venerdì 3 marzo 2017

"L'uomo è nato simbolista". Colloquio con Paolo Ruffilli sulle poesie di Pasternak

 


Non ha bisogno di presentazioni, c’è il romanzo, c’è il film. Allora ci possiamo esimere facilmente dalla presentazione di Jurij Živago, uno dei personaggi piú amati della letteratura. Passiamo subito a queste Poesie che Pasternak attribuisce al suo personaggio. Si tratta di una maschera senza segreto, perché evidentemente sono testi di Pasternak, ma Pasternak crea un’interposta persona e non c’è l’ombra di alcun mistero. È una mediazione, e in un certo senso è una traduzione. Ed ecco la mediazione di una mediazione, o la traduzione di una traduzione: Paolo Ruffilli media e traduce queste Poesie. Il libro è La notte bianca. Le poesie di Živago (Biblioteca dei Leoni, Castelfranco Veneto 2016).

I versi di Pasternak riflettono una particolare spazialità, quella del paesaggio russo. Nel loro respiro, nel loro ritmo di parole e di immagini si sentono la vastità, il silenzio e l’immobilità delle foreste e delle steppe, la stasi millenaria della natura. Come ha cercato di rendere questa spazialità metrica, questa musicalità visiva nella sua traduzione?


R. Per immersione, per così dire, e non soltanto nel mondo di Parternak, visto che da alcuni anni sono appunto immerso nella dimensione della grande madre Russia attraverso la continua rilettura e la traduzione di Mandel’štam, dell’Achmatova, della Cvetaeva.

sabato 24 dicembre 2016

Elisabetta Brizio, "Senza intensità, nulla. L’assoluto di Massimo Sannelli"




Il punto di partenza di quest’opera potrebbe essere la conclusione, cioè gli Appunti su Rebis. Rebis è res-bis, una cosa doppia, l’androgino, un concetto dell’alchímia. Rebis è Sannelli stesso, e precisamente è il nome che ha dato al sé bambino, dopo la ‘reincarnazione’, benché questa parola non fosse la piú appropriata. La coscienza è defunta, i frammenti si compongono di nuovo dopo gli anni, ma non vanno a formare l’anima, bensí spazzatura mnestica che si rapprende. Ciò che caratterizza Rebis lo scrissi per Intendyo: «una prestazione intellettuale nettamente superiore alla media» (pagella scolastica, prima elementare) e una buona memoria in un corpo che tende a isolarsi e a prendere familiarità con la solitudine. A vivere proficuamente in disparte. L’essenziale, si dice nell’Assoluto, è non essere «troppo lirici quando si esalta la solitudine, e anche il silenzio».
Viene da sé la domanda: qual è in Massimo Sannelli il nesso tra una solitudine cercata e inevitabile, condizione ideale e condanna, e la continua ricerca di un pubblico, culmine del suo esercizio costante? Apparentemente la risposta è banale, anzi banalissima: Sannelli cerca un pubblico per sfuggire alla solitudine. Troppo banale, anche perché sappiamo che lui pone l’esistenza di un pubblico come condizione necessaria dell’esistenza dell’opera – e per contro, quasi superflua diviene la funzione del critico. In assenza di un pubblico non potrebbe esservi opera; anche di qui le sue riserve verso l’essere poeta, che resta una questione troppo privata. Ma l’interrogativo è questo: Sannelli, che detesta l’idea del senza-pubblico, ama davvero il suo pubblico? Non sappiamo, possiamo solo dedurre che ami i suoi allievi, questo indubbiamente sí. Nel libro incontriamo diversi riferimenti al vuoto, e per Sannelli il vuoto è essenzialmente, appunto, lo spazio senza pubblico e quindi senza vita. La vita è pericolosamente identificata con la produzione di arte, e la produzione di arte è identificata con il suo effetto. Scrivere per se stessi per lui non è concepibile: non abbiamo a che fare con un artista che tiene il libro nel cassetto, non è un mistico se non nella serietà del suo lavoro.

martedì 15 novembre 2016

Elisabetta Brizio, "Imbecille c'est moi"



 



(immagini di Massimo Sannelli, senza titolo)



C’è un momento nelle nostre vite in cui si incontrano delle resistenze, qualcosa che ci cambia sensibilmente. Forse non ce la siamo proprio cercata, tuttavia potrebbe essere l’occasione per il raggiungimento dell’autocoscienza, così da sollevarci dalla nostra innata condizione di imbecillità. Perché imbecilli lo siamo per natura, lo siamo e lo siamo stati un po’ tutti, tanto che Maurizio Ferraris non esita a parlare o a testimoniare in proprio, non risparmiandosi autoaccuse lungo il testo, replicando inoltre a obiezioni possibili, come qui, nelle righe conclusive del Prologo («Tu quoque trascendentale»): «‘e allora perché, malgrado tutte queste giudiziose considerazioni non si ferma qui, e vuole andare avanti per quattro capitoli e un epilogo?’. ‘A te la risposta, ipocrita lettore, mio simile (senza offesa) mio fratello’». Oppure più indietro: «quale intelligenza puoi vantare, quale autorità puoi invocare […] per dare dell’imbecille non solo a me, ma addirittura a delle moltitudini?». L’imbecillità è una cosa seria (Il Mulino, Bologna 2016) appare piuttosto un attestato di umiltà da parte di Ferraris, il titolo di questo libro comporta un certo rischio, la questione è spinosa,

mercoledì 21 settembre 2016

Elisabetta Brizio, "'Compos sui. Poesie nello stile del 1940' di Massimo Sannelli"




Io ti offro un esilio luminoso
oggi: una litania di undici colpi,
precisa, non la morte, e una sequenza
delicata, nessuna distruzione.
Questo è un esilio dolce, come il seno:
nella rete sei tu; sei prete e re,
e veramente hai lo scudo, hai lo stile,
hai Dio, non il suicidio, veramente.

È il penultimo dei componimenti raccolti sotto il titolo di Poesie nello stile del 1940, e-book di cui riporto la nota di chiusura: «Queste poesie sono state scritte dal 6 luglio al 7 agosto 2016. I testi sono in endecasillabi, decasillabi, novenari, settenari». Quello qui riprodotto è ovviamente in endecasillabi, come dice il secondo verso. Il testo non ha rime o vere e proprie assonanze, ha un’aggiunta iniziale (rete : prete) e una pseudorima (seno : distruzione), una specie di assonanza inversa, non so come altrimenti chiamarla. A ben guardare le assonanze ci sono, ma non sporgono canonicamente a fine verso, sono interne ai versi, e all’apparenza casuali (morte-distruzione-dolce; prete-veramente).
La tremenda vicinanza Dio-suicidio perturba e insieme trattiene qualcosa di sperante, benché si tratti solo di una rima per l’occhio (all’uguaglianza grafica non corrisponde l’uguaglianza dell’accento all’orecchio), come Io-esilio nel primo verso. Non sono rime vere e proprie, d’accordo, ma ugualmente richiami tematici e di senso, se l’io si dà un «esilio luminoso», se Dio scongiura il gesto suicidale. Il testo allora è abbastanza irregolare, dal punto di vista fonico, mentre è regolarissimo dal punto di vista metrico. Tornerò dopo sulla questione metrica.

domenica 3 luglio 2016

Giselda Pontesilli, "Su 'Fare di questo' di Carlo Bordini"



Come affiora dalla lettura sensibilissima e sommessa di Giselda Pontesilli, la poesia di Carlo Bordini sembra sorgere, e trarre alimento ed energia, precisamente da quell'"enorme secondarietà della letteratura" di cui parlava Amelia Rosselli, dalla "grandezza" e dalla "pazienza" infinite del nulla, del silenzio e del bianco su cui fluttuano e palpitano, diceva Beppe Salvia, le parole della poesia - Salvia che infine gettò nel bianco abisso di quel nulla anche la propria voce e la propria vita.
Ma sono - dicono o suggeriscono i versi di Bordini - la vita stessa, l'arte stessa, l' antica e profonda energia che dà corpo, trasfondendovisi, alle manifestazioni e ai monumenti della civiltà, a prendere forma, in fondo, proprio dallo scarto, dal detrito, dalla reliquia, da ciò che sopravvive dopo la combustione della forza vitale e creatrice che si estenua'e si spegne per rinnovarsi, come una fenice, ad ogni svolta di un'eterna anaciclosi.
Anche la morte, la sofferenza, il sacrificio - anche la crudeltà e la distruzione di cui inconsapevolemente ci rendiamo artefici e colpevoli - trovano, nell'economia di questo grande opificium mundi, un proprio ruolo, una propria significazione, se non una giustificazione.
Ma questa lucida consapevolezza, ripetto a cui il lirismo non è evasione o nascondimento, ma presa spietata di coscienza, potrà un giorno essere trasfigurata e rendenta in un'innocenza sapiente, nell'infanzia ritrovata e antichissima del puer aeternus.
Sapienziale candore, scavata e stratificata trasparenza, mistero in piena luce, questi, che si riflettono anche nella lingua e nello stile, tanto più evocativi, profondi, altamente risonanti e rivelatori - quasi, si direbbe, folgorati e stupiti da se stessi - proprio nel momento in cui paiono avvicinarsi alla prosa del quotidiano, all'umana affabilità della conversazione. 

                                                                     (M. V.)  



La poesia "Fare di questo" è, primariamente , demistificatrice, poiché   -non a parole-  ci fa coscienti di un fatto che sapevamo già: per sentire, per esperienza; ma solo ora, solo così tardi, lo comprendiamo davvero:
non è vero  -ci dice, non a parole-  non è vero che solo alcuni misteriosi uomini (non io, mai io) compiono omicidi; io = omicida : ecce homo.

Non a parole lo dice,  poiché «quando si è capito veramente qualcosa dirlo è un atto puramente narcisistico»1  (di qui, «l'enorme secondarietà della letteratura»2); e dunque, non a parole, non per narcisismo, la poesia mi dice che io = omicida.

E aggiunge: «Questo è un fatto molto importante» ; ecco, non dice:  «Questo è tremendo, atroce, orrendo», ma solo, "innocuamente": «Questo è un fatto molto importante»; e più oltre, narrandoci  del rapporto con S.,  chiama «l'impulso [...]di ucciderla» semplicemente, temerariamente, tra parentesi « (puro istinto, vero, grande istinto) ».
In tal modo, la poesia non è solo demistificatrice, ma insieme -se mai possibile- consolatrice (se mai possibile), poiché non ci condanna: constata, accerta, rende testimonianza.
Il primo omicidio che constata è quello di  Bione, un cane che portato in campagna, abbandonato, cioè «ucciso interiormente», «impazzì»: