venerdì 16 ottobre 2009

MINIMA RIFLESSIONE SUL SUBLIME

Il sublime va forse ripensato a partire dalla sua duplice, intrinsecamente ambigua natura. Il sublime è, etimologicamente, ciò che sta sub limine, sotto la soglia, immediatamente al di sotto di un margine, di un confine, di un limite – per quanto in sé e per sé superiori, elevati, eccelsi –, verso cui la parola o il gesto, la forma o il colore, il suono o il silenzio si protendono quasi eroicamente, senza poterli mai raggiungere – quasi si trattasse di un eterno viaggio verso la linea dell’orizzonte, o magari di una tensione verso il limite inteso in senso fisico, verso la sottile ed illimitata curva astrale che separa la materia dall’antimateria, lo spazio dall’infinito, il tempo lineare dalla sua negazione o dalla sua interminabile regressione.

Sublimi sono il discorso, o il suono, o la forma che si innalzano, o cercano di innalzarsi, al di sopra di sé, pur restando – anzi forse proprio perché sono titanicamente ed eroicamente, come Prometeo inchiodato alla rupe, condannati a restare – sempre al di sotto dello spazio o del regno rarefatti, luminosi, innominabili, oscuri per eccesso di luce, che li sovrastano.

Né si deve credere che la scelta del prosaico, del reale, del concreto, o al limite dell’atroce, dell’orrido, addirittura dell’osceno, escluda di necessità il sublime. Già Baudelaire e Flaubert sapevano bene che al sublime d’en haut può affiancarsi, in modo solo apparentemente contraddittorio, un sublime d’en bas, che semplicemente alimenta ad una diversa, antitetica fonte una non dissimile aspirazione a trascendere, o a cercare di trascendere (non necessariamente in senso metafisico), i limiti della forma e dell’espressione – senza per questo vanificarle, annullarle, azzerarle, come l’avanguardia rischia a volte, forse nei suoi esiti e nelle sue applicazioni più meccaniche, manieristiche, direi manualistiche, di fare.

La poesia non può, a ben vedere, che essere – nel senso più lato, nella più vasta delle accezioni, nella più ampia raggiera di direzioni possibili – sublime, nel suo tendere oltre il segno, la superficie, la parola, oltre la scorza dello scontato, dello strumentale, dell’ordinario, anche a costo di addentrarsi nelle regioni deserte del silenzio.

Sublimi sono, poi (Subliminal Self li chiamavano, prima di Freud, certi psicologi inglesi), l’inconscio, il subconscio, l’Es, l’Autre, che nutrono, per quanto criticamente filtrati dalla soglia consapevole della riflessione e dell’espressione, l’avventura artistica.

In questo senso, sorprendentemente sublime non finisce forse per apparire, nel suo attraversare la Palus putredinis per poi uscirne recandone ancora addosso le luride tracce, nel suo invocare la «tenue Ellie», simbolo dell’inconscio junghiano (e dunque, forse, anche di una trascendenza e di un divino rimossi, forclusi, totemicamente “uccisi”?), nel suo necessario richiamarsi a tutta una tradizione – onnivora, compressa, sovraccarica – che non esclude lo stesso Medioevo latino, anche il Sanguineti di Laborintus?

Forse bisogna “tornare a Longino”: è lui, nel suo celebre trattato, a ricordarci che la fonte primaria del sublime è la phantasìa, la eidolopoiìa, l’ennóema ghennetikòn lógou, insomma il pensiero o il sogno generatori di parole, immagini, simboli, fantasmi.

Una definizione apparentemente tautologica, ma in realtà ancor oggi vivida, duttile, capace di cogliere il nucleo essenziale del processo che, attraverso la mediazione della coscienza critica e della consapevolezza stilistica, dà corpo infine all’espressione artistica.

E l’antisublime tante volte ostentato è, forse, simile all’antiaristotelismo della rivoluzione scientifica: rivolto cioè, consapevolmente o meno, non già contro il sublime autentico, quanto contro le sue manifestazioni storiche deteriori, accademiche, esteriormente ed ampollosamente retoriche (al di là del fatto che anche la retorica, anche il semplice, probo, scolastico esercizio stilistico e formale d’impronta classicistica, recavano in sé e con sé una loro dignità, una loro rilevanza storica e sociale, un loro rispettabilissimo "mestiere", che oggi si sono persi, non saprei dire quanto fortunatamente).

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