sabato 31 ottobre 2009

NUOVA NOTA SU REMO PAGNANELLI

Tanto le lettere, vivissime e struggenti, a Daniela Marcheschi, quanto la tesi di laurea di Remo rispecchiano, in eguale misura, e pur se in modi e contesti diversi, uno stesso travaglio intellettuale, uno stesso, per così dire, dramma della mente e della coscienza, una stessa "tragedia della cultura": rendono, insomma, la testimonianza di un uomo e di un intellettuale che cercò, con estremo ed ostinato rigore, la propria identità, il proprio ruolo, la propria interiore, intracoscienziale avrebbe detto Sartre, ricomposizione etica e identitaria, e in un mondo dominato dall'inganno, dai ruoli, dalle maschere pagò (lui che non poteva, come vilmente facciamo in tanti, accettare di impersonare la parte, oggi inevitabilmente farsesca, dell'"insegnante", dell' "educatore") con la morte questa sua ricerca di autenticità - un'autenticità, un'identità con se stesso che forse trovò anche e proprio nella sua fine, nella sua scelta eroica che non era, nel suo caso, segno di viltà e di fuga, ma di coraggio e coerenza - testimonianza nel senso proprio di martirio - “Nunc duo concordes / anima moriemur in una”, dice il Narciso di Ovidio.

Forse è troppo facile, tragicamente facile, ricordare Remo per la sua morte, sub specie mortis; sarebbe meglio ricordarlo anche, e soprattutto, per la sua vita, per l'amore, disperato e paradossale, per la vita che affiorava da i suoi versi pur così tragicamente amari, e che, in fondo, l'atto stesso del suicidio finisce, in molti casi, per testimoniare ed esprimere, sotto la forma fosca e convulsa della reazione estrema e autodistruttiva ad un'imposibilità di vivere e gioire della vita stessa, di una vita divenuta impossibile, altra, sraniata, quasi irreale, e da ultimo inaccettabile.

Eppure, credo che difficilmente si troverebbe, in tutta la letteratura (si potrebbero citare la Woolf, la Plath, Sarah Kane - tutte donne, non a caso, alla ricerca disperata di un'impossibile identità intellettuale), un'altra figura che, come quella di Remo, abbia perseguito con la stessa assiduità, la stessa coerenza, lo stesso spirito di oblatività e di sacrificio, la stessa lucida e lacerante consapevolezza, la ricerca di un'autenticità intellettuale, di un impegno che non fosse solo ideologico o letterario, ma anche, nella stessa tragica misura, esistenziale.

Remo era conscio, anche da storico e da critico, dei rischi insiti nella letteratura come vita, che tendeva a risolversi, o ad involvere, in vita come letteratura, e dunque stilizzazione, posa, formalismo, estetismo, turris eburnea. E allora preferì, se mi perdoni la retorica tragica, una letteratura come morte e una vita come morte - una platonica "morta vita", o morte apportatrice di vita.

Non sono sofismi. Lo stesso Remo dichiarava, con tragica ironia, di muoversi "fra un tentativo e l'altro / suicidiario", scolpendo, intanto, con le sue pagine di critico, i tombeaux eburnei e imperituri dei poeti, amati e odiati come si odia e si ama un impossibile specchio veridico.

"Le tombeau toujours comprendra le poète", dice un grande. Il poeta forse trova il suo senso, e la sua pace, solo nella morte. Anche questo può aiutare chi sopravvive (diceva Eschilo che i morti uccidono i vivi) ad "elaborare il lutto", come si dice con clinico tecnicismo.

C'è chi non ha neppure questa consolazione, perché l'uomo comune, non baciato dal genio, la sua vita vorrebbe disperatamente viverla, non scriverla, e se rinuncia alla vita lo fa proprio perché la sente strozzata ed incompiuta; non per via della letteratura ma (altro tragico sofisma) della vita stessa. Invece anche morendo, anzi proprio con la morte e nella morte, il genio si salva dalla morte stessa, entra in quell'immortalità che rappresentava fin dall'origine il suo destino, il suo compimento, e insieme la sua “forma a priori”.

UN APPUNTO SU SCIENZA E FEDE

Se la teologia non fosse (come vorrebbero i new atheists, sulla base di argomentazioni non diverse da quelle del vecchio sensismo materialistico, o di certo un po' rozzo monismo e riduzionismo materialistico ed evoluzionistico) altro che un cumulo di vaneggiamenti di fanatici, allora si dovrebbe annoverare in questa categoria anche la prova matematica dell'esistenza di Dio data da Goedel, il quale altro non faceva che articolare nei termini della logica matematica l'argomento ontologico di Sant'Anselmo; ed era, del resto, proprio Goedel, con il suo teorema dell'incompletezza, a mettere in dubbio anche l'assoluta certezza dei fondamenti della matematica (il principio di indeterminazione di Heisenberg fa lo stesso nella fisica).

Certo, la dimostrazione di Goedel è stata confutata; ma si potrebbero forse confutare anche le confutazioni. Difficile chiedere alla teologia certezze assolute ed oggettive che a volte nemmeno la matematica e la fisica (le quali hanno a che fare non con la trascendenza, ma con la realtà materiale e le entità concettuali) sono in grado di dare.

Del resto, credenti erano Keplero, Newton (basta leggere i suoi manoscritti postumi, ma già lo Scholium generale dei Principia mathematica), Galileo (che nelle Lettere copernicane si avvale di concetti teologici e dell'interpretazione allegorica, non letterale, delle Scritture, anch'essa radicata nella tradizione teologica), lo stesso Einstein (che certo non credeva nel dio trascendente, ma in quello del panteismo spinoziano, eppure diceva che "Dio non gioca a dadi con l'universo" enunciando il suo scetticismo circa la fisica quantistica, e che "sottile è il Signore, ma non malizioso", evocando, consapevolmente o meno, un concetto teologico, quello della subtilitas, dell'inafferrabilità e della latenza proprie dello spirito vitale che pervade il cosmo - dell'"etere", concetto ottocentesco tornato in auge in alcune odierne teorie cosmologiche).

D'altro canto, esiste un "argomento entropico" dell'esistenza di Dio, che si fonda su concetti della fisica (solo una forza trascendente ed inteligente può trattenere l'universo dal precipitare nel caos, nell'indistinzione della mera materia dissolta in energia con una continua dispersione); né priva di implicazioni teologiche è la condizione t=0 della "singolarità" da cui si sprigionò (o si sarebbe sprigionato) il Big Bang, la quale confermerebbe la visione agostiniana di un tempo che ha avuto origine con la creazione, preceduta dall'assoluto ed immobile nulla.

Io credo che quello dell'inconciliabilità totale fra scienza e fede sia un pregiudizio come tanti altri; basta consultare il Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede (www.disf.it) per rendersene conto. Molti scienziati si dichiarano atei solo perché danno per scontato che uno scienziato debba per forza essere tale, e non si pongono nemmeno il problema.

Nessuno di noi ha mai visto dio, certo, se non interiormente e metaforicamente. Ma neppure un fisico può avere percezione ed esperienza dirette dell'universo "finito ma illimitato", del continuum spazio-temporale - ma nemmeno, a livello dei processi microscopici, determinare nello stesso momento posizione e velocità di un elettrone, se non alterando l'oggetto stesso dell'osservazione.

Galileo, oltre che alle "sensate esperienze", ricorreva anche alle "necessarie dimostrazioni", esclusivamente mentali, non dissimili, nella forma e nella struttura, da quelle teologiche (fra i suoi maestri al Collegio Romano c'erano stati, del resto, teologi insigni, come quel Domingo de Soto che intuiva e precorreva alcuni aspetti del principio di inerzia e del calcolo infinitesimale).
Paradossalmente, quando Galileo cerca di dimostrare l'eliocentrismo con un argomento tratto dall'esperienza fenomenica, sbaglia, attribuendo la causa delle maree al moto terrestre.

Insomma la questione è complessa, e forse destinata a restare senza soluzione definitiva. Eppure, porsela è una delle più affascinanti e decisive sfide del pensiero umano.

martedì 20 ottobre 2009

Elisabetta Brizio, "L’Angelo dell’alfabeto. Divagazioni su Vista sull’Angelo di Massimo Scrignòli"

Un linguaggio "deautomatizzato"; tale è, come ha osservato splendidamente l'autrice della seguente nota, quello della poesia: un linguaggio disalienato, redento (Benjamin), affrancato dalle strumentalizzazioni, dai cliché, dagli inganni subdoli e svilenti della quotidianità come del discorso ideologico; contrapposto all'"antilingua" di cui parlava Calvino; ricondotto, come dice Valéry, "aux sources", quello della poesia: così, come dicevano i maestri della modernità, da Mallarmé a Pound, il poeta "tiene in efficienza il linguaggio", "dà un senso nuovo alle parole della tribù"; svolge insomma, senza uscire dal linguaggio, senza farsi portavoce di ideologie e proclami allotri, un 'alta, pur se indiretta, e nobilmente, eroicamente solitaria, oscura, anonima, misconosciuta, titanicamente vana, funzione civile e sociale, a maggior ragione in un'epoca alienata e resa inautentica dalla propaganda mediatica e dall'automatismo informatico. Ciò, emblematicamente, nei versi di Massimo Scrignòli, già noto esponente di un postmodernismo venato di ontologia, e in un certo senso di metafisica; poeta in cui la sperimentazione sulla parola non è fine a se stessa, ma riesce a salvaguardare la dignità, e diciamo pure la sacralità, del linguaggio come casa dell'Essere, come tramite di un disvelamento, come spia di una laica rivelazione.
"Capire il pieno del vuoto", solcare "il valico fra libertà e destino": questo il passaggio esistenziale e conoscitivo, il connubio e commercio fra gli opposti, di cui l'Angelo dev'essere guida, tramite, maestro. E non si tratta, è ovvio, di un angelo identificabile comodamente con quello dell'iconografia mentale a cui ci ha abituato l'immaginario cristiano. E' un angelo simile, piuttosto, alle divinità in esilio sulla terra di Heine e di Hoelderlin, che ancora serbano qualcosa dell'antica aura, dell'antico numen, pur soffrendo per la loro lontananza da un'origine oscura a cui vorrebbero tornare portando con sé pochi uomini eletti - o ai daimones del neoplatonismo, mediatori fluidi ed inquietanti, visibili-invisibili, fra la terra e il cielo. (M. V.)
A Federico



C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si
trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da
qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati,
la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve
avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove
ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe,
che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia
ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti
e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso,
che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non
può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente
nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine
sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è
questa tempesta.

Walter Benjamin

“La vista: uno sguardo sopra ciò che dall’alto nasce e cade. Sopra l’Angelo che è portatore di segni ma anche essenza dell’immagine”, leggiamo in quarta di copertina di Vista sull’Angelo di Massimo Scrignòli (Book Editore 2009).

Enigmatico racconto in versi in cinque stazioni (“Senza ritorno”, “Il cedimento di Dio”, “Del Sublime”, “Del Tempo”, “La Casa”), ognuna delle quali svolge un tema senza per questo smarrire la trama di un continuum narrativo tuttavia non lineare: Scrignòli si interroga, interroga l’Angelo, si inoltra nell’invisibile, indugia, si ritrae, introduce simboli che talora depriva del significato comunemente loro attribuito. Attraverso riprese e ricontestualizzazioni, e in particolare mediante la tecnica dello straniamento, dispositivo con il quale il poeta ci restituisce una percezione ridestata, rigenerata delle cose, deautomatizzando la lingua anche con espressioni semanticamente ed emblematicamente situate a distanza. E qui lo straniamento non può non implicarsi con l’inclinare verso il linguaggio angelico, all’uomo straniero. Un linguaggio essenziale, di una bellezza e purezza iniziali, nel quale i referenti di significazione assumono carattere di sacralità.

C’è un inavvertibile, incorporeo confine che delimita la visuale dell’angelo: limite metafisico solo nella misura in cui sottolinea il distanziamento tra due mondi, che nondimeno sono congiunti e comunicanti, almeno in termini di anelito, slancio, aspirazione. Il mondo, la sua vicenda di vita e di morte, vengono quasi delineati nel loro essere in sé. Angelo è conoscenza, predestinazione all’indicibile. Nel visiting angel lo spirito celeste visita gli uomini indicando loro la soglia del trascendente. L’Angelo di Scrignòli è simile a quello montaliano, anche se svincolato dalle circostanze biografiche e dalle precise identificazioni che si incontrano in Montale. In tal senso Scrignòli rivisita la cospicua angeologia poetica in modo originale.

“Per uscire dal mondo dobbiamo / intuire / decifrare / tradurre”. Ma in che senso “uscire dal mondo”? Per pervenire forse all’accettazione del mondo, itinerario (dopo l’estromissione dell’uomo dal mondo, i cui elementi nondimeno continuano a perseverare, nella loro bellezza e nella sublimità della concettualità poetica: mare, fiumi, alberi, città, e, simbolicamente, biblioteche) verso il rinvenimento di quel senso dell’esistere che rende l’uomo memorabile, un percorso da svolgere all’interno dell’esperienza del mondo. Rinvenire, rilkianamente, la presenzialità di ciò che è passato e che in noi ha cambiato di segno, divenendo “pura esistenza”, ma non alla stregua di una vaga astrazione, bensì di istanti che ancora ci appartengono e che sono fonte di felicità: perché la finitezza del terreno è comunque causa dell’esistere e del perdurare. Rinascere, lascia intendere Scrignòli, per cercare di recuperare quella verticalità consustanziale a ciò che non è perituro: da lì è sceso l’Angelo “seduto sul silenzio”. Il silenzio dell’Angelo è manifestazione del mistero e dell’invisibile che nel visibile si cela. Le cose restano avvolte nel silenzio se nessuno le interroga.

Vista sull’Angelo è una meditazione-fleuve che fluisce ininterrotta (da notare l’uso scarsissimo dei segni d’interpunzione) a partire da una terzina del Paradiso dantesco posta in esergo. Come si evince dalla citazione dantesca, lo sguardo dell'interprete, pur straniato e abbagliato dal mistero e dalla densità dell'espressione, dal suo luminoso e numinoso abisso, deve sì varcare e mettere tra parentesi le proprie geometrie e i propri limiti, ma non per questo dissolversi e disperdersi totalmente in pura tenebra informe. Non a caso, il ventiseiesimo canto del Paradiso ha a che fare con il linguaggio, il testo, l'interpretazione, sia nella loro propria e primaria accezione linguistica e segnica, sia nel loro orizzonte apocalittico e metafisico, nella loro tensione e dilatazione tra Alfa e Omega. In questa poesia metafisica l’immagine del vento accompagna costantemente le alterne vicende dell’uomo fino alla sua scomparsa. Il vento è allusivo di voce, illusione (“illude in avanti i giorni”), intrasparenza, attesa, disillusione, confine, profezia, è parola iterata lungo il testo forse perché respiro di vita e di poesia.

L’abbastanza inusuale incipit reso con la congiunzione coordinativa copulativa sta quasi a significare la prosecuzione di un discorso che ha avuto inizio altrove, di un ripensamento o della volontà di tirare le conclusioni (“e tuttavia”). E che comunque ci introduce immediatamente in medias res: “dovremo / intuire / decifrare / tradurre / l’angolo minimo di tempo dove / il pane è una luce verticale”. Si tratta del desiderio di accedere a una essenzialità, a una sostanzialità dove lo stesso quotidiano fa parte della verticalità del vivere e del sentire? L’itinerario sarebbe arduo, ci sono segni da decifrare: porte assenti, scale da scendere anziché da salire; il luogo della fenice, della resurrezione e rigenerazione, e quindi della immortalità, e un triangolo, un segno di equilibrio e di perfezione divina. Laddove “il dubbio della ragione”, come suggerito in nota, non costituisce un limite da non oltrepassare ma occasione di profezia. E accadrà di uscire dal triangolo “in un’altra parte del giorno”. Dal punto di vista del triangolo la vita è solitudine, indifferenza, estraneità. È illusione (”rondine illusa”), ossimorica “rosa di sasso”, delicatezza e bellezza pietrificate, la verità è inconoscibile agli uomini.

“Unire unire unire”, enfatizza Scrignòli. La ripetizione, a ben vedere, ad osservarla con sguardo filosofico, oltre e più che figura retorica, è figura gnoseologica e ontologica, emblema dell’essere e dell’eternità come in Parmenide, dell’angoscia come in Leopardi, della resurrezione come in Dante, dell’immobilità come in Montale e in Luzi, della nevrosi come in Sanguineti o nella Rosselli e in Zanzotto. La struttura del linguaggio riflette quella dell’esistenza, del pensiero e dell’esperienza. Qui la martellante ecolalica iterazione sta a rimarcare l’anelito a una unio mystica, a quella che i teorici dell’informale chiamano “interpenetrazione confusiva” dei pensieri, degli intelletti, delle forme di esistenza e di esperienza. Fondere, non disgiungere il sogno dall’esperienza, anche il sogno è portatore di significato e di conoscenza.

Se “il sentiero del ritorno (…) / sarà un’iscrizione vuota”, come lamentavano alcuni dei morti in Spoon River Anthology, l’iscrizione ci rappresenterà ma senza inerirci. La morte è sempre uguale in sé stessa, eppure diversa, inesorabilmente, in ogni uomo e in chi gli sopravvive. Un vento straniero si intrattiene “con la presenza / di una parola isolata” (reticente? autoreferenziale?): ma questa non sembrerebbe la condizione definitiva perché dall’alto quasi si presagisce il tempo della resurrezione. C’è un’allusione a un illimite?

“Cenere”, cioè morte e rovina, “nebbia”, metafora della sparizione e fato di tutte le cose, ma anche “musica” stanno piovendo sulla strada in rovina. E la incerta figura angelica che “sembra / il canto in fuga di un viandante” appare tuttavia vigilante sull’”azzurro seme del grano”, azzurro come infinito, come perfezione ideale congiunti all’essenzialità-sostanzialità dell’immagine del “seme del grano”.

L’albero millenario delle pagode (che, come scritto in nota, “in estremo oriente è un albero di culto, piantato in vicinanza di templi e di cimiteri”) guarda l’Angelo deprivandolo del suo carattere di infinito. Per Goethe il Gingko Biloba (appunto l'albero delle pagode) era simbolo dell’unità degli opposti, sintesi di unione e separatezza, data la forma lanceolata e bimembre delle sue foglie.

“Ma la verità si è fermata nel grano” e l’uomo deve vaticinarne lo svelamento attraverso un “trasumanar che rapisce la vista / e consola”. Quindi attraverso uno slancio metafisico che induce a volgere lo sguardo verso l’alto, l’oltre, la trascendenza (e in tal senso rapisce la vista) e appunto per questo consola l’uomo, distogliendolo dalle sue terrene ansie e brame.

L’Angelo è in contatto con lo spirituale dell’uomo, e con l’uomo parla solo nel sonno, attraverso il codice straniato del sogno.

Il male del mondo ha dato luogo al “cedimento di Dio” e le “cicale stonate” “dicono inutilmente che bisogna / recuperare un po’ di tempo”. Ma si potrà ancora dire “che la luna splende come neve innocente”? E passano, trascorrono “le voci sugli specchi”. Vanità o autocritica? I fiumi del poeta fluiscono verso un’immagine di eternità, accolgono i resti di Orfeo, colui che conosce il segreto.

“Intuire / decifrare / tradurre”: l’uomo e il suo linguaggio, nella fattispecie la parola poetica, sono occasione di grandezza – e di responsabilità: la parola è rivelazione di una altrimenti non effabile vista sul mondo e visione del mondo, nonché della sua variegatezza. E gli invisibili angeli di Rilke, se prima erano indifferenti nei confronti dell’uomo e ad esso trascendenti, nella IX delle Duinesi diventano all’uomo indifferenti nonché stranieri, nella misura in cui mai conosceranno l’umano linguaggio che ha dato senso alle cose del mondo.

In Vista sull’Angelo è assente questa algida distanza tra l’angelico e l’umano (tanto che a un certo punto viene evocata la figura-guida dell’arcangelo, seppure smarrito). L’Angelo è figura alata intermedia, quella stessa che nel Klee dell’ultima fase creativa alludeva alla preparazione alla morte e costituiva una riflessione sull’aldilà. E il carattere di provvisorietà, di emblema di un mondo intermedio tra l’umano e il superiore, di allusione al trascendimento dell’umano verso l’oltreumano, è chiamato a connotare una dimensione di attesa, di sospensione tra vita e morte: come l’angelo, anche il poeta è figura di trapasso, allude al carattere precario della ragione e vive e sperimenta il senso di due stati diversi. La poesia è allora luogo orfico, che coglie il trasmutare da una dimensione puramente empirica a una dimensione originaria: vivere è dunque “intuire / decifrare / tradurre”. Accedere, decifrando e traducendo, a una visione originaria.

Si chiede tuttavia il poeta nella sezione “Del Sublime”:

Cercheremo le tracce? Dove
cercheremo le tracce
di questa perduta natura?
Quale segno imitare, se tutto ciò che è terribile
invecchia così presto…
(Tutto, fosse anche un Angelo?)

La via del sublime non è tanto quella kantiana di un sublime inteso come categoria artistica, né in senso più generale costituisce un sentimento estetico che sorge dal conflitto tra ragione e rappresentazione. Piuttosto, facendo un considerevole passo indietro, e rifacendoci allo pseudo-Longino, essendo il pensiero e il sogno gli ambiti da cui si originano parola, rêverie, visionarietà simbolica, dovremo interpretare quello che sta sub limine in una duplice direzione: come è stato detto, sublime è ciò che, pur nell’aspirazione a una elevazione resta inesorabilmente sotto la soglia, sublime è la sfera verso cui parola, silenzio, suono, gesto, forma o colore cercano di innalzarsi, di eccedere, ma senza mai riuscirvi, condannati a permanere, elevati, sfolgoranti ma innominabili, in uno spazio ombroso e al contempo intensamente luminoso. E la poesia è sublime per definizione, nella misura in cui sottrae la parola alla banalizzazione del linguaggio ordinario e si inoltra nel silenzio, inespressivo o trasparente che sia.

Anche l’albero, simbolo di eternità nel suo cambiare attraverso le stagioni, è malato, “e tutto quello che resta è poco”, “un pensiero di Dio”, “forse”, e peraltro in un contesto ossimorico (“un largo istante”), in un luogo “dove noi / non possiamo rimanere”.
La morte entra a Toblach con la musica di Mahler, e non solo nei Kindertoten-Lieder (che dopo Auschwitz assunsero tutt’altro, e più fosco, colore), richiamo ancor più triste, anche se legati a un evento particolare. Toblach è anche abbandono, lontananza, profondo silenzio popolato solo dalle voci della natura, in cui l’armonia assume il suo corpo impalpabile e la terra leva il suo canto segreto. Ovvero, per dirla con Corazzini, teatro della “Vita che piange” e della “Morte che cammina”.

Al mondo non c’è remissione, e al poeta non avanza che attendere “la nuova misura dell’orizzonte”: forse il dischiudersi della parola?

È venuto meno il confine tra vita e morte, le voci si confondono. “È tempo di invecchiare”, “di capire / il pieno del vuoto”: di interpretare, di significare, di decodificare e ridescrivere la voce delle acque del fiume nei loro leonardeschi vapori invernali. Tutto acquista senso e memorabilità “là dove la parola non si spegne”.

L’airone, altra figura alata “sa che i solchi della vita / sono luoghi profondi / nell’aria”. E nell’evocare l’immagine dell’airone potrebbe nascondersi un richiamo al capolavoro di Bassani, la cui conclusione è che la felicità, l’uscita dall’insignificanza, vanno ricercate nella morte e nel congedo dalla madre?

La bufera si è impadronita di ogni cosa, è tempo dell’assedio e del negativo, del tragico stabilizzarsi dell’illogico e dell’inaridimento:

Le parole di Rilke si riflettono
e cadono sulla cornice con un sorriso
verticale, conservando il viavai
incolore tra angeli vivi e angeli morti.

Laddove forse l'angelo vivo e l'angelo morto sono le due forme di uno stesso angelo, che è poi l'uomo, angelo caduto, che risale al cielo, essere che "si semina corpo mortale, rinasce corpo spirituale", come dice San Paolo. Il tutto è però riletto da Scrignòli in una chiave, paradossalmente, terrena, umana: come se il trasmutare e il trasumanare consistessero in un superare, o tentare di superare, i limiti immanenti dell'umano, senza avere però la certezza, assoluta, dogmatica, rassicurante ma forse limitativa, della natura e della condizione proprie del mondo ultraterreno.

Krόnos sembra sopraffare Kairòs - il Tempo, l'Aiòn epocale ed implacabile, sembra trascendere e fagocitare, fino ad annullarlo, l'Istante vitale - quello che il Goethe del Faust si illudeva di poter trattenere per sempre. Ora l'istante è in ogni momento già divenuto, già passato, già traguardato - volgendosi fatalmente come Orfeo alle soglie dell'Ade - dall'angolatura di una visione postuma; è solo polvere, dimenticanza, ostensione di assenza, indifferenza, “specchio di ghiaccio”.
La polvere vorrebbe soffocare finanche la biblioteca (ed è difficile non ricordare gli angeli di Wim Wenders quando talora si incontravano nella biblioteca di Berlino), dunque la memoria, la pagina, la parola (nonché la sottolineatura delle parole della pagina come traccia del passaggio dell’uomo).

Ma “il fiume ci riporterà intatto / il mare”, anche se un Angelo è “caduto oltre la soglia / della primavera”, della rinascita. Non muore chi non teme la morte. “E l’abisso di trame che seduce / e ci conforta”: se sarà possibile cogliere in ogni forma che trascorre il senso del transito, per preservarlo con la forza evocatoria e salvifica del verbo poetico.
Anche il ventiseiesimo del Paradiso (da cui Scrignoli trae la frase posta in esergo al volume) si richiama all’orizzonte apocalittico della beatitudine, che non per nulla sarà completa dopo la distruzione dell’universo, la quale avrà una funzione paradossalmente purificatoria. Il conseguimento di una piena beatitudine presuppone l’immersione nel guado, per quanto doloroso, del tempo, della storia, dell’umano.
Così l’angelo di Wenders che ha deciso di diventare umano, accettando la morte:
Risalirò il fiume.
È una vecchia massima umana, sentita spesso, ma che capisco solo oggi: ora o mai!
E l’attimo del guado, ma non ci sarà un’altra riva: c’è solo il guado finché stiamo
dentro il fiume.
Avanti: è il guado del tempo, il guado della morte.
Noi che non siamo ancora nati scendiamo dalla torretta.
Guardare non è guardare dall’alto, ma ad altezza d’occhi.

La sparizione-capitolazione dell’umano sembrerebbe ormai compiuta. La Casa è il luogo metafisico e metaforico in cui non resta che “un solo / muto / alfabeto”. Alfabeto dunque, e non parola: questo muto alfabeto potrà ancora comporsi in parole? Ciò che è presente e vivo dell’esistenza è da considerarsi solo una variante svalutata del passato?
“Andrej accende ancora la candela”, è “simbolo dell’agire, del fare, atto catartico estremo” e “la parola si incendia” e la pioggia “non consuma la candela / né le voci dell’acqua”
Ma “da mille anni l’albero delle pagode / osserva l’Angelo seduto sul silenzio”. E il senso, in termine di limite (“i limiti”), del segreto è soltanto l’alfabeto, “muto”, “fedele”, “perduto”, quell’alfabeto (allegoria di un silenzio che comunque è possibile comunicare, nelle opere letterarie?) che fu dono degli dei prima di ritrarsi dal mondo degli uomini, un “soffio antico”, un “dolce trasumanar della vista / su questa terribile felicità”. Il dolore è arido e vano, stigma della desertificazione, se non trasmuta in conoscenza:
Uscendo dietro la fenice chiederai
della sorte del deserto. E della sabbia,
che come rondine illusa
fruga tra le rose di sasso
la verità nascosta agli uomini.
Anche Dostoevskij accennava a una felicità terribile, a una bellezza terribile in grado di indicare all’uomo una forma tragica di salvezza, ma all’uomo che si sottrae a una visione radicale delle cose e della verità, all’uomo che considera e contiene in sé i momenti, intermedi, opposti e inconciliabili, che ineriscono alle cose del mondo. Angelizzare è esprimere una verità non unilaterale, che comunque nella mediazione dell’Angelo trova il compimento del dissidio. L'atto poetico ("ispirazione che riguadagna il cielo", "commercio con il cielo", come dice Mallarmé) media tra immanenza e trascendenza, carne e sovramateria, alla maniera in cui oscilla tra il dire e il silenzio, l'espressione e l'enigma. La Parola è l'Albero della Vita delle cosmogonie ebraiche, che ha radici nel cuore della terra e il vertice confitto nella sommità dei cieli. Ma nel poeta, il recupero e il riemergere (consci o solo archetipici) di questa simbologia non presuppongono l'adesione ad alcun credo ben definito e codificato, ma solo l'universale religione della poesia:

E l’uso della memoria, le somiglianze
anche che ci liberano dal futuro, tutto
tutto questo ha valore solamente se accade
là dove la parola non si spegne. Enigma
nell’enigma, luce sfogliata tra un’eco d’ombra
e il fiato di una parte di vita dimenticata.

Analogamente, eppure in certa misura diversamente, rispetto a ciò che accade (e non accade, o deve ancora accadere) nel Cielo sopra Berlino, i giorni a venire saranno da riscrivere.
Elisabetta Brizio

venerdì 16 ottobre 2009

MINIMA RIFLESSIONE SUL SUBLIME

Il sublime va forse ripensato a partire dalla sua duplice, intrinsecamente ambigua natura. Il sublime è, etimologicamente, ciò che sta sub limine, sotto la soglia, immediatamente al di sotto di un margine, di un confine, di un limite – per quanto in sé e per sé superiori, elevati, eccelsi –, verso cui la parola o il gesto, la forma o il colore, il suono o il silenzio si protendono quasi eroicamente, senza poterli mai raggiungere – quasi si trattasse di un eterno viaggio verso la linea dell’orizzonte, o magari di una tensione verso il limite inteso in senso fisico, verso la sottile ed illimitata curva astrale che separa la materia dall’antimateria, lo spazio dall’infinito, il tempo lineare dalla sua negazione o dalla sua interminabile regressione.

Sublimi sono il discorso, o il suono, o la forma che si innalzano, o cercano di innalzarsi, al di sopra di sé, pur restando – anzi forse proprio perché sono titanicamente ed eroicamente, come Prometeo inchiodato alla rupe, condannati a restare – sempre al di sotto dello spazio o del regno rarefatti, luminosi, innominabili, oscuri per eccesso di luce, che li sovrastano.

Né si deve credere che la scelta del prosaico, del reale, del concreto, o al limite dell’atroce, dell’orrido, addirittura dell’osceno, escluda di necessità il sublime. Già Baudelaire e Flaubert sapevano bene che al sublime d’en haut può affiancarsi, in modo solo apparentemente contraddittorio, un sublime d’en bas, che semplicemente alimenta ad una diversa, antitetica fonte una non dissimile aspirazione a trascendere, o a cercare di trascendere (non necessariamente in senso metafisico), i limiti della forma e dell’espressione – senza per questo vanificarle, annullarle, azzerarle, come l’avanguardia rischia a volte, forse nei suoi esiti e nelle sue applicazioni più meccaniche, manieristiche, direi manualistiche, di fare.

La poesia non può, a ben vedere, che essere – nel senso più lato, nella più vasta delle accezioni, nella più ampia raggiera di direzioni possibili – sublime, nel suo tendere oltre il segno, la superficie, la parola, oltre la scorza dello scontato, dello strumentale, dell’ordinario, anche a costo di addentrarsi nelle regioni deserte del silenzio.

Sublimi sono, poi (Subliminal Self li chiamavano, prima di Freud, certi psicologi inglesi), l’inconscio, il subconscio, l’Es, l’Autre, che nutrono, per quanto criticamente filtrati dalla soglia consapevole della riflessione e dell’espressione, l’avventura artistica.

In questo senso, sorprendentemente sublime non finisce forse per apparire, nel suo attraversare la Palus putredinis per poi uscirne recandone ancora addosso le luride tracce, nel suo invocare la «tenue Ellie», simbolo dell’inconscio junghiano (e dunque, forse, anche di una trascendenza e di un divino rimossi, forclusi, totemicamente “uccisi”?), nel suo necessario richiamarsi a tutta una tradizione – onnivora, compressa, sovraccarica – che non esclude lo stesso Medioevo latino, anche il Sanguineti di Laborintus?

Forse bisogna “tornare a Longino”: è lui, nel suo celebre trattato, a ricordarci che la fonte primaria del sublime è la phantasìa, la eidolopoiìa, l’ennóema ghennetikòn lógou, insomma il pensiero o il sogno generatori di parole, immagini, simboli, fantasmi.

Una definizione apparentemente tautologica, ma in realtà ancor oggi vivida, duttile, capace di cogliere il nucleo essenziale del processo che, attraverso la mediazione della coscienza critica e della consapevolezza stilistica, dà corpo infine all’espressione artistica.

E l’antisublime tante volte ostentato è, forse, simile all’antiaristotelismo della rivoluzione scientifica: rivolto cioè, consapevolmente o meno, non già contro il sublime autentico, quanto contro le sue manifestazioni storiche deteriori, accademiche, esteriormente ed ampollosamente retoriche (al di là del fatto che anche la retorica, anche il semplice, probo, scolastico esercizio stilistico e formale d’impronta classicistica, recavano in sé e con sé una loro dignità, una loro rilevanza storica e sociale, un loro rispettabilissimo "mestiere", che oggi si sono persi, non saprei dire quanto fortunatamente).

martedì 29 settembre 2009

Anni di vento - Liriche di Enrico Besso - Il vento veste il verso di musica - di Patrizia Garofalo

La poesia di Enrico Besso è tutta attraversata da accesi e dolenti simboli sacrificali, di una corposità imponente, contratta, michelangiolesca (proprio michelangiolesca è l'icona del Christus patiens con cui il poeta oggettiva la propria esperienza del dolore). Ma anche la voce del dolore, così come il dolore stesso, è infine avvolta, e apparentemente vanificata, dal silenzio, che solca anche le pieghe dei sudari, e fa tralignare le piaghe e il martirio verso l'ultimo fantasmatico non senso. E allora non restano, ad esile, ma vitale ed essenziale, consolazione, che un delicato e finissimo decorativismo floreale, quasi liberty (fatto di fiori che sono parola e suono e insieme realtà, impressione sensoriale e nel contempo sostanza verbale e fonica), e il ricordo trepidante e malinconico, ora accesamente sensuale, ora assorto e chiaroscurale, dei momenti di armonia, di amore, di pienezza - che si fanno a loro volta parola, immagine e poesia, e poi ancora, forse, circolamente, silenzio e perdita. (M. V.)


Le rifrazioni dei versi riportano la voce del tempo non solo come adombramento memoriale ma come esistenza che fragile si muove in mezzo ad un ascolto di sé e dell’essere, con mani piene di vita, e altrettanto pieni di vita sono i versi del poeta, vita respirata per coglierne sapore e odori.

La chiave di lettura è la metamorfosi del ricordo, l’esperienza del cambiamento e della natura che vive, palpitando parole, restituendole al mare, grande pagina di ispirazione di Enrico Besso.
Questo spirituale panteismo protegge l’autore anche nei momenti di sconforto perché dal terreno nasce e persisterà nella voce del vento anche tanto vicino a Dio da far sentire il suo illusivo canto di vacuità. Lo stile di un autore sottende l’anima, la sottolinea nel suo darsi voce colma di sonorità e così, l’ipallage, la sinestesia, il colore che accecante si incupisce come in una vecchia tela dove le tinte vanno scurendosi in basso, stabiliscono un legame indissolubile tra animo e cifra stilistica che ritmica implode ed esplode per diventare marea di nostalgica persistenza.

“S’allumano ammarandosi”: così Besso, in evidente sinestesia tra sfera visiva e auditiva, fissa mirabilmente il verso alla fine, con due doppie non casuali, enfatizzando un verbo onomatopeico che si rifrange nel mistero della vita dopo una giornata in cui “l’ultimo riverbero/ traslucida il colore del sole sulla sabbia… gli occhi si danno campo l’infinito… del giorno agonizzante/ e nell’incanto delle stelle”. Tela, quadro e parole di largo respiro si chiudono in un ermetismo di ungarettiana memoria. Ed è proprio questo l’andare del poeta, quello di aprire orizzonti azzurrati e naufragarvi dentro per il nuovo giorno con incisi mozzafiato, stringenti, accorati, ma di speranza colorati.

Le profumazioni non lasciano la pelle, il giallo torna nel testo a ribadire il ricordo e la ricerca di luce: “pelle brunita tra i capelli un fiore/sabbia, sole, mare e il profumo dei limoni”. E ancora: “bevo l’azzurro pallido dell’onda”.

Poichè “non ha ruota di scorta il cuore… il porto del mio mare è la mia donna,/ la barca accoccolata sulla riva… e vivo navigando con la rotta a sud/ ancora in cerca d’orecchini di ciliegie”. Le parole di Enrico Besso trasportano l’infanzia, i sorrisi delle ricordanze, i giochi, reificati negli orecchini di ciliegie, i capelli al vento, il rimandare al cuore per riafferrare la vita e offrirla vergine di martirio come di resurrezione, bella così come è quando si riesce a parlarne, con il dolore nel cuore ma con apertura ad un infinito fatto di terra, di mani sporche di sudore, rabbia, per prenderne un bacio, per donare a chi crede di vivere: “lo striscio dei papaveri tra il grano/ il pianto d’un bambino appena nato/ e il tocco delicato di una mano… e anche un grido può esser silenzio”.

E’ vero e magari questo grido di silenzio è il più intenso di tutti e scritto su pagine che non resteranno bianche fino a quando sentiremo gli anni di vento non come vuote forme.

Recensione di Patrizia Garofalo

sabato 26 settembre 2009

"L'inadempienza" di Gianfranco Franchi - recensione di Patrizia Garofalo

il dolore è una torre
di pietre
levigate dal ghiaccio.
Nelle segrete della torre
si nascondono i poeti.
Amiamo nutrirci di riflessi di luce (p. 37)

L’indicazione, come una strada, invita dove trovare la “voce”. In alto, nelle segrete di una torre, pietre levigate riflettono luce ma non consentono di scendere e allontanarsi dal male , semmai di precipitare per inabissarsi fino a tornare tra i vivi, per una “incoronata” morte fino all’alba, quando inizierà di nuovo, il tormento di sé.

“Insofferente gigante di carta e fantasia” (p. 85), Gianfranco Franchi scandaglia la sua fragilità e forza, nascita e morte in versi dove la dolorosa coscienza dell’insufficienza della parola è gridata, sofferta, dicotomica, spezzata davanti alla vita che mai potrebbe essere “adempienza”, pena la sua morte.

”dalla poesia corrotto/rovesciai l’innocenza e mi parve rinnovato/il canto degli antichi, la prosa dei presenti” (incisivo l’enjambement che vede insieme l’innocenza del poeta e il canto degli antichi, e colora di nostalgie un passato nel quale Gianfranco trova momentanea identità al suo essere “barbaro”).

Roma e Trieste si conciliano nello slancio che lo vede cercare, nell’annullamento dei confini, una patria ideale che è la parola poetica di cui si ciba e che scorre da sempre nelle sue vene; prima di una nuova e dolorosa coscienza di sé e del vuoto, della desolazione, dell’abbandono, nelle notti prima dell’alba. Si offrirà cantore mendico di una Roma fatiscente , sentirà il sangue della materna Trieste , ormai musa delusa, pulsare nelle vene e scorrere di ricordi.

Il poeta deve naufragare , penetrare, perdersi prima di poter riaffermare la sua voce: “la mia terra m’ha inghiottito e adesso la posso raccontare”, “pagano” (p. 86), consapevole che è insito nella vita il vero insulto alla parola dell’anima , a questo si offre morendo “in vita” per rinascere dagli abissi e dall’Ade da cui risale, angelo-demonio, inviso agli uomini e orrendo essere per un Dio che ha osato sfidare.

L’hybris minaccia il poeta che invece la accetta, la accoglie, la sfida e, ad oscure notti, alterna arriva anche la percezione della vita: “camminammo nella vasca dei cristalli / nella notte dal confine sottile; / allora le onde ci assediavano/ fredde/ inconsistenti,/ e nessuno sembrava avere sguardo./ Ad un tratto pensammo/ di sfiorare/la vita” (p. 56), e poi “ammutinato disertai la rotta/ nella galleria viola nascosto/ artefatto e gracile” (p. 57.

Nella parola “cristallo” e “gracile”, i poeti riguardano da torri di cristallo che facilmente si rompono, si infrangono in silenzi rumorosi , in muscoli contratti dal resistere nonostante la fragilità della coscienza e della consapevolezza dell’essere “fingitori”, intrisi d’arte, letteratura che, nel mentre li definisce poeti, chiede l’odioso patto di un’arte consapevole dell’inadempienza.

La dedizione alla parola, sempre sentita dall’autore (“la radio spenta sembra/ trasmettere voci conosciute”) e l’arte come sublimazione dolorosa dell’essere mi rimandano al patto con il demone (in questo caso angelo precipitato nella ricerca) del Doctor Faustus; le Muse sono spesso invocate nel cammino del viandante, del nomade , del poeta, di Adrian Leverkuhn, quasi supporto alla difficoltà di salire e accettare poi la caduta nella voragine; il sentimento che potrebbe trovare la morte nella sua espansione e coscienza tende ad essere ridimensionato nella razionalità e quasi emarginato, il dolore individuale anche nel Nostro si presta ad ampiezze riflessive sulla storia di popoli, genti, dolori, incontri, nella configurazione di un mondo suicida di sé dopo omicidi consumati di bellezze e antichi splendori.

Il patto sarà violato, la follia condurrà Adrian traditore all’incoscienza di un infanzia e la ricchezza del sentire si moltiplicherà nel poeta dell’inadempienza, in una sfida a resistere anche nella nostalgia, altro grande filo conduttore di queste liriche. Essa invade e si estende nella percezione consapevole, ma non per questo meno dolorosa, di un tempo che non fluisce ma rimanda voci, amori, desideri, passioni che si stampano nella scrittura che li imprigiona e li contiene insieme; non concede dimenticanza , ritorno, memoria d’accompagno proprio per la pagina scritta, che tesse intorno tela di ragno insufficiente all’espansione d’amore, spesso ricacciata ed obliata per non soffrire.

“La nostalgia è nel pianto / d’una madre trascurata /spenta e sofferente /esule eremita/dalla terra dei ricordi". ”Ti ho conosciuta, terra. / Ti ho pianto mare / Sono sceso per la scogliera / Raggiante di speranze -/ Le onde bagnavano i miei piedi. / Nella spiaggia trovai una conchiglia. / Quella morte risuonò a lungo. (p. 42).

Questa ultima lirica, composta di tutte maiuscole a capoverso come se si dovesse prendere fiato più volte e dove l’aggettivo”raggiante”, unico della composizione, è stoppato da un segno orizzontale, viene a significare un fermo volontario all’espansione del sentimento scolpito nella geografia dell’anima dell’autore che prosegue nell’opera in un continuo spartito musicale della coscienza alla quale talvolta concede lacrime e sorrisi in una mancata esecuzione della prossima nota. ”isolato nel mutuo frastuono / Respiro/ fuori tempo…/ la marea cadeva nel cielo /e niente aveva più sfumature / ho assunto /domani uno sguardo nuovo" (p. 74).

Se la poesia è ”Illegittima pretesa d’immortalità” (p. 123), capita che ”la parola ritorna come un torrente di tuoni / ascolto adesso / e finalmente piango” (p. 127).



Patrizia Garofalo 20 novembre 2008

sabato 19 settembre 2009

"Un libro per analessi: note su 'Una terribile eredità' di Gordiano Lupi", di Patrizia Garofalo

Inutile sarebbe indagare e inoltrarsi nella logica di qualsivoglia guerra, salvo rintracciarla nella follia di chi stabilisce le sorti di individui destinati a precipitare nell’instabilità storica, fisica e coscienziale, a partire senza una motivazione plausibile e a nulla anelare tranne che a cercare la propria salvezza a qualsiasi costo. Ma alla guerra non c’è fine: devasta la normalità, le emozioni e i sentimenti, trasmuta ogni vincolo spirituale, sancisce il trionfo della disumanità, sventra ogni tentativo di ricostruirsi con fantasmi che inutilmente tentano di svanire, di rimuoversi, si appropria per sempre del corpo, è un attraversamento di dolore che assiste all’annientamento della vita insieme al sovvertimento dei valori.

Una terribile eredità di Gordiano Lupi (Perdisa 2009) si sgrana pagina per pagina sia in immagini dure e distaccate, in una impartecipazione quasi da terza dimensione, sia in aperture a grandangolo nel cui alternarsi assiduo risiede l’originalità dell’autore.Ogni parola rimanda al cuore la sofferenza del protagonista nel perdurare dell’orrore, lacerante, senza rimedio e senza respiro. L’animo e lo sguardo dello scrittore sono al di qua di qualsiasi giudizio o interpretazione; mai omologazione dunque, ma identità precise e irripetibili, sofferte, “persona” nella sua unicità è il protagonista, delineato attraverso un realismo forte a tratti da reportage giornalistico, e al contempo accompagnato da uno scrivere riscaldato dalla pietas. L’esperienza reale trasmuta in quella scritturale, luogo d’elezione in vista della memorabilità degli eventi.

Lo stile del romanzo, simbiotico al contenuto, è controllato da una sapiente paratassi e da una punteggiatura che si sgretola mimando, reificando quasi, i ritmi dell’orrore e del dolore; arrivano al lettore input parossistici nella forza espressiva delle immagini che sempre più intensamente comunicano l’avvertimento della catastrofe. “La terra non ce la faceva più a sopportare il peso dei suoi morti e quasi rifiutava di ingoiarli e di dargli sepoltura”.

Mi sovviene Ungaretti in Non gridate più; ma nella guerra di questo racconto, dove il protagonista resta fermo alla fase della pena, mancano la fede e la tensione a un altrove mistico, il riscatto, la pace, la possibilità di sollevarsi da un’esistenza stagnante nel tragico: “Dove esiste la fame non esiste la vita”; “Qualcuno comprenda che non c’è fine all’orrore”.

Mi sembra che ciò voglia dirci questo avvincente libro. Trovare come unico sfogo la soppressione di innocenti vite per cibarsi della loro carne altro non è che lo stigma enfatizzato di una guerra che segnerà un ritorno nella propria terra con un’eredità raccapricciante: “Per tutti sono un povero pazzo e posso dire quello che voglio”. La pazzia quindi, l’insania come unica libertà anche se si sta marcendo dietro alle sbarre. L’antropofagia, paradossalmente, nell’introiezione dell’altro potrebbe essere letta come atto di amore e di lutto (cos’altro è l’elaborazione del lutto se non l’introiezione del soggetto dell’abbandono?). E in sequenza partono le immagini che scandiscono la storia del protagonista, stringono l’animo e ci fanno partecipi di quel dolore presente e della retrospezione.

L’irreversibile itinerario verso la follia nella disseminazione della propria individualità-identità indurrà il protagonista a coniugare insania e pena, capacità di uccidere e al contempo di continuare ad amare, e in tal senso Gordiano Lupi finisce per addentrarsi negli interstizi dell’umana psicologia quale buio perenne: come altrimenti coniugare amore e morte visto che sono isolatamente irriconoscibili? Nel protagonista più che a un inaridimento spirituale si assiste al pronunciamento della sovrana indissolubilità di amore e morte. E il suo responso di reduce finirà per vaticinare tale verità-enigma, in una visione tutt’altro che contemplativa del vero.
Le onde del mare si frangevano sul muro in granito, screpolato e distrutto in più punti… dove si faceva più forte il sapore del mare, i palazzi colorati di rosa e di giallo mostravano alla forza del vento un antico splendore… di quella regione ricordo solo un deserto infinito…
Le scimmie ci fanno troppa pena… gridano come bambini disperati… Un pianto stridulo. Terrorizzante. Muoiono per il dolore… il passato tornava come una scure selvaggia a decapitare i sogni… compresi presto che con quell’incubo avrei dovuto convivere per tutta la vita… bevo quel sangue a lungo poi stacco le labbra ho paura che i ragazzi comprendano quello che mi sta accadendo… io non sono un vigliacco, scappo per amore… dal deserto dell’Angola si torna, non si torna da quello dell’anima. È anche questo la guerra; non poter disinnescare una bomba che si ha dentro.

Il figlio dagli occhi come quelli di Clara c’è, lasciato, ritrovato, lasciato di nuovo… gli vuole bene, lo va a trovare e rende più accettabile la follia. L’eredità è lì, in un pacchetto ben legato con le ultime notizie di un articolista del Granma, un pezzo di carne ben salato dal profumo dolciastro”. Emblematica oblazione: paradigma e lascito di dannazione o di reciprocità d’amore.

Patrizia Garofalo

settembre 2009

La presentazione del libro di Gordiano Lupi avverrà il 9 dicembre 2009 (ore 16.30) presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara con presentazione di Patrizia Garofalo. Sarà presente l’autore.