martedì 10 luglio 2012
Ut pictura poesis. Giselda Pontesilli per Lorenzo Lotto, attraverso Berenson (pittura, etica e idealità nel Rinascimento)
In genere, l'aforisma oraziano dell'”ut pictura poesis” viene interpretato in senso estensivo, e dunque un poco generico. Nei versi di Giselda Pontesilli che ho il piacere di pubblicare esso ritrova, invece, la sua valenza originaria e precisa. Gli elementi della figurazione artistica, linee colori chiaroscuri, si dispongono e si intrecciano sulla tela come le parole del poeta sulla pagina, e in questo contesto, in questa mise en place trovano il loro vero valore semantico e semiotico.
E le immagini del dipinto, fermate per l'eterno, paiono essere eternamente e dall'eternità preesistite, predestinate, fermatesi in forma sensibile attraverso la mediazione (pur consapevole e tecnicamente meditata) dell'artista. Le cose, che l'arte rivela, invera, porta alla luce, sono universali ante rem mutati in entità percettibili. Come diceva Leonardo (pur così fenomenico e vicino alla natura, eppure, anzi per ciò stesso, accesamente visionario, quasi esoterico) nel Trattato della pittura, ciò che il pittore raffigura risiede prima nella mente che nelle mani; la pittura è «cosa mentale», «discorso mentale», al pari (e anzi, per Leonardo, addirittura più) della poesia
Ma l'arte ha anche un valore umano, sociale, civile quasi, tanto perenne da riverberarsi, puro, d'eco in eco, fino a noi. Come scriveva Berenson proprio di Lotto: «In realtà , le persone che egli ritrae sembrano condividere molti dei nostri modi di sentire, molti dei nostri ideali etici e sociali, e certamente erano offese e addolorate dai crimini che venivano perpetrati allora, non meno di quanto lo siamo oggi dagli scandali e dagli orrori che si verificano spesso in mezzo a noi. In esse avvertiamo una spontanea e genuina gentilezza d'animo e quel bisogno di vincoli affettivi e di umana solidarietà , che noi stessi proviamo. Così lo spirito caritatevole del Lotto ci dà del Cinquecento italiano un concetto più sano e certamente più valido di quello diffuso dai romanzieri alla moda, i quali, a partire da Stendhal, si sono dedicati esclusivamente al suo lato tenebroso. Era, senza dubbio, il lato più appariscente; ma un dubbio generoso ci faceva sospettare l'esistenza anche di altri aspetti, e Lotto ci aiuta a ristabilire quell'equilibrio di valori umani, senza il quale l'Italia cinquecentesca risulterebbe un vero sabba infernale".
L'empireo prenatale delle idee-valori lampeggia anche fra le spesse, e talora sanguinose, cortine del tempo, della materialità e della storia (e mi piace ora ricordare, fra quei romanzi alla moda citati da Berenson, uno che non è forse, oggi, fra i più noti, Then and now, ambientato in una fosca e deformata, scenografica e grottesca Imola rinascimentale e sforzesca, in cui gli sfarzi del carnevale si mescolano alle bambocciate dolorose e contratte, ai ghigni spasmodici e sinistri e sadicamente rimirati, dei patiboli).
All'autoritratto di Lotto e alla poesia di Giselda segue un breve documentario che si riferisce alla recente, persuasiva identificazione di un altro autoritratto del pittore. Quest'ultimo dipinto può essere visto, a sua volta, come una sorta di allegoria dell'atto poetico e della sua autocoscienza, di raffigurazione del creatore allo specchio, che si vede, quasi narcisisticamente, nell'atto di creare e di crearsi. Ma non può rappresentare, e anzi nasconde, la mano che dipinge.
Come a dire che l'essenza, la cima, il tramite sostanziale, intimo, apicale della creazione non possono rappresentarsi, non possono essere rappresentati, dalla creazione stessa. Anche la metapoesia, l'arte che parla di se stessa, continua a celare un istante di transizione dall'inesistente all'esistente, dall'indicibile al detto; una eterea paratia, un imene esilissimo, quasi impalpabile ("un hymen [...] entre le désir et l'accomplissement", dice Mallarmé), fra il mondo del pensiero e quello della manifestazione, fra l'alone del noumeno e quello, più denso ed impuro, del fenomeno.
E quel sottile ineffabile limbo, di cui non si può parlare, su cui si deve tacere, è forse il limite invalicabile, e forse lo sconfinato, ma invisibile e precario, sublime ed infero, fondamento, di ogni creazione, di ogni autocoscienza creatrice.
Neppure quando nomina e ritrae e rispecchia se stessa nell'atto del suo farsi l'arte può davvero parlare di se stessa, dire con altre parole e altre forme il processo e il divenire del proprio prender corpo. Per farlo dovrebbe uscire da sé, divenire altra, altro, alienarsi, sdoppiarsi, o dissolversi.
E lo stesso può forse dirsi della stessa umanità lacerata, divisa fra essere e dover essere, fra l'autenticità dell'esistenza e i rispecchiamenti spesso deformanti della sua autocoscienza.
Come il passe-partout, i marges de la peinture di cui parla Derrida: l'immagine, i riverberi e le reincarnazioni dell'immagine, non sono che continuo spiazzamento, fantasma diveniente che rinvia sempre ad altro, proprio quando si cerchi di fissarne il fondamento e l'essenza.
(Matteo Veronesi)
GISELDA PONTESILLI
Con Bernard Berenson e Guerrino Lovato
- Mi trovo simile anch'io
a Lorenzo Lotto:
perché ne amo con voi
il pensiero: la vita
e perché, sopra a tutto,
imitarlo vorrei
fare soltanto -ora- come lui,
quadri sacri e ritratti
e poi il ritratto che è qui a Venezia
che guardo:
l'Autoritratto, penso, con al fianco
questa perfetta, dritta lucertolina
questi dolenti petali di rosa.
- Ma dovrei fare, prima,
un'altra cosa:
subito, ora,
non da sola! qualcosa.
Qualcosa: forse, all'Abbazia di Farfa?
Perché a Farfa c'è ora un abate
come secoli fa, concretamente
e un monaco
che mi ha mostrato un sarcofago
romano, mi invita ancora lì
per studiare.
- Sì, quest'estate
ci vorrei proprio andare
così, ogni mattina d' ogni giorno
all'aperto
o nell'orto o nel chiostro
noi parleremmo degli universali
quelli “ante rem”,
platonici, reali,
che oggi servono molto urgentemente
che c'è urgenza
di redintegrare.
Dopo, da quest’ intesa,
rinasceranno, a un tratto,
lucertola,
rosa.
mercoledì 27 giugno 2012
PER IDOLO HOXHVOGLI, SCRITTORE AL DI LÀ DELLE PATRIE
lunedì 21 maggio 2012
Giselda Pontesilli, "Su 'La valle delle visioni' di Sauro Albisani"
mercoledì 18 aprile 2012
LA VOCE DELLA POESIA, FRA SUONO E SENSO. D'ANNUNZIO, CARMELO BENE, DE ROBERTIS
Si deve, forse, tornare, fosse pure criticamente o ironicamente, dopo tanta "vita in versi", tanta "prosa del mondo", alla lezione simbolista e poi ermetica del puro suono (la poesia come "esitazione prolungata fra il suono e il senso" di cui parlava Valéry); o, fosse pure, al paroliberismo dell'avanguardia, riletto attraverso il neo-avanguardismo tragico, la devastante "sperimentazione come assoluto", di uno Spatola.
E' ciò che differenzia la poesia dalla prosa, in fondo; e che può rendere, in certi casi, la prosa stessa (dal "petit poème en prose" alla prosa d'arte al romanzo lirico, forme un poco dimenticate) vicina alla poesia (la "Prose pour Des Esseintes" di Mallarmé, e prima ancora le "prosae" mediolatine, legate alla sillabazione, viscerale e sprituale insieme, alla fisica e sublime "ruminazione", del testo sacro - come nel D'Annunzio-Debussy de "Martyre de Saint Sébastien", sontuosamente e splendidamente monotono e tedioso, freddamente cruento, lucidamente sacrificale ed ascetico - Vita immolata alla Musica, grido e lamento e pianto e piaghe fatti musica - "Ognuno uccide la cosa che ama").
La stessa "poesia performativa", la stessa poesia scritta con la "voce dell'inchiostro" deve avere già in sé la musica, essere musica; non aspettarla dalla rituale "messinscena", dalla prostitutiva ostentazione del proscenio e dell'evento.
Carmelo Bene faceva cantare il testo, anche quando lo decostruiva; lo "eseguiva" usando la voce come strumento, le parole scritte-dette come note di uno spartito. Ma la musica preesisteva nei segni - "musica ficta", "musicale silenzio", "musique du silence".
La scuola non può nulla. La poesia non si insegna. Un discorso sulla poesia che non sia esso stesso poesia non ha ragion d'essere. La poesia non si commenta; il commento è esso stesso poesia, o è vaniloquio, glossolalia vuota, che non ha neppure un sovrasenso profetico.
Assurdità, disumanità totale della "valutazione" scolastica, che vorrebbe (testualmente, orrendamente) "misurare la performance dell'alunno", come fosse un toro da monta, o un motore; numeri vuoti; non si misura il piacere, poetico o d'altro genere (anche se è questo che l'età contemporanea, in cui non a caso nasce quell'aberrazione scientistica che è la sessuologia, vorrebbe fare); non si può tradurre la fruizione poetica (che è essa stessa poesia, ri-creazione, risonanza riverbero prosecuzione, del discorso poetico) in un linguaggio altro ed estraneo; non ci sono "finalità" ed "obiettivi didattici" a cui la lettura di un testo poetico possa essere subordinata, poiché il testo poetico è di per sé, per antonomasia, "autonomo" e fine a se stesso.
Tornare ai vociani. "E' necessaria una critica schietta, pronta, esperta, aderente. Senza commento. Il commento spiega la parola. E la parola, in arte, è viva di per sé. Con impeto interpretativo. L’interpretazione realizza le pause. Le pause, in arte, sono sospese tra sillaba e sillaba. Rifare il cammino dall’espressione ultima creativa verso la ragione prima che la determinò: il fondo detto germinale; come sembra faccia la musica".
Così Giuseppe De Robertis. E non c'è da stupirsi se la critica accademica, con i suoi "metodi" e si suoi "protocolli sperimentali" (e con essa quella prassi didattica ed antologica che altro non è se non la sua degradazione applicativa e praticistica, con il ritardo medio di un cinquantennio), in lui non ha visto, spesso, che un bellettrista datato.
sabato 7 aprile 2012
Una poesia di Giselda Pontesilli
Ho il piacere di presentare questa poesia di Giselda Pontesilli: un testo la cui naturalezza, la cui fluidità, la cui oraziana difficillima facilitas derivano da “lungo studio e grande amore”, sono l'esito rastremato, levigato, rifinito di un lungo lavorio correttorio, che coincide con i ripensamenti, le oscillazioni, le vibrazioni di un'esperienza di vita e di pensiero sempre mutevole, eppure sempre tesa su di una stessa, costante corda ‒ intonata ed improntata sempre alla ricerca di un'immersione dell'io lirico entro «la calda vita di tutti gli uomini di tutti giorni», di una pulsazione in accordo con l'”essere insieme”, l'”andare insieme”, per citare Serra lettore di Claudel e di Péguy, o con la betocchiana “opera comune”, con la luziana “opera del mondo”.
Il poeta entra nel mondo senza uscire dalla poesia; esce da se stesso senza uscirne, perché nell'altro-da-sé, nel confronto con l'altro-da-sé e nel ritorno a se stesso, trova un se stesso più vero e più puro, una parola più limpida proprio perché passata, come nel Dante del De vulgari eloquio, attraverso il lavacro purificatore dello studio, il magistero dei poetae regulati che parlavano una lingua pura ed eletta proprio perché ne avevano, per metamorfosi alchemica, lavato via ogni scoria, e avevano così ritrovato un volgare illustre, cioè una lingua comune, condivisa, eppure luminosa, tersa, limpida.
Ma vi è anche, in questi versi, l'idea, il motivo fonosimbolico del ritorno (esemplificato dall'ideofono /OR/, dintorni-ritorni-stormi-borghi, più volte reiterato: Horus, Horae, oros, il dio della sapienza e del tempo, l'occhio che tutto vede, e le dee che del tempo incarnavano partizioni, pulsazioni, battiti, divisioni, scansioni, e infine il limite, il margine, il confine, il cerchio sacro dell'oikos, della domus, il giro che apre e chiude, che definisce e circoscrive, lo spazio proprio dell'io e il suo relazionarsi con l'Aperto ‒ ma anche oros come monte, come limite delle possibilità umane, come linea oltre la quale lo sguardo naufraga nell'azzurro); e quello del volo, e insieme della fluidità, della corrente, e della luce (illegali-vitali).
Questo riaffiorare, questo tornare alla luce dei valori primigeni, prelogici e prelessicali, della lingua è forse, insieme, voluto e non voluto ‒ o non voluto proprio perché voluto, inscritto in una naturalezza originaria ritrovata per via di studio, di ricerca, di riscrittura, di lavorio di lima.
Lenti-tempi-redenti: la redenzione passa attraverso l'idea dell'antea, dell'antico, di ciò che è prima ma anche contro ‒ non nel senso avanguardistico di una distruzione, di un'opposizione dialettica al passato, ma piuttosto in quello di un recupero delle radici trasfigurate, riplasmate, e perciò rendente: eterno ritorno dell'uguale, ma insieme variazione nella ripetizione, ripetizione di forme e di motivi: come nella musica, nella poesia, nell'arte, nella storia, sotto il segno e la guida di quella métrique absolue, come la chiamava Mallarmé, che non è, in fondo, se non la rilettura moderna della
storia ideal eterna di cui parlava il massimo dei filosofi italiani.
(M. V.)
RITORNERANNO
Devo descrivere ora -come posso- qualcosa
che sta accadendo qui, nei dintorni:
sono ritorni,
ma non di stagioni, nuvole, stormi...
uomini vivi, tornano! case: non
sparse:
sperse, isolate
ma case che formano borghi,
abusivi a volte, illegali
ma vivi, vitali.
E' dall'impresa, l'iniziativa
dei padri -io vedo- che prendono vita:
la casa per il figlio, per la figlia
che giovanissima ha già famiglia
se la fanno da sé, senza pari
attaccata alla propria, o,
un po' nascosta
nel loro stesso lotto,
nell'orto, in giardino.
Così staranno vicino, padri e zii
parenti, amici.
Vicini, ma nello stesso tempo
-questo è l'intento-
“ognuno a casa sua” “indipendenti”:
i lunghi inverni passeranno prima
se a pochi passi c'è la tua casa di prima.
I lunghi inverni: ritorneranno:
liberi, lenti
e a poco a poco
torneranno tempi
popolati,
redenti.
martedì 28 febbraio 2012
Del Libro Digitale
Con il libro digitale, la condizione dell'opera che prende forma, che inizia davvero ad esistere, nel momento e nei modi in cui viene recepita e interpretata, troverà la sua traduzione e la sua visualizzazione più piene.
Vero è anche che la censura diverrà sempre più ardua, se non in quei paesi in cui anche la rete viene monitorata e censurata.
E, soprattutto, si potrà aggirare, grazie ai libri elettronici gratuitamente distribuiti tramite la rete, quella che è forse, oggi, in campo letterario, la censura forse più inflessibile e dura: quella esercitata (come sostiene Dubravka Ugresic in "Vietato leggere") non tanto da regimi politici, quanto dal mercato editoriale, che impone prodotti spesso scadenti controllando la distribuzione, inondando librerie, edicole e ipermercati, e anteponendo, com'è ovvio, il profitto al valore culturale.
Certo la rete esigerà lettori aperti, intraprendenti, voraci ma nello stesso tempo vigili, dotati di gusto sottile e spregiudicato ma, in pari misura, di una solida e stratificata preparazione (la quale dipende dalla passione individuale, ben più che da qualsiasi inutile imposizione scolastica).
Lettori capaci, finalmente, di discernere il reale valore di un autore e di un'opera, al di là degli schieramenti (ideologici e partitici, più che culturali) che hanno controllato e controllano rigidamente, con sistematiche e scientifiche lottizzazioni, l'editoria e la comunicazione tradizionali.
Ho già toccato argomenti simili qui:
http://www.paginatre.it/online/2011/08/08/4701/
http://www.diesse.org/detail.asp?c=1&p=0&id=4896
mercoledì 8 febbraio 2012
"Durata del mezzogiorno" di Antonio Melillo

In Durata del mezzogiorno (da poco edito nella preziosa e gloriosa collana dell’editore Carabba, rinato alcuni anni or sono dopo un lunghissimo silenzio) la poesia di Antonio Melillo nasce, si potrebbe dire, da una intersezione – o da un conflitto – di piani temporali. Da uno stridore di tempi, che è anche stridore in senso fisico, segnato com’è dal nodo e dallo spasmo della separazione e del rimpianto. Da un lato il tempo della poesia, che sembra scandito dalla franta e turbatissima eco dei metri tradizionali (la terzina, la sesta rima, il sonetto, anche caudato) indirettamente evocati, anche se mai fedelmente ricalcati – al contrario, trafitti, alterati e sfasati, come in un ologramma imperfetto, dalle dismisure metriche e dalle spezzature. Dall’altro, il tempo dell’esistenza, precocemente insidiata e troncata dalla morte, venata e minata dal lutto che tinge di sé ogni percezione e ogni reminiscenza. Così la musica della rievocazione è perturbata e contaminata da una dissonanza che ne diviene tuttavia parte integrante e sostanziale.
Scarsissimi sono gli accenni alla vita come esperienza, perlopiù configurata come vita degli altri che il marginoso soggetto lirico fugacemente osserva, o attraverso lo stream mestamente tende a riattualizzare, nella sua inibizione a nascondere, o a stilizzare, lo strato delle proprie memorie (memoria che tuttavia, trascegliendo, sembrerebbe operare quasi come canone). La distanza dall’esperienza è tangibile inoltre nella costante parcellizzazione, con cadenza descrittiva tutta esteriore, di variazioni tonali – benché sempre in sottotono in virtù del loro statuto di sfocatura, lontane dagli esiti di una ripresa dal vivo –, delle stagioni, le quali o si sovrappongono, o si alternano quasi insensatamente: elaborazioni soggettive di un horror vacui di esperienza presente. Ovvero, prolungamenti della insolvenza di uno stato d’animo che non ostenta pulsioni, volizioni né risposte emotive, che non “prega vita” giacché “è altro che si attende”. Lo smorzamento delle gradazioni tonali delle stagioni, sorprese nel loro stato di approssimazione, e rese nei versi nello smorire in atmosfere senza flagranza, costituisce il corrispettivo di una Stimmung emotiva, restituiscono la misura di un arresto o di un involgersi nella “illusione di mutamento”: esse muovono le cose, ma solo “in apparenza”. Analoga sorte paiono avere i simboli temporali (altra mancanza in emblema), anch’essi veicolanti proprietà illusive, e performanti la monocromia e la fissità di una elegia dell’abbandono. Le stesse parole “hanno perso senso in un tempo / allontanato, dissonante senza // rima”. Ma sono comunque selettive, e colgono l’inarcamento di questo tempo trattenuto e in sosta, dove l’atto di includere è ben consapevole di ciò che è destinato all’esclusione.
La “durata del mezzogiorno” è una “ombra inferma” adibita a meridiana della distanza dalla “vita”, misurata da una prospettiva (anzi, da “un corpo”) “di tramonto”, il quale si commisura con l’orizzonte del mare, margine ingenerato, principio di iterazione e refrain che non è dato traguardare. O forse Melillo concepisce l’ora meridiana in senso dannunziano e nietzschiano, dunque una sorta di limbo interiore che può prolungarsi, nella durée réelle, oltre ogni orologio e ogni misura.
Ciò che si è estinto è inaccesso e non può più essere rivisitato e rivissuto, nel perenne eterno presente della poesia, se non proprio in quanto morto, attraverso il diaframma opaco della lontananza e dell’assenza, che di questo libro sono temi portanti. Athànatoi thnetòi, thnetòi athànatoi, morti immortali, immortali morti: tali, come nel frammento di Eraclito, sono le ombre dei vivi morti, dei morti vivi, nel tempo ambiguo, vivente morente, che muore e rivive, in ogni frazione temporale della poesia – “tentativi di rime verso il cielo” –, delle sillabe che tengono dietro e incessantemente si legano alle sillabe nella musica fluente del verso.
Nel parziale antinomizzarsi delle due dimensioni, prossimità e lontananza convergono, si intravede insomma il filo di una compatibilità, di una coincidenza di “vita”, come un vincolo tra i vivi e i morti, una comunanza di condizione, che consiste nel vivere la stessa attesa (“il vento diviene acqua, / trascina lunghe domande di vivi / e morti”) – esperita in due diverse configurazioni, ma uguale negli atti –, la stessa speranza, un avere le stesse preghiere: giacché la distanza che li separa è solo di carattere spaziale.
Viaggiare è solo un restare nel mondo,
una speranza di sperare,
vano è averlo appreso con la morte,
se pure i morti debbono tenere
la pazienza del ballo insieme ai vivi,
in questi spazi dove si è eletti senza fine.
“Durante il funerale non si muore, / ma da allora si resta fuori dalla vita”. La condizione freudiana del lutto e della melanconia è un territorio intermedio tra vita e sparizione che prescrive di continuare a vivere una – e in una – vita segnata nel profondo dalla morte, e attraverso il velo della mortalità essenziale, inverata dalla fine della vita (“il sole sorge dal tramonto”) vedere ogni cosa e ogni volto e ogni luogo. La morte è l’infinito, l’essere, il tutto, sembrerebbero suggerire i versi di Melillo. “Non bastano tutte le morti per compensarne una”. È sulla scorta della mortalità che la condizione individuale si fa specchio e ricettacolo di quella universale. Il sovvertimento – e insieme l’amplificazione – che è anche una illuminante chiosa dell’enigmatico verso montaliano (“Ci vogliono troppe vite per farne una”), paiono in tal senso emblematici. E al montaliano “anello che non tiene” si rifanno i versi “nell’ordine scorrere un errore, / un intoppo nel ritorno / della risacca”, vano moto ottativo, giacché, scrive Melillo poco più avanti, “questa vita albeggia e tramonta / sempre aldiquà dell’orizzonte”. “Il morire è solo un migrare”, “un sorprendersi / della propria morte come quando ci si addormenta”. Nella circolarità, se non nell’unità, di vita ed estinzione, la mortalità che alona ogni cosa è anche presagio e tensione verso qualcosa più in là, quanto basta per definire i contorni vaghi di una “fede senza fuga”, speranza dunque “diafana / come un’addimoranza, un rifugio lontano”.
Elisabetta Brizio

