lunedì 12 settembre 2011

Un intervento di Neil Novello su sacralità, irrazionalità, capitalismo

Che il sacro sia scomparso lo sappiamo, sappiamo per esempio che la secolarizzazione moderna ha distrutto il pensiero magico e con esso ogni forma tradizionale del sacro. È forse il caso di parlare, però, di metamorfosi non già del pensiero magico (pur nelle sue estreme propaggini: i mondi di De Martino, Eliade, Levi–Strauss), ma dell’idea stessa di sacro “senza” più magia, privato quindi di quell’elemento puramente e umanamente irrazionale vissuto nel quadro di una razionalità poetica qual è ad esempio l’idea di ciclicità, di attesa, di ritorno di un fenomeno, di ritualità, etc.

Ciò che a livello concettuale sembra offrire una chiave di lettura (ad esempio, si legga Religione e memoria di Danièle Hervieu–Léger) è il sovvertimento di una legge occulta. Se l’irrazionalità (pensiero) propria al sacro, al pensiero magico ed al mito arcaico necessita sempre di uno sfondo razionale (temporale, se si vuole storico, o meramente esistenziale), al punto di poter parlare di irrazionalità razionale (si pensi soltanto ai rituali stagionali, alla ricorrenza temporale di un fenomeno o evento, alla ciclicità della vita contadina, rivelata dal Mondo perduto di De Seta, dalla taranta di Sud e magia o di La terra del rimorso (ri–morso) di De Martino), la razionalità odierna non poggia su nessuna irrazionalità esogena (ossia naturalmente umana), poiché l’irrazionalità umana è neutralizzata a monte, devitalizzata da un’inclinazione/identità crudelmente razionalizzante: è endogena. Ma endogena di chi? Del capitalismo: il popolo fatto massa.

La razionalità capitalistica è viva ma silenziosa, miete vittime (riferendosi alla dialettica capitalismo vs uomo, nei Manoscritti Marx scrive: «…nel momento stesso in cui ti procuro un godimento, ti scortico»). Il capitalismo si prefigge un compito paradossale per il suo linguaggio ma vitale, irrazionalizzare il mondo umano anche il più razionale. Qual è dunque la radix malorum, l’irrazionalismo razionale arcaico (che in Italia si è vissuto almeno fino agli anni Cinquanta) o il razionalismo irrazionalizzante del capitalismo?

La globalizzazione è la matematizzazione del mondo, ma per riuscire in questo traguardo il capitalismo si è fatto antropofagico (divora l’uomo per defecare l’uomo–massa: Bauman). E nel fagocitarlo cosa fa? Reinventa un’intera dis–umanità ad uso e consumo del proprio linguaggio (scil.: l’universo materiale, ad esempio, eretto a nuovo mito, rito, etc. come già rivelava Barthes in Miti doggi), un mondo a misura dell’uomo–massa, che proprio il capitalismo provvede a “costruire” (ormai quasi in stile fordista) dopo averne programmato anche l’aspetto per così dire irrazionalistico, strategia socio–plagiante perpetuata per merito della sua ignara creatura, che rispetta supinamente e ciecamente una violenta e muta legge, per così dire, di programmazione, ad esempio la nevrosi sociale del desiderio (coatto): consumismo, etc. Di qui sembra anche passare una delle innumerevoli strade che dall’uomo portano all’uomo–massa, e da quest’ultimo alla sua versione più deteriore, la massa postumana.

METAMORFOSI E ALIENAZIONE DELLA "CULTURA POPOLARE" NELL'ERA DEL CONSUMISMO

Pasolini non era lontano dal vero. La "cultura popolare", che un tempo aveva una sua ricchezza ancestrale, atavica, etnica, archetipica, fatta di rituali, di credenze anche irrazionali, anche di mere superstizioni, ma ricche di fascino simbolico, fondata su un cattolicesimo certo oscurantista e semplicistico, ma sincero, genuino, sentito (mirabilmente rappresentato, ad esempio, da uno scrittore oggi un po' dimenticato, Nicola Lisi), è ora divenuta, al contrario, estremamente artefatta, materialistica, edonistica, a suo modo sofisticata (sul piano tecnologico ed esteriore), ma senz'anima, priva di valori e di simboli, scandita da rituali ugualmente rigidi, complessi, macchinosi, artefatti, ma privi di qualsiasi significato ulteriore, più profondo e più alto, esauriti e finiti in se stessi.

Ciò che è venuto a mancare è il pensiero simbolico. Un oggetto, un bene di pregio e di prestigio, un cosiddetto status symbol, non è, invero, simbolo di nulla; non simboleggia, non rappresenta la posizione sociale o la ricchezza; esso, semplicemente, direttamente, piattamente, è quella ricchezza e quella posizione, o ne è la diretta, causale conseguenza. Esso è simbolo della ricchezza solo nel senso, primordiale, irriflesso, animale, in cui il fumo è il simbolo del fuoco, e il sangue (sparso a fiumi proprio per il denaro, il petrolio, i diamanti) è simbolo del dolore e della morte. Se il totemismo e il feticismo antichi nascevano dall'irrazionalità, quelli odierni nascono, invece, da una razionalità, da un calcolo pervertiti e disumani, e sono ancora più crudeli e cruenti.

L'oblio dell'alta cultura va di pari passo con il declino di ogni forma di spiritualità che non sia banalizzata e degradata a moda e costume transitori, o a generica contaminazione; entrambe le forme di regresso e di involuzione sono legate al declino del pensiero simbolico ed ermeneutico, che almeno sopravviveva, magari in forma irriflessa, nell'antica mentalità magico-religiosa, in cui il dogma trasmesso e acquisito si fondeva con l'intuizione animistico-sciamanica.

Certo, quella cultura magica, arcaica, aveva un carattere totemico, feticistico; ma oggi, dal feticismo che aveva ad oggetto i simboli religiosi intesi come sostituti, simulacri o effigi del Padre, occultato, nascosto, rimosso od ucciso, si è passati al feticismo delle merci, alla divinizzazione, quasi, dell'oggetto, che però, in quanto transitorio, effimero, soggiacente alle mode, non ha più nulla di autenticamente sacro, non ha più nulla dell'eterno, e aliena, deforma e profana l'idea stessa della sacralità.

Le donne contemplano estatiche una vetrina di Gucci come se vedessero una divinità; ma l'anno dopo, o forse dopo pochi mesi, quegli stessi oggetti saranno divenuti obsoleti, fuori moda, sostituiti da altri, che non sono le maschere cangianti e metamorfiche della sacralità originaria, ma piuttosto i segni tangibili del fatto che il sacro non esiste più, o non viene più percepito, o è divenuto pura materia - neppure più panteismo, perché il panteismo divinizza una materia vivente che l'uomo non può creare dal nulla, mentre molti venerati capi di abbigliamento nascono proprio dall'uccisione di esseri viventi - l'uomo che regala la pelliccia non è diverso dal cacciatore del neolitico che uccide la belva, con la differenza che l'uomo moderno non ha più il coraggio, la motivazione o la necessità di affrontarla direttamente.

La prostituzione delle ragazzine che si vendono per un cellulare o un vestito firmato è, a suo modo, "prostituzione sacra", hierodoulìa, come la chiamavano gli antichi, "asservimento al Sacro"; ma il sacro non è più una divinità immortale, bensì una moda (sorella della morte) decisamente finita, transitoria, mortale. Il feticismo delle merci è la morte di Dio. Nietzsche congiunto a Marx.

In tal senso, il vecchio cattolicesimo dell'"umile Italia", come la chiamava dantescamente Pasolini, era forse preferibile all'odierna idolatria del denaro, del lavoro, della prestazione; e non so fino a che punto sia un bene (non foss'altro per le finanze dei mariti) che, in una società ormai secolarizzata (sulla quale non mi sembra gravi in modo tanto pesante la minaccia dell'oscurantismo religioso paventata da alcuni), il centro commerciale abbia sostituito il tempio e il sagrato.

domenica 11 settembre 2011

LA FREDDEZZA DELLA MEMORIA COLLETTIVA




Se una tragedia individuale, soggettiva, eppure condivisa da noti e ignoti, come quella del suicidio di cui ho appena parlato, mostra il dolore nella sua forma particolare, sentita e bruciante, le celebrazioni rituali, collettive, periodiche, cerimoniali di una sciagura come quella dell'11 settembre (benché scaturite a loro volta da un dolore e da un lutto drammaticamente reali) hanno, invece, sempre in sé qualcosa di artefatto, di freddo, di anonimo, e si prestano sempre, pericolosamente, a strumentalizzazioni o pretestualizzazioni, mistificazioni ideologiche e propagandistiche.

Il dolore, anche quello più vero, sentito e profondo, nel momento stesso in cui viene ripreso e mostrato diviene artefatto. Anche chi soffre davvero (pensiamo ai funerali) di fronte allo sguardo degli altri finisce, inevitabilmente, per recitare la parte di chi soffre, tanto che il suo dolore, vero, si confonde con quello simulato (e, viceversa, chi simula la sofferenza finisce per provarla davvero: anche questa è la funzione, catartica, del pianto rituale, del lamento scenico che si trova nella tragedia greca come in certe cerimonie del Mezzogiorno).

L'unico dolore vero (se l'uomo può essere vero, sincero, trasparente, almeno davanti a se stesso) è quello che arde nel chiuso dell'anima.

Chi piange davanti a una telecamera, o davanti a una folla, o anche solo a una cerchia di persone, o insieme ad essa, «finge di sentire / anche il dolore che davvero sente», come Pessoa dice del poeta: con la differenza che il poeta è artefice del proprio artificio, scultore che modella la propria maschera funebre come l'altrui, padrone e protagonista della sua finzione, sovrano della sua buia officina; mentre l'uomo-folla, il Sé-per-gli-altri che mostra, esibisce, agisce il suo dolore nel momento stesso in cui ne è agito, che lo guida (verso il fuori-di-sé) e ne è guidato, che incarna (per il théatron, per la cerchia di chi lo attornia e lo vede) lo stesso dolente dáimon che lo possiede, è, inevitabilmente, condizionato e forzato dalle circostanze esterne.

Il dolore visto, mutato in immagine, ri-preso, è per ciò stesso alienato, artifiziato, mediato; è, come avviene emblematicamente nelle celebrazioni rituali come quella dell'11 settembre, un dolore già accaduto, già vissuto, richiamato artificialmente alla vita-morte del lamento. Lo stesso vale anche per il dolore assoluto, sacrificale, simbolico metafisico: nelle trasmissioni televisive della Via Crucis, quel dolore che è così vivo nella mobile immobilità dell'arte, e vivissimo nel discorso senza parole della meditazione irriflessa e indicibile, diviene falso e vuoto nella mobilità dell'immagine, nell'artificiale divenire del discorso audiovisivo.

L'acqua perennemente mobile, grondante, fluente, che colma la voragine, l'abyssus di Ground Zero (voragine e abisso certo storici, epocali, ferita aperta nella coscienza dell'Occidente, oltre e più che fisici e reali) era, in realtà, nella perfezione irreale dell'immagine digitale, dello schermo piatto, dell'alta definizione, uno specchio immobile, impassibile, una natura altra, distante, schermata appunto, resa esanime, decisamente postmoderna (mentre proprio il crollo delle Twin Towers avrebbe segnato, per alcuni, la vera fine del postmoderno, la frattura della Finis Historiae, il violento e forse salutare risveglio indotto dal ritorno alla realtà e ai fatti eppure i terroristi, come notava Umberto Eco, mostravano al contrario di aver compreso ottimamente, e funestamente, il potere della comunicazione visiva e mediatica, tanto che le immagini ri-prese, indefinitamente reduplicate e reiterate, del crollo delle torri finivano per avere, data la loro forza propagandistica, un effetto ben più devastante dell'evento in sé); un'acqua lontana, irreale, e perciò sacra, impossibile da sfiorare e da gustare anche per chi fosse stato presente, che faceva quasi pensare a quelle installazioni artistiche in cui era rappresentato un ruscello prosciugato, mentre l'acqua scorreva in un monitor, e il suo brusio era diffuso da uno stereo e nello spettatore-Tantalo nasceva, allora, una sete vera e falsa, ma inestinguibile la visione faceva «del non ver vera rancura / Nascere a chi la vede», come in Dante; e, a Ground Zero, i nomi incisi su quelle lastre solenni e funeree erano e sono traccia illusoria, segni di nomi di cui si perderà, in meno di un secolo, ogni memoria reale «dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai», come dice un altro poeta.

Ma ogni ricorrenza che cerchi di esorcizzare il dolore rinnovandolo e ricordandolo è illlusoria. Ogni giorno dovrebbe essere un continuo, e inutile, Giorno della Memoria: perché in ogni istante le carestie, le guerre, le persecuzioni mietono vittime innocenti. La vera Memoria, Mnemosyne, figlia della Terra e del Cielo, madre delle Muse, prega e piange per tutti i sofferenti, noti e ignoti, presenti passati e futuri, senza nessuna distinzione, perché il Male è antico, eterno e potente.

Bush (la cui politica estera ha fatto, credo, il centuplo dei morti di tutto il terrorismo globale) ha citato Qohelet: «C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace».

Ma sarebbe meglio citare, sempre da Qohèlet, questi altri versetti: «Vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene, ma la terra resta sempre la stessa. Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito».

PER MASSIMILIANO CHIAMENTI, UNA VITA E UNA MORTE NEL SEGNO DELL'ANTIFRASI

Conoscevo Chiamenti (filologo e poeta da poco toltosi la vita nella sua casa di Bologna) solo per i suoi studi danteschi. Che erano incisivi, rivoluzionari, metodologicamente rigorosissimi, eppure antiaccademici nelle conclusioni: quando, ad esempio, dimostrava inequivocabilmente, contro Maria Corti, che non c'è, in Dante, una chiara presenza intertestuale del Liber Scalae; o quando parlava, in modo sorprendente, con solide argomentazioni, di un "Dante sodomita" (io parlerei piuttosto di un Dante ermafrodito, nel senso in cui Guinicelli dice, in modo a sua volta controverso e polisemico: "Nostro peccato fu ermafrodito", o comunque androgino, ambiguo, oltre, nella sua sublimità, ogni identità sessuale, onde a Forese rivolge quelle parole indecifrabii: "Se tu riduci a mente / qual fosti meco, e quale io teco fui").

Ecco, la stessa polivalenza, la stessa ambiguità si trovano nella figura di Chiamenti; e anche la sua morte è sotto il segno dell'antifrasi. Vuole il luogo comune che chi dice di volersi uccidere non lo farà. E' vero l'esatto contrario: tutti i suicidi sono preceduti da un annuncio che è anche richiesta d'aiuto. La quale non esclude il desiderio di morire: il suicida ama la vita, si uccide, forse, per troppo amore della vita, per l'impossibilità di vivere la vita che vorrebbe, o di vivere la Vita in assoluto, senza limitazioni e senza barriere e senza compromessi, nella pura luce di una gioia impossibile. La leggenda secondo cui chi dice di volersi uccidere poi non lo farà è nata dall'inconscio desiderio di deresponsabilizzarsi, di non sentirsi obbligati ad intervenire, di non avvertire lo schiacciante e soverchiante obbligo morale di fare qualcosa per aiutare la persona che soffre, per impedirne e scongiurarne la morte.

Del resto, nessun suicidio può essere evitato. La pulsione di morte vince ogni ostacolo, spezza ogni barriera. Persone chiuse in una stanza si fracassano la testa contro le pareti; persone legate ad un letto cessano di respirare finché il loro cuore non si ferma.

L'atteggiamento di chi ignora le dichiarazioni di intenti suicidi è perfettamente umano. La vita vuole solo la vita, non vuole, inconsciamente, sentirsi inquinata, insidiata e turbata da forze contrarie, oscure, devastanti. Orfeo si volge, alle soglie dell'Ade, perché la sposa è ormai stata contaminata dalla morte, e non può più camminare e respirare nel mondo dei vivi. "Dal morso di vipera dell’immortalità / la passione di donna prende fine. / È già pagata - ricorda le mie urla! - / questa distesa estrema. / Orfeo non deve scendere a Euridice. / I fratelli - turbare le sorelle". Così la Cvetaeva.

In una sua poesia, Chiamenti gioca a fare la donna, anzi la Madre, "madre introita". Perché la Morte è donna, è il fondo oscuro, la materia umida, l'"orrido borro", dice ancora Dante, da cui sgorga la vita, e a cui la vita vuole tornare per spegnersi; e in cui, per contro, il seme vitale vuole stillare e sprofondare, per dare alla luce una nuova vita che sarà a sua volta preda della morte, in una catena senza fine. Nella sua stessa ostentata e letteraturizzata diversità, nella sua indecidibile ambiguità sessuale, per il modo stesso in cui le viveva, Chiamenti corteggiava la morte. Che infine l'ha accolto.

Non si può estetizzare la morte. È blasfemo. Eppure la letteratura (di per sé lettera morta, discorso postumo, voce che continua a parlare, indefinitamente, dopo la morte di chi le ha dato forma) non fa altro, a ben vedere, anche quando celebra la vita.

"Resterà solo la voce arcaica del cantore". "Io liberò felice ai superi / con i calici di ambrosia". Così dicono alcuni versi di "Viva la morte", insolitamente sublimi e classici in un poeta così spesso crudamente realistico. Ora, senza retorica, il suo voto si è adempiuto.

lunedì 29 agosto 2011

Il miele del silenzio: di alcune prospettive della poesia contemporanea


Il miele del silenzio. Antologia della giovane poesia italiana
, a cura di Giancarlo Pontiggia, Interlinea, Novara 2009, pp. 198, euro 24.


Sapientemente introdotto e curato da Giancarlo Pontiggia, Il miele del silenzio. Antologia della giovane poesia italiana (Interlinea, Novara 2009) è una preziosa antologia della giovane poesia italiana contemporanea, sebbene non definitiva, senza pretesa di assolutezza, di dittatura estetica, di valore canonico, esclusivo o egemonico.
Per quanto sia stato sottolineato, anche di recente, il carattere estremamente arduo, quasi proibitivo di ogni antologia (sorta, di per sé, di complexio oppositorum, di materiale prossimità e coesistenza, in uno stesso spazio, di voci e tendenze in varia misura diverse e distinte, di un impossibile amalgama di paradigmi), specie qualora cerchi di canonizzare, di sistematizzare, in qualche modo di museificare una realtà multiforme e proteiforme come quella del presente, le antologie restano documenti e testimonianze rilevanti si pensi alla celebre Parola innamorata, curata dallo stesso Pontiggia, che segnò un ritorno al mito e al lirismo dopo le devastazioni, i roghi forse per certi aspetti purificatori, dell’avanguardia.
Tanto negli introduttivi «Appunti di lavoro», quanto nelle presentazioni dei singoli autori, Pontiggia è animato da un intendimento preciso e pone risolutamente dei criteri per una demarcazione, non certo sulla linea crociana, che identifichi la poesia distinguendola da una pura emissione di parole graficamente distinguentisi dalla prosa, postula indirettamente un ridimensionamento dell’attuale e quanto mai proliferante e affollato scenario poetico, talora, si aggiunga, dispersivo, o rumoroso, tendenziale, ostinatamente fuori degli schemi, ungarettistico (nel senso indicato da Umberto Eco parecchi anni or sono). Poesia, dice Pontiggia, è riattualizzare i maestri del passato e non vanificarne la memoria.
In altri termini, Pontiggia valorizza quelle categorie estetiche tendenti di per sé a tradursi, in senso lato, in categorie etiche che ispirano la scelta di una veste formale come operazione in certo modo inevitabilmente archeologica, eppure mutante e dialogante con il presente: quali la prevalenza del senso e l’osservanza delle strutture tradizionali, preservate e difese da quell’ormai obsoleto spirito di distruzione e di rottura che passa sotto l’eufemistica definizione di sperimentalismo; la riabilitazione del valore poesia come attività non accessoria, ma sostanziale, che si commisuri con lo spessore, le geometrie e le euritmie della tradizione mentre ne opera la dinamizzazione nell’atto stesso del versificare, contribuendo, a posteriori, a renderla – Remo Pagnanelli avrebbe detto – «memorabile», senza per questo configurarsi come remotissima eco del passato o rendersi una inerte riproduzione delle forme. E insieme ponendo se stessa, in quanto poesia nuova, poesia d’oggi, entro il solco di archetipi riconoscibili, nei quali tanto il nuovo quanto l’antico, e anzi l’antico attraverso il nuovo, e viceversa, si rispecchiano, si riconoscono, si inverano, secondo quel moto uno e duplice, progressivo-regressivo, di avanzamento e ritorno (la métrique absolue di Mallarmé) che scandisce il singolo testo poetico, nella sua tessitura versale, non meno che lo stesso divenire storico, e metastorico, del fare poetico.
Sono affermati, in questa antologia, la leggibilità sul sovvertimento dei canoni, il rifiuto dell’essoterismo inteso come esibizione e spettacolarizzazione, dell’accostamento gratuito e forzatamente trasgressivo, dell’infrazione come regola, spessissimo adottata quasi di necessità (troppo spesso si ha infatti l’impressione che si ignori il fondamento delle regole prosodiche, che non si abbia nelle orecchie quello che il secondo Ungaretti, quello composto e classico di Sentimento del tempo, chiamava «il canto italiano»), una classicità non classicistica per nominare ancora uno dei motivi basilari che hanno ispirato la riflessione di Pagnanelli, nonché la sua verseggiatura e il suo valore di influenza che paiono ancora essere il solo luogo di consistenza possibile, di comune appartenenza poetica, di incontro tra un passato sempre vivo e un presente che assiduamente, diceva Dante, s’infutura.
Coerentemente con queste istanze, sfilano in Il miele del silenzio i diciotto valenti autori antologizzati (classe 1970 in avanti), dagli stili e dagli etimi diseguali, dalle diversissime attitudini a soggettivarsi, il cui lavoro, per così dire, di ortodossia in progress, benché non sia certo l’unico possibile e legittimo, è senza dubbio degno di estrema attenzione. E soprattutto pienamente appaga le nostre aspettative di novità, novità che, dice Pontiggia, è tale solo nella misura in cui è in relazione all’esistenza e all’affioramento, metatestualmente assimilato, di una grandezza passata.
Ecco, allora, l’oro, le terse e scintillanti contemplazioni, tese all’eterno, di Maurizio Marota, l’onnipresente miracolo della vita in ogni luogo e in ogni tempo; lo stile più teso, frammentato, plurilinguistico, di Roberta Bertozzi, che si misura con gli orrori della storia, con il peso del passato; il lirismo prezioso, essenziale e profondo, di ascendenza luziana, eppure prossimo alla naturalità e alla maternità, semplici e miracolose, del creato, di Daniele Piccini; l’acceso e palpitante canzoniere amoroso, fresco e spontaneo senza leziosità, forte di una naturalezza raggiunta con lungo travaglio meditativo e creativo, di Isabella Leardini; l’epos, lieve e potente come una bracciata, delle nuotatrici olimpioniche della Germania Est, anelanti a una «purezza» esistenziale anteriore a ogni istituzione e a ogni divisione, cantato da Vincenzo Frungillo; l’assidua riflessione metapoetica, quasi magrelliana, tesa fino al bianco, al silenzio, al non-detto, alla stasi dell’aurora creaturale, di Francesco Filia; il lirismo naturalistico ed elegiaco, tutto pervaso dal costante e ciclico ritorno al bosco dell’infanzia, alla Hyle, alla materia-selva feconda e originaria, di Adriano Napoli; la scrittura composta, fluente, riflessiva e insieme esperienziale, memore della grande tradizione novecentesca, da Montale a Sereni a Luzi, di Andrea Temporelli, alias Marco Merlin; il «senso per sottrazione», fino a una essenzialità assoluta, quasi geometrica (che fa pensare allo chosisme di un Ponge o alla scrittura spigolosa e scarnificata del primo Magrelli), di Mariarita Stefanini; l’estrosa, immaginifica e surreale narratività di Federico Italiano; il lirismo dolente e sofferto, all’interno delle lesioni che segnano la storia, di Alessandro Rivali, ideale homo viator nell’«Europa delle cattedrali e della luce»; la «doglia del creato» glorificata, in versi dalla musicalità assoluta, senza tempo, incantata, quasi discesa da un altro mondo e da un’altra lingua, originaria e metatemporale, di Matteo Munaretto; le città fantasma, preziose, parnassiane e quasi surreali eppure limpidissime, di Guglielmo Aprile; il dettato espressionistico, sismico, tuttavia ontologicamente, quasi misticamente, fondato, di Davide Brullo; la cristallina e nivea autoriflessione di Pietro Montorfani, studioso cosmopolita, tra Svizzera e Stati Uniti; il lirismo sacrale e biblico, la dialettica di materia e purezza, di greve fango da un lato, e dall’altro di altezza, vuoto, rarefazione, silenzio, di Giuliano Rinaldini; il «ritmo della specie», il tempo mobile, vivo, dolente, eppure fermo, eterno, come ancorato agli archetipi di un destino più alto, che si declina e distilla per simboli oscuri, di Franca Mancinelli.
L’aver assunto, come titolo del volume, un verso tratto da Il cordone d’argento di Matteo Veronesi (poeta del resto qui antologizzato) è significativo del senso generale che orienta le scelte di Pontiggia. Il silenzio non può più essere oggetto di poesia se inteso quale sintomo, ma in pari tempo come tentativo di superamento, del silenzio che pare avvolgere e soffocare la voce dell’io lirico, o come bianco della pagina che rappresenti, quasi simbolicamente o emblematicamente, l’omissione, l’aposiopesi, la reticenza, a loro modo altamente significative come segnali tangibili del rifiuto di ogni retorica sentimentale, di ogni troppo effusa emotività, o come specchi ossidati di una protonovecentesca “vergogna d’esser poeti”. Il silenzio, piuttosto, nomina l’abisso di una modernità ormai postuma e non più penetrabile al suono, cittadina ormai del regno delle ombre, laddove la pretesa di legittimità del paradigma razionale nel frattempo si è gradualmente consumata. Il silenzio, allora, è chiamato a misurare la regalità sfumata del tempo, istante-goccia-infinito, ineffabilità e origine del suono, dolceamara, dunque, palingenesi della parola poetica che si staglia come estrema e paradossale speranza sulla prospettiva ultima dell’annientamento. Come in Mallarmé (in Crise de vers), un «monumento in questo deserto, con il silenzio lontano; in una cripta, la divinità così di una maestosa idea inconsapevole». Anche se ormai il monumentum non è più tanto ricordo o testimonianza, quanto sepolcro vuoto, insanabile traccia di una lesione e di una assenza.

Elisabetta Brizio


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Lorenzo Carlucci, "SGASARE LA LATTINA FUTURISTA. AVANGUARDIA, SPERIMENTAZIONE, EPIGONISMO, ANSIA DEL MANIFESTO"


Esistono differenti correnti nella poesia italiana contemporanea. Alcune di queste hanno un’etichetta, e alcune l’hanno perché la vogliono avere: poesia sperimentale, poesia di ricerca – etichette tra le più contese da diverse combriccole poetiche. L’avere un’etichetta sembra quasi far parte della definizione di questa poesia di ricerca e sperimentale (ansia del manifesto, fin dai tempi delle avanguardie storiche, peraltro più diversificate e vitali). L’identità della “poesia di ricerca”, in alcuni casi, sembra dover essere sempre costituita, non è mai data, sembra voler esistere soltanto per opposizione: oggi che gode di una certa attenzione dal (piccolo) mondo della critica di poesia italiana si deve scagliare contro chi l’accusa di egemonia.

È forse anche interessante notare che con il recente successo della poesia sperimentale e di ricerca e l’attenzione critica ad essa rivolta siamo di fronte ad un fenomeno di recupero, e non all’emergenza di un impeto inedito: si tratta del tentativo di costituire una tradizione della poesia di ricerca, e questo processo ha connotati evidenti (istituzione della triade genealogica: nonni, padri, figli): l’individuazione dei grandi maestri (Villa, Spatola, Rosselli) e canonizzazione dei padri viventi (come Balestrini) vanno di pari passo con la proposta dei nuovi autori, i continuatori della tradizione.

Altre correnti esistono, e non hanno etichetta. Esistono nel modo in cui esistono le realtà letterarie: come tratti comuni nella produzione dei poeti, come orizzonti condivisi seppure non messi a tema, come mutuo riconoscersi di poeti che neppure si conoscono se non attraverso le loro opere, e che magari sono assai distanti su un piano stilistico. Un riconoscimento che non si traduce nel bisogno di “fare gruppo” attorno a un’idea di poesia, ma in comunicazioni più lente, articolate, sfumate, fragili e sempre a rischio.

Forse è vero: una “corrente” così rischia meno di essere accusata d’egemonia, così come rischia meno di finire nella pagina culturale di un quotidiano nazionale, perché – avendo sgasato la lattina futurista – ­ non va arditamente incontro all’ebbrezza di questo rischio.

domenica 28 agosto 2011

L'aristocrazia dello spirito nell'epoca del fango

La poesia, la letteratura d'arte e non di consumo, l'"alta cultura" oggi ignorata, demolita, derisa ("con la cultura non si mangia, adesso vado a farmi un panino alla cultura, comincio da Dante": così il Ministro Tremonti), privata di sostegni, non hanno la forza per contrastare lo strapotere mediatico. Esse erano, in genere, rivolte ad un pubblico elitario già nell'epoca in cui furono concepite.
Alle fabulae togatae, palliatae e cothurnatae, la plebe romana preferiva le spoliationes mimarum, ovvero gli spogliarelli, che già allora esistevano, e gli spettacoli di gladiatori.
La farsa fliacica, fallica e grottesca, aveva più seguito del teatro d'arte (e sarebbe interessante sapere quanti, ad Atene, andavano al Teatro di Dioniso solo per l'obolo: anche i nostri studenti andrebbero ad ascoltare Schoenberg, in cambio di una pizza).
Nel Medioevo e nel Rinascimento, la gente della strada cantava le canzoni popolari, comunque più fresche e leggiadre di quelle odierne ("For de la bela gaiba / se xiva lo lixignolo...."), più che Francesco Landino o Monteverdi.
Fra Ottocento e Novecento, cabaret, vaudeville, café chantant e burlesque avevano certo maggior seguito di Debussy e di Wagner. Anche quando D'Annunzio aveva un relativo successo, comunque vendevano di più Lucio D'Ambra, Salvator Gotta e Luciano Zuccoli.
Era Montale (i cui Ossi vendettero quarantamila copie in quarant'anni) a dire che in futuro sarebbero esistite due letterature, due culture, con un divario sempre più accentuato fra quella popolare e quella alta. Ciò che sta avvenendo in questi anni conferma le sue profezie. La Woolf, invece, in The Common Reader, prospettava la possibilità di una third literature, accessibile, con diverse chiavi di lettura e diversi livelli di comprensione, tanto al pubblico popolare quanto a quello dotto. Il nome della rosa rientra forse in questa third literature, che non vanta molti altri esempi.
Ma c'è una una differenza non da poco. In passato, molta gente era esclusa dalla cultura alta suo malgrado, per fattori oggettivi (mancanza d'istruzione, lontananza dai centri di cultura, etc.).
Oggi, almeno in Occidente, non ci sono più scusanti: tutti, volenti o nolenti, sanno leggere, per via della scuola dell'obbligo (anche se molti, poi, non si servono di questa abilità, superflua per la maggior parte dei lavori, se non marginalmente, e potrebbero tranquillamente farne a meno: se uno deve saper leggere per leggere solo la Gazzetta dello Sport o Novella 2000, o anche la narrativa di consumo, tanto vale che guardi la televisione), e in edicola per pochi euro, gratis su Internet, si trova di tutto, dal porno a Platone.
Rifiutare, o deridere, la cultura è una loro scelta. La colpa non è della scuola, a meno che non si debba supporre che tutti gli insegnanti, senza eccezioni, siano incapaci, dato che un libro cultralmente significativo, e perciò almeno mediamente compesso, fatica a vendere, in tutta Italia, mille copie.
Forse dobbiamo constatare che noi siamo un'élite, una nuova aristocrazia dello spirito, una nuova comunità, perché no, di "anime belle" schilleriane, e tale dobbiamo restare, ignorati, e ignorando la lordura che ci sta intorno.
Semmai, una comunità più intensa, solidale e fitta di dialoghi e di scambi deve nascere proprio fra di noi, senza inutili e preconcette divisioni, senza faziosità, rivalità, ripicche, conventicole; proprio perché la posta in palio, in termini di riscontri, tornaconti, "visibilità", fama, vendite, nel nostro caso non c'è, o è assolutamente trascurabile, e noi viviamo e operiamo nobis, Musis et paucis.
Se poi il nostro oscuro, sotterraneo lavoro (ché di lavoro si tratta pur sempre) potrà avere, non si sa per quale via, una minima risonanza, una vaga influenza, e mitigare un poco, anche solo per qualche attimo, la volgarità che ci attornia, questo sarà un esito imprevisto e felice.