venerdì 5 luglio 2013

ALLA RICERCA DELL'ANTICA MADRE. MONOGENESI, DIASPORA E CONTAMINAZIONE DELLE LINGUE

(articolo apparso su "Trickster", 2010, n. 8, rivista elettronica dell'Università di Padova momentaneamente non più in linea)




(La dea Hathor, o Hethert, sormontata da una figurazione solare già presente nella pittura rupestre sahariana d'età preistorica)


La disperazione dell'etimologista

In una pagina finissima ed ariosa dello Zibaldone, Leopardi si soffermava parlando, certo, anche per esperienza personale, lui assiduo indagatore di catene etimologiche e arcane risonanze ‒ sulla "disperazione dell'etimologista", teso alla ricerca, spesso vana, degli archetipi comuni ed essenziali ‒ dei prima nomina, dei simplicissima signa, come li chiamava il pensiero medievale ‒ sottesi, più o meno in profondità, a tutti i diversi idiomi, eppure frantumati e dispersi, spesso, in mille intorti indistricabili rivoli.
Questo vale, per certi aspetti, ancor oggi, sebbene, a distanza di quasi un secolo dalle pionieristiche ed eruditissime teorie di un Alfredo Trombetti o di un Graziadio Isaia Ascoli (che davano, in qualche modo, consistenza storica, filologica, etimologica, alla lingua naturale di Leibniz o alla innere Sprachform, alla interiore, sovraindividuale, e dunque tendenziamente intersoggettiva forma a priori di ogni espressione linguistica, teorizzata da Humboldt), i lavori, pur controversi, di un Greenberg o di un Ruhlen, di un Semerano o di un Bernal, di un Bomhard o di un Alinei, abbiano conferito all'ipotesi, in senso lato, di una possibile monogenesi, di una possibile comune matrice ancestrale di tutti i ceppi, di tutti i phyla linguistici, una maggior fondatezza e una più solida verosimiglianza.
Stando alle teorie genetiche di Cavalli-Sforza recepite da Alinei (1996: 417), l'homo loquens sarebbe emerso per la prima volta in Africa, circa centomila anni fa; e quasi subito avrebbe iniziato a manifestarsi la "diaspora africana" delle lingue, la differenziazione degli idiomi a partire da comuni archetipi, Ur-Simboli, universali linguistici.
È stato uno psichiatra italiano attento alla linguistica e alla filosofia del linguaggio, Tullio Rizzini (1999), a mettere in luce, in un suo prezioso lavoro, molti di questi primordiali ed universali valori fonosimbolici (che hanno però, preciserei io, un carattere non solo onomatopeico e mimetico, ma anche conoscitivo, essenziale, onto-gnoseologico, ancorato al pensiero astratto e all'intuizione della trascendenza): i quali sembrano affiorare, nela loro intensità originaria, nella loro forza aurorale e unigenita, proprio dalle frenetiche ed abrupte associazioni verbali degli alienati psichici, dalla alienatio mentis che è propria del mistico e dello sciamano come dell'esaltato e del folle, per poi riapparire, in forma filtrata, formalmente sorvegliata, storicamente e culturalmente consapevole, nella lingua del poeta ‒ che è essa stessa, insegnava Petrarca, alieniloquium, lingua altra, distinta e libera e più pura di quella, reificata, standardizzata, appiattita, del linguaggio comune, come dei gerghi tecnici. Alieniloquium, alienatio, discorso dell'Altro: Ça parle, direbbe Lacan, l'alterità si rivela nel linguaggio, in forma ora inconsapevole, ora filtrata e illuminata. Il fondo comune, la comune matrice della lingua è proprio questa alterità, questo Autre, quasi mistico totaliter Aliud. È, forse, proprio nel linguaggio degli alienati che parla o riaffiora, senza più i freni della civilizzazione, il linguaggio universale, e in parte prerazionale, delle origini.
E siffatta alterità, a cui tutte le lingue paiono risalire per fondersi in una come le tre religioni del Libro lungo il "sentiero di Isaia", verso il tempio di Abramo, è precisamente spazio dell'alterità, della differenza (o della différance, direbbe Derrida), dentro il quale il Sé può percepire se stesso come altro, e l'altro come altro se stesso, proprio nella lingua, a partire dalla lingua e tornando ad essa, risalendo alle radici, agli archetipi ‒ alle Idee-Madri, aux sources du poème, per usare, ancora una volta, le immagini e le parole dei poeti.
Vaste e talora aspre reazioni (su tutte quella, autorevole ma un poco anacronistica, ancora legata ai presupposti sostanzialmente eurocentrici dell'umanesimo tradizionale, del Kristeller) ha suscitato la tesi (tacciata di afrocentrismo) di Martin Bernal, il quale, nel suo Black Athena (Bernal: 1996), sostiene e documenta la derivazione egizia, e dunque afroasiatica, di molte delle parole chiave della civiltà greca: così psyché, nel senso etimologico di "soffio vitale", verrebbe da radici egizie (sw, swyk) connesse variamente ai campi semantici della luce e del vuoto, dell'ombra e del vento (anima come fluido vitale, ma anche come luce interiore e vuoto risonante); nymphai da nfr, nefer, "bello"; hýbris, "colpa", "tracotanza" ("peccato originale" nel greco cristiano) da una radice egizia di analogo significato; mŷthos da mwdw ntr, "parole sacre", "discorso divino"; la stessa dea Atena deriverebbe il suo nome da quello di Neit (Nt Ht, "altare di Neit"), corrispondente alla dea Sais, a cui del resto già Platone faceva rimontare il culto di Atena. L'elenco delle evidenze suggerite da Bernal (che non cita Semerano, ma giunge autonomamente, e significativamente, a conclusioni affini) potrebbe allungarsi.
Ma, paradossalmente, il presunto e controverso afrocentrismo di Bernal sarebbe potuto essere ancora più deciso e radicale. La dea Neit era, infatti, affine alla divinità libico-berbera Tanit, venerata a Cartagine, il cui culto fu ripreso, in età romana, nella forma della Dea Caelestis (non per nulla Apuleio, fiero di essere africano, e conscio delle radici africane della civiltà classica, evocherà, nei Florida, la «Africae Musa Caelestis»). L'etrusco Tages, il fanciullo sorto dalle zolle per portare la sua rivelazione, e il mesopotamico Tammuz possono rimontare ad un'origine non diversa.
Ed è qui che iniziano ad emergere le proto-radici euro-afro-asiatiche (proto-mande, proto-bantu e proto-indoeuropee) che stanno alla base del mondo classico, e dunque della nostra stessa identità europea.
Ank era, in egizio, l'essenza della vita e dell'umano; e ant è, nel sostrato proto-africano (l'oscillazione labio-velare k/t è plausibile nella fonetica indoeuropea), ciò che è umano; Muntu è, nell'ontologia bantu, cardine del pensiero africano, la forza vitale che permea il creato, che avvolge e congiunge gli esseri (Tempels, 1971; Kagame, 1976). Da queste radici discende, forse, Anthropos; e la medesima radice ank/ant troviamo forse, senza aspirazione, in Anteo e in Atlante, Antâios ed Atlas, le cui figure rinviano proprio alla matrice oscura e primordiale di una forza vitale che sorgeva e ascendeva dal sud del Mediterraneo, dal mondo ancora indistintamente percepito dei Libii e degli Etiopi.
Tanit/Neit è dea celeste, eppure incarnazione della Magna Mater, della Antiqua Mater, di Tellus, della Madre Terra venerata negli antichi culti matriarcali. E Anthropos, l'Uomo primigenio, l'Ur-Mensch, è precisamente copula mundi, crocevia di Cielo e Terra, di eternità e storia, attraversato da quella axis mundi (si pensi al mito dei Gigantes che danno la scalata al cielo, ma anche al mito babelico, riconducibile proprio all'origine della diaspora delle lingue) che egli stesso incarna e realizza.
L'archetipo fonosimbolico della dentale (si pensi anche alla radice egizia jta, che troverà forse eco nell'ebraico 'adamah) sembra rinviare all'idea di stabilità, sostegno, resistenza, durezza, fondamento ‒ mentre la liquida l è principio di fluidità vitale, fecondo umore, liquidità amniotica. Attraverso l'axis mundi, e intorno ad esso, Cielo e Terra, maschile e femminile, vita e morte, sembrano intrecciarsi e fondersi.

Archetipi ideofonici e fonosimbolici

Quanto vasta ed universale sia la portata di questi valori e significati ancestrali è confermato dal fatto che essi paiono riaffiorare addirittura nei culti precolombiani: Tlaloc è il dio della pioggia, Omoteotl, il dio supremo, che pare unire, nel divino (teo), duplicità e unità (omo), Mictlan il mondo sotterrenaeo, infero, la dimora delle ombre. Tornando ad Ank, la radice si trova, forse, pure in Anánke, destino, condizione umana. La dentale (esito o meno della labio-velare), segno archetipico del fondamento, si fonde con la m, emblema della permanenza, della durata, dell'invarianza essenziale, del principio spirituale perenne (il manitu amerindio come il mana australasico, suggeriva Giovanni Semerano, come, forse, i Manes latini, antenati con la loro imperitura eredità, ma anche il sanscrito manas e il greco menos, "mente", "intelletto", capaci di afferrare i modelli eterni, le idee primordiali che dimorano in un cielo superiore, il menok dello zoroastrismo), nella radice dell'egizio Ma'at, personificazione divina dell'armonia e dell'ordinie cosmici e del fondamento primo del tutto: donde una lunga serie di figliazioni e di consonanze, dall'archetipo indoeuropeo matar/metér/mater (ove sembra affiorare anche il tema ama, legato all'idea dell'abbraccio, del vincolo avvolgente, del nesso vitale, dell'essere-insieme, della Cura) al concetto della misura, métron/metior, a quello di materia e matrice.
Quando Virgilio (Eneide, III, vv. 94 sgg.) scrive: «Quae vos a stirpe parentum / prima tulit tellus, eadem (...) accipiet reduces. Antiquam exquirite matrem», evocando grandiosamente l'idea del ciclico ritorno all'origine, nel contempo richiama (attraverso i mots sous les mots, le parole celate "sotto le parole", sondati da Saussure e da Starobinski) gli archetipi e gli Ur-Simboli che siamo venuti rivelando.
Una simile atmosfera, un non diverso, per così dire, clima fonosimbolico si incontrano nei versi del quarto libro dell'Eneide (vv. 480-483) che ruotano intorno all'Africa, crocevia dell'axis mundi, culla del primordiale vincolo cosmico: «Ultimus Aethiopum locus est, ubi maximus Atlas / axem umero torquet stellis ardentibus aptus». Aethiopes rinvia del resto, di per sé, ancora a Neit/Tanit, ma forse anche ad Hathor/Hethert, la Venere egizia, dea dell'amore, della fecondità e della vita: divinità forse etimologizzabile (attraverso il greco) identificandola con una ipotetica latina Aedes Aetheris ‒ altare della sostanza celeste, fucina ultima e suprema dell'universonon senza un richiamo ad âithos, calore, il fuoco del desiderio e della vita. All'idea di Muntu/Ank/Maat come ordine cosmico possono rinviare anche le divinità etrusche Munth (forse alla base del latino mundus, "universo ordinato" come sostantivo, "puro" o "perfetto" come aggettivo) e Vanth, misteriosa ed inquietante dea infera, tramite tra il regno dei vivi e quello dei defunti, fra il mondo superiore e le profondità della terra. Anche l'Etrusco, d'altro canto, affiorò forse da un comune sostrato nostratico, esteso anche all'Africa.
Maat, del resto, è Madre-Morte (egizio mwt, forme affini in ebraico ed arabo). Ma, come un'antica etimologia di Ánthropos suggerisce, l'uomo incarnando in qualche modo la columna universi è il solo essere vivente in grado di alzare lo sguardo dalla terra al cielo. E, appunto, ancora dall'Africa sembrano essere giunti al mondo indoeuropeo la giustapposizione, e il primigenio connubio, di Terra e Cielo, Gaia e Ouranos: nella mitologia degli Yoruba, la coppia Orun-Aja abbina il Tutto (Olun), il Signore celeste (indicato anche come Olodumare) e Aja, principio femminile, spirito dell'aria, aura fecondatrice (-Aja è, nelle proto-etimologie universali, l'indicatore del principio femminile, intriso di apertura, di abbraccio e di luce). Aithér sembra celare un richiamo alle radici proto-africane -he, da cui lo swahili hewa, e tej, "porre", "luogo" (cfr. il greco títhemi). Gaia è Ge (altra radice egizia indicante la Terra) più Aja, durezza labiovelare del fondamento e apertura alata del femminile; Orun è forse l'egizio Horus, dio dell'origine, del cielo, del sole, dell'eterno ritorno (si pensi all'archetipo dell'ouroboros ma anche alle horae, Horai, che si susseguono e tornano ciclicamente su se stesse, come pure alla radice stessa di origo, orior, dell'originarsi e del sorgere); Orisha sono, nel sistema della teologia Yoruba, gli spiriti intermedi attraverso cui Olodumare/Olorun interagisce con il mondo inferiore. La coppia archetipo, lo sposalizio primigenio, cosmogonico, di Ouranós e Gâia, trova in Geb-Aja e Olorun il suo verosimile ascendente. A chi obiettasse che questi ed altri raffronti da me addotti ignorano, spesso, la distinzione fra vocale lunga e breve, e la presenza o meno di aspirazione, si potrebbe controbattere che gli archetipi linguistico-ontologici emergono a livello di strutture profonde, e dunque non di suono, ma di fonema, di realtà psicologica ed ontologica appunto, non di concreta estrinsecazione articolatoria e fonatoria.
Dio, in tutte le culture, è luce: luce, dice il Corano, che «non è d'Oriente o d'Occidente». E la luce è un altro archetipo (etimologico, semantico, fonosimbolico) verso il quale paiono convergere le lingue del mondo. El e Ra (l'alternanza fra le semivocali l ed r, fra rotacismo e labdacismo, è fenomeno fonetico assai diffuso) paiono connotare l'apparire primo della luce e della vita: vedico Sunya, greco Helios, da una forma *saewel che ha da un lato antecedenti afroasiatici (Matasovic, 2009), dall'altro risonanze vastissime, fino alla dea celeste del pantheon giapponese, Amaterasu, che con la giustapposizione di radici monosillabiche evoca, ad un tempo, sulla scorta degli archetipi che abbiamo individuato, la maternità, l'armonia cosmica, la luce che vivifica. L/r, El e Ra: il fonosimbolo o fonosemema della luce, della vibrazione luminosa e vitale che pulsa e trema all'unisono con l'occhio della visione intellettuale e spirituale. Ma ruah è, in aramaico, spirito, anima, soffio vitale; rhêin, in greco, è scorrere, fluire (rhythmós, rhysmós, ipotizzava il Benveniste, ritmo vitale e flusso universale, è il flusso stesso della vita, del pensiero, della parola, che torna ciclicamente e ricorsivamente, con eterna vicissitudine, su se stesso).
Ra, ma anche Horus, spirito onniveggente, onniavvolgente fluire della vita, sembrano incarnare in sé, a loro volta, questa primordiale potenza. R e T, fluidità circolare della vita che scorre e torna su se stessa e durezza e profondità del fondamento, sembrano unirsi nel sanscrito, e avestico, rta/asa/arta (da confrontare forse con l'idea greco-latina di ars e Armonía, intese come equilibrio, limpidezza, dominio della forma sulla materia), principio ontologico e spirituale che si declina e si sdoppia in Luce e Tenebre, in Ushas (Eos, Aurora, Ausosa) e Ratri (ma, al fondo di tutto, risuona ancora l'eco universale di Ma'at che è anche máthos, conoscenza dell'essere che trova nella parola la sua luce).
Giovanni Semerano ha mostrato i sottili, arcani, ma proprio per questo fondanti, nessi che associano come divinità della vita, del sole, della luce, del nettare immortale Elohim, JHWH, Zeus e Dioniso (riconducibili, gli ultimi due, e l'ultimo, in particolare, nella forma micenea Diwonusojo) a dios, luminoso. Semerano elucidò brillantemente il vincolo che unisce JHWH ed Allah (forse a partire dal mesopotamico Ilu, e passando attraverso una forma babilonese Ya(h)wi-ila) e l'egiziano jahw-, splendore (Semerano, 2000: 138 sgg.).
Che il Divino sia una sostanza inconoscibile la quale, nei secoli e nelle culture, ha assunto maschere ed ipostasi diverse, mantenendo immutato però il suo nucleo semantico fondamentale, la sua ratio seminalis variamente effusasi, inizia ad apparire non solo una verità teologica e un'intuizione filosofica, ma un dato storico e linguistico.

I segni ardenti dell'essere

Ma, com'è noto, Dio è ehjeh aser ehjeh, "Sono colui che sono" o "che è" (eimì tò ón traduce la Bibbia dei Settanta). Nella realtà, come nel pensiero e nel linguaggio, ai fenomeni sembra essere sotteso il substratum dell'Essere che tutto precede, e rende possibile e conoscibile. È difficile stabilire se il linguaggio e la conoscenza nascano dall'essenza o dall'esistenza, dai fenomeni o dal sostrato ontologico (e dall'innata idea di quel sostrato) che li fa essere e li fa "venire alla luce" del mondo e del pensiero.
Come intuì il Trombetti, una forma pronominale es pare tendere a rappresentare, nelle più diverse famiglie linguistiche, la radice etimologica dell'Essere (Romaniello, 2004: 12-13). Essa affiora addirittura nel cinese zhen, "essere" e "verità" (Chang, 1988: 24). Da Parmenide a Gadamer sappiamo, del resto, che l'essere e il pensiero proprio nel linguaggio si rivelano, e trovano luce e respiro. Ma s è la consonante (invero lievissima, come un esile soffio) del silenzio ‒ sighé, siopé, silentium fino al giapponese Chinmoku.
Ebraico Shem, arabo ism, forse da una comune radice egizia jmn (Amon, jmn-m, è il dio dal nome celato, dal volto nascosto: cfr. forse il greco mystés, mystérion, che Semerano associa invece alla radice semitica indicante la Notte), è il Nome Divino; e l'egizio sga, sgr è il Silenzio, di cui Osiride è signore (arabo sukotu, ebraico Shabat, il silenzio contemplativo). La forma sino-nipponica per indicare il Divino, shen (da un più antico *djen o *zdjiien, che parrebbe coincidere ancora con l'archetipo proto-indoeuropeo dell'Essere e della Divinità, *es e *dj) suona, nella sua «voce di silenzio sottile», come dice la Bibbia nel Libro dei Re, sorprendentemente affine. Il nome di Dio e la voce dell'Essere sembrano di per sé avvolti dalla più alta quiete, dal silenzio e dalla pace del mistero.
Chen, o zhen, in sino-giapponese, è sia pensiero e meditazione che essere e verità (sanscrito dhyana, catena progressiva e ascendente di stati coscienziali e meditativi, a cui ricondurre forse il greco theáomai, vedere, e forse anche semêion, segno): la verità, l'essere come segni cui venire incontro con l'appercezione contemplativa e, insieme, lo scavo etimologico.
Ka è, in egizio come in sanscrito, anima, essenza spirituale, principio vitale; nelle proto-radici della lingua primordiale indagata da Merrit Ruhlen, come nella proto-lingua paleolitica, tale radice labio-velare k/t indica il pronome interrogativo-indefinito (mentre il tóde tí è, nel linguaggio filosofico greco, l'essenza e il concetto).
Ma ka è anche, in egizio e in proto-bantu (ovvero in una lingua prossima a quella dell'homo loquens originario), il fuoco (greco káio, ardo), lo spirito e la forza vitali intesi come principio igneo (Somo, 2008) il "fuoco artefice", se si vuole, l'ignis artifex, delle cosmologie stoiche. Essenza vitale celata in se stessa, dunque, fuoco che compie e nasconde il proprio stesso alimento (come il roveto ardente dell'Esodo, che brucia senza consumarsi).
Nel pensiero cinese (nelle radici monosillabiche che ne costituiscono le essenze ideografiche, eidetiche, e fonosimboliche), la condizione umana, ren, è, anche ideograficamente, nella sua sostanza fluida e diveniente di levità e di luce, crocevia di terra (di de, ma anche ma, madre, come la Mater Tellus mediterranaea) e cielo, tien, già accostato all'indoeuropeo dyaus, il cui duplice e concorde equilibrio, emerso dall'hundun, dal caos primordiale (si pensi al Caos-Vuoto, al kainón-Cháos, dei Greci), è garantito dal compimento, dall'autenticità (ch'eng, affine allo Schem-Sighé, al Nome-Silenzio del pensiero afroasiatico e indoeuropeo), dal ming (comprensione del "mandato celeste": mana, mathos, mens), culmine del ts'an, triade di uomo, terra e cielo (Confucio, Il giusto mezzo, XXII). «Se non si conoscono i decreti del cielo, non si è signore. Se non si conosce la parola, non si conosce l'uomo» (Confucio, Dialoghi, XX).
Lingue che parrebbero, e in parte sono, remotissime a livello di fenotesto, si rivelano invece prossime, nei loro elementi essenziali, se guardate in profondità, risalendo (o discendendo) verso il genotesto originario. La struttura superficiale dissimula spesso quella profonda; la verità ama nascondersi. Analogamente, le razze (o per meglio dire i tipi umani) differiscono più nel fenotipo (ovvero in caratteri accidentali, condizionati da fattori esterni, contingenti, ambientali) che nel genotipo, prossimo e riconducibile ad una comune origine, ad una common ancestry.
L'affinità fra il linguaggio del DNA e quello verbale merita di essere guardata più da vicino. In entrambi i linguaggi, ai legami covalenti (quelli fra le lettere e le sillabe che si uniscono a formare le parole) si affiancano, più duttili e cangianti, quelli non covalenti, che uniscono le parole a formare le proposizioni. Ma, nel linguaggio verbale, il margine di non covalenza, di possibile fluttuazione e intercambiabilità, sembra poter essere più vasto, estendendosi a minime radici, a lessemi essenziali, al limite monosillabici o anche monogrammatici, eppure portatori di significati e valori universali e fondanti agli stoichêia, come li chiamava Aristotele nella Poetica, o ai fonemi, intesi come realtà mentali, psicologiche, intellettuali, interiori, al limite ontologico-metafisiche, distinti dai suoni intesi come realtà fisiche allo sphota, invariante e puro, dicevano i grammatici indiani, distinto dal dhvani, sua manifestazione esteriore (Uguzzoni, 1978: 1-2). Come nei nucleotidi del DNA, poi, così nei fonemi, nei lessemi e nei semantemi del linguaggio verbale il silenzio, il vuoto, l'approssimazione e la distinzione per oscuramento e dileguo, per presenza/assenza, paiono essere altrettanto importanti, e portatori di significato, quanto i messaggi espliciti (Sungchul, 1999).
Anche a livello cosmologico, l'universo sembra espandersi consumando energia per produrre informazione, contrastando così la deriva entropica: ed entropia è, nella fisica come nella teoria dell'informazione, ridondanza, dispersione, deriva verso il nulla, che la vita, per poter durare, deve contrastare.
Alcune delle teorie più recenti (Bogdanov, 2008) paiono essersi spinte oltre il "muro di Planck", prima della soglia del t=0, del principio del tempo prima del quale (come intuiva già Agostino) non esisteva universo, né tempo prima dell'universo, e aver gettato uno sguardo nella "schiuma quantica", sull'indistinto, e al limite "immaginario", "caos di possibili" che precedette la singolarità iniziale, il primo, ma già programmato, e gravido di progettualità e di sviluppi futuri, emergere di un tutto ordinato, teso all'espansione e al futuro.
E, certo, un amplissimo margine di oscillazione quantica, di probabilistica indeterminatezza, è presente nel linguaggio (basti pensare agli accidenti, alle oscillazioni e alle incertezze dei mutamenti fonetici, o a fenomeni come quello dello schwa, del suono laringale etimologicamente un "nulla", un "soffio", un "silenzio" che può restare latente e muto oppure generare un "grado zero a vocale breve" che distingue e determina una funzione morfo-sintattica).
Eppure, proprio da quella schiuma quantica, da quell'indistinto caos di singolarità originarie e di possibili cronotopi emerse muovendo dall'informe alla forma, o meglio alla molteplicità, virtualmente infinita, delle forme l'Altro che si rivela nella Parola, e che si declina e riflette nel risonante e dialogante dedalo delle identità, e delle alterità, possibili.

Le radici oscure dell'Europa

Le Supplici di Eschilo tragedia, si potrebbe dire, del rovesciamento del matriarcato arcaico, del trionfo del principio maschile tanto nella figura del persecutore, quanto in quella del salvatore mostrano, come nota già Bernal, la coscienza, talora confusa ed inquietante, ma radicata e profonda, che la grecità ebbe delle sue radici afro-egiziane. Le Supplici, nigrae sed formosae come la Sposa del Cantico dei Cantici, per legge tragica, torneranno alla terra, al fondo materno, indistinto e accogliente, del principio, siano essi quelli della loro origine Argiva perdurante oltre il colore della pelle, brunita dal sole dell'Egitto o quelli, sotterranei, del mondo dei morti, da raggiungere offrendo se stesse in olocausto. L'elióktypon ghénos, la stirpe segnata dal sole, raggiungerà tòn gáion Zéna, il sotterraneo Zeus e l'associazione dei suoni, ghénos-gáion, evoca ancora una volta Geb-Tjo, la Terra Madre. «Sull'orma antica della madre», le Supplici tornano, in quanto figlie del Dio, alla terra che, seppur lontana, è anche la loro. « Gá má Gá, / (...) O pá, Gás pâi, Zêu»: «O Madre Terra, Madre Terra, / O padre, figlio della Terra, Dio».
Come l'uomo torna all'origine, così il linguaggio torna al suo originario, quasi infantile, monosillabico ed ecolalico, balbettio, alle universali proto-radici (come pu, denotante la cavità uterina, la scaturigine profonda della vita, e insieme la potenza che ne sgorga). È in nome di un disarmato linguaggio parlato dall'Altro, abbandonato e riprecipitato nella sua schiuma primordiale, che l'alterità chiede di essere riconosciuta ed accolta come tale, ma nel contempo come identità.
Dall'età arcaica a quella classica, dalla Teogonia di Esiodo alle Fenicie di Euripide, la grecità si misurò con il suo fondo arcaico primordiale, con le sue remote e quasi arcane radici afrosemitiche. Alle "radici della Terra", intorno a cui si raccolgono i Titani, troneggia sulle acque Stige, "spirito delle correnti" secondo l'etimo semitico, figlia di Oceano apsórroos, «che in sé rifluisce», e che, anch'essa ipostasi dell'axis mundi, tocca il cielo ergendosi su colonne d'argento. E la Timé, il supremo principio che scandisce l'ordine del cosmo esiodeo, deriva anch'essa, secondo Bernal, da Ma'at.
Nelle Fenicie, il Sole, Helios, si avvolge nelle spire del suo stesso moto, «solcando la via fra gli astri del cielo», en ástrois ouranoû témnon odón (dove l'archetipo mediterraneo di Astarte Grande Madre si congiunge, fonicamente, con la ricorsività universale di Horus/Orun, la ripartizione di Ma'at/Timé e il fonosimbolo di phlóga, flamma, fulgor, parvenza cangiante della luce vitale, bagliore e insieme flusso, calore, florida tumescenza, dantesco «lume in forma di rivera / fluvido di fulgore»). Il coro delle Fenicie invoca anche la pótnia Ekáte, dea semitica della maternità: pot è radice indoeuropea per possibilità, potenza, regalità, mentre po Tolo è, nella cosmologia Dogon, l'atomo primordiale, il costituente primo della vita e dell'energia, e Ptah, pth, è per gli Egizi il dio creatore.
Insomma le comuni, remotissime origini del cosmo e della vita sembrano avvolgersi (come Oceano nei suoi gorghi e Astarte nelle sue orbite) entro i velami di un'alterità insondabile, intorno a cui si stende un sacro silenzio. Ma proprio quell'apertura, quel vuoto, quella radura (Cháos nel senso etimologico) può essere, oggi, spazio per un dialogo, nella luce oscura dell'Altro.
Le "radici dell'Europa", classico-cristiane più da vicino, remotamente afroasiatiche, universali infine, sono, qualora si spinga lo sguardo il più possibile lontano, fino alle soglie dell'ultimo orizzonte, letteralmente "oscure". Europa (punto, questo, su cui concordano, l'uno indipendententemente dall'altro, Bernal e Semerano) da Érebos, e quest'ultimo da un semitico erebu, tenebre, oscurità, terra del tramonto (eres è, del resto, il termine pansemitico per "terra"). Ed hermenêia, interpretazione, deriverebbe dalla radice indicante la penetrazione, la profondità, lo scavo che valica la superficie dei fenomeni. Oscura, avvolta dalle tenebre, è l'Ur-Heimat, la patria originaria e primordiale. In quel fondo ancora indistinto possono riconoscersi, e smarrirsi, specchiate nella loro identità/alterità, le tradizioni e le culture, ricondotte all'umiltà di fronte al mistero, accomunate dallo stupore silenzioso di un miracolo umano.
«Basta ascoltare la poesia (...) perché si faccia sentire una polifonia, e ogni discorso si mostri allineato sui diversi righi di una partitura. (...) Ecco il lampo che fa sorgere da una notte innumerabile questa lenta mutazione dell'essere nell'En panta del linguaggio» (Lacan, 2007: 498-499).


BIBLIOGRAFIA

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Trombetti, A. (1962), L'unità d'origine del linguaggio (1905), Civitas Dei, Bologna.
Uguzzoni, A. (1978), La fonologia, Zanichelli, Bologna.

giovedì 13 giugno 2013

"In humanitatem spiritus". In margine ad un libro di Maurizio Malaguti

Ripubblico qui un mio scritto già apparso sulla rivista elettronica "Diapsàlmata", ora, almeno temporaneamente, non più accessibile.

Si potrebbe davvero dire, per citare Dante, assai caro all'autore, che In humanitatem spiritus di Maurizio Malaguti (I Martedì, Bologna 2005) è un libro «al quale ha posto mano e cielo e terra». Queste pagine sembrano fondere l'immediatezza esperienziale di chi vive nell'essere con le alte speculazioni intorno all'Essere supremo, alla superessentialis divinitas come dice l'Areopagita.
In humanitatem spiritus: c'è, in quell'accusativo, tutta la tensione di un andare-verso, di un farsi incontro all'Essere nella misura in cui esso stesso, pur se velato, larvato, absconditum, si fa incontro a noi; non tanto un esser-ci inteso come gettatezza, deiezione, alienazione, differenza ontologica, quanto come possibilità di incontro, di pienezza, di illuminazione, pur nell'abisso del totalmente Altro, del totaliter Aliud.
Chi legga il libro en poète può essere sedotto dall'immagine simbolista del «visible et serein souffle artficiel / De l'inspiration, qui regagne le ciel». Anche quel souffle, benché filtrato dall'ars, dall'artificium, è in humanitatem spiritus: se l'uomo è imago Dei, prole celeste (e lo diceva già Cleante nell'Inno a Zeus - Zeus già identificato con il Logos), allora egli trova davvero se stesso solo nel regno celeste, e la sua essenza è Parola, voce, canto, respiro interiore.
E l'uomo stesso, e insieme la parola poetica, sono “Trinità riflessa", come diceva Agostino, o, per usare la metafora cui ricorre Malaguti, inspirazione ed espirazione (la poesia "cristallo di respiro", diceva Celan), palpito uno e duplice che giustappone ed unisce il Sé come sé e il Sé come altro, l'individualità come soggetto di conoscenza e di coscienza e l'individualità stessa come estroflesso oggetto, anche enigmatico, come quaestio che l'uomo pone a se stesso, anzi che egli è, ineludibilmente, a se stesso; e fra l'uno e l'altro movimento, fra la sistole e la diastole, corre, fiamma sottile, il soffio del Pneuma, dello Spirito, come fuoco e calore intellettuale che fluisce ed anima.
Quella del respiro ‒ della biblica ruah ‒ è una delle più rilevanti metafore speculative a cui l'autore fa ricorso. «Inspirium ed espirium si alternano in successione continua. (...) In modo diverso e più alto, c'è nell'essere un alterno raggiare che pone il novum e lo richiama alla origine». Ogni singolo atto conoscitivo ha le proprie radici nell'origine, nella primalità, nell'eterno, nel Principio ‒ in quell'Arché in cui dimorava il Logos.
Malaguti rilegge l'eterno ritorno di Nietzsche non come ossessione paralizzante, come fonte di angoscia, come anello da infrangere o serpe a cui schiacciare la testa, ma come apertura del Chronos all'Aevum (o meglio alla molteplicità degli aeva), della temporalità a ciò che sta al di sopra del tempo eppure lo fonda, e nel tempo, a tratti, balena, trapela, percola, negli istanti epifanici dell'intuizione metafisica, in cui si fondono credere e comprendere, fede e ragione.
Ogni forma, ogni esistente, ogni linguaggio non scaturiscono dall'assoluto nulla. Vi è una Verità antecedente, anteriore, che a tutto conferisce sostanza, ordine, scopo.
Quel Principio pare dimorare nel silenzio, nell'assoluto nulla. «Siamo una flebile voce al confine estremo dell'esistenza», creature fragili, sospese sorti, quasi-nulla.
Eppure, come l'autore osserva citando Dante, dall'eternità fuori del tempo «s'aperse in nuovi fior l'eterno amore». L'uno si esplica, si effonde, manifestandosi, ma senza dissiparsi e disperdersi, nel molteplice; e, per converso, il volto sfaccettato dell'esistente, la variopinta epifania del creato, le vie innumeri dell'esperienza, sono il riflesso e il riverbero indiretti, analogici, dell'unità, del Principio originari, da cui sgorgano, che presuppongono, e di cui sono manifestazione.
La Mistica, come questo libro varrebbe da solo a dimostrare, non esclude la consapevolezza intellettuale; essa anzi si fa riflessione sull'indicibile, su ciò intorno a cui "si deve tacere", sul soffio ad un nulla dal silenzio, e dunque, di riflesso, sul linguaggio stesso. (Questo è, per inciso, il vero fondamento e il vero nerbo del discorso poetico; che è sempre confronto con l'Altro, prossimità al Mistero).
Respiro e riflesso sono, per l'autore, metafore del nesso, e del movimento, duplici ed unitari, che legano essenza ed esistenza, divino ed umano, origine e divenire.
Ma, oso aggiungere io, luce e respiro paiono essere legati, anche a livello linguistico, all'idea dell'essere ‒ eheye, in ebraico, es/s nella radice indoeuropea (d'origine pronominale, osservava Alfredo Trombetti, a riprova, secondo un platonico cristiano come Francesco Acri, che l'idea e l'espressione dell'essere nascevano da una realtà originaria, non da una convenzione a posteriori, comportamentistica), soffi lievissimi, poco al di sopra del silenzio ‒ Logos eon aei, Logos sempiterno, Aiòn, nell'inno di Cleante, apertura e chiusura del respiro, dilatazione e riposo, slancio e ripiegamento, come nelle sillabe sacre delle più diverse culture, Amen Amon Aum ‒ e insieme *dj, alla base, forse, dell'impronunciabile tetragramma divino JHWH così come di Dyaus, Dios, deus, Divino e Luminoso, solidità del fondamento, del basamento (Dalet) e insieme Yod, slancio sottile e lievissimo verso l'inafferrabilità dell'aria, l'impalpabilità dei cieli.
El, Helios, Ra ‒ liquida e rotante, l'assiduità del fluire e l'iteratività della ripetizione, dell'eterno ritorno ‒ «lume in forma di rivera», luce fluente della divinità, e insieme rhysmòs, ritmo, scansione, movenza che torna su se stessa, ma anche gorgo che riconduce al fondo del silenzio in cui è chiuso il mistero di ogni umana origine; phu, phaino, phòs, fui ‒ essere come luce, come venire-alla luce, salire ad luminis oras divinus radius sive divina gloria, dice Dante ‒ Logos, essere come parola-luce, kleos clamor gloria (forse da una stessa radice, kl/gl/lg, con lenizione e metatesi): forza dell'essere che chiama, che richiama a sé e raccoglie e riunisce le proprie molteplici espressioni, dopo averle disseminate (il logos spermatikós, la ratio seminalis, di patristica memoria, citati da Malaguti) per il cosmo; «Amore onne cosa clama», dirà un poeta, divinamente invasato.
Verum e Veritas come Velia-Helia-Vesta-Hestìa, sede dimora fondamento, luogo dell'essere e della prossimità all'essere, Casa dell'Essere si direbbe con Heidegger ‒ ma insieme fuoco, fiamma vitale, ardore dell'universo, altare igneo del tutto, e da cui tutto riceve luce e vita.
Il libro suggerisce un'ulteriore, credo non arbitraria, riflessione. Forse, un argomento, un'eco, una traccia dell'essere l'uomo figlio del Verbo (e dell'esistere, il Verbo, anzi essere, come entità metafisica) si nascondono nel linguaggio stesso: che non può essere nato da onomatopee imitative (perché in tal caso non avrebbe potuto esprimere quelle nozioni e relazioni astratte che sono indispensabili ad ogni comunicazione, per quanto embrionale, o comunque non avrebbe mai potuto compiere, per accordo fra i parlanti, il passaggio dal concreto all'astratto, dalla materia allo spirito, dall'esteriore al profondo); né può essere esclusivamente figlio della convenzione e dell'arbitrio, perché la fissazione di tali norme avrebbe comunque presupposto non solo l'esistenza del linguaggio stesso, ancora non nato, ma addirittura l'uso della funzione metalinguistica, una delle più evolute, complesse, polivalenti.
Solo un Essere superiore ed assoluto, per una sorta di Armonia prestabilita, poteva infondere nella sua creatura o nella sua declinazione (Trinità riflessa, appunto, Verbum come imago mentis, secondo le intuizioni geniali di Agostino: la mente che conosce e ama se stessa coglie in sé il riflesso, per quanto schermato ed opacato, delle rationes aeternae ‒ mentre, come osserva Malaguti, il panlogismo hegeliano, il razionalismo assoluto conducono al vuoto della coscienza infelice, privata dell'originaria, esperienziale intuizione dell'Essere) la parola articolata.
Si obietterà che, se il linguaggio umano fosse metafisicamente, ontologicamente plasmato, o fosse esso stesso un'impronta o una traccia della divina scintilla della creazione (o dell'evoluzione, che non esclude la volontà creatrice di un essere superiore), esso non potrebbe essere usato come strumento di menzogna o d'inganno, né sarebbe, com'è, sotto molti rispetti imperfetto (anche e proprio nella sua impossibilità di nominare univocamente ed onnicomprensivamente il Divino, onde il silenzio mistico, l'afasia di fronte al totalmente Altro), né le lingue differirebbero radicalmente le une dalle altre.
Ebbene, la manchevolezza o la fallacia della parola umana derivano (e ben lo intuiva, fra gli altri, Rosmini nel suo commento al Vangelo di Giovanni) dal suo essere, al pari dell'uomo stesso, solo imago Verbi, solo eco lontana, specchio opaco, pallida emanazione e declinazione, dell'Unità originaria, della primeva indistinzione di Realtà e Parola; allo stesso modo, le formule matematiche (per quanto riguarda le leggi fisiche del mondo macroscopico non meno che per le più vaste e complesse ipotesi della cosmologia) non rispecchiano perfettamente, ma solo a prezzo di approssimazioni tendenti all'infinito, ad un infinito numero di cifre decimali, le strutture matematiche che pure soggiacciono alla realtà, alla vita e al loro funzionamento.
Come tutte le molteplici e frante parole umane, tutti gli atti umani di parola e di comunicazione altro non sono che riflessi parziali, echi turbati o deformanti frantumi di una Parola che fu originaria, semplice, una, così il regno della materia e del vivente è attraversato e informato dalle infinite e minutissime parole, dai labirintici messaggi del codice genetico e delle strutture minime della materia, fino all'immaterialità, alla pura natura matematica del gluon; e tanto la materia e l'energia quanto il linguaggio nella sua diffusione e nei suoi impieghi sono attraversati dalla dialettica, dal difficile e spesso paradossale gioco di entropia e neghentropia, di ordine e disordine, di cosmo e caos, dall'intreccio di una forza che porterebbe alla dispersione, alla disgregazione, all'insignificanza, con un'altra che invece mantiene, per vie ancora in parte da chiarire, una struttura e una direzione intellegibili, una misura di essenzialità, di rispondenza e di pregnanza.
Il mito della Torre di Babele (su cui la fonte biblica in sostanza concorda, come per il Diluvio, con le fonti mesopotamiche) rispecchia proprio questo frantumarsi, questo moltiplicarsi e disperdersi della parola umana nel tentativo, spasmodico e bruciante, di avvicinarsi alla semplicità, all'universalità e all'assolutezza del Logos, della Parola-Verbo e della Parola-Realtà (Dabar è, in ebraico, Cosa e insieme Parola, e, fonosemanticamente e fonosimbolicamente, fondamento, base, saldezza, terreno su cui costruire e pensare).
I modistae del medioevo, e sulla loro scia il Dante del De vulgari, fino ai moderni tentativi della cibernetica e della linguistica generativa, altro non sono (forse, paradossalmente, con maggiore consapevolezza nel Medioevo, e nell'abbaglio, invece, dell'utopia scientista in età moderna) che più o meno vani tentativi di arrivare proprio a quella chiarezza assoluta, a quella naturalità aurorale e fondativa.
Che, beninteso, non sono mai esistite storicamente, mondanamente, nella lingua umana, ma si sono poste da subito, fin dalle origini stesse della scrittura (ma forse anche prima, se è vero che la Parola Creatrice compare nei miti cosmogonici più remoti e più diversi, dall'Africa all'Oceania), come una grande utopia, che ha nutrito in modo sostanziale la civiltà umana, e la cui origine, inesplicabile sul piano evolutivo, biologico, comportamentistico, è forse da ricercare in una sorta di nostalgia dell'unità e della chiarezza originarie, in una nostalgia della patria perduta, in quello che un poeta chiamava «l'istinto del Cielo».
Le contraddizioni che gli atei scoprono senza difficoltà nelle Scritture, e gli errori e i fraintendimenti in cui tanto i copisti quanto gli esegeti sono incorsi lungo i secoli, altro non sono che la riprova delle difficoltà e delle angustie in cui la parola terrena, e con essa la memoria e la coscienza stessa degli uomini, viene a trovarsi quando è posta a contatto con l'assoluto e il mistero della trascendenza. E confermano, indirettamente e paradossalmente, l'origine e l'ispirazione più che umane della parola rivelata.
Divinamente fondata come Verbo, la parola soggiace, nella sua veste umana, temporale, transeunte, alle impurità, alle oscillazioni e ai chiaroscuri della natura lapsa.
Di fronte alla Parola, ci dice ora Malaguti citando un grande mistico, Angelus Silesius, l'uomo deve «diventare egli stesso la Scrittura, egli stesso l'essenza». Se il Verbo si fece carne, l'uomo deve ora farsi Verbo, vivere egli stesso, anzi divenire, essere egli stesso, la Parola, così da rendere più originari e più veri il suo pensare e il suo vivere e il suo dire.
Ma questo rinnovamento non può essere affidato alla sola scienza, ad una scienza scissa e sciolta dallo spirito, dalla verità, dall'essere, dalla rivelazione; la speranza non può essere riposta nella sola natura, a maggior ragione qualora essa sia concepita nei termini di uno scientismo deterministico. «Nell'orizzonte dello spirito la libertà soltanto pone fortissimi vincoli tra il passato e il futuro».
Il divenire storico, vissuto e autocosciente, salda il passato al futuro ed infonde in questa continuità e in questo nesso valore e significato: nel nodo, nel vincolo della mente che ama se stessa, del pensiero che si specchia e torna in se stesso, nell'interiorità profonda e intima dell'uomo copula mundi, unione di fede e riflessione, di esperienza e pensiero.

Matteo Veronesi