mercoledì 13 gennaio 2010
Patrizia Garofalo, "'Occhi di zagara' di Paola Sarcià"
E tu vento del sud forte di zagare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi.
Questi i versi splendidi, potenti, sonanti, luminosamente lirici e mediterranei, che ad un poeta oggi troppo snobbato dalla critica accademica, Salvatore Quasimodo, furono ispirati dal profumo della zagara (un fiore che, diceva, se non erro, anche D'Annunzio, evoca il suo profumo con il solo suono, lieve, alato e insieme intenso, del proprio nome) - versi da raffrontare, forse, con quelli che Montale rivolse, invece, al gelido vento del nord, che è al contrario salvifico proprio perché blocca, paralizza, "suggella" sul nascere la vita con il suo assiduo, spesso doloroso, moto e mutamento, con le sue potenzialità angoscianti proprio perché indeterminatamente molteplici: "Ritorna più forte / vento di settentrione che rendi care / le catene e suggelli le spore del possibile".
Fiore che ha occhi di poeta, fiore dal profumato pianto, come dice splendidamente la Garofalo, la zagara è, rispetto alla ginestra leopardiana, simile e insieme diversa. Al pari di essa resiste, nonostante tutto, con la sua assurda e vana bellezza spuntata dalle asperità e dall'abbandono, alla dolorosa angoscia del vuoto; ma lo fa non con l'umiltà dello stelo "lento", flessibile, potentemente docile, della ginestra, bensì con l'intensità decisa, con la disperata gioia dei suoi colori (l'opposto del rifiuto montaliano del croco dalle tinte troppo accese e squillanti) e dei suoi afrori.
Ma, in definitiva, nell'un caso come nell'altro, il profumo non consola che i deserti, si innalza, come in "Ognissanti" di Manzoni, "ai deserti del cielo", in offerta generosa e vana, non vista, levata e consacrata ad una alterità e ad un'assenza - eppure in sé, e per il devoto offerente, e forse anche per il misterioso, eterno Altro, essenziale e vitale.
M. V.
“All’inizio fu la stanza dei bambini, con le finestre che davano sul giardino e oltre il giardino, il mare” (V.Woolf, Le onde)
“Fai sempre in modo che l’uomo sia figlio dell’attimo in cui roccia e mare s’incontrano” ( Heine )
Il mare, nella parola dell’autrice, assume una valenza fortemente musicale e, come l’onda e il suo dissolversi, diventa paradigma dell’inarrestabile corso della vita e del tempo perso e ritrovato, nostalgico e inclemente, inaccessibile e segreto, nascita e morte, parola e silenzio.
Una “battigia” semantica di parole cancellate e riscritte sulla riva del dolore , segnano la sabbia di sangue e di rinascite in un non allineamento sentimentale ed artistico che denota , in questa silloge d’esordio, l’onestà artistica dell’autrice.
La zagara è fiore forte, resiste al gelo pur nella fragilità del suo stelo rugiadoso, e ha occhi da poeta. Il fiore assunto a specularità di sé dalla poetessa viene a significare l’ossimoro dell’esistere nell’indissolubile connubio con gli abissi, il naufragio, la morte, la catarsi. Un libro di elaborazione del dolore nei confronti del quale l’autrice non si celebra né si offre vittima: con profumato pianto, diventa lei stessa la zagara che aspetta e nell’attesa si “ripensa” nel mondo dei sentimenti e del reale, suggerendo inconsapevolmente che il riscatto è proprio nello scriversi senza difese e rimozioni, e il suo dare forma al dolore mantiene inalterati i solchi del tempo, le cicatrici e la loro rielaborazione emotiva.
Paola Sarcià nell’accettazione di sé offre versi anche di un solo sintagma, imprigiona il tempo nell’urgenza dello scatto-immagine e, in modo icastico, ogni volta propone versi che incidono la pagina di una assoluta volontà di coscienza. Poesia quindi non immaginifica e sognata ma poesia dell’intelletto che ne contiene l’emozione. La silloge priva di memorialismo, di soggettivismo e personalizzazione costituisce un diario dell’anima; senza date di riferimento, titoli e senza patetismi persegue l’ipotesi di un “noi” come unici protagonisti del nostro attraversamento per mare.
Naufrago
nei tuoi occhi di mare
approdo sicuro
il tuo corpo
pone fine
al mio errare
Tutto
è
ombra e luce
un mare d’acciaio
riflette
la mia anima
Ostinata
perseveranza
fino al dolore dell’anima
fino a quando anche il dolore
si è arreso
all’essenza
di un’assenza
che spegne il fuoco
e prosciuga
il mare
Quest’ultima lirica, la cui incisività concettuale crea un forte impatto emotivo, segna un doloroso prosciugamento della sostanzialità dell’esistere nell’assenza,
L’intensivo iniziale “ostinata-perseveranza” si espande nel cielo che sembra scientemente raccogliere il dolore di una donna e smettere di risorgere luminoso .
Nella paronomasia (essenza –assenza), Paola Sarcià sfida la deriva dell’essenza nella sostanzialità dell’assenza, del vuoto, del baratro che tutto prosciuga, anche il mare - ma non la vita che continua ad essere fissata nel susseguirsi delle liriche con la “fede” di chi crede che il vivere vada scritto per non essere cancellato, e per rinascere alla vestale-poetessa come fuoco inestinguibile.
Inseguendo un profumo
di salsedine
ho confuso
le onde
con le nuvole
e
atteso una notte
di stelle di mare
Una tavolozza d’infinito confonde in un continuum mare e cielo, li profuma di salsedine e trasporta le stelle nel fondo del mare. Ho parlato dell’autrice come poetessa del mare per la varietà di etonimi che sono ad esso attribuibili e sempre così profondamente da sentirne sensibilmente la fisicità anche quella memoriale della nascita e del ritorno, del naufragio e dell’approdo.
“Luna d’Asia / dominatrice / seducente / di vascelli / in cerca / di rotte". Lo spaesamento e il dolore diventano viaggi per mare in cerca di ammaraggi e affidati alla luna, illuminata compagna di viaggio, cifra della solitudine poetica che in simbiosi con il creato rielabora in “fermo-immagine / lo scorrere della follia", in un “ fragore di onde / di spuma / di alghe”; “…l’onda sovrana / sfida la roccia / violenta di cicale /e di fronde nodose…".
Nella ipallage sorprendente in cui la roccia diventa attesa dell’incontro con il mare trovano il loro definirsi i versi di Heine citati in apertura, e il mare diventa il ritorno alle radici dell’autrice, la quale così definisce la sua poesia: "Pensieri / diafani / indistinti / si spandono/ sulla carta / polvere di sabbia…”.
Il mare è ancora “terra” di una bambina che scrive e gioca sulla sabbia, di una donna che ha “scavalcato mura d’ansia… / di labbra stuprate / di radici ferite", foriero di un’ancora probabile
“gita al faro” con tutte le nostalgie che comporterà. Sarà la Sicilia ad accoglierla e lei a “ripensarsi” nel luogo dell’anima, nella assolata terra del padre, e l’andamento lento dei versi la proietta, riconciliata, verso un approdo:
leggero il mio cammino
su questa terra
di ulivi gravidi
di fichi d’india
protesi in un abbraccio
al cielo
di agavi in fiore,
illuse
di distrarre la morte-
Di questo luogo
mi riconosco
figlia
e non più
errante
in un cielo opaco
fra vicoli
senza orizzonti
di una città antica.
Nello specchio
l’immagine riflessa
l’arcano richiamo
di terre assolate
levigate dal vento
bagnate dal mare
La Vestale non ha accettato il fuoco spento, ed esso si riaccende epifanico dentro di lei
Nella mia anima
in punta
di piedi
sono
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martedì 12 gennaio 2010
Elisabetta Brizio, "La grigia 'povertà cogitabonda' nella poesia di Marino Moretti"
non ci tocca. Perduto ha la sua voce
la sirena del mondo e il mondo è un grande
deserto. Nel deserto
io guardo con occhi asciutti me stesso.
Camillo Sbarbaro
Chinar la testa che vale?
Che vale fissare il sole
e unir parole e parole
se la vita è sempre uguale?
Marino Moretti
Oppressi dalla dannunziana mitologia del poeta-vate i crepuscolari ostentano una povertà stilistica e di contenuti, attenuano i grandi motivi decadenti e decantano la propria incapacità di sostituirli; in tutti c’è l’aspirazione a distanziarsi da esperienze poetiche di carattere assertivo, vale a dire dagli esiti naturalistici o più tipicamente civistici carducciani, dal modello dannunziano, ma anche da Pascoli, che pur con un eccesso di malinconia, l’attenzione verso le piccole cose o la scelta regressiva dice sempre e comunque qualcosa che è, non che non è. La poesia viene dai crepuscolari fatta passare per qualcosa di diverso dalla poesia: è antilirica confessione della negatività, priva di riferimenti, nonché di destinatari, smascheramento - più o meno irriguardoso - della falsificazione. E il presupposto comunicativo della negazione crepuscolare è un rifiuto delle ideologie non ideologicamente caratterizzato: un disconoscimento - di secondo grado dunque - della possibilità stessa che sussistano ancora dei significati.
Della poesia i crepuscolari inverano la morte e una condizione aurorale, aspetti compresenti nell’ambivalenza sottesa alla metafora del crepuscolo che Giuseppe Antonio Borgese inaugurava su “La Stampa” nel 1910:
A interrogare il gran pubblico, si direbbe invece che dopo le Laudi e i Poemetti la poesia italiana si sia spenta. Si spegne infatti, ma in un mite e lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte. Presso un popolo ricco di energie creatrici come il nostro la lirica esaurita sonnecchia stanca, ma non dorme e non muore. In una morbida ignavia soffusa di vaga inquietudine si confondono gli ultimi sospiri di una grandezza che fu coi primi sommessi balbettii di una grandezza che verrà un giorno alla luce, e il chiarore del tramonto si protrae fino a disperdersi nei primi raggi dell’alba. (…). Ecco tre giovani poeti crepuscolari - Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves - che sono indubbiamente tra i migliori rappresentanti di una scuola poetica ogni giorno più numerosa: quella dei lirici che s’annoiano e non hanno che un’emozione da cantare: la torbida e minacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare.
Marino Moretti - nella trilogia che annovera Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911) e Il giardino dei frutti (1915), cui seguì un lunghissimo, emblematico silenzio poetico protrattosi fino a Diario senza le date, uscito solo nel 1965 - accondiscende all’atmosfera crepuscolare attraverso un impoverimento tanto delle emozioni che della valenza d’eco sia del catalogo oggettuale che dei luoghi del crepuscolarismo. In lui l’obiezione al naturalismo e allo storicismo avviene in una dimensione strenuamente ironica, nell’intrattenersi con una realtà poetabile solo per diminuzione. Non siamo nell’orizzonte della riduzione mallarmeana (pur se umanamente, tragicamente sentita come algida distanza dal mondo, e dunque richiamata, anche se per mediazione intellettuale, entro la sfera di una dolente e tormentosa esistenzialità esperienziale) verso la purezza, né di quella corazziniana verso l’essenzialità e l’astrazione linguistica delle ultime raccolte, nelle quali il soggetto lirico-empirico delinea l’esito di un divenire che tragicamente accede al punto d’arrivo. Con evidente intenzione mistificante - ma fino a che punto? - Moretti esibisce, come uniche emozioni, un cupo grigiore e la noia della vita. Ma sovrappone a tali referti la propria inclinazione riduzionistica vistosamente diminuendoli, e filtrandoli attraverso uno schermo che li riduce fino a rivelare della realtà la sua qualità “lillipuziana”:
Tu vedi: la mia stanza è un bugigattolo,
tu vedi: la mia penna è una matita,
e la mia vita, la mia dolce vita
è come l’arte, un gioco od un giocattolo
(Parole al fratello dispotico, Poesie di tutti i giorni).
Il celebre morettiano “nulla da dire” potrebbe assimilarsi all’indebolimento del verlainiano “Plus rien à dire!”. Il "nulla da dire" di Verlaine (nel celebre sonetto Je suis l'Empire à la fin de la décadence) è comunque inserito in una visione storica quasi vichiano-spengleriana (la decadenza tardo-ottocentesca è rivissuta, individualmente, come eco o riverbero delle tante decadenze di cui è tramata e intessuta, nella ruota dell'eterno ritorno, dei corsi-ricorsi, la storia, e in particolare di quella tardo-imperiale, che tanto affascinò gli spiriti di fine secolo, da Huysmans a Pater).
L'afasia di Moretti può invece apparire più individuale, intimistica, provinciale, marginale, perciò talora anche fastidiosa, oltreché povera di significati letterari e culturali, proprio perché scissa da una percezione della profondità storica e del divenire dei secoli.
Nondimeno, che anche il non-dire possa essere paradossalmente fonte di poesia, che anche il mutismo e il non senso possano generare suono e significato, per quanto grigi e smorzati, è idea molto moderna, che sta, ad esempio, alla base dell'alea musicale così come del teatro dell'assurdo - mentre il théatre du silence di Maeterlinck era dominato da un silenzio espressivo e significante, da una pausa che poneva in rilievo la parola, come in un gioco di chiaroscuro, come l'ombra nella pittura, come il silenzio, la reticenza, la pausa, l'indugio, nella letteratura e nella musica.
Il nulla da dire invade anche i morettiani luoghi della retrospezione e si intreccia con il rammemorare, con la regressione, come in Il ricordo più lontano, posto a chiusura di Poesie scritte col lapis. E tale tendenza al regressus accomuna il poeta agli altri crepuscolari, con la differenza che egli finisce per reificarla sul piano formale attraverso la diminuzione, la ricorsività dei ritornelli, l’ironia gratuita, quasi a tratteggiare un crepuscolarismo ormai fatiscente (scriveva parecchi anni or sono Luigi Baldacci che leggendo Moretti si avverte la sensazione che egli sia intervenuto nel momento in cui la poesia crepuscolare si era pressoché esaurita), come nella dichiarazione apertamente programmatica - e ormai non più neppure antidannunziana - della sua poesia-prosa, emblematizzata nella metafora del frutteto:
Ecco dunque la mia prosa, la mia prosa-poesia
(…)
Qual mia gioia più sincera se al gentil visitatore
che mi chiede a caso un fiore, glielo do con una pera?
(Il giardino dei frutti).
E viene spontaneo qui l’accostamento alla più nota e fors’anche più sottile esternazione di Gozzano, contenuta in L’altro:
Buon Dio, e puro conserva
questo mio stile che pare
lo stile di uno scolare
corretto un po’ da una serva.
Rispetto al più scaltrito Gozzano, il cui prosaismo, com’ebbe a dire Montale, viene sapientemente e imprevedibilmente coniugato con “l’aulico”, con la componente della tradizione, con l’esibizione di una letterarietà travestita da dimessità che ne legittimerebbe la classicizzazione, Moretti, si diceva, sembrerebbe descrivere l’esaurimento del crepuscolarismo, codificarne una versione epigonica e talora quasi caricaturale.
Un crepuscolarismo, quello di Moretti, eideticamente devitalizzato, deprivato di sensibilità e di inquietudine, quasi compiaciuto di stazionare su una ontologica e poetica nihilitas nella quale l’inaridimento viene apparentemente vissuto senza ombra di pathos. Con questo, la morettiana prosa-poesia non è tuttavia esente dal coefficiente aulico: come in Gozzano, la componente letteraria viene solo accortamente dissimulata, e con loro, come poi con Montale, la questione del sublime d’en bas e sublime d’en haut, tra “sublime inferiore e sublime superiore”, come notava Edoardo Sangiuneti, diventa eminentemente una questione tra sublime e non sublime.
La poesia di Moretti si presenta con metrica e forme chiuse, e con l’ostinazione della rima; resistente al verso libero, la sintassi morettiana mostra comunque forti spezzature (ad esempio in A Cesena), con prevalenza di enunciati paratattici sprovvisti di segni funzionali. Lo accomuna a Gozzano un’ironia che impegna il lettore in una decodifica della semanticità del linguaggio poetico, nel tentativo di decifrare il livello profondo dell’espressione. Con Gozzano Moretti condivide anche la dimensione della inafferrabilità del soggetto dell’esperienza, ma rispetto al poeta torinese, che costantemente si propone per poi immediatamente smentirsi, Moretti evita finanche di proporsi, restando al di qua di qualsiasi affermazione:
Aver qualche cosa da dire
nel mondo a se stessi, alla gente!
che cosa, io non so veramente
perch’io non ho nulla da dire
(Io non ho nulla da dire, Poesie di tutti i giorni).
Che senso ha dire in poesia “io non ho nulla da dire”? È una forma di negazione della poesia in quanto tale? Verbalizzare un nulla da dire alluderebbe a un segno più radicale rispetto alla corazziniana negazione, al palazzeschiano divertissement o alla gozzaniana vergogna di essere poeta. Forse è una maniera estrema per non assoggettarsi alla falsificazione: non dire nulla equivarrebbe a non dire menzogne, ad astenersi dal mistificare, dove l’indolente ironia permette al poeta di non sbilanciarsi tra i due eccessi, o poli, dell’azione e dell’astensione. Un inclinare all’impartecipazione, ovvero, per dirla alla Gozzano, alla “rinuncia volontaria”, che talora nondimeno si esprime in forme e toni maggiormente assorti e riflessivi:
Felicità, cosa che sa d’amaro,
parola che si lascia dire e ride,
fior che fiorisce come un frutto raro,
gioia che il cuor sopisce ma non uccide;
felicità, larva di donna, riso
di donna, occhio di donna, ombra di donna,
seppi io forse il tuo gran rombo improvviso,
rabbrividii nel tuo bacio che assonna?
E se la stringo al mio cuore soave
la chiave della mia casa solinga,
felicità, forse t’ho chiusa a chiave,
fior, gioia, donna, infelicità?
(Cosa e parola, Il giardino dei frutti)
A Moretti, rispetto al liricissimo Corazzini, alla sovrabbondante ispirazione di Govoni, al Gozzano perlomeno delle Farfalle, non pertiene quella tendenza a entrare in sintonia - seppure per sottolinearne lo scarto - con le forze cosmiche, in una mistica corrispondenza con il mistero. Così come gli è estraneo il corazziniano indulgere all’ondulazione e alla stilizzazione, quell’andamento a volute, quelle linee curve del verso che ad alcuni crepuscolari derivò dal liberty - vibrazioni e volute di puro suono, ma implicate anche negli innumerevoli simboli tratti dal mondo della natura, di ascendenza simbolista e soprattutto maeterlinckiana.
Quella vicinanza, in altri termini, alle soglie del segreto pare in Moretti risolversi tutta nel prosaismo dell’esperienza e della parola. Laddove l’elemento strutturale, enunciativo, portante mai viene scorporato da ciò che evoca, conservando una consistenza fenomenologica espierenziale ricercatamente minimale.
Un’esperienza eminentemente grigia (“non c’è che un colore: / il grigio”, Che vale?), colore debordante nei versi di Moretti, che sottentra al bianco corazziniano, tonalità del silenzio e della morte. Grigia è la domenica di provincia, pervasa dal grigiore dello spleen crepuscolare:
Voglio cantare tutte l’ore grige
in questa solitudine remota
mentre ripenso, pallida, a una gota,
mentre rivedo, piccola, un’effige
(Che malinconia!, Poesie scritte col lapis);
Non c’è né duolo, né gioia
non ci son luci, né ombre:
il grigio, il grigio che incombe
sui cuori e un tarlo, la noia!
(Che vale?, Poesie scritte col lapis)
Il grigio di Moretti è il colore dell’inazione (l’antecedente crepuscolare è Armonia in grigio et in silentio del più “barocco”, impressionista e coloristico Govoni), è colore che collima con la noia, è il tono smorzato dei segni del lapis, della malinconia e della “tetraggine” (“malinconia / del tuo color che non è più colore”, Ode al lapis). Un “grigio borgo” dove piove e “s’avvicina / l’ombra grigiastra” è Cesena, grigie sono le ore, “grigia è l’immensità in La domenica di Bruggia, grigio il diurno morettiano vagabondare (“lentamente camminando / per la città sconosciuta / dove nessuno mi saluta / fuorché un cane a quando a quando”, La domenica dei cani randagi). La malinconia delle mezze tinte si ricollega all’astensione, al nulla da dire come indistinzione del segno riluttante a significare. Il girovagare, si diceva, il nulla da fare, già sottolineato da Borgese: un vagolamento, un far passare il tempo che non assumono il carattere crepuscolare del notturno come esperienza estetica (stando ai ricordi dei crepuscolari del cenacolo romano) o come insofferenza al vedere quanto lo scopo non-scopo di esteriorizzare il nulla da dire. Nulla da dire e nulla da fare si legano all’idea di versificare durante questo inconcludente vagabondare, nel quale il poeta sembra pago
d’una felicità fatta di cose
randagie, di brevi atti di passanti,
di ritornelli facili, di pose
vecchie d’innamorati interessanti
(A Firenze con Palazzeschi).
La poetica dell’oggetto, del proverbiale oggetto crepuscolare, antefatto letterario del montaliano correlativo oggettivo, subisce con Moretti una sensibile deviazione. Se in Corazzini l’oggetto era il compimento di una visione o la simbolizzazione di un’ossessione emotiva, ovvero l’incarnazione materiale dell’anima, in una parola, “un altro me”, deperibile e soggetto a consunzione, segno d’elezione dell’estrinsecarsi dello spirito, in una relazione paritaria con il soggetto lirico (una variazione del mondo reale dal punto di vista del soggetto), in Moretti l’oggetto trascende il soggetto e sancisce tale distanza conservando una dimensione più realistica e meno astrattiva, e patisce la trasfusione di una mancanza di sentimento. In Moretti gli oggetti non paiono in alcun modo emotivamente o esistenzialmente connotati se non in modo implicito, silente, che eventualmente sarà decifrato dal lettore. Mentre in Govoni la fusione tra il soggetto lirico e l’oggetto è esemplare, in Palazzeschi c’è l’oggetto vuoto, la cosa nuda (“Oro doro odoro dodoro”).
L’indifferenza permea e impregna, avvolge e imbeve anche lo stile di Moretti, che si qualifica come stile al grado zero, insieme alla fredda luce degli oggetti e degli ambienti, che riflettono in modo solo implicito, senza alcun romantico o decadente analogismo, l’assenza di un vero autentico stato d’animo.
Ma non alla maniera del superegotico Gozzano, riempiti di ironico rimpianto, talora sbeffeggiati, ma saturi comunque di un contenuto soggettivo, di un’aura di passato ormai cristallizzato, la sola consistenza che Gozzano riesca a padroneggiare, a fruire, oltreché l’unica a distanziarlo dal presente e da ogni inquadramento ideologico. Il rituale che Gozzano inscena con la poetica dell’oggetto è in vista dell’edificazione di una sorta di “altare del passato”: e il carattere di passato che pervade i versi gozzaniani sopperisce a una tutt’altro che metaforica vacanza di presente.
Gli oggetti di Moretti rivendicano la propria autonomia, e malgrado talora dessero l’impressione di adombrare una evasione, una qualche risonanza, hanno una dimensione univoca e inequivocabile, sono concreti e letterali, per usare la definizione che Roland Barthes associava agli oggetti robbe-grilletiani. Il morettiano oggetto fattuale dunque fa la cosa senza svelarne alcunché. Moretti non ne sperimenta né la vita né la dissoluzione, né li assume, gozzanianamente, come obsoleti nella loro assoluta fissità, e neppure sono obsolescenti come le corazziniane cose “che sanno”, in una poesia dove poeta e oggetto condividono lo stesso destino in una comunione indivisa. E in Corazzini a ragione si può parlare di metafisica dell’oggetto e della prospettiva cosale.
Inoltre, il repertorio oggettuale della poesia di Moretti introduce elementi che esorbitano dal consueto catalogo crepuscolare e in parte già simbolista: l’orario ferroviario, il libro contenitore dei sogni (“tutte conosci le città dei miei / sogni e paesi che non vedrò mai”), e che tanto doveva affascinare Marcel Proust, il quale diceva quanto il suo essere spirituale riuscisse - fantasticando sull’orario ferroviario - a travalicare le “barriere del visibile”, attingendo nel suo stato di reclusione a “voluttà profonde” nella “fascinosa evocazione di quei paesi di luce e di vita”.
Insieme all’orario ferroviario, l’ascensore, il telefono fanno la loro comparsa nei versi crepuscolari, tuttavia deprivati della loro componente usufruibile. Come accade in Ascensore (in Poesie di tutti i giorni, poi non confluita nell’edizione mondadoriana del ’49), “questa celletta piccola e imbottita / che va su che va su”, e in Telefono (anch’essa espunta dall’edizione del ’49):
Sei tu! sei tu! la voce mi giunge
da una profondità d’anima oscura:
ho paura di te, di quest’ordigno,
che al mio povero cuor che più non sogna
dona la voce tua, la tua menzogna
come per uno spirto maligno.
In Moretti non assistiamo al transfert del soggetto nell’oggetto, né a quello che sarà il montaliano passaggio dal fisico al metafisico (come superlativamente nella metafora del muro). Nondimeno, anche in Moretti si verifica uno sconfinamento nell’extraoggettuale: nel monologante dialogare con l’anima, “la dolce anima” di La domenica di Bruggia (testo che riecheggia il titolo del rodenbachiano Bruges-la-Morte), l’”animula da nulla” di Parole al fratello dispotico, e con la Musa, figure vigilanti i grigi segni del lapis.
Oggetto eccentrico, il lapis (per una esemplare interpretazione di Ode al lapis e della poesia di Moretti rimando a Il “lapis” di Marino Moretti di Silvio Ramat), metafora dell’indecisione e dello svaporare nell’invisibile, rispetto agli altri oggetti morettiani nei quali, si diceva, si percepisce una consistenza quasi esclusivamente letterale. Il lapis emblematizza la crepuscolare poesia in tono minore, è prossimità con la consunzione e quindi con il silenzio e il dileguare, è inattitudine a edificare alcunché di duraturo nel tempo. Quale legittimazione del nulla da dire, il lapis tratteggia una poesia preparatoria, è prefigurazione al dire, un dire embrionale in gozzaniana “perplessità”, di sostanza di attesa. Il lapis prefigura lo scolorare dell’attesa, l’evento salvifico del verbo che nondimeno è predestinato a svanire, ma non per questo a fallire:
Poi che se vane furon le parole
che ombrasti appena su le nuove carte
e non ebbero i fremiti dell’arte
perché non germinarono nel sole,
dolce mi fosti e dolce mi sarai
compagno tu nella solinga vita:
vedi, la vecchia penna è arrugginita
e non v’è inchiostro più nei calamai.
(Ode al lapis, Poesie scritte col lapis).
Condizione liminare - quello che resta dell’intenzionalità artistica -, mozione verso l’espressione e indecisione perpetua, il lapis lambisce la parola ancora da dire. Perché, scrive Moretti,
E’ triste. Credetelo, in fondo
è triste. Non essere niente!
Sfuggire così facilmente
a tutte le noie del mondo!
Sentirsi nell’anima il vuoto
quando altri più parla e ragiona!
Veder quella brava persona
imporsi un gran còmpito ingoto!
(Io non ho nulla da dire).
Dice Claudio Di Scalzo, in una delle sue iperboliche “scritture supplementari” (come La maschera funebre di Sergio Corazzini) in margine ad autori amati:
scrivere è il sonno turbato da cento scricchiolii / scrivere è una corsa lungo mura in cattiva salute / scrivere è un volo controvento convinti d’esserne sospinti / scrivere è l’ispirazione sotto vuoto spinto / scrivere è la punta della matita trattata male / scrivere è la trapunta per il velo di una sposa senza attributi / scrivere è la tortura di una penna che ti solletica il cuore / scrivere è un vestito fuorimoda rovesciato / scrivere è il passo lieve sul terreno d’altri / scrivere è rivolta con la lingua capovolta / scrivere è l’avvenire di una mosca che non ha deposto uova / scrivere è uno scivolone sui cornicioni umidi del testo / scrivere è salire una scala malferma che porta alla soffitta di tutti / scrivere é tutta la mia cattiveria (da Rigagnolo senza sorgente per l’orto di Moretti, 1978).
Scrivere dunque, anche stilando con il lapis, per demitizzare la storia e per vaticinare una presenza seppure intrisa di una “povertà cogitabonda” (L’albergo della tazza d’oro) consapevole dell’inattingibilità a una oltranza, scampata comunque sia all’inerzia che a ogni volontà di costruzione: eluso ogni compromesso sentimentale, nonché poetico, resta la libertà “irresponsabile” dell’assenza di scarto tra la vita e la poesia. Le “cognite cose”, dal canto loro, continueranno ad appartenere al mondo:
Essere sempre come un’ombra,
come un’indistinta forma di passante
fra le cognite cose, fra la gente:
essere un’ombra che, fra tante, ha un nome.
(Angolo d’hortulus, Poesie scritte col lapis).
domenica 10 gennaio 2010
UNA CROCIFISSIONE DI RINASCITA. RICORDO DI MARIBRUNA TONI PITTRICE E POETESSA
Quadri, quelli dell'autrice, singolarmente divisi tra il figurativo e l'informale, con qualche forma, qualche tratto o memoria di realtà che affiorano ed emergono a fatica, con sofferenza - e il colore, la materia pittorica trasudano quella sofferenza, e nel contempo disperatamente la redimono - il volto della donna è sfigurato, ma nello stesso tempo inverato, celebrato quasi, dal suo risolversi in pura forma, puro segno, pura sostanza grafico-pittorica.
Lo stesso spasimo del pensiero che esce, che si sprigiona e rampolla dalla materia delle parole, dalla creta e dai pigmenti del linguaggio, come la forma dal blocco e la visione dal bianco della tela, credo di poter scorgere anche nei brani di poesie citati da Patrizia Garofalo nella sua affettuosa rievocazione.
La pittrice poetessa (per la quale certo la poesia era un'appendice, un corollario, della pittura, senza per questo essere marginale, ma acquisendo, piuttosto, il valore di un completamento e di un commentario) depositava, per parafrasare Ardengo Soffici, le parole sulla pagina come il pittore i colori sulla tela.
Viene in mente (non tanto come pittore, quanto come poeta) De Pisis. "ciglia, occhi-ciechi / anima vegetale / che s’offre abbacinata a la luce, / fronte, bocca, mento, cuore". "Dal muro alto sporgono / alberi spogli / forche, braccia, grucce". Parole-segni, tracce-emblemi deposti ed accostati, appunto, sulla pagina-tela, così come si assommano e si affollano sulla scena ilare e tragica del mondo e nello spazio, ammaliato o contorto, dello sguardo.
Come in Maribruna, con un'intensità esistenziale e simbolica se possibile addirittura maggiore:
I muri asciutti
e vinti,
un fondo congelato
che si staglia
e ritaglia i bordi
dei rami,
cinerei fiumi,
sbuffi di terra d’ombra
delle ciminiere
su un fondo cupo
di lavagna.
(M. V.)
“Ho innalzato / su piedistalli di cartapesta / idoli di creta / poi è piovuto./ E ora/ i basamenti son poltiglia / e gli idoli / soltanto una fanghiglia /
Resta intatta solo la memoria / incisa a fuoco dentro la mia carne / così il passato diverrà presente”.
La memoria fa da collante, da tessuto all’oggi di cui siamo protagonisti e responsabili. Nessuna condanna anche nei versi più esasperati dell’autrice,
se non a se stessa che non ha saputo né voluto essere diversa e ha sentito e cantato la pena del disincanto, dell’inganno, dell’amore non ricevuto, dei sogni trovati impiccati alle sbarre: “suicidi disperati per paura / che li uccidessi con l’indifferenza”. Ma l’indifferenza non regna in nessuno dei suoi versi, la ricerca di autenticità è esasperata al punto di affidare a scrigni, segreti, dolori, amori, se stessa e le sue ceneri, in groppa ad un‘onda che la porti lontana e la congiunga al cielo.
Una tavolozza di colori che si mescolano e diventano parola poetica , sconvolgono di pennellate le stelle, il pianto, la vita e la morte e l’ordine delle cose; la ricerca del colore diventa trascendenza, spiritualità, infinito.
Se il mondo non ha voluto entrare nel suo giardino, darle la mano e conoscere “il mio bosco, il mio lago e le foreste/ i paradisi o i magici miraggi di oasi incantate / i giochi, le canzoni, le risate / i flauti, gli organi i violini", la poetessa lo terrà con sé racchiuso nella “veglia della morte mia” dove "non c’è olio sufficiente/ per riaccendere/ il lume dei ricordi", e attraverserà la vita consapevole che l’uomo ha già, da sempre, sostituito l’amore di una carezza con l’indifferenza, elemento in lei presente solo come linea di demarcazione dal suo mondo e mai possibile rifugio al dolore, quale invece la suggerì Montale.
Maribruna penetra il mondo con una fisicità sorprendente, con un’aderenza d’anima che via via si fa sempre più metamorfosi panica con gli elementi della natura, con la quale gioca a vivere creando mosaici puzzle di cui lei stessa è tessera integrante: ”ho razzolato/ tra le nubi/ che concimavano solchi di mare: / cercavo la luna / se ne stava nascosta / pudibonda/ tra le rughe della notte".
Notte che Mariarosa vive nelle sfumature e negli echi delle conchiglie, dei silenzi, delle albe attese, nei tramonti che lasciano tralucere ombre, mistero, ignoto, nella preghiera di un pianto che ristori mentre la luna si specchia sul mare, popolato di “meduse / flaccide e dolenti / racchiuse nel pallore tremolante / di una morte recente".
Consapevole che basterebbe “la svirgolata d’ala/ d’un sorriso” a parare a festa una solitudine, inventa cieli e farfalle e bagliori e ombre fatate, pleniluni tremuli d’acqua e di mare, d’incanti e di salsedine, di bleu cobalto e di meraviglia e di tutto questo stupore si farà “ vestale d’amore” per sempre.
Intense nel dolore che le incide le parole di Giovanna Vizzari: “se non c’è chi ti ascolta a che pro aprirsi ad una vertigine di suoni, meglio nascondere la scoperta del male come un virus e amare indifferentemente uomini e cose a loro insaputa”. La poetessa aveva risposto già alla prefigurazione della sua fine con il silenzio del suo urlo, perché la poesia è anche elaborazione del dolore ma non della propria morte che faticosamente si dipinge e si scrive.
Di essa Maribruna vive la sua investitura per l’infinito.
Mi vesto di paillettes e di perline
mi velo di voiles e di chiffons,
mi lego il collo, le caviglie, i polsi,
con le fredde catene dei bijoux.
Mi ha messo anche un diadema sulla fronte
e un nastro di seta allo chignon,
un anello di ametista al dito
ed alle orecchie due pendents.
Adesso sono pronta per la festa
eccomi prostituta per la strada.
Sono di tua proprietà.
Tu sei il padrone.
Ed io la tua puttana.
Un'investitura solitaria e disperata che non trova conforto se non nell’abbandono di un mondo in cui neanche i gabbiani hanno più ali, il corvo perseguita il sonno, le rondini sono fulminate e le vene sono trapassate inutilmente da aghi, analisi e camici bianchi, il sole è talvolta vissuto come incanto “ubriaco” ma sempre più presenti insistono coni d’ombre, silenzi che neanche nella tela distendono più il colore; resta l’ urlo silenzioso: ”il grido muore / e mi gorgoglia in gola", e la mano che non si distende sulla tela “ha solo dita adunche / chiuse a pugno / rattrappite / in un’imprecazione”, e solennemente addita da lontano la morte come unica nostra proprietà ineludibile.
Ma la vestale non spegne il fuoco , non si spoglia della veglia, non smette di custodire, vive da cieco vate “tra tenaglie d’onde / ripiegate/ in lamine di fogli / di latta / in una lotta / liquida spirale / di cavalli / e creste”, e dona ceneri di vita. “E mentre il vento/ ti si aggrappa in grembo / prendi il mio cuore / e inchiodalo ad un palo / per una crocifissione di rinascita".
mercoledì 30 dicembre 2009
Elisabetta Brizio, "Karl Michelstädter e l’utopia del 'libero mare'"
di amare e di essere felici, di vivere a fondo il
il tempo, l’istante, senza smania di bruciarlo, di
farlo finire presto. Incapacità di persuasione, diceva
Michelstaedter. Il peccato originale introduce la
morte, che prende possesso della vita, la fa sentire
insopportabile in ogni ora che essa arreca nel suo
trascorrere, e costringe a distruggere il tempo
della vita, a farlo passare presto, come una
malattia: ammazzare il tempo, una forma educata
di suicidio.
Claudio Magris, Microcosmi
Nella poesia di Karl Michelstädter la metafora assoluta del mare esprime l’aspirazione a varcare il deserto della vita (“lasciami andare oltre il deserto, al mare”), e della dimensione della “rettorica”, della “inadeguata affermazione d’individualità”, come egli in La persuasione e la rettorica definisce l’inautentica forma di esistenza, poliforme incarnazione del vuoto.
Onda per onda batte sullo scoglio
- passan le vele bianche all’orizzonte;
monta rimonta, or dolce or tempestosa
l’agitata marea senza riposo.
Ma onda e sole e vento e vele e scogli,
questa è la terra, quello l’orizzonte
del mar lontano, il mar senza confini.
Non è il libero mare senza sponde,
il mare dove l’onda non arriva,
il mare che da sé genera il vento,
manda la luce e in seno la riprende,
il mar che di sua vita mille vite
suscita e cresce in una sola vita.
(Onda per onda)
Il mare è simbolo di una persuasione umanamente inaccessibile, è filosofia della libertà, sottrazione di sé alla condizione “rettorica” dell’esperienza, al destino di parole che mimano una comunicazione assente e che sostanziano la noia, parole assunte come necessari narcotici e “ornamenti dell’oscurità”. Con l’elemento di mistificazione introdotto dalla “rettorica” l’uomo attinge al sapere, all’essere per qualcosa, non già all’essere. “Libero mare” è emblema di annullamento di passioni e di desideri che inducono alla omissione di un presente vòlto in continua progressione verso il futuro e che precludono la possessione della vita. Esso è sovrana indifferenza, è tempo a cui l’evento contingente non attiene, pur contenendolo.
In quelle pagine c’è la parola definitiva, la diagnosi della malattia
che rode la civiltà. La persuasione, dice Carlo, è il possesso presente
della propria vita e della propria persona, la capacità di vivere
pienamente l’istante, senza sacrificarlo a qualcosa che ha da venire
o che si spera arrivi quanto prima, distruggendo così la vita nell’attesa
che passi più presto possibile. Ma la civiltà è la storia degli uomini
incapaci di vivere persuasi, che costruiscono l’enorme muraglia della
rettorica, l’organizzazione sociale del sapere e dell’agire, per nascondere
a sé stessi la vista e la coscienza del loro vuoto.
Per esemplificare l’automatismo della impersuasione Michelstädter introduce la metafora del peso e della sua insoddisfazione che lo induce a scendere sempre più in basso: esso è spinto costantemente dalla volontà di scendere. È la mancanza di possesso a conferirgli il suo statuto di peso. La destinazione del peso, alla maniera di quella umana, è l’esito della vacanza del e dal presente. La volontà di possesso soppianta il possedere, la possibilità di consistere, la persuasione. Dice Michelstädter: “Per possedere sé stessa - per giungere all’essere attuale essa corre nel tempo: e il tempo è infinito poiché nel momento ch’essa riuscisse a possedersi, a consistere, cesserebbe d’essere volontà di vita (…). La vita sarebbe se il tempo non le allontanasse l’essere costantemente nel prossimo istante”. È ciò che Michelstädter definisce “l’illusione della persuasione”. L’inappagamento della volontà vanifica ogni cosa che intanto è già passata, consacrando il tempo alla morte. In questa prospettiva dell’essere come voler essere o aver da essere il tempo sottrae alla vita l’autentica dimensione del presente. L’esistenza è un incessante spostamento in avanti che esclude l’idea della possessione, e della vita non resta che la sensazione di averla già vissuta.
e con l’occhio all’orizzonte
dove il ciel si fondeva col mare
si sentiva vacillare
Senia, e disse: “Vorrei morire”.
Ma più forte sullo scoglio
l’onda lontana s’infranse
e nel fondo una nota pianse
pei perduti figli del mare.
“No, la morte non è abbandono”
disse Itti con voce più forte
“ma è il coraggio della morte
onde la luce sorgerà.
Il coraggio di sopportare
tutto il peso del dolore,
il coraggio di navigare
verso il nostro libero mare,
il coraggio di non sostare
nella cura dell’avvenire,
il coraggio di non languire
per godere le cose care”.
In questi versi del poemetto I figli del mare i protagonisti rifiutano la propria adiacenza alla terra, la propria mancanza, e subiscono una sorta di trasfigurazione in entità marine. In Michelstädter la terra è sempre negativamente connotata come regno della “rettorica” e dell’impersuasione.
“Libero mare” è vaticinio di quiete, di arghia, sulla scorta delle michelstädteriane meditazioni filosofiche dell’esistenza, secondo cui filosofia, quale “amore della sapienza indivisa, vuol dire vedere le cose lontane come fossero vicine, abolire la brama di afferrarle, perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere” (Magris).
Consistere è uscire dalla desertificazione, attraversare la “retorica” decodificandone ogni ingannevole dialettica, “farsi fiamma” affrancandosi dalla mutevolezza, condizione che nondimeno è consustanziale e coessenziale all’uomo e all’esistenza.
Al mio sole, al mio mar per queste strade
dalla terra o dal mar mi volgo invano,
vana è la pena e vana la speranza,
tutta è la vita arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di sé stessa in un punto faccia fiamma.
(Onda per onda)
E al mar l’annuncio porta della lotta
che nebbia e vento nel ciel combattono,
al mar l’annuncio porta del tumulto
che in cor m’infuria quando la nausea,
quando il torpore, il dubbio, l’abbandono
per la tua vista, Argia, più fervido
l’ardir combatte e sogna il mare libero.
(All’Isonzo)
Elisabetta Brizio, dicembre 2009
domenica 27 dicembre 2009
Patrizia Garofalo, "I 'Quaderni dell'impostura' di Alessandro Assiri"
Si leggeva in una raccolta precedente:
Mi percuote e mi assilla
questa assenza di voce
una scena muta
un istante della terra.
Il nitido silenzio
socchiude la porta
a un'altra scomparsa.
A preservare il vissuto, a rendere cristalini e traslucidi il suo fluire e il suo trascolorare pur serbandone la mutevolezza, è un pirandelliano "limpido silenzio" - il silenzio che avvolge, come una cortina di nubi sacre, la sfera della meditazione, della creazione e dell'espressione. (M. V.)
“Converso con ogni solitudine che non abbia una destinazione e cerco l’umiltà per dire ogni cosa che sfioro”
A.Assiri
“Chi passa nel mio giardino?
Il giardiniere. Eppure non è lui.
La vita si stacca da sé, ne rimane l’illusione
Di cui si parla in treno tra viaggiatori sudati”
P.P.Pasolini
“Poesia in forma di rosa”, scriveva Pasolini senza soffocanti omologazioni. “Poesia in forma di diario” è quella che si legge nel testo di Alessandro Assiri, attraversamento cosciente e congetturato in rimandi continui di pensiero, immaginazioni e silenzi, perplessità e dolore che accompagnano la sostanzialità della vita come continuo preparativo per un viaggio.
Al centro dell’indagine, lo scandaglio della parola che diventa ricerca del sé e attesa di una possibile alterità: “la controversia solita per parole troppo scarne, alla fine è un presente da confidare e un passato che rimorde”; “e penso ad ogni madre che ha imbellettato un fiocco, che ha stretto al cuore un amore e che separandosi dall’orgoglio ha accennato una carezza, così lieve perché non sembrasse un saluto”.
Una scrittura “dolosa” si significherebbe con linguaggio e modalità di un vero scoperto ma non rivelato, vestito di letterarietà e poco di vita. Ma essa tracima fin dai versi sopra citati in brandelli che si ricuciono e fanno emergere la fragilità di una vita appuntata su quaderni della vera impostura che è quella della perdita dell’innocenza , del linguaggio e della comunicazione interiorizzate nel viaggio dove turista e nomade confondono solitudini e parole.
Il deserto propone pagine sole e tele da imbrattare dove “la finzione” scaturisce, a mio avviso, in quell’attimo necessario che passa dal pensiero al prendere una penna o un pennello e segnare un passaggio, appuntare una nota.
“Nessun incanto potrà mai essere sincronia, non c’è da meravigliarsi se non nel distacco. (...) E quel piccolo disagio che ogni volta m’inquieta se solo ti allontani, confonde le sirene con soavi armonie”, per poi dire: “Quando le cose si allontanano c’è una strana grazia nel loro sbiadire, una sorta di morbidezza della dimenticanza, come lo spalancarsi dell’infinito prima dell’oblio”. “Verrà un frammento e avrà il suo passo, il suo reclamo da fare, le sue parole da dire”.
Non certo reale oggettivo ma immaginato è quello che si sfoglia nel testo e forse nel vivere, dove ogni attimo ne prefigura un altro nei preparativi per la partenza che non sono inizio di un viaggio ma coscienza di una progettualità già conclusa nell’attendere. Nell’immaginare il significato del contenuto si snodano senza respiro gli scritti dei quaderni, alla velocità della parola si oppone la necessità di un vuoto “come se l’assenza di dinamicità rallentasse il mutamento”. E a quest’ultimo che invece mi sembra ci si opponga con la forza del poeta che ha conosciuto la fine della meraviglia, il sapore della noia e la perdita di un paradiso a cui aspira mentre veleggia su “vele nere” di omerica memoria, rievocando la tessitura di Penelope.
E nell’apparire e sparire in simultaneità dell’immagine-parola-significato, Assiri connota il dolore dei vivi: “E' l’urlo dei vivi che mi dà turbamento, l’incapacità di trattenere un orrore per l’impossibilità di poterlo spiegare”; dove tutto è silenzio, vuotezza, “dignità calpestata dove è solo vergogna essere uomini” e "la dissolvenza è atto privato o qualcosa da consumare in solitudine”.
Lo scavo della parola, la sua rinascenza la restituirà vergine nello scambio di un dialogo che forse avviene. E riporto, allora, la voce intensissima di un ricerca che affanna e logora ma non si arrende: “E’ la piccola storia del crollo di una letteratura allusiva, dove ormai trovo poco diletto, dove forse eccedo in un eccesso di sconfitta. Un piccolo scandalo di borgata che non fa più notizia, che sfuma nella piccolezza dei protagonisti. Tu ed io per favore restiamone fuori, e misuriamo ancora il tempo della parola con quello del respiro”. Con il convincimento e la commozione della lezione poetica autentica e sofferta che Alessandro Assiri ci ha donato.
Patrizia Garofalo
mercoledì 23 dicembre 2009
PATRIZIA GAROFALO, "MONOLOGO DELL'ANIMA"
Diceva Emily Dickinson che le parole non muoiono, come crede qualcuno, appena vengono pronunciate, ma semmai proprio allora cominciano a vivere. Eppure, la loro vita è morte, una “morta vita” e una “viva morte”, come dicevano i neoplatonici – la parola divisa per sempre dal corpo, dal respiro e dal sentire di chi la proferì, affidata alla carta o alla memoria o all'aria, separata dalla sua origine come l'anima dal corpo, e nondimeno volta, oltre ogni logica, a ritornarvi per oscure vie.
Parole all'apparenza vuote, diafane, incorporee, senza forme né sangue - “cavi nulla risonanti” diceva un poeta - maschere che hanno aderito ai volti fino ad assorbirli in sé, a fagocitarli, prima di travolgerli nel loro stesso estremo svanire e dissolversi. Eppure anche e proprio da questa distanza, da questa inappartenenza - da questo, direbbero i pensatori francesi, “déssaissement”, dalla voragine di questa lacerata “béance” - sorge, limpido filo di cristallo, il monologo dell'anima, la fragile e limpida monodia dello spirito orfano, il canto dell'”animula vagula blandula” dell'imperatore Adriano, cara agli esteti dell'Ottocento:
Animula vagula blandula,
Hospes comesque corporis
Qua nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos
Piccola dolce anima che vaga,
Ospite e compagna della carne -
In quali oscure terre migrerai
Pallida intirizzita ignuda
Privata ormai dei tuoi diletti giochi
M. V.
per Meredith
Cammino sentendo l’anima vuota. La porto sulle spalle dentro un sacco di iuta, non pesa niente e nemmeno i ricordi hanno più il sapore dolciastro del sangue e della nostalgia.
Non mi chiedo chi mi abbia resa così orfana di tutto e non cerco neanche di rimandare al cuore la canzone della vita con cui ero partita. Sapevo che le favole muoiono fin da quando mettevo ad essiccare nelle pagine del mio diario i fiori che mi regalavano. Li ritrovavo belli, distesi, un po’ più pallidi, insomma erano morti per emorragia di reato compiuto dolosamente da parte di chi me li aveva confezionati per una ricorrenza e per la mia stupidità di pensare che si sarebbero meglio mantenuti.
domenica 20 dicembre 2009
JACK FOLEY, LA COSCIENZA DI UN POETA
Accanto a quattro testi poetici, di cui ho tentato una versione italiana certo segnata da una spessa patina di classicità (del resto, uno dei numi tutelari, dei maestri invocati, come baudelairiani phares, da Foley, è Hoelderlin), e che mostrano l'evoluzione da una maniera lirica e sognante, segnata dall'eredità surrealista e imagista, ad una forse più matura consapevolezza – attraverso la meditata sperimentazione- della materia poetica (che culmina forse in Lemon Balm, dove la sfrenata deriva associativa e l'immaginosa autonomia dei significanti sono comunque sorrette dall'antichissimo topos dello scrivere versi come scegliere ed intrecciare "fior da fiore"), riporto un testo teorico, il quale mostra come anche una coscienza poetica quanto mai moderna e d'avanguardia non possa ignorare, per fondarsi e chiarirsi a se stessa e ai lettori, la consapevolezza dell'antico, il quale, rappresenta, per così dire, lo specchio dell'autocoscienza, il termine di parziale identificazione e di dialettico confronto attraverso cui il soggetto può tornare a se stesso e alla propria originale creazione con un accresciuto grado di consapevolezza critica e di spessore culturale.
La poesia e la poetica di Jack Foley sono illuminate, fra l'altro, da un prezioso ed imponente volume non ancora tradotto in Italia, O Powerful Western Star, Pantograph Press, Oakland 2000, nel quale l'importanza essenziale della performance, della lettura, dell'esecuzione del testo (a cui spesso il poeta si dedica) non va scissa, sulle orme del Mallarmé del Coup de dès, dall'analoga coscienza del rilievo centrale che la parola scritta, il testo, nella sua autonomia, nella sua specificità, nella sua aseità, nel suo assoluto valore, anche visivo e grafico, riveste – pur nel suo essere, per antonomasia, Libro dei morti, segno di per sé muto ed inerte.
Come Sant'Ambrogio immortalato da Agostino, nel sesto libro delle Confessiones, mentre è intento a leggere senza muovere le labbra, facendo risuonare le parole solo nel cavo silenzio dell'anima – o come Mallarmé che esita, teso ed angosciato, di fronte alla pagina bianca -, così il poeta contemporaneo scruta ed indaga il bianco, il vuoto, il silenzio, al pari dello scultore di fronte al blocco di marmo, per trarne le segrete risonanze, le virtualità celate nel profondo ed affidarle alla parola, al segno (forse destinati a giacere obliati per un tempo indefinito), o all'ascolto e alla memoria, per quanto sempre fallaci, all'aria e alle onde sonore che le inghiottono, le sfibrano e infine le disperdono nel vento, nell'attesa vaga di una possibile rinascita.
Ma, come dimostra, agli occhi di Foley (allievo di Paul De Man, e dunque incline ad una sottile ed intelligente decostruzione), il Keats di Ode sopra un'urna greca, a volte il silenzio-parola, la forma-vuoto, il segno-assenza possono condurre il poeta lungo strade imprevedibili, fare emergere significati nascosti e paure rimosse (prime fra tutte, il sesso e la morte). Nella poesia, a volte, può essere (in un modo che si direbbe lacaniano) il linguaggio a prendere coscienza di se stesso e dei propri universali, ma proprio per questo segreti e latenti, valori, anche oltre l'individualità cosciente del poeta. Ed è, questo, un paradosso inquietante, soprattutto agli occhi di un poeta che fa della coscienza critico-teorica uno dei suoi punti essenziali, ma nel contempo ne evidenzia i sempre labili limiti (M. V.)
UPON LEAVING ATLANTIC CITY
(romantic Atlantic City)
The mother-sea exploded with a roar
before we put the lights out and it vanished.
Not even the ladies marching on the boardwalk
were storm enough to pull us down;
we rode out the daylight, dreaming
of drowsy islands where the water's calm.
Night was our harbor, when the midwife, love,
folded us in with its impossibilities,
fished out our pieces till the game made sense.
Sweetheart, forgive the liars and the fools
who shipped us to this place: they thought it best.
Sleep will bear you into gentler water
where painted characters of kings and castles
glitter like islands, and I will close your ears
to the disarranged palaver of pawns and landlubbers
LASCIANDO ATLANTIC CITY
La madremare esplose con un rombo
prima che noi spegnessimo le luci
e svanì. Nemmeno le signore
che camminavano sul lungomare
furono tempesta che potesse abbatterci;
superammo la luce del giorno, sognando
le sonnolente isole dove l'acqua è quieta.
La notte era il nostro porto, quando la levatrice, amore,
ci piegò su noi stessi con le sue impossibilità,
ripescò i nostri frammenti finché il gioco ebbe un senso.
Tesoro, perdona i mentitori e i folli
che ci spedirono in questo luogo: credevano fosse il meglio.
Il sonno ti deporrà su più docili acque
dove figure di re e di castelli
brillano come isole, e io chiuderò le tue orecchie
alla stonata storia di marinai e pedine.
*******
those masters of language whom we emulate
but cannot hope to equal
those masters who summon wor(l)ds in words
we listen
but can only—
there are those
who think by opposition
who are awakened only by the circumstance of contra-
diction
we are not—
those masters of language
summon wor(l)ds
which
resonate
resound
so that experience is
alive with random fragments seeking others—
fragments summoning
not unity but constant interaction
peace
is the reward of oppressive systems which hold imagination by the throat
and murder wor(l)ds
Quei maestri del linguaggio che emuliamo
senza poter sperare di eguagliarli
quei maestri che ammassano mondiparole in parole
noi li ascoltiamo
senza poter far altro che ascoltarli -
ci sono quelli
che pensano per opposizioni
che si scuotono solo allo scoppio di un conflitto -
noi non siamo fra loro -
quei maestri del linguaggio
ammassano mondiparole
che
risuonano
echeggiano
così che vive l'esperienza
con frammenti casuali che cercano i loro fratelli -
frammenti che invocano
non unità ma costante interazione
pacificazione
è la ricompensa di sistemi oppressivi che tengono l'immaginazione per la gola
e consumano l'assassinio dei mondiparole
*******************************
FOR MARY-MARCIA CASOLY
those silent birds I gave you
have you listened?
those silent, metal birds
catch sunlight like sound
and flash it to your ears
which nonetheless hear nothing
silence
is a complex entity
which these birds sing in deafening profusion
silence is the—
sings
from their unmoving
wings
PER MARY-MARCIA CASOLY
quei silenziosi uccelli che ti ho donato
li hai ascoltati?
quei silenziosi, metallici uccelli
ghermiscono la luce del sole come il suono
e la riverberano fino alle tue orecchie
che non odono nulla
nondimeno
il silenzio
è un'entità complessa
che questi uccelli cantano in profusione assordante
il silenzio è il -
canta
dalle loro ali
immote
(from Fragments)
*********************************
Mein Eigentum
(after Hölderlin)
the great gleams of Hölderlin's
lines (love the gods and think kindly of mortals)
move through my mind
as I walk
east oakland's streets
in the glorious
california light
shining from the buildings
along MacArthur Boulevard
my wife at my side
my son laboring to complete
his book
("my" in this sense
does not imply
possession
any more than
"my god my god why have you forsaken me?"
implies possession:
this is the wife
this is the son
that pertains to me: mein eigentum, my concerns)
the spring day rests now in fullness
cherry blossoms fall
like snow
light from the heavens softly filters
insinuates itself
in everything we see
beglükt, wer, ruhig liebend ein frommes Weib
a pious man with
a pious wife
to what god do I owe my piety?
it is enough to love the sun
(those who've thought most deeply love what's most alive)
and yet:
the mortal soul that has never experienced darkness
barely exists
"a soul will fade away
if it wanders only in daylight
a pauper on holy Earth"
MacArthur Boulevard
full of history
and the history of war
seems innocent
in the sunlight
even "fromme," pious .
in the joy with which
we walk
mornings
before the disasters
of any day
before any god
can seize us
and lift us
into the fierce heights of holiness
O Golden One
let my soul not long
for more than this life contains
Mein Eigentum
(dopo una lettura di Hölderlin)
I vasti bagliori dei versi di Hölderlin
(ama gli dei ed abbi
gentili pensieri sui mortali)
mi attraversano la mente
mentre cammino
per le strade di East Oakland
nella luce gloriosa della California
che stilla dai palazzi
lungo il MacArthur Boulevard
mia moglie al fianco, mio figlio
che lavora per finire il suo libro
(mio in questo senso
non implica possesso
più di quanto mio dio mio dio
perché mi hai abbandonato
non implichi possesso:
questa è la moglie,
questo è il figlio
che mi appartengono:
mein eigentum, ciò
che mi è proprio)
il giorno di primavera giace ora in pienezza
cadono i fiori di ciliegio
come neve
dagli alti Eldoradi filtra
la luce lieve, penetra
in tutto ciò che vediamo
beglükt, wer, ruhig liebend ein frommes Weib
un uomo devoto con una
devota moglie
a quale dio devo la mia devozione?
basta amare il sole
(per coloro che hanno pensato più profondamente l'amore
ciò che più d'ogni altra cosa è vivo)
e ancora l'anima mortale
che non ha mai avuto conoscenza delle tenebre
a malapena esiste
“un'anima svanirà
se si aggira soltanto nella luce del giorno
mendìca sulla Terra sacra”
Mac Arthur Boulevard
pieno di storia
e storia di guerra
sembra innocente
nella luce del sole
e addirittura “fromme”, devoto
nella gioia con cui camminiamo
le mattine prima dei disastri
di ogni giorno
prima che un dio
possa impadronirsi di noi
e sollevarci fino alle altezze fiere del Sacro -
O Aurea Creatura
fa' che non brami la mia anima
più di ciò che questa vita contiene
******
LEMON BALM
for L.Z.
conscious longing joint weed polygonaceous
jonquil fragrant yellow or white flowers
showing up in our yard as if by magic
joy stick juba lectionary
pasqueflower
musaceous murther murre myrrh
Muss-o-lini (the plumber named “Muss-o-lini Miles”:
“Just call me ‘Moose’”)
(O Princess Flower, most beautiful of)
Glory Bush
“I love your cock” absolute magnitude
Magnitogorsk desoxyribonucleic acid
desoxyribose Deo gratias coral Mayweed
jigger mortmain Morocco
otalgia O tempora! Papilionaceous
(O Princess Flower, most beautiful of)
press-room prest
And the golden Calif. Poppy
(anthology: a gathering of flowers)
papyrus hemidemisemiquaver
lemon balm
ERBA CEDRINA
per L. Z.
cosciente desiderio stretto a poligonacea erbaccia
fulva fragrante giunchiglia o fiori candidi
svettante nel nostro giardino come da un magico
gioia gambo cecchino lezionario
pulsatilla
musacea madremartire finocchiella
Muss-o-lini (l'idraulico soprannominato Mus-o-lini Miles:
"chiamatemi Moose, già che ci siete")
(Fiore-Principessa, di tutti il più bello)
Cespuglio Glorioso
"adoro la tua nerchia ritta come cresta"
magnificenza suprema
magnitogorchico acido desossiribonucleico
desossiribosio Deo Gratias erbadiprimavera
damerino manomorta Marocco
otite O tempora! Papilionaceo
(Fiore-Principessa, di tutti il più bello)
addetto stampa fatto con lo stampo
E Califfo Aureo. Papavero
(florilegio: corona di fiori)
papiro emidemisemitremito
erba cedrina
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From HAMLET, KEATS, AND LA CONSCIENCE DE SOI: A FEW CONSIDERATIONS OF A VAST TOPIC
During the nineteenth century, the figure of Hamlet underwent a shift from being the central character in one of Shakespeare’s most ambitious and exciting plays to being, far more than any of Shakespeare’s explicitly “poet” characters, an emblem of the poet—“lisant,” as Mallarmé put it, “dans le Livre de lui-même” (reading in the Book of himself). What Hamlet represented to Mallarmé was man confronting his “inner life.” He burns with what Wordsworth called “that inward eye / Which is the bliss of solitude.”
I think the central issue of Romanticism is the issue Rousseau calls “conscience de soi”: self consciousness. The poetry reaches far back into Christian modes of “confession,” as in Saint Augustine, and attempts to find ways in which “consciousness,” “inwardness” can be brought to light. This poetry includes both the intense desire for self-consciousness (as in Wordsworth) and the fear of it (as in Keats’ “Lamia”). What does selfhood taste like? How can one describe “soul”? There is also of course the demonic aspect of selfhood—its manifestation as a powerful “underground,” as in Baudelaire or even Jack Kerouac (“the subterraneans”). One thinks of Coleridge’s Ancient Mariner, whose terrifying self-awareness brings him to the anguished point of admitting his primal crime: “With my crossbow / I shot the albatross.”
I agree with Paul de Man (a mentor of mine at Cornell) that “What sets out as a claim to overcome Romanticism often turns out to be merely an expansion of our understanding of the movement” and that Modernism—despite its frequent explicit rejection of Romanticism—is in fact a thorough-going example of it. In general Romanticism marks the shift from thinking of poetry as a “craft” (and of the poet as “maker”) to thinking of it as a provoker of consciousness, even a creator of consciousness.
The fact is that Hamlet seems real not because he is a coherent character or “self” or because there is some discoverable “essence” to him but because he actively and amazingly inhabits so many diverse, interconnecting, potentially contradictory contexts. Implicitly promising to tell us all about the interesting “individual” Hamlet, the play Hamlet ends by expressing the possibility that “individuality” is in fact multiplicity. It is the plenitude of contexts in which Hamlet functions—i.e., his multiplicity—that gives him density.
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[In Keat's Ode to a Grecian urn], we are in some sort of vague version of idealism—some sort of conception in which the “ideal” is to be preferred to the “real.” And the urn seems to express that idealism. Nothing is ever consummated—we are still in the realm of the “unravished bride”—but, on the other hand, desire is never quenched. Such a state, Keats argues lightly, is better than a situation in which consummation occurs.
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“Death,” says Hamlet, “is “the undiscovered country from whose bourn / No traveler returns.” Death has suddenly entered Keats’ poem: “not a soul to tell / Why thou art desolate, can e’er return.” The artificiality of the paradise Keats was trying to describe protects us against death. Yet that paradise utterly shatters against the actual presence of death in the poem—a presence which both we and Keats know to the bone and which is linked to sexual frustration, itself a kind of death.
To paraphrase Keats’ “Ode to a Nightingale,” the word “desolate” “is like a bell / To toll me back from thee to my sole self”—to the very mortality the poet has been trying to escape by writing the poem. “The fancy,” he complains in the Nightingale Ode, “cannot cheat so well / As she is famed to do.” What began as simple description—this is what is on the urn, it’s only a description—has suddenly turned upon him and revealed the very sources which the poem existed to evade. Keats didn’t know why he was writing the poem, and the poem’s language is now telling him something about his own consciousness—manifesting conscience de soi.
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The idea of “silence” is important in the poem. The urn is the “foster child of silence”; Keats writes of “unheard melodies”—silent ones; the streets of the town “for evermore / Will silent be”; there is “not a soul to tell / Why thou art desolate.” In the last stanza the urn itself is called a “silent form,” though in the concluding lines it “speaks”: “thou say’st.” Perhaps the most telling phrase of the stanza is “Cold Pastoral!” At this point the urn is almost a tombstone, something which extends beyond the life of the humans who constructed it and extends as well into the midst of “other woe / Than ours.” If it is “a friend to man,” it is also cold, like stone, lacking human warmth.
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Da AMLETO, KEATS E LA CONSCIENCE DE SOI: BREVI CONSIDERAZIONI SU UN VASTO ARGOMENTO
Nel corso del diciannovesimo secolo, la figura di Amleto passò dall'essere il personaggio principale di una delle più ambiziose e più entusiasmanti opere di Shakespeare all'essere, ben più di qualsiasi personaggio di Shakespeare espressamente “poeta”, un emblema del poeta stesso - “lisant”, come affermava Mallarmé, “dans le livre de lui-même” (intento a leggere nel libro di se stesso”).Ciò che Amleto rappresentava agli occhi di Mallarmé era l'uomo che si confrontava con la propria “vita interiore”. Egli arde di ciò che Wordsworth chiamava “l'intimo sguardo / che è la delizia della solitudine”.
Credo che la questione centrale del romanticismo sia quella che Rousseau chiama “conscience de soi”: autocoscienza. La poesia recupera, a ritroso, i modi cristiani della “confessione”, come in Sant'Agostino, e cerca le strade per riportare alla luce l'”interiorità” e la “coscienza”. Questa poesia racchiude sia l'intenso desiderio di autocoscienza (come in Wordsworth), sia la paura di essa (come in Lamia di Keats).
Qual è il sentore dell'individualità? Come si può descrivere l'”anima”? C'è, ovviamente, anche l'aspetto demonico dell'individualità – la sua manifestazione come un possente “sottosuolo“, come in Baudelaire o anche in Jack Kerouac (“i sotterranei”). Si pensa al Vecchio Marinaio di Coleridge, spinto dalla propria terrificante autoconsapevolezza fino al punto angoscioso di dover confessare il suo crimine capitale: “Con la mia balestra / Colpii l'albatro”.
Concordo con Paul De Man (uno de miei maestri alla Cornell University) che “ciò che si pone come un'intenzione di oltrepassare il Romanticismo si risolve spesso in un semplice ampliamento della nostra comprensione del movimento” - e che il Modernismo, nonostante il suo frequente, esplicito rifiuto del Romanticismo, è di fatto un perfetto esempio di esso. In generale, il Romanticismo segna il passaggio dal concepire la poesia come un'”arte” (e il poeta come “creatore”) al vedere nel poeta un sollecitatore di coscienza, o addirittura un creatore di coscienza.
Il fatto è che Amleto sembra reale non perché sia un personaggio o un “sé” coerente, o perché vi sia, in lui, una riconoscibile “essenza”, ma perché egli attivamente e meravigliosamente abita tanti diversi, comunicanti, potenzialmente conflittuali, contesti. Pur promettendo, implicitamente, di parlarci dell'”individuo” Amleto, il dramma Amleto finisce per esprimere la possibilità che l'individualità sia, di fatto, molteplicità. È l'abbondanza di contesti in cui Amleto opera – ovvero la sua molteplicità – a conferirgli spessore.
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[Nell'Ode sopra un'urna greca], ci troviamo in una sorta di vaga forma di idealismo – una sorta di concezione in cui l'”ideale” è preferito al “reale”. E l'urna sembra esprimere quell'idealismo. Nulla è ancora consumato - siamo ancora nel reame della “sposa intatta” - ma, nel contempo, il desiderio non è mai quietato. Tale stato, Keats sottilmente suggerisce, è migliore di una situazione in cui la consumazione avvenga.
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“La morte”, dice Amleto, è “l'inesplorata terra dal cui confine / Nessun viaggiatore torna indietro”. La morte ha improvvisamente fatto irruzione nella poesia di Keats: “Nemmeno un'anima potrà tornare per dire / Perché, o paese, così desolato tu sia”. L'artificialità del paradiso che Keats stava cercando di descrivere ci protegge dalla morte. Ancora, quel paradiso improvvisamente irrompe contro la presenza della morte nella poesia – una presenza che sia noi che Keats conosciamo a fondo, e che è collegata alla frustrazione sessuale, essa stessa una forma di morte.
Per parafrasare l'Ode ad un usignolo di Keats, la parola “desolato” “è come una campana / che lugubre risuona e mi richiama / da te alla mia chiusa solitudine” - esattamente a quella stessa mortalità a cui il poeta ha cercato di sottrarsi scrivendo la poesia. “La fantasia”, egli lamenta nell'Ode a un usignolo, “non può ingannare così come / vuole la fama”. Ciò che è iniziato come semplice descrizione – questo è ciò che è sull'urna, una mera descrizione – si è improvvisamente rivoltato contro il poeta e ha rivelato le vere fonti che la poesia era finalizzata ad eludere. Keats non sapeva perché stesse scrivendo la poesia, e la lingua della poesia sta ora dicendo qualcosa sulla sua propria coscienza – manifestando conscience de soi”.
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L'idea di “silenzio” è importante nella poesia. L'urna è “figlia adottiva del silenzio”; Keats scrive di “melodie non udite” - quelle silenziose; le strade della città “per sempre / nel silenzio immerse resteranno”; non c'è “una sola anima che potrà dire / Perché tu sei, paese, desolato”. Nell'ultima strofa l'urna stessa è chiamata “una forma silente”, sebbene nei versi conclusivi essa “parli”: “Tu dici”. Forse la frase più significativa della strofa è “Fredda Pastorale!” A questo punto, l'urna è quasi una pietra tombale, una cosa che si estende oltre la vita degli uomini che la costruirono e si estende, allo stesso, modo, nel mezzo di “lamenti altri / Dai nostri”. Se da un lato essa è “un'amica dell'uomo”, dall'altro è anche fredda, come pietra, priva di calore umano.