martedì 10 luglio 2012

Ut pictura poesis. Giselda Pontesilli per Lorenzo Lotto, attraverso Berenson (pittura, etica e idealità nel Rinascimento)




 

In genere, l'aforisma oraziano dell'”ut pictura poesis” viene interpretato in senso estensivo, e dunque un poco generico. Nei versi di Giselda Pontesilli che ho il piacere di pubblicare esso ritrova, invece, la sua valenza originaria e precisa. Gli elementi della figurazione artistica, linee colori chiaroscuri, si dispongono e si intrecciano sulla tela come le parole del poeta sulla pagina, e in questo contesto, in questa mise en place trovano il loro vero valore semantico e semiotico.

E le immagini del dipinto, fermate per l'eterno, paiono essere eternamente e dall'eternità preesistite, predestinate, fermatesi in forma sensibile attraverso la mediazione (pur consapevole e tecnicamente meditata) dell'artista. Le cose, che l'arte rivela, invera, porta alla luce, sono universali ante rem mutati in entità percettibili. Come diceva Leonardo (pur così fenomenico e vicino alla natura, eppure, anzi per ciò stesso, accesamente visionario, quasi esoterico) nel Trattato della pittura, ciò che il pittore raffigura risiede prima nella mente che nelle mani; la pittura è «cosa mentale», «discorso mentale», al pari (e anzi, per Leonardo, addirittura più) della poesia

Ma l'arte ha anche un valore umano, sociale, civile quasi, tanto perenne da riverberarsi, puro, d'eco in eco, fino a noi. Come scriveva Berenson proprio di Lotto: «In realtà , le persone che egli ritrae sembrano condividere molti dei nostri modi di sentire, molti dei nostri ideali etici e sociali, e certamente erano offese e addolorate dai crimini che venivano perpetrati allora, non meno di quanto lo siamo oggi dagli scandali e dagli orrori che si verificano spesso in mezzo a noi. In esse avvertiamo una spontanea e genuina gentilezza d'animo e quel bisogno di vincoli affettivi e di umana solidarietà , che noi stessi proviamo. Così lo spirito caritatevole del Lotto ci dà del Cinquecento italiano un concetto più sano e certamente più valido di quello diffuso dai romanzieri alla moda, i quali, a partire da Stendhal, si sono dedicati esclusivamente al suo lato tenebroso. Era, senza dubbio, il lato più appariscente; ma un dubbio generoso ci faceva sospettare l'esistenza anche di altri aspetti, e Lotto ci aiuta a ristabilire quell'equilibrio di valori umani, senza il quale l'Italia cinquecentesca risulterebbe un vero sabba infernale".

L'empireo prenatale delle idee-valori lampeggia anche fra le spesse, e talora sanguinose, cortine del tempo, della materialità e della storia (e mi piace ora ricordare, fra quei romanzi alla moda citati da Berenson, uno che non è forse, oggi, fra i più noti, Then and now, ambientato in una fosca e deformata, scenografica e grottesca Imola rinascimentale e sforzesca, in cui gli sfarzi del carnevale si mescolano alle bambocciate dolorose e contratte, ai ghigni spasmodici e sinistri e sadicamente rimirati, dei patiboli).

All'autoritratto di Lotto e alla poesia di Giselda segue un breve documentario che si riferisce alla recente, persuasiva identificazione di un altro autoritratto del pittore. Quest'ultimo dipinto può essere visto, a sua volta, come una sorta di allegoria dell'atto poetico e della sua autocoscienza, di raffigurazione del creatore allo specchio, che si vede, quasi narcisisticamente, nell'atto di creare e di crearsi. Ma non può rappresentare, e anzi nasconde, la mano che dipinge.

Come a dire che l'essenza, la cima, il tramite sostanziale, intimo, apicale della creazione non possono rappresentarsi, non possono essere rappresentati, dalla creazione stessa. Anche la metapoesia, l'arte che parla di se stessa, continua a celare un istante di transizione dall'inesistente all'esistente, dall'indicibile al detto; una eterea paratia, un imene esilissimo, quasi impalpabile ("un hymen [...] entre le désir et l'accomplissement", dice Mallarmé), fra il mondo del pensiero e quello della manifestazione, fra l'alone del noumeno e quello, più denso ed impuro, del fenomeno.

E quel sottile ineffabile limbo, di cui non si può parlare, su cui si deve tacere, è forse il limite invalicabile, e forse lo sconfinato, ma invisibile e precario, sublime ed infero, fondamento, di ogni creazione, di ogni autocoscienza creatrice.

Neppure quando nomina e ritrae e rispecchia se stessa nell'atto del suo farsi l'arte può davvero parlare di se stessa, dire con altre parole e altre forme il processo e il divenire del proprio prender corpo. Per farlo dovrebbe uscire da sé, divenire altra, altro, alienarsi, sdoppiarsi, o dissolversi.

E lo stesso può forse dirsi della stessa umanità lacerata, divisa fra essere e dover essere, fra l'autenticità dell'esistenza e i rispecchiamenti spesso deformanti della sua autocoscienza.

Come il passe-partout, i marges de la peinture di cui parla Derrida: l'immagine, i riverberi e le reincarnazioni dell'immagine, non sono che continuo spiazzamento, fantasma diveniente che rinvia sempre ad altro, proprio quando si cerchi di fissarne il fondamento e l'essenza.

(Matteo Veronesi)


GISELDA PONTESILLI




Con Bernard Berenson e Guerrino Lovato


- Mi trovo simile anch'io

 a Lorenzo Lotto:

perché ne amo con voi

il pensiero: la vita

e perché, sopra a tutto,

imitarlo vorrei

fare soltanto -ora- come lui,

quadri sacri e ritratti




e poi il ritratto che è qui a Venezia

che guardo:

l'Autoritratto, penso, con al fianco

questa perfetta, dritta lucertolina

questi dolenti petali di rosa.

- Ma dovrei fare, prima,

un'altra cosa:

subito, ora,

non da sola! qualcosa.

Qualcosa: forse, all'Abbazia di Farfa?


Perché a Farfa c'è ora un abate

come secoli fa, concretamente


e un monaco

che mi ha mostrato un sarcofago

romano, mi invita ancora lì

per studiare.



- Sì, quest'estate

ci vorrei proprio andare

così, ogni mattina d' ogni giorno

all'aperto

o nell'orto o nel chiostro

noi parleremmo degli universali

quelli “ante rem”,

platonici, reali,

che oggi servono molto urgentemente

che c'è urgenza

di redintegrare.





Dopo, da quest’ intesa,

rinasceranno, a un tratto,

lucertola,

rosa.










mercoledì 27 giugno 2012

PER IDOLO HOXHVOGLI, SCRITTORE AL DI LÀ DELLE PATRIE



 

Gilles Deleuze parlava, a proposito di Kafka, di “letteratura minore”: non già, ovviamente, nel senso di una letteratura di rilievo e valore trascurabili, né di una letteratura che si esprimesse in una lingua minoritaria; ma, al contrario, nel senso di una letteratura che esprimeva, all'interno e dall'interno di una grande lingua nazionale, maggioritaria, solenne, consacrata, legata al “grande stile” di una tradizione secolare, un punto di vista particolare, defilato, straniero, allotrio, ma proprio per questo libero e rivelatore.
È il caso di Idolo Hoxvogli (Introduzione al mondo, Scepsi e Mattana, Cagliari 2011), nato in Albania ma da sempre italiano, per cultura e formazione, eppure connotato, nella sua esperienza e nella sua visione, dallo sguardo errante, dalla gamma cangiante di percezioni e di significati, dal wandering meaning direbbe Harold Bloom, dello straniero, anche se straniero nella sua stessa patria, d'adozione eppure essenzialmente, quasi archetipicamente originaria.
Come in Kafka, e come nella “letteratura minore”, l'autore adotta una prosa limpida, nitida, esatta, e nel contempo, a tratti, evocativa, baluginante, epifanica, segnata da una pregnanza che la stessa esattezza della scrittura fa maggiormente risaltare, come risonanza segreta che salga dall'abissale profondeur de la surface.
Del resto, «le radici sono nel futuro». La tradizione e l'identità, invertendo, anzi accelerando, il corso del tempo, sono collocate non in un passato mitico, o in un elusivo e forse mistificante eterno ritorno, ma in un oltre, un'ulteriorità, un dover essere (o dover-divenire). «Civiltà e barbarie», creazione e distruzione, nell'ambiguo e spesso cruento crogiolo della storia, possono coesistere (si pensa alle riflessioni di Thomas Mann sulla Kultur, spietatamente istintuale, opposta alla freddamente razionalistica civilizzazione). «Agli sconfitti rimarrà il proprio cadavere violato, ai vincitori un arco di trionfo che tramanderà la memoria».
«Tutti apparteniamo a un'altra riva, e questo ci unisce». L'identità è alterità; il noi si precisa e si definisce in rapporto all'altro, e viceversa.
«Ora che si conosce il prezzo di tutto e il valore di nulla, proprio ora questa vita in equilibrio fra nulla e nulla, proprio questa vita sembra essere nulla».
«Il nulla nulleggia», si direbbe con Heidegger.
L'essenzialità della scrittura qui, però, fitta di bisticci e di paronomasie ‒ riflette la reificazione del mondo, e nel contempo la notomizza e la strania. Una frenetica e vacua ed ebete «Allegria», un insensato entusiasmo (come l'autore rivela in diagrammi a tutta pagina che fanno pensare alle parolibere futuriste ‒ e proprio il Futurismo, è stato osservato, con la sua ossessione della materia e della macchina, prelude alla logica del postmoderno) alimentano la multicolore, sterile ed insensata parata del consumismo.
Ogni redenzione sembra impossibile. Come scrive l'autore echeggiando Benjamin, «Macero è il legno della croce. L'anima del Messia non è arroventata dalla fiamma divina».
Introduzione al mondo, è il titolo del libro. Ciò parrebbe suggerire ‒ pur se, chiaramente, in un'ottica ironica, distopica, antifrastica ‒ la presenza di una delle cosiddette “opere-mondo”, ormai tramontate ed impossibili; di uno di quei vasti ed organici, per quanto polifonici o dissonanti, sguardi gettati sull'immenso ed entropico regno dell'umano e dell'esistente.
Ma la stessa interpretazione, la stessa visione di quel mondo è tremula, cangiante e sfaccettata come la superficie del mare; non è uno specchio uniforme e piano, ma piuttosto un prisma labirintico e cangiante. «L'indeciso spicchio di mare da che parte deve volgere le onde? (...) Lo spicchio di mare ‒ l'interpretazione ‒ deve essere fatto proprio». «La barca deve essere buttata a riva, o naufragata, affinché possa essere ammirata interamente».
Lo spicchio di mare che rappresenta lo specchio, traslucido e insieme diffratto, dell'interpretazione è quell'esile lembo d'Adriatico che divide l'Italia dall'Albania (e, per l'autore, la sua vera patria culturale dall'origine prima, remota, dalla quasi prenatale Arché donde sgorga il suo indelebile nome che è essenza e destino, quasi nomen omen) ‒ quel millenario immateriale ponte di venti e d'acque attraverso cui, forse, in un passato fra storia e mito, i Pelasgi recarono con sé le radici della civiltà italica.
Ma, come detto, le radici sono nel futuro. E nel futuro soltanto potrà forse ricomporsi e ridefinirsi un'identità polifonica, nel dialogo, rivelatore e insieme straniante, definitorio e insieme alienante, del Sé e dell'Altro. 
 

Matteo Veronesi 


Per acquistare il libro:

http://www.ibs.it/code/9788890237188/hoxhvogli-idolo/introduzione-mondo-notizie.html

 

lunedì 21 maggio 2012

Giselda Pontesilli, "Su 'La valle delle visioni' di Sauro Albisani"


E’ un poema della vita familiare, questo nuovo lavoro di Sauro Albisani (che appare, per Passigli, dieci anni dopo “Terra e cenere”, la raccolta di poesia precedente).
Anzi: è un poema della vita familiare odierna, quella vita cioè, mai come ora, privata: privata di ogni sostegno comunitario; di ogni visione stabile, socialmente condivisa; di ogni riposo rituale, parentale, amicale.
Dei parenti sì, di sfuggita, vi vengono nominati: un nonno, una nonna, una zia; ma senza attribuire loro alcun ruolo affettivo specifico, o di aiuto, di guida.
La famiglia di Sauro, cioè, è non idealistica, è “mononucleare”; e si arrabatta, si adatta, facendo tutto da sé, resistendo come può, ma comunque -sempre- indefessamente: senza cedere mai, senza neppur un attimo pensare di allentare i propri obblighi, di sciogliersi dai legami.
Vi sembra escluso infatti a priori il benché minimo risvolto psicologico individualistico, escluse, anzi del tutto impensate le consumate, consumistiche risposte attuali allo sconforto familiare epocale: incompatibilità, diversità, aspirazioni, diritti, opposte idealità…
No, proprio no, qui il legame è -“naturalmente”- per sempre: questa, infatti, è la famiglia del poeta!
di colui, cioè, che col suo strenuo studio e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente ( ovvero: per sua naturale inazione / e diacona effigie di maestro) ritrova, (antimodernamente), il sentimento “ingenuo” dell’obbligo incondizionato, di qualcosa, qualcuno, che non si può manipolare, che permane; e che stupisce, fa meditare.
Ma mai un simile, intoccabile fondamento viene esibito, cantato, impugnato: senza retorica, senza parere, di continuo -invece- si riconquista, si ripete e silenziosamente contiene il disorientamento, le spossatezze più forti, le pene.
Così, parole estreme, come:


Ciò che dà senso a questa giornata insensata
che non hai bisogno di ricapitolare
perché te la ricordi benissimo, povero idiota,
è la sua totale insensatezza.

oppure, come:

Quello che mi dispiace è non capire
perché abbia dovuto essere questa
la mia vita. Mi rincresce, lo so,
non è generoso, anzi è un discorso di merda il mio,
ma non vogliamo mai, proprio mai, essere sinceri?

oppure come:

Sono esistito, non è stato bello.
Sono esistito, non è stato un piacere.
Sono esistito, non lo rifarei.
Un armadio pieno di compiti
corretti mille volte, e la sensazione
che tutte quelle cose non siano mai successe.
Provo ogni tanto a perdere la chiave,
ma la ritrovo sempre. Almeno sapessi
perché.
Tutti quegli anni a scuola
senza imparare nulla,
senza riuscire a insegnare nulla.



sì, parole estreme come queste, sono collocate, figurate in un fido, figurale:
non tradire, non lasciare, non cedere.
In un umanesimo, direi; un umanesimo privato, oggi, di ogni riscontro, ogni conforto, e quindi non più “civile”: privato, appunto, relegato al suo ultimo, decisivo confine: la famiglia.
Ma come soffre questa famiglia, senza polis, senza comunità, senza niente!
Eccola qui:


Domattina. Lei ti aiuterà
a farti la doccia, puoi esserne certo.
Almeno questo, sì; poi chi vivrà vedrà.
Per guadagnare tempo
ti porgerà gli indumenti
scaldati un po’ con la stufa elettrica;
devi farti coraggio,
è proprio il caso di dirlo. Perché,
se ti guardi indietro, vedi
un beffardo calendario di ritardi,
appuntamenti mancati.
Ma domattina sarai puntuale:
nel perimetro delle mura domestiche,
in questa gabbietta,
non può entrare il lupo
e neanche il gatto, se è per questo. Ma lui
fa le fusa anche agli imprevisti.
Chiudigli la porta in faccia, tu.
Agli imprevisti, dico, agli imprevisti.
Chi comanda in casa tua?
Poi, all’alba, tutto il programma cambia
e lei deve correre in banca
ma ti mette la sveglia, già stanca
prima di tuffarsi nel rebus del nuovo giorno.
Dove siamo caduti?
Dove ci hanno precipitato?
Cosa vogliono da noi?
E se glielo chiedo, loro mi sentono?”


Loro” no, non sentono, anzi, in definitiva, non esistono.
Esiste questa famiglia: l’ultima polis -nascosta- del poeta, del popolo, sempre più sofferente, “perdente” e infine, quando troppa è l’offesa, artefice -come sempre- di rinascita, di ripresa.
Infatti, c’è anche una poesia civile, in questo “privato” poema;
una si intitola: “Giovane Italia”, e inizia così:

“…
patria è tenere lontani i bambini
dalla televisione, pensò la maestrina.

E ancora ci sono slanci, esultanze, epifanie dell’agire - di dopo, di prima:

Quel senso d’immortalità
sotto il sole di luglio
dopo l’esame di maturità.

E ancora:

Ma quel sogno, quel sogno ostinato.
Il rumore lieve degli zoccoli
che con un rapido tocco
fanno scaturire l’acqua dalla roccia.

E ancora:

e se io potessi parlare, se in quel luogo
continuasse a esistere una lingua,
voglio dire una lingua condivisa;


Del resto, non era una famiglia, quella di San Francesco? E la famiglia di Francesco Petrarca? E quella sacra, la Sacra Famiglia?

Al che, Sauro, tu puoi rispondere: “Sì, va bene, ma Petrarca, da quella famiglia, uscì fuori poeta” (non santo, non profeta).
Poeta, senza dubbio: il Poeta che scrive all’imperatore, al papa, a Cola di Rienzo, al Doge, ai Colonna, al popolo di Roma; che si fa ambasciatore, latore di suppliche, mediatore, oratore, paciere; che è: “l’uomo più grande del suo tempo; ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi”- scrive Wilkins- e, straordinariamente, conclude: “grande, soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie”*.

Del resto, non ci sono forse circostanze d’emergenza? Situazioni strane?
In cui si ha l’obbligo di rifare, diversamente, stranamente, ma in fondo in fondo proprio analogamente, un rinnovato “De vulgari eloquentia”?
Coraggio, amici. All’opera.

*







* da Ernest Hatch Wilkins, Vita del Petrarca, Feltrinelli, Milano, 1985, pref. pag. 9. L’intera prefazione dice così:

“ Francesco Petrarca fu l’uomo l’uomo, non il poeta più grande del suo tempo; ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi.
Fu ed è grande per la consapevolezza con cui partecipò, sullo sfondo ampio di tutto un continente, al dramma della vita europea allora in atto; per la consapevolezza che ebbe dei tempi passati e dei tempi a venire; per l’ampiezza e la varietà dei suoi interessi (egli fu, fra le molte altre cose, giardiniere, pescatore e liutista); per la elevata perfezione dei suoi scritti; per la fede che ebbe costantemente in Roma come capitale legittima d’un mondo unificato, governato politicamente dall’imperatore e spiritualmente dal papa; per la precocità della sua attività di filologo e la coraggiosa operosità dei suoi ultimi anni; per gli onori che ricevette e gli antagonismi che suscitò; per la fedeltà agli studi e all’attività letteraria, che furono la sua più importante occupazione; e soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie.
Egli è anche grande (grazie soprattutto alle centinaia di lettere e alle note scritte sui margini delle pagine dei suoi libri, che sono state con tanta devozione studiate) per il fatto che noi conosciamo le sue esperienze di vita con molta maggiore profondità che non quelle di qualsiasi altro essere umano vissuto prima di lui”.




mercoledì 18 aprile 2012

LA VOCE DELLA POESIA, FRA SUONO E SENSO. D'ANNUNZIO, CARMELO BENE, DE ROBERTIS

Ripubblico qui una riflessione suggeritami da un intervento di Massimo Sannelli ( http://www.poesia2punto0.com/2012/04/18/massimo-sannelli-appunti-asino/#.T44AhsUZdB4 ).

Si deve, forse, tornare, fosse pure criticamente o ironicamente, dopo tanta "vita in versi", tanta "prosa del mondo", alla lezione simbolista e poi ermetica del puro suono (la poesia come "esitazione prolungata fra il suono e il senso" di cui parlava Valéry); o, fosse pure, al paroliberismo dell'avanguardia, riletto attraverso il neo-avanguardismo tragico, la devastante "sperimentazione come assoluto", di uno Spatola.

E' ciò che differenzia la poesia dalla prosa, in fondo; e che può rendere, in certi casi, la prosa stessa (dal "petit poème en prose" alla prosa d'arte al romanzo lirico, forme un poco dimenticate) vicina alla poesia (la "Prose pour Des Esseintes" di Mallarmé, e prima ancora le "prosae" mediolatine, legate alla sillabazione, viscerale e sprituale insieme, alla fisica e sublime "ruminazione", del testo sacro - come nel D'Annunzio-Debussy de "Martyre de Saint Sébastien", sontuosamente e splendidamente monotono e tedioso, freddamente cruento, lucidamente sacrificale ed ascetico - Vita immolata alla Musica, grido e lamento e pianto e piaghe fatti musica - "Ognuno uccide la cosa che ama").

La stessa "poesia performativa", la stessa poesia scritta con la "voce dell'inchiostro" deve avere già in sé la musica, essere musica; non aspettarla dalla rituale "messinscena", dalla prostitutiva ostentazione del proscenio e dell'evento.

Carmelo Bene faceva cantare il testo, anche quando lo decostruiva; lo "eseguiva" usando la voce come strumento, le parole scritte-dette come note di uno spartito. Ma la musica preesisteva nei segni - "musica ficta", "musicale silenzio", "musique du silence".

La scuola non può nulla. La poesia non si insegna. Un discorso sulla poesia che non sia esso stesso poesia non ha ragion d'essere. La poesia non si commenta; il commento è esso stesso poesia, o è vaniloquio, glossolalia vuota, che non ha neppure un sovrasenso profetico.

Assurdità, disumanità totale della "valutazione" scolastica, che vorrebbe (testualmente, orrendamente) "misurare la performance dell'alunno", come fosse un toro da monta, o un motore; numeri vuoti; non si misura il piacere, poetico o d'altro genere (anche se è questo che l'età contemporanea, in cui non a caso nasce quell'aberrazione scientistica che è la sessuologia, vorrebbe fare); non si può tradurre la fruizione poetica (che è essa stessa poesia, ri-creazione, risonanza riverbero prosecuzione, del discorso poetico) in un linguaggio altro ed estraneo; non ci sono "finalità" ed "obiettivi didattici" a cui la lettura di un testo poetico possa essere subordinata, poiché il testo poetico è di per sé, per antonomasia, "autonomo" e fine a se stesso.

Tornare ai vociani. "E' necessaria una critica schietta, pronta, esperta, aderente. Senza commento. Il commento spiega la parola. E la parola, in arte, è viva di per sé. Con impeto interpretativo. L’interpretazione realizza le pause. Le pause, in arte, sono sospese tra sillaba e sillaba. Rifare il cammino dall’espressione ultima creativa verso la ragione prima che la determinò: il fondo detto germinale; come sembra faccia la musica".

Così Giuseppe De Robertis. E non c'è da stupirsi se la critica accademica, con i suoi "metodi" e si suoi "protocolli sperimentali" (e con essa quella prassi didattica ed antologica che altro non è se non la sua degradazione applicativa e praticistica, con il ritardo medio di un cinquantennio), in lui non ha visto, spesso, che un bellettrista datato.

sabato 7 aprile 2012

Una poesia di Giselda Pontesilli

Ho il piacere di presentare questa poesia di Giselda Pontesilli: un testo la cui naturalezza, la cui fluidità, la cui oraziana difficillima facilitas derivano da “lungo studio e grande amore”, sono l'esito rastremato, levigato, rifinito di un lungo lavorio correttorio, che coincide con i ripensamenti, le oscillazioni, le vibrazioni di un'esperienza di vita e di pensiero sempre mutevole, eppure sempre tesa su di una stessa, costante corda intonata ed improntata sempre alla ricerca di un'immersione dell'io lirico entro «la calda vita di tutti gli uomini di tutti giorni», di una pulsazione in accordo con l'”essere insieme”, l'”andare insieme”, per citare Serra lettore di Claudel e di Péguy, o con la betocchiana “opera comune”, con la luziana “opera del mondo”.

Il poeta entra nel mondo senza uscire dalla poesia; esce da se stesso senza uscirne, perché nell'altro-da-sé, nel confronto con l'altro-da-sé e nel ritorno a se stesso, trova un se stesso più vero e più puro, una parola più limpida proprio perché passata, come nel Dante del De vulgari eloquio, attraverso il lavacro purificatore dello studio, il magistero dei poetae regulati che parlavano una lingua pura ed eletta proprio perché ne avevano, per metamorfosi alchemica, lavato via ogni scoria, e avevano così ritrovato un volgare illustre, cioè una lingua comune, condivisa, eppure luminosa, tersa, limpida.

Ma vi è anche, in questi versi, l'idea, il motivo fonosimbolico del ritorno (esemplificato dall'ideofono /OR/, dintorni-ritorni-stormi-borghi, più volte reiterato: Horus, Horae, oros, il dio della sapienza e del tempo, l'occhio che tutto vede, e le dee che del tempo incarnavano partizioni, pulsazioni, battiti, divisioni, scansioni, e infine il limite, il margine, il confine, il cerchio sacro dell'oikos, della domus, il giro che apre e chiude, che definisce e circoscrive, lo spazio proprio dell'io e il suo relazionarsi con l'Aperto ‒ ma anche oros come monte, come limite delle possibilità umane, come linea oltre la quale lo sguardo naufraga nell'azzurro); e quello del volo, e insieme della fluidità, della corrente, e della luce (illegali-vitali).

Questo riaffiorare, questo tornare alla luce dei valori primigeni, prelogici e prelessicali, della lingua è forse, insieme, voluto e non voluto o non voluto proprio perché voluto, inscritto in una naturalezza originaria ritrovata per via di studio, di ricerca, di riscrittura, di lavorio di lima.

Lenti-tempi-redenti: la redenzione passa attraverso l'idea dell'antea, dell'antico, di ciò che è prima ma anche contro ‒ non nel senso avanguardistico di una distruzione, di un'opposizione dialettica al passato, ma piuttosto in quello di un recupero delle radici trasfigurate, riplasmate, e perciò rendente: eterno ritorno dell'uguale, ma insieme variazione nella ripetizione, ripetizione di forme e di motivi: come nella musica, nella poesia, nell'arte, nella storia, sotto il segno e la guida di quella métrique absolue, come la chiamava Mallarmé, che non è, in fondo, se non la rilettura moderna della

storia ideal eterna di cui parlava il massimo dei filosofi italiani.


(M. V.)



RITORNERANNO


Devo descrivere ora -come posso- qualcosa

che sta accadendo qui, nei dintorni:

sono ritorni,

ma non di stagioni, nuvole, stormi...

uomini vivi, tornano! case: non

sparse:

sperse, isolate

ma case che formano borghi,

abusivi a volte, illegali

ma vivi, vitali.



E' dall'impresa, l'iniziativa

dei padri -io vedo- che prendono vita:

la casa per il figlio, per la figlia

che giovanissima ha già famiglia

se la fanno da sé, senza pari

attaccata alla propria, o,

un po' nascosta

nel loro stesso lotto,

nell'orto, in giardino.


Così staranno vicino, padri e zii

parenti, amici.

Vicini, ma nello stesso tempo

-questo è l'intento-

ognuno a casa sua” “indipendenti”:

i lunghi inverni passeranno prima

se a pochi passi c'è la tua casa di prima.


I lunghi inverni: ritorneranno:

liberi, lenti

e a poco a poco

torneranno tempi

popolati,

redenti.

martedì 28 febbraio 2012

Del Libro Digitale

Il libro digitale, proprio in virtù della sua smaterializzazione, della sua fluidità, della sua impermanenza, della sua postmoderna liquidità, accentua la levità, la purezza assolute della parola poetica, che vive essenzialmente nel pensiero del lettore e nella sua coscienza interpretante.
Con il libro digitale, la condizione dell'opera che prende forma, che inizia davvero ad esistere, nel momento e nei modi in cui viene recepita e interpretata, troverà la sua traduzione e la sua visualizzazione più piene.
Vero è anche che la censura diverrà sempre più ardua, se non in quei paesi in cui anche la rete viene monitorata e censurata.
E, soprattutto, si potrà aggirare, grazie ai libri elettronici gratuitamente distribuiti tramite la rete, quella che è forse, oggi, in campo letterario, la censura forse più inflessibile e dura: quella esercitata (come sostiene Dubravka Ugresic in "Vietato leggere") non tanto da regimi politici, quanto dal mercato editoriale, che impone prodotti spesso scadenti controllando la distribuzione, inondando librerie, edicole e ipermercati, e anteponendo, com'è ovvio, il profitto al valore culturale.
Certo la rete esigerà lettori aperti, intraprendenti, voraci ma nello stesso tempo vigili, dotati di gusto sottile e spregiudicato ma, in pari misura, di una solida e stratificata preparazione (la quale dipende dalla passione individuale, ben più che da qualsiasi inutile imposizione scolastica).
Lettori capaci, finalmente, di discernere il reale valore di un autore e di un'opera, al di là degli schieramenti (ideologici e partitici, più che culturali) che hanno controllato e controllano rigidamente, con sistematiche e scientifiche lottizzazioni, l'editoria e la comunicazione tradizionali.

Ho già toccato argomenti simili qui:

http://www.paginatre.it/online/2011/08/08/4701/

http://www.diesse.org/detail.asp?c=1&p=0&id=4896

mercoledì 8 febbraio 2012

"Durata del mezzogiorno" di Antonio Melillo



In Durata del mezzogiorno (da poco edito nella preziosa e gloriosa collana dell’editore Carabba, rinato alcuni anni or sono dopo un lunghissimo silenzio) la poesia di Antonio Melillo nasce, si potrebbe dire, da una intersezione – o da un conflitto – di piani temporali. Da uno stridore di tempi, che è anche stridore in senso fisico, segnato com’è dal nodo e dallo spasmo della separazione e del rimpianto. Da un lato il tempo della poesia, che sembra scandito dalla franta e turbatissima eco dei metri tradizionali (la terzina, la sesta rima, il sonetto, anche caudato) indirettamente evocati, anche se mai fedelmente ricalcati – al contrario, trafitti, alterati e sfasati, come in un ologramma imperfetto, dalle dismisure metriche e dalle spezzature. Dall’altro, il tempo dell’esistenza, precocemente insidiata e troncata dalla morte, venata e minata dal lutto che tinge di sé ogni percezione e ogni reminiscenza. Così la musica della rievocazione è perturbata e contaminata da una dissonanza che ne diviene tuttavia parte integrante e sostanziale.
Scarsissimi sono gli accenni alla vita come esperienza, perlopiù configurata come vita degli altri che il marginoso soggetto lirico fugacemente osserva, o attraverso lo stream mestamente tende a riattualizzare, nella sua inibizione a nascondere, o a stilizzare, lo strato delle proprie memorie (memoria che tuttavia, trascegliendo, sembrerebbe operare quasi come canone). La distanza dall’esperienza è tangibile inoltre nella costante parcellizzazione, con cadenza descrittiva tutta esteriore, di variazioni tonali – benché sempre in sottotono in virtù del loro statuto di sfocatura, lontane dagli esiti di una ripresa dal vivo –, delle stagioni, le quali o si sovrappongono, o si alternano quasi insensatamente: elaborazioni soggettive di un horror vacui di esperienza presente. Ovvero, prolungamenti della insolvenza di uno stato d’animo che non ostenta pulsioni, volizioni né risposte emotive, che non “prega vita” giacché “è altro che si attende”. Lo smorzamento delle gradazioni tonali delle stagioni, sorprese nel loro stato di approssimazione, e rese nei versi nello smorire in atmosfere senza flagranza, costituisce il corrispettivo di una Stimmung emotiva, restituiscono la misura di un arresto o di un involgersi nella “illusione di mutamento”: esse muovono le cose, ma solo “in apparenza”. Analoga sorte paiono avere i simboli temporali (altra mancanza in emblema), anch’essi veicolanti proprietà illusive, e performanti la monocromia e la fissità di una elegia dell’abbandono. Le stesse parole “hanno perso senso in un tempo / allontanato, dissonante senza // rima”. Ma sono comunque selettive, e colgono l’inarcamento di questo tempo trattenuto e in sosta, dove l’atto di includere è ben consapevole di ciò che è destinato all’esclusione.
La “durata del mezzogiorno” è una “ombra inferma” adibita a meridiana della distanza dalla “vita”, misurata da una prospettiva (anzi, da “un corpo”) “di tramonto”, il quale si commisura con l’orizzonte del mare, margine ingenerato, principio di iterazione e refrain che non è dato traguardare. O forse Melillo concepisce l’ora meridiana in senso dannunziano e nietzschiano, dunque una sorta di limbo interiore che può prolungarsi, nella durée réelle, oltre ogni orologio e ogni misura.
Ciò che si è estinto è inaccesso e non può più essere rivisitato e rivissuto, nel perenne eterno presente della poesia, se non proprio in quanto morto, attraverso il diaframma opaco della lontananza e dell’assenza, che di questo libro sono temi portanti. Athànatoi thnetòi, thnetòi athànatoi, morti immortali, immortali morti: tali, come nel frammento di Eraclito, sono le ombre dei vivi morti, dei morti vivi, nel tempo ambiguo, vivente morente, che muore e rivive, in ogni frazione temporale della poesia – “tentativi di rime verso il cielo” –, delle sillabe che tengono dietro e incessantemente si legano alle sillabe nella musica fluente del verso.
Nel parziale antinomizzarsi delle due dimensioni, prossimità e lontananza convergono, si intravede insomma il filo di una compatibilità, di una coincidenza di “vita”, come un vincolo tra i vivi e i morti, una comunanza di condizione, che consiste nel vivere la stessa attesa (“il vento diviene acqua, / trascina lunghe domande di vivi / e morti”) – esperita in due diverse configurazioni, ma uguale negli atti –, la stessa speranza, un avere le stesse preghiere: giacché la distanza che li separa è solo di carattere spaziale.

Viaggiare è solo un restare nel mondo,
una speranza di sperare,
vano è averlo appreso con la morte,
se pure i morti debbono tenere
la pazienza del ballo insieme ai vivi,
in questi spazi dove si è eletti senza fine.

“Durante il funerale non si muore, / ma da allora si resta fuori dalla vita”. La condizione freudiana del lutto e della melanconia è un territorio intermedio tra vita e sparizione che prescrive di continuare a vivere una – e in una – vita segnata nel profondo dalla morte, e attraverso il velo della mortalità essenziale, inverata dalla fine della vita (“il sole sorge dal tramonto”) vedere ogni cosa e ogni volto e ogni luogo. La morte è l’infinito, l’essere, il tutto, sembrerebbero suggerire i versi di Melillo. “Non bastano tutte le morti per compensarne una”. È sulla scorta della mortalità che la condizione individuale si fa specchio e ricettacolo di quella universale. Il sovvertimento – e insieme l’amplificazione – che è anche una illuminante chiosa dell’enigmatico verso montaliano (“Ci vogliono troppe vite per farne una”), paiono in tal senso emblematici. E al montaliano “anello che non tiene” si rifanno i versi “nell’ordine scorrere un errore, / un intoppo nel ritorno / della risacca”, vano moto ottativo, giacché, scrive Melillo poco più avanti, “questa vita albeggia e tramonta / sempre aldiquà dell’orizzonte”. “Il morire è solo un migrare”, “un sorprendersi / della propria morte come quando ci si addormenta”. Nella circolarità, se non nell’unità, di vita ed estinzione, la mortalità che alona ogni cosa è anche presagio e tensione verso qualcosa più in là, quanto basta per definire i contorni vaghi di una “fede senza fuga”, speranza dunque “diafana / come un’addimoranza, un rifugio lontano”.


Elisabetta Brizio