mercoledì 8 febbraio 2012
"Durata del mezzogiorno" di Antonio Melillo
In Durata del mezzogiorno (da poco edito nella preziosa e gloriosa collana dell’editore Carabba, rinato alcuni anni or sono dopo un lunghissimo silenzio) la poesia di Antonio Melillo nasce, si potrebbe dire, da una intersezione – o da un conflitto – di piani temporali. Da uno stridore di tempi, che è anche stridore in senso fisico, segnato com’è dal nodo e dallo spasmo della separazione e del rimpianto. Da un lato il tempo della poesia, che sembra scandito dalla franta e turbatissima eco dei metri tradizionali (la terzina, la sesta rima, il sonetto, anche caudato) indirettamente evocati, anche se mai fedelmente ricalcati – al contrario, trafitti, alterati e sfasati, come in un ologramma imperfetto, dalle dismisure metriche e dalle spezzature. Dall’altro, il tempo dell’esistenza, precocemente insidiata e troncata dalla morte, venata e minata dal lutto che tinge di sé ogni percezione e ogni reminiscenza. Così la musica della rievocazione è perturbata e contaminata da una dissonanza che ne diviene tuttavia parte integrante e sostanziale.
Scarsissimi sono gli accenni alla vita come esperienza, perlopiù configurata come vita degli altri che il marginoso soggetto lirico fugacemente osserva, o attraverso lo stream mestamente tende a riattualizzare, nella sua inibizione a nascondere, o a stilizzare, lo strato delle proprie memorie (memoria che tuttavia, trascegliendo, sembrerebbe operare quasi come canone). La distanza dall’esperienza è tangibile inoltre nella costante parcellizzazione, con cadenza descrittiva tutta esteriore, di variazioni tonali – benché sempre in sottotono in virtù del loro statuto di sfocatura, lontane dagli esiti di una ripresa dal vivo –, delle stagioni, le quali o si sovrappongono, o si alternano quasi insensatamente: elaborazioni soggettive di un horror vacui di esperienza presente. Ovvero, prolungamenti della insolvenza di uno stato d’animo che non ostenta pulsioni, volizioni né risposte emotive, che non “prega vita” giacché “è altro che si attende”. Lo smorzamento delle gradazioni tonali delle stagioni, sorprese nel loro stato di approssimazione, e rese nei versi nello smorire in atmosfere senza flagranza, costituisce il corrispettivo di una Stimmung emotiva, restituiscono la misura di un arresto o di un involgersi nella “illusione di mutamento”: esse muovono le cose, ma solo “in apparenza”. Analoga sorte paiono avere i simboli temporali (altra mancanza in emblema), anch’essi veicolanti proprietà illusive, e performanti la monocromia e la fissità di una elegia dell’abbandono. Le stesse parole “hanno perso senso in un tempo / allontanato, dissonante senza // rima”. Ma sono comunque selettive, e colgono l’inarcamento di questo tempo trattenuto e in sosta, dove l’atto di includere è ben consapevole di ciò che è destinato all’esclusione.
La “durata del mezzogiorno” è una “ombra inferma” adibita a meridiana della distanza dalla “vita”, misurata da una prospettiva (anzi, da “un corpo”) “di tramonto”, il quale si commisura con l’orizzonte del mare, margine ingenerato, principio di iterazione e refrain che non è dato traguardare. O forse Melillo concepisce l’ora meridiana in senso dannunziano e nietzschiano, dunque una sorta di limbo interiore che può prolungarsi, nella durée réelle, oltre ogni orologio e ogni misura.
Ciò che si è estinto è inaccesso e non può più essere rivisitato e rivissuto, nel perenne eterno presente della poesia, se non proprio in quanto morto, attraverso il diaframma opaco della lontananza e dell’assenza, che di questo libro sono temi portanti. Athànatoi thnetòi, thnetòi athànatoi, morti immortali, immortali morti: tali, come nel frammento di Eraclito, sono le ombre dei vivi morti, dei morti vivi, nel tempo ambiguo, vivente morente, che muore e rivive, in ogni frazione temporale della poesia – “tentativi di rime verso il cielo” –, delle sillabe che tengono dietro e incessantemente si legano alle sillabe nella musica fluente del verso.
Nel parziale antinomizzarsi delle due dimensioni, prossimità e lontananza convergono, si intravede insomma il filo di una compatibilità, di una coincidenza di “vita”, come un vincolo tra i vivi e i morti, una comunanza di condizione, che consiste nel vivere la stessa attesa (“il vento diviene acqua, / trascina lunghe domande di vivi / e morti”) – esperita in due diverse configurazioni, ma uguale negli atti –, la stessa speranza, un avere le stesse preghiere: giacché la distanza che li separa è solo di carattere spaziale.
Viaggiare è solo un restare nel mondo,
una speranza di sperare,
vano è averlo appreso con la morte,
se pure i morti debbono tenere
la pazienza del ballo insieme ai vivi,
in questi spazi dove si è eletti senza fine.
“Durante il funerale non si muore, / ma da allora si resta fuori dalla vita”. La condizione freudiana del lutto e della melanconia è un territorio intermedio tra vita e sparizione che prescrive di continuare a vivere una – e in una – vita segnata nel profondo dalla morte, e attraverso il velo della mortalità essenziale, inverata dalla fine della vita (“il sole sorge dal tramonto”) vedere ogni cosa e ogni volto e ogni luogo. La morte è l’infinito, l’essere, il tutto, sembrerebbero suggerire i versi di Melillo. “Non bastano tutte le morti per compensarne una”. È sulla scorta della mortalità che la condizione individuale si fa specchio e ricettacolo di quella universale. Il sovvertimento – e insieme l’amplificazione – che è anche una illuminante chiosa dell’enigmatico verso montaliano (“Ci vogliono troppe vite per farne una”), paiono in tal senso emblematici. E al montaliano “anello che non tiene” si rifanno i versi “nell’ordine scorrere un errore, / un intoppo nel ritorno / della risacca”, vano moto ottativo, giacché, scrive Melillo poco più avanti, “questa vita albeggia e tramonta / sempre aldiquà dell’orizzonte”. “Il morire è solo un migrare”, “un sorprendersi / della propria morte come quando ci si addormenta”. Nella circolarità, se non nell’unità, di vita ed estinzione, la mortalità che alona ogni cosa è anche presagio e tensione verso qualcosa più in là, quanto basta per definire i contorni vaghi di una “fede senza fuga”, speranza dunque “diafana / come un’addimoranza, un rifugio lontano”.
Elisabetta Brizio
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