalmente non convenzionale e non dolciastra, ma
sostanziale – di Carlo Forlivesi apparsa sul settimanale imolese
“Il Nuovo Diario Messaggero”, la quale, al di là dell'occasione
e della circostanza, tocca un problema fondamentale, inserendolo in
un quadro più ampio.
Molti giovani pianisti, ed esecutori in genere, possiedono certo una tecnica eccellente. Forse il livello delle esecuzioni e delle registrazioni, sul piano della tecnica esecutiva come della qualità dell'incisione, non è mai stato (a parte Glenn Gould, e pochi altri) così elevato come oggi.
Molti giovani pianisti, ed esecutori in genere, possiedono certo una tecnica eccellente. Forse il livello delle esecuzioni e delle registrazioni, sul piano della tecnica esecutiva come della qualità dell'incisione, non è mai stato (a parte Glenn Gould, e pochi altri) così elevato come oggi.
Ma
è giusto trasformare la musica in uno sport, in cui il solo fine è
vincere concorsi, più che riflettere sulla musica nelle sue
implicazioni culturali, spirituali, filosofiche, storiche, non solo
tecniche ed esecutive?
Il
culto della performance, del virtuosismo, del massimo numero di note
nell'unità di tempo, dettato anche dalle logiche della società
dello spettacolo, non trasforma l'esecuzione musicale in una forma di
altissimo, molto professionale artigianato, che, per quanto mirabile,
non è ancora arte?
Pretendere di imporre, nell'insegnamento, nel conservatorio, nei concorsi, come esatta ed accettabile un'unica prassi esecutiva, a scapito di tutte le altre possibili, passate presenti e future, non rischia di rendere la musica tutta uguale?
Oggi (per limitarsi al pianoforte) ci sono tanti pianisti tecnicamente validi; ma, che io sappia, non c'è un Glenn Gould, un Cortot, una Tureck (troppo dimenticata): forse mancano le grandi personalità proprio perché da un lato i grandi vecchi ripetono più o meno bene se stessi, dall'altro i giovani (in genere necessariamente bellissimi sul piano dell'aspetto esteriore, almeno nel caso delle donne) si adeguano ai concorsi e al mercato, mentre il pubblico non ha più (ma le ha mai davvero possedute su vasta scala?) la sensibilità e la cultura per poter giudicare in modo autonomo, e vive la musica più che altro come occasione mondana.
Pretendere di imporre, nell'insegnamento, nel conservatorio, nei concorsi, come esatta ed accettabile un'unica prassi esecutiva, a scapito di tutte le altre possibili, passate presenti e future, non rischia di rendere la musica tutta uguale?
Oggi (per limitarsi al pianoforte) ci sono tanti pianisti tecnicamente validi; ma, che io sappia, non c'è un Glenn Gould, un Cortot, una Tureck (troppo dimenticata): forse mancano le grandi personalità proprio perché da un lato i grandi vecchi ripetono più o meno bene se stessi, dall'altro i giovani (in genere necessariamente bellissimi sul piano dell'aspetto esteriore, almeno nel caso delle donne) si adeguano ai concorsi e al mercato, mentre il pubblico non ha più (ma le ha mai davvero possedute su vasta scala?) la sensibilità e la cultura per poter giudicare in modo autonomo, e vive la musica più che altro come occasione mondana.
Nel caso di Carlo Forlivesi (che, partito da Imola, ha vissuto e composto ovunque, dalla Francia alla Danimarca, dal Giappone agli Stati Uniti all'Australia, fondendo lo spirito della ricerca contemporanea, postmoderna, postavanguardistica, con l'eredità ancestrale della tradizione, dalla musica antica europea a quella tradizionale giapponese, così sottile, complessa, e scontrosa), la provincia nel suo lato deteriore, proprio con il localistico e meschino isolamento culturale cui l'ha suo malgrado costretto, con le piccinerie le invidie gli ostracismi di cui l'ha contornato, l'ha fatto diventare più universale e più libero, pur (anzi proprio) costringendolo all'esilio. Eppure, alla terra d'origine non si può che continuare a guardare, da ogni angolo del mondo.
(M.
V.)
Vorrei raggiungere tutti gli amici questo Santo Natale con una letterina di auguri, ma mi rendo conto che anche questa volta arrivo in zona Cesarini slittando sopra una valanga di impegni tra quattro continenti. Mi affido dunque a queste poche righe gentilmente ospitate dal Direttore del giornale. E dunque, che questi auguri per un sereno Santo Natale e felice Anno abbraccino anche alcuni pensieri non solo per scambiarci informazioni su ciò che attualmente succede a noi e alle nostre famiglie, ma perché sempre più una certa crisi viene a toccare appunto proprio questa nostra serenità e felicità, per così dire, sia nostra sia dei nostri giovani virgulti.
La
cultura nel nostro paese è entrata in crisi ben prima della crisi
economica, e credo di non
sbagliarmi
se individuo la crisi della cultura proprio all'origine e radice
della crisi economica. E' spesso stato così nella storia: crisi
culturali hanno preceduto diasastri sociali, recessioni, guerre. E
dunque mi sono trovato spesso a dover parlare in molte occasioni,
accademiche e non in giro per il mondo di etica della cultura, e
dunque a dover riflettere e confrontarmi con profondità sul
problema. Quel'è stato il cancro delle cultura che poi ha invaso
tutto il corpo sociale? Ecco in breve la risposta: la banalità.
Banalizzare la vita, banalizzare la storia (e dunque anche il nostro
essere presente), banalizzare l'educazione, banalizzare l'arte (che è
lo starter dell'espressione dell'animo umano, scusate se è poco). Lo
tsunami della banalità è vastissimo e devastante: non si lesina
quando è il momento di parlare di personaggi dello spettacolo che si
tirano caffé, che fanno incidenti con macchine di lusso, che fanno
costosi shopping e via discorrendo. Tutto questo a livello di
comunicazione viene chiamato tecnicamente "trash", ovvero
spazzatura. Si dice che questa impronta l'abbiamo acquisita da altri
paesi; forse si in parte, ma se non siamo stati capaci di prendere da
questi la qualità ma solo gli aspetti deteriori, penso agli Stati
Uniti per esempio, allora la colpa non può venire addossata ad altri
ma ricade su noi stessi. Parafrasando un vecchio proverbio "Abbiamo
preso solo l'acqua sporca e buttato via il bambino". Dunque,
proprio di bambino il Santo Natale ci parla, un bambino divino da
accogliere come rinnovamento del mondo e dunque di noi stessi. Un
Natale non chissà dove ma qui, un rinnovamento non chissà dove ma
nella città. Un rinnovamento che parta dalla cultura e dall'arte (il
Natale è l'opera d'Arte di Dio diceva qualcuno), proprio come la
crisi invece è partita dalla banalizzazione delle stesse. Ovvero non
solo da concertini ed esibizioni che si spengono con lo spegnersi
delle luminarie, ma dal sostegno sincero e reale all'espressione
intellettuale, con speciale attenzione ai giovani. Oso chiedere in
questo Santo Natale e nuovo anno, e prego che ciò che è successo a
me a Imola in gioventù non capiti più ad alcun giovane, tanto più
se talentuoso e pieno di voglia di fare. Qualcuno di forse
"importante" diceva che ero un "ramo secco",
altri affermavano la mia carriera finita prima di cominciare...
Profezie viziose e da quattro soldi, chiaramente. D'accordo saper
perdonare, ma è dovere constatare che non le nostre lingue (e
malelingue) sanno come andranno le cose, ma solo il Signore che
conosce l'intimo dei cuori. Invece prego affinché tanti giovani
possano avere la fortuna di incontrare figure come quella di Don
Ignazio Spadoni, tanto paterna da non lasciarsi intimorire dai
giudizi viziosi, un cuore sincero senza servilismi. Sono tempi
difficili e nel suo grande esempio sto cercando di tendere (e non
semplicemente dare) la mano a molti giovani e meno giovani, che si
trovano in difficoltà col lavoro musicale, proprio perché ho capito
in prima persona cosa vuol dire cercare di essere "eliminato"
da un mercato. Per fortuna il mercato culturale imolese è comunque
minuscolo. Invece nelle grandi istituzioni estere sono stato poi
valutato per le mie reali doti e impegno. Ho avuto la fortuna di
essere chiamato da poco alla Sorbona di Parigi e all'Università di
Kyoto, così come dalle Università americane; lì guardano a chi
sei, qui non sarebbe stato possibile.
So
che può essere umiliante chiedere aiuto, alle volte anche chiedere
solo consiglio, soprattutto per chi ha effettivamente bisogno e ha
perso parte di stima in se stesso e nelle proprie capacità. Stava
succedendo lo stesso a me a Imola, proprio per le ragioni che sapete.
Dunque
ora incontro persone di ogni cultura e credenza, cerco di assistere
(non dico aiutare, perché è una parola troppo grossa e ingombrante)
chi nella musica desidera vivere. Non sempre ci si riesce. Non sono
un "barone" e dunque faccio quel che posso per dare una
mano, con le mie forze e di chi mi è vicino; mi sono fatto stimare e
rispettare in tutto il mondo da molti di buona volontà, e questa non
è poca cosa e ne sono riconoscente. In un certo senso e' stata
dolorosa ma edificante l'esperienza imolese della mia gioventù. Non
è facile saper vedere il disegno positivo della Provvidenza in tutte
le circostanze della vita, sia personale che collettiva. E difficile
è opporsi a chi ha procurato, e procura, questi mali, ma per quelli
confido nell'azione umile e potente del Santo Natale, che ci invita
nuovamente a convertire i cuori e le menti.
Per
essere una letterina mi sono già dilungato fin troppo, retaggio
professionale.
Vi
lascio dunque con una frase di Pavel Florenskij: "Niente si
perde, né del bene né del male, e prima o poi si manifesta
apertamente anche ciò che per un certo tempo, a volte anche lungo,
rimane invisibile". Proprio come ci mostra
il tempo del Santo Natale.
Auguri
di cuore a tutti,
Carlo Forlivesi
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