mercoledì 20 ottobre 2010

MATTEO VERONESI, "MARZIALE SULLE RIVE DEL VATRENO"

Questa breve videopoesia (clicca qui per vederla ed ascoltarla, oppure qui) ricostruisce visionariamente, per immagini, lampi, frammenti, schegge di testi liberamente tradotte, l'anno che Marco Valerio Marziale (il Poeta Proibito, il Poeta Osceno per antonomasia, eppure capace, a tratti, di un lirismo commosso, sensibilissimo e delicato) trascorse a Forum Cornelii, odierna Imola (mentre Vaternus, o Vatrenus, era il nome dell'attuale fiume Santerno).

Le immagini, in continuo moto, vogliono rendere la mobile immobilità, l'immutabile divenire della poesia, che affida al tempo le tracce del vissuto. Se lo scorrere mite della superficie è immagine mobile-immobile della placida quiete della provincia (di un tempo remoto e più libero rispetto a quello, lasciato alle spalle, della seducente, infida e fuorviante Capitale, del Centro che attira e stordisce, che confonde e perverte), le profondità dei fondali evocano invece le tenebre, onnipresenti, e ovunque, nella stessa misura, eguali e diverse, degli Inferi, che donano però anche ai servi (di nome o di fatto, costretti da ceppi materiali o morali, in catene o all'apparenza liberi) l'unica libertà ultima, perenne ed irrevocabile.

E la videopoesia, com'io l'intendo, è sì, se si vuole, pastiche postmoderno, situazionistico détournement (non però vòlti alla deformazione sperimentale e avanguardistica) ma anche e soprattutto sublimazione, cristallizzazione, eternizzazione di immagini sottratte al loro contesto originario, peculiare e transitorio, ed elevate ad una sfera pura e perenne di archetipi (in termini platonici, le eikones, gli eidola si ricongiungono così, nell'intemporalità della memoria, con gli eide, con gli archetipi ideali, incorporei, perenni).

Attraverso il riuso delle immagini (la cui stessa intima vita è uno stream, un fluire, che nell'immagine del fiume rappresenta se stesso, e quasi implode, come una coscienza azzerata e messa fra parentesi, nel proprio cangiante autorispecchiamento), e la loro risignificazione e ricontestualizzazione, la loro redenzione (nel senso di Benjamin), la realtà (della quale, del resto, le immagini stesse, oggi reificate, cose fra le cose, quasi più vere della cosa stessa, o tali da assorbirla totalmente ed occultarla, come una maschera che aderisca inamovibilmente al viso, sono ormai a loro volta parte integrante), il mondo con la sua aria, le sue acque, i suoi alberi, il suo amore la sua vita la sua morte, possono forse riacquistare la loro autenticità, la loro luce e la loro tinta vergini ed aurorali.

Nell'era digitale, nell'epoca del montaggio e del riuso, nell'evo dell'informazione e dell'indiscrezione, della pornografia, dell'immagine artefatta e dell'oblio dell'essere, può forse essere l'Artificio, la Tecnica, la Téchne, a restituirci la Natura (la quale essa stessa, insegnavano gli antichi, a volte «opera come arte»).


Romam vade, liber: si veneris unde, requiret

Aemiliae dices de regione Viae


Vola, mio libro, a Roma; e se lei, l'Urbe,

ti chiederà donde tu venga, rispondi

che vieni dalle pianure

che vena la via Emilia.

E se ti chiederà in che terra io viva, in che città,

rispondi: nel Foro di Cornelio. E se poi ti domandi

perché io sia lontano, molto rivela con brevi parole:

Non poteva più sopportare la nausea

di essere un servo.


[Scorrono, nel frattempo, immagini mobili ed erranti della pianura padana, che reca ancora i segni della centuriazione, l'impronta della volontà geometrizzante che voleva dominare la materia informe del paesaggio, e che ora nuovamente dall'informe, dall'insignificanza dell'industrializzazione fine a se stessa che incide solchi profondi sul grembo della terra, sembra essere stata risucchiata e oscurata]


Cessatis pueri nihilque nostis,

Vaterno Rasinaque pigriores

quorum per vada tarda navigantes

lentos tinguitis ad celeuma remos.

At vos tam placidas vagi per undas

tuta luditis otium carina.


Vi abbandonate, fanciulli, senza pensare a nulla

placidi più del Vatreno e della Rasina

di cui navigando i lenti guadi

bagnate i morbidi remi con ritmo leggero.

Già suda Etone, reclino Fetonte,

ed è cenere il giorno, e ha staccato i cavalli il meriggio;

ma voi, erranti per le onde quiete

gioite del gioco, sulla barca sicura.

Veri marinai non vi credo,

voi molli al fluire del fato.


[Scorre, qui, nel fluire dell'immagine, da una vecchia pellicola otto millimetri, l'analogo fluire delle acque del Santerno: due flussi delle immagini e delle acque, del significante e del significato , resi però perennemente immobili, nel loro moto, dall'indefinibile e illimitata riproducibilità del filmato]


..... Et latet et lucet Phaetonte condita gutta...

.... ut videatur apis nectare clusa suo....


Giace e risplende, sepolta in fine ambra

un'ape, che del suo miele ha fatto tomba.

Ha avuto il premio delle sue fatiche:

così forse è voluta morire.


[Si scorgono, si intravedono, ora, fra l'opacità del buio e della polvere, le profondità subacquee, che custodiscono, più gelosamente di qualsiasi museo e di qualsiasi memoria, i resti del vivere e dell'abitare, le tracce del passato e dell'assenza. Esse sono perciò simbolo del descensus ad Inferos, abbraccio fatale di vita e morte, nutrimento ed abisso, protezione materna e deriva, senza più difese, verso l'ignoto. «A current under sea / Picked his bones in whispers. / As he rose and fell / He passed the stages of his age and youth / Entering whirpool» », dice Eliot: «Una corrente più fonda del mare / denudò sussurrando le sue ossa. / Affiorando e affondando attraversò / le stagioni dell'età e della giovinezza / sparendo nel gorgo». La profondità tortuosa delle acque è umida insidia della vita e della gioia, e insieme destino di annullamento; sintesi del perenne e del transitorio, fusione ed implosione di tutte le dimensioni del tempo e della memoria]


...Condita sic puro numerantur lilia vitro

sic prohibet tenuis gemma latere rosas...


Riluceva, tutta coperta dall'acque:

così si contano i gigli, debolmente difesi dal vetro,

così il sottile cristallo

non lascia che le rose si celino.

Mi tuffai, ed immerso nell'onde

colsi baci indecisi; voi, onde diafane,

un piacere più pieno mi negaste.


...Puella senibus dulcior mihi cycnis.....

...Nivesque primas liliumque non tactum.....


Bimba a me più melodiosa

dei cigni che si appressano alla morte

più preziosa delle prime nevi

e del giglio che nessuno ha mai sfiorato

e delle perle rapite ai fondali del mare Eritreo

lei che il destino fottuto ha strappato

prima che fosse finito il suo sesto inverno

Erotion ancora calda del suo rogo.


...... meque patronum

dixit ad infernas liber iturus aquas....


........ ma curai che lo schiavo

non scendesse in catene alle onde Stigie

mentre un cancro dannato lo bruciava,

e lui, malato, sciolsi da ogni vincolo.

Seppe, nell'agonia, del suo premio

e mi chiamò suo patrono, lui, prossimo

a scendere nelle acque dell'inferno.


Matteo Veronesi

sabato 16 ottobre 2010

INSTRUMENTA VOCALIA. ELEGIA PER VOCE E VISIONE




INSTRUMENTA VOCALIA

RAPSODIA PER VOCI E VISIONE



[Tre voci leggeranno, con un tono grave, cupo, ma insieme distaccato, o se si preferisce annoiato, ma in certo modo fatale, i passi che seguono, tratti da Varrone, Aristotele, Platone, Hegel, Seneca, Pindaro, Dante. Nel frattempo, scorreranno sullo schermo immagini – montate secondo la logica del détournement situazionista, e prelevate dalle fonti più diverse, filmiche o documentaristiche -, nell'ordine, di fabbriche, uffici, infine cadaveri]

VOCE A
Instrumenti genus vocale et semivocale et mutum........ Alcuni distinguono gli apparecchi in tre categorie, ovvero parlanti, semiparlanti e muti: i parlanti sono gli schiavi, i semiparlanti i buoi, i muti sono i veicoli. ...operarios parandos esse, qui laborem ferre possint..... Bisogna procurarsi della mano d`opera in grado di sopportare la fatica. Qui praesint esse oportere, qui litteris atque aliqua sint humanitate imbuti... Quelli, tra di loro, che sovrintendono al lavoro è necessario che possiedano almeno un pizzico di umanità e di sapere, che siano onesti e più anziani dei semplici braccianti. I caporioni vanno resi più zelanti conferendo loro gratifiche, e facendo sì che abbiano qualche briciola di patrimonio e, come mogli, delle compagne di servitù da cui abbiano figli; in tal modo essi finiscono per diventare più fedeli, e più saldamente vincolati. ....ut quibus quid gravius sit imperatum aut animadversum qui, consolando, eorum restituat voluntatem ac benevolentiam in dominum.... Gli schiavi diventano più diligenti nel lavoro quando li si tratti con maggiore generosità riguardo al cibo, al vestire, ai momenti di pausa dal lavoro, e con altri mezzi di questo genere, in modo che a quegli stessi cui venga imposto un lavoro o inflitta una punizione troppo grevi, tutto ciò, confortandoli, restauri la loro buona disposizione e l`attaccamento al capo.

VOCE B Un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà: e oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all'azione e separato dalla sua umanità. Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l'uno è per natura superiore, l'altra inferiore, l'uno comanda, l'altra è comandata -
Anànke dè pròton .... àrchon dè kài archòmenon physei, dià tèn soterìan... ed è necessario che sia così fra gli uomini, per la loro salvezza.

VOCE A Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro.... ......
Anthròpous .... ek pàidon òntas en desmòis...; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena hòste ménein te autoùs eis te to prosthen monon oràn, kùklo de tàs kephalàs upò toù desmoù adynàtous periàghein.... . Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un piccolo muro, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli. Se un prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?

VOCE C Il signore è la potenza che domina l'essere, mentre questo essere è la potenza che pesa sull'altro individuo; così il signore ha sotto di sé questo altro individuo. Per tale mediazione, il rapporto immediato diviene al signore la pura negazione della cosa stessa, ossia il godimento: esaurire la cosa e acquietarsi nel godimento. Il signore che ha introdotto il servo tra la cosa e se stesso, raggiunge ed assapora la dipendenza della cosa, e puramente la gode; il lato dell'indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo che la elabora.
Pòlemos pànton patèr, pànton basiléys.......

VOCE A
Pànton chremàton métron estìn anthropos? Misura di tutte le cose... sepolcro datore e dimora di vita ..... Mè phynai pànton phériston.... Quo non nata iacent..... Meglio è per l'uomo non essere nato....... .... nos qui morimur paululum cotidie..... ..... e non vedere la luce del sole.

[Qui inizieranno a scorrere tristi e dolci immagini di morti bambini. La recitazione si farà, via via, più risentita e più cupa, più ferale ed inflessibile, eppure impassibile, necessaria, come in un rito].

VOCE B È oscena la morte. La morte che muore con noi, che trascina perfino se stessa nel seno del niente... .....
an toti morimur nullaque pars manet nostri, cum profugo spiritus halitu immixtus nebulis cessit in aera.... Questo filo di fumo tu lo segui, e domani non sarà che un passaggio di nuvole (...) insieme a noi, giù fino in fondo all’abisso del tempo, leggero. (...)

quo cursu properat volvere saecula

astrorum dominus....

ut calidis fumus ab ignibus

vanescit


(...) Dopo la morte niente. È niente la morte: il traguardo che tagli sudato in affanno alla fine di un’ultima corsa. È il caos che ti vuole. Tu ascoltalo.... .....

post mortem nihil est ipsaque mors nihil,

......

tempus nos avidum devorat et chaos.

Ecco, disciogli in lui la paura, in lui - senza tempo - ogni vana speranza.

VOCE A
Philòphron Hesychìa, Dìkas O meghistòpoli thugàter boulàn te kài polémon échoisa klaìdas hypertàtas... O sapiente acquiescenza, figlia di Giustizia, tu che colmi le città di consigli e di guerre, e tieni in mano le supreme chiavi epàmeroi... Tì de tìs? Ti d'ou t's? skiàs ònar ànthropos... Effimeri.... Chi è uno? chi non è? Sogno o fantasma di breve ombra, l'uomo.

(.....)

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il `pappo' e 'l `dindi',

pria che passin mill'anni? ch'è più corto
spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia......

...

quaeris quo iaceas post obitum loco...

........



E ancora tu chiedi dopo dove sarai?

- quo non nata iacent -

Ma lo sai: dove sono le cose mai nate.



Matteo Veronesi

venerdì 15 ottobre 2010

POESIE DI GABRIELLA GAROFALO

Era, paradossalmente, proprio una delle più note scrittrici femministe a dar l'impressione di avvalorare, quando affermava che "una donna che scrive poesie e sa / di essere donna, non può che tenersi attaccata / stretta ai contenuti perché la sofisticazione / delle forme è una cosa che riguarda il potere", l'antico e non sempre fondato stereotipo che vedrebbe nella "poesia femminile" un'espressione quanto si vuole limpida, autentica, potente, ma priva del necessario spessore culturale e di un'adeguata coscienza stilistica. L'esatto contrario sembra avvenire nella migliore poesia femminile degli ultimi decenni - quella che cresce, perlopiù, nell'ombra della "stanza tutta per sé", lontana dalle luci mediatiche e dai clamori ideologici e propagandistici, ed è, proprio per questo, meditata, autocosciente, assorta, culturalmente e formalmente avveduta.
E' proprio il caso di Gabriella Garofalo, le cui sillabe cesellate, colme, risonanti, sicure, quasi predestinate - dietro le quali si intuisce, lontano eppure mai obliato presupposto, il paziente lavorio correttorio, il "lungo studio e 'l grande amore" che conducono alla studiata e sapiente impressione della naturalezza -, sono davvero simili a candidi, puri ciottoli immersi nel "torrente di silenzio" che li avvolge e li purifica.
E ad arginare in qualche modo, senza occultarlo, l'impulso affettivo ed extrarazionale che si manifesta come corrente elettrica ed emotiva, come fiotto di sangue caldo e tumultuoso, è l'autoallocuzione, già classica, alla propria anima, l'appello rivolto direttamente alla propria stessa coscienza esistenziale e letteraria, allo specchio limpido e fermo, finanche freddo e severo, dell'anima-ghiaccio che riflette e verifica (cioè rende vera ed autentica) se stessa, quasi come il "lac dur oublié" del mallarmeano Cygne. (M. V.)



13/07/’10

a M.


Spasimano perché il nido si ricolmi
di piccole pietre bianche, rami secchi,
foglie in sé riavvolte -

Cielo, ti sei mai chiesto
chi ridà vita a piccole pietre bianche
se le travolge corrente in silenzio
o pensi solo a schivare
nevrosi e nubi che t’imbrattano? -

cadono libri alberi comete,
il tuo segno, anima, aspetta:
finché sono tue luci pura impudenza
oltraggio al dio che insegue,
non gridino acqua e redenzione,
non serve -
meriti solo fuoco, hai rigettato inermi,
si fa terra bruciata se percorri -
in breve, di altre mani muova il cielo -
non certo per mano di una madre.


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09/96/’10

a M.


Non sono blu, un’occasione mancata?-

Guarda, sono soltanto fiori,
non c’entra in ansimi di creazione
il Padre se luce sborda invade
stronca peggio di un’accusa-
scherma vetri finestre, può servire,
farebbe proprio comodo la fine,
chiedi il suo desiderio -
ma guardano i muri guardano
con occhi che tu non possiedi:

Atropo braccia conserte a riposo,
l’aria sa di luce, anche i bambini -
anima, inverdichisce sole nel tuo sguardo.


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13/07/’10


a M.



Nessun problema, dicono, se perdi stanze,
se dentro ti scava nero si risveglia
mentre ti cade addosso il desiderio
a volte come roccia, a volte come foglia -
per fortuna muoiono alla svelta,
l’inverno i suoi giorni il suo tempo,
per questo li ami mentre vengono,
fermano, se ne vanno
insieme a piccoli furti,
espedienti di cielo per la sopravvivenza-
anima, che temerario progetto
sei per luce
costretta ad accettarli,
per luna se cerca di glissare
convinta che luce ti protegge,
ti nascondono nubi -
ma non è serata questa, ti ripeti,
solo strana vendetta del suo seme.


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09/01/’10


A B.

Elettricità nell’aria-
spavaldamente hai preso la sua luce-
ti arriva la mattina, lavora tutti i giorni,
orario di ufficio il suo,
vuole anima corpo grembo-
ma la città la città rimane
limbo di acquisti, svuotate parole
se stagliano nel cielo s’incontrano
tra antracite di nubi, pioggia-
forse nato di seme, forse padre
ti muove ti risponde il grembo,
ti rassicura, colora in blu lo specchio,
ha un certo fascino l’anima, ti sembra?-

Certo, ha fascino anche il ghiaccio.


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01/02/10


a B.



E’ musica, ripeti, muovere le dita
sull’albero sul corpo,
che c’entra la parola?

Pane di seconda scelta, mordono,
merce avariata, mordono -
aspetta -
fuori urge il desiderio,
ma si rivela inverno
persino più bastardo del tramonto-
e tu smetti tue arie, mia parola,
smetti pretendere risposte,
smetti l’albero il corpo,
corri a rovi, cespugli,
ramaglia e filo d’erba,
risposte che progetta in labirinto
la tua mente-
ha dignità e interesse persino il filo d’erba,
mia anima invalida a sentire.

giovedì 14 ottobre 2010

Elisabetta Brizio, "'Doppio ritratto' di Alberto Carollo o della Melancholia"



Tonio Kröger è l’insegna e l’insegnante di uno schiaffo per gli autori e/o intellettuali. Lo schiaffo è il lato non retorico e non espressivo della letteratura. Cioè: scrivere è più una maledizione che una vocazione. Scrivere è più un portamento e un comportamento che una dichiarazione di contenuti. È una questione di fisionomia e di marchio: “alcunché di simile potrebbe cogliersi nei tratti di un principe che passi in abiti borghesi attraverso la moltitudine. Non c’è abito borghese che tenga” (come traduce Emilio Castellani). Quando l’individuo dovrebbe cominciare a sentirsi in sintonia con il mondo intuisce la sua predestinazione ad altro: muore così l’armonia con il mondo esterno e si diventa “borghesi smarriti”, il che oltre tutto è un marchio d’infamia.    
     Quello di Kröger, per molti versi, è il disagio che scorta e paralizza il protagonista di Doppio ritratto di Alberto Carollo (Edizioni Creativa, Torre del Greco 2010, Prefazione di Patrizia Garofalo) Alfredo Algelo, insegnante di lettere e aspirante scrittore. L’infanzia di Alfredo, evocata in uno dei flash back del racconto, è segnata da un soffrire il distacco, dalla incomunicabilità con i suoi coetanei, se non fosse per la sua attitudine al disegnare. L’arte, prima il disegno, poi la scrittura sull’arte, sembrerebbero le sue sole forme di comunicazione. Letteratura è dannazione, condanna, la quale, Carollo diceva in un’intervista, con esplicito riferimento a Tonio Kröger, fa quasi rimpiangere una comune vita borghese, preclusa a chi ha il demone della creatività. E a Thomas Mann dobbiamo inevitabilmente rifarci ancora, in particolare alla contestualità di malattia e conoscenza, in Alfredo doppiamente messa alla prova: nell’attività creativa e nella passione amorosa per Alina – per lui l’amore è una sorta di epistemologia dell’eros.  Il nesso tra malattia e conoscenza è accentuato nel romanzo da Ilaria Baldini con l’ipotesi, altamente inquietante, di assumere le corsie ospedaliere – i “quartieri del pensare” – quali paradigmi della vita. Luoghi che muovono a riflessioni vere sull’esistenza, e nei quali, in fondo, l’umore malinconico dovrebbe relativizzarsi, se non fosse esso stesso, per l’appunto, malattia. Eletta a criterio di valutazione. In un celebre saggio Mann adduce queste parole di Nietzsche: “La capacità di soffrire più o meno profondamente determina il diverso valore degli individui” (Al di là del bene e del male, af. 270, nella traduzione di Bruno Arzeni). 

venerdì 1 ottobre 2010

"Ricostruire la decostruzione" di Maurizio Ferraris



A un certo punto, e sicuramente all’alba del 9 ottobre di cinque anni fa, Jacques ha smesso di tremare. Mi sono spesso domandato che cosa succede quando si muore. E mi chiedo se si possa applicare all’istante della morte quella frase che si legge in corsivo in La voce e il fenomeno: ‘la differenza infinita è finita’. Nell’istante della morte, non c’è più protensione verso il futuro, il flusso temporale, cioè il movimento del differimento, la differance con la ‘a’, si ferma, perché è giunto davvero l’ultimo momento.” Leggiamo questo in Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Derrida (Bompiani 2010), l’ultimo libro di Maurizio Ferraris. E in sole poche righe si ha l’intensa sensazione di un confronto vero con la morte, forse perché siamo, per così dire, assuefatti alle troppe metaforizzazioni che di essa si fanno (peraltro arrischiate, dato l’oggetto) e che ne svaporano la consistenza reale, mentre qui se ne percepisce tutta la portata letterale. E nominare le cose in senso stretto, rideclinandole per quelle che sono e per quanto possono esser da noi conosciute, superando la fragilità argomentativa del vario allegorizzare e trascendentalizzare da parte di posizioni scarsamente realistiche e colmando i vuoti di teoria che talora paiono alonare tangibili segni di omissione, è l’intendimento che pare vettorizzare la ricerca di Ferraris di questi ultimi anni. Finché non ci sarà tutto questo non ci sarà nulla - aveva detto Proust in altro contesto.

Dunque, dice Ferraris, noi scompariremo, ma non le nostre tracce con noi. Il futuro è documentato, come vaticinato da Jacques Derrida, il quale con singolare preveggenza aveva intuito un dilagare della scrittura che avrebbe segnato lo scarto dal logocentrismo. La scrittura è una germinazione di fantasmi, sia che si estrinsechi in una configurazione letteraria, sia essa nella forma di uno scontrino fiscale. E in primo luogo è lo stigma della nostra identità sociale, documentata nei nostri papiers quotidiani. È in qualità di registrazione che la scrittura implica una dilazione temporale che le attribuisce, scrive Ferraris, una “sopravvivenza post mortem”, vale a dire la segnatura della necessità delle registrazioni comprovanti il nostro essere stati nel mondo. C’è un nesso tra scrittura e tempo: la registrazione, la cui caratteristica, il differire, è in relazione al futuro, alla postumità, e quindi anche alla morte.

Attraverso cinque brillantissimi testi (lievemente disomogenei - scrive l’autore - “per occasione e per stile”, ma tutt’altro che eccentrici l’un l’altro) Ferraris riflette e indugia su un Derrida anche meno frequentato, sui suoi spettri filosofici, su quei tratti specifici dell’opera derridiana assumibili come direzione ricostruttiva del decostruzionismo sulla quale fondare l’”avvenire della decostruzione”. Prospettiva, scrive l’autore in apertura del libro, che quasi inevitabilmente “si intreccia (…) con la difficile eredità del postmoderno”. E Ferraris si rimette a un obbligo morale, alla responsabilità di ristabilire un pensiero non congetturante ma razionalizzante, e per quel che è possibile fondato, che riabiliti la delegittimazione della stessa cognizione di mondo seguìta all’uso improprio della decostruzione come semantica della deriva con conseguente perdita dei contorni della realtà.

Il corrispettivo di una visione - quella postmodernista - che ha condotto alla disseminazione della realtà e all’indebolimento della nozione di verità perché avvertita come aggressiva non può che essere una Weltanschauung claustrofilica: la vertigine adesca - ed euforizza il lettore -, ma nell’erratico déraillement la filosofia andrebbe incontro a un impaludamento in termini di uscita dall'oggettivo e soprattutto assisterebbe alla compromissione dei suoi stessi presupposti, smarginando le pur labili acquisizioni dell’irrealismo nella rovinosa icona dell’irrazionale. E continuando a divagare (in fondo siamo in un blog) sull’abitudine sparsa a coltivare e ad accentare deserti, la cosa che a volte - e tuttora nel terzo millennio - insinua nel lettore un certo imbarazzo è la circostanza che in alcune argomentazioni, più o meno esplicitamente, si avverte come un’aura soteriologica proprio mentre si ha come l’impressione che l’invocazione di una salvezza o di una missione da svolgere sia direttamente proporzionale all’aura di congedo da quella medesima realtà che al contrario dovrebbe costituire il punto di partenza di ogni prospettiva filosoficamente responsabile. Detto in altri termini: cosa significa pensare, con o senza Heidegger, in assenza di un oggetto inamovibile di riferimento?

Tornando al libro di Ferraris: egli ci propone allora un Derrida senza decostruzione? Naturalmente, no: piuttosto mette in opera - nei termini di una riconsiderazione ontologica - una perlustrazione che miri a individuare i segni dei suoi aspetti propositivi. Derrida stesso, nota Ferraris, dà forma alla decostruzione come immediato ritorno a un luogo significativo, come tempestiva “costruzione di qualcosa di diverso”, tanto che a un certo punto del proprio percorso introduce il termine “differance” in luogo di “difference” a designare il carattere relazionale e non radicalmente dualistico dei valori. La “difference” al gerundio diviene la segnatura del differire, del prorogare, della supplementarietà. Scrive Ferraris: “l’alterazione ortografica esprime in modo economico il pensiero di Derrida: i termini delle coppie oppositive che fanno parte della nostra tradizione non esistono autonomamente ma si generano l’uno in relazione all’altro, e il tempo è chiamato a mostrare la complicità che sta sotto l’opposizione.” Non si tratta tuttavia della delineazione di una forma di relativismo quanto dell’assunzione metodologica che niente ha carattere di definitività o di assolutezza.

Morale, ricostruzione, si diceva. Ma sono concepibili un’etica e una epistemologia che disconoscano una ontologia? Lo stesso Derrida asseriva che la giustizia è “l’indecostruibile”, forse per legittimare la configurazione disseminativa e lo smascheramento degli elementi di mistificazione proprio della decostruzione, caricandoli di un’intenzione etica, quella, se così è possibile dire, di riportare a giustizia argomenti disattesi o comunque non incongrui, e più in generale come estrinsecazione della semanticità delle dissonanti terminazioni. O probabilmente, osserva ancora Ferraris, perché “tutta l’attività di smontaggio non poteva spingersi sino a toccare la giustizia”, dal momento che qualcosa è da considerare giusto solo se reale e corrispondente al vero. Altrimenti, quale altro parametro di riferimento potremmo adottare per mettere in atto e verificare la fondatezza del concetto di giustizia, elemento che dalla realtà è inscindibile? E su cosa edificare la democrazia, se non sulla giustizia? Quindi nella morale sono massimamente in gioco la realtà, la veridicità e la verità delle cose e non le loro interpretazioni: conclusione che sembrerebbe inaggirabile e avere valore assiomatico. La giustizia si radica nella realtà, nella memoria e nell’iscrizione, e nelle possibilità tecniche della registrazione, visto che è attraverso la tecnica che le cose acquisiscono l’attitudine a essere ripetute e iterate.

L’indecostruibilità postulata da Derrida si accorda con la nozione di quella che nel Mondo esterno Ferraris aveva definito “inemendabilità”, vale a dire l’autonomia di un mondo “incontrato”, prescindente da noi e dalle nostre teorie, e che a noi sopravviverà. Indecostruibile - nell’incastro, in direzione rifondante, delle due nozioni - è allora l’evidenza delle cose del mondo, del fuori testo che rende possibile verità e giustizia. Difettando di un referente oggettivo e incontestabile, e di una ontologia che a esso si riferisce, insieme al nostro mondo esondante di iscrizioni che performano gli oggetti sociali (i quali differiscono da quelli naturali nella misura in cui non esistono indipendentemente dai soggetti ma solo perché i soggetti pensano che esistono, e come tali sono passibili di un inquadramento concettuale) dire “etica” risulterebbe una infigurabile astrazione linguistica. E “un’etica senza mondo è la migliore premessa di un mondo senza etica”, osserva Ferraris con significativo chiasmo, solo apparentemente paradossale, anzi quanto mai chiaroveggente.

La ricostruzione (o altrimenti detta “avvenire della decostruzione”) prospettata - e da tempo praticata - da Ferraris passa attraverso tre “imbarbarimenti del salotto derridiano”, la sezione più ricostruttiva del libro, come scrive l’autore. Il primo imbarbarimento sottolinea il dato di fatto che “senza ontologia non ci possono essere né epistemologia né etica, perché la realtà (l’ontologia) è il fondamento della verità (l’epistemologia) e la verità è il fondamento della giustizia (etica).” Non basta pensare a un’azione perché essa possa considerarsi tale. Il secondo imbarbarimento verte sulla “differenziazione tra tipi di oggetti”, la stessa che statuisce la divaricazione tra la decostruzione (la quale non distingue gli oggetti sociali da quelli naturali) e la documentalità (sorta di “grammatologia come scienza positiva”) che si fonda su iscrizioni idiomatiche che ontologicamente certificano mozioni dei soggetti inverando gli oggetti sociali. Infine muove l’attenzione di Ferraris esplicare l’idea di fondo della derridiana filosofia della scrittura, per la quale la dimensione scritturale come spazio di iscrizione - la stessa lettera da altri concepita quale punto di partenza dell’intenzionalità - costituisce la condizione dello spirito: il quale risulta dalla lettera, nel senso che ne è l’esito, la conseguenza, la condizione della sua possibilità. Ogni forma di comunicazione è evanescente senza registrazione, la registrazione precede e istituisce la comunicazione. Lo spirito allora, come esemplarmente dimostrato nel precedente e fondamentale lavoro di Ferraris (Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza 2009), è .doc, costituisce la risultanza della lettera e della sua valenza documentale. Questa addizione di esistenza conferita allo spirito (nel senso che esso non è una essenza scorporizzata, un’emanazione o una deità irriconoscibile), che implica un suo rinascimento in una forma identificabile, nominabile, stilata, questo stesso ragionare sullo spirito che si manifesta in seguito al riconoscimento di una fenomenologia della lettera, costituiscono una vera conquista spirituale, oltreché la definizione di una teoria eminente: senza iscrizioni, nulla di spirituale potrebbe trattenere esistenza né perdurare.

Se lo spirito ha una consistenza materiale (nella misura in cui, si diceva ora, nulla di spirituale sarebbe e persisterebbe in assenza di iscrizioni), allora cosa resta dell’anima? Ora, all’origine dell’anima, come dicevano gli antichi filosofi, c’è una tabula, un supporto scrittorio nel quale la memoria si imprime fissando i propri contenuti. Inoltre, con Vittorio Sereni, dice Ferraris, “l’anima, quello che diciamo l’anima e non è / che una fitta di rimorso”, magari anche soltanto per qualche venalissima mancanza, come disattendere alle cosiddette “chiamate non risposte” registrate sul nostro telefonino.

Ma i temi sollevati e - ora lateralmente ora direttamente - circostanziati in Ricostruire la decostruzione (in una testualità sostanziale e fluente, aperta a riferimenti ad altre discipline e talora con esse dialogante, senza che il filosofico argomentare cessi di essere rigoroso) sono innumerevoli, come l’argomento dell’animalità (in proposito, qualcuno di noi ricorderà la sibillina - dunque arcana e profetica - e fortemente straniante definizione derridiana di poesia, comparsa in un lontano numero della rivista Poesia e tradotta dallo stesso Ferraris), della psicoanalisi, della politica. Si inoltra nell’essenza della tecnica, della metafisica, e in specie della stessa decostruzione. Si intrattiene a tratti con referti biografici inerenti agli scambi tra i due filosofi, in qualche salto stilistico o mutamento di codice che non possono non evocarci il commosso libro che Ferraris scrisse in memoria di Jackie Derrida.

E per stemperare il senso di responsabilità cui - seppure in misura diversa - in seguito alla lettura di queste pagine un po’ tutti siamo ricondotti, predisponiamoci a leggere l’ultimo capitolo del volume, “NdT”, con maggiore leggerezza rispetto ai precedenti, anche perché sicuramente molti di noi non saranno né dei filosofi né dei traduttori, mentre tutti siamo nel mondo, nel quale nel frattempo stiamo performando il nostro fantasma. (E. B.)


mercoledì 22 settembre 2010

Giselda Pontesilli, SU “BRACI” *

Questo testo della poetessa Giselda Pontesilli ricostruisce, con passione e rigore, il fervido clima culturale (paragonato in modo non infondato a quello primonovecentesco della Voce) da cui germinò, e di cui fu espressione, la rivista Braci, legata ai poeti della “ scuola romana” (Beppe Salvia, accomunato, quasi per indiretta ideale fratellanza, a Remo Pagnanelli dall'assiduo, divorante impegno letterario vissuto come destino tragico e condotto fino alla consumazione e all'oblazione di sé, Claudio Damiani, la stessa Pontesilli).
In un clima culturale d'incertezza, debolezza, deriva, tramonto, eclissi, decisamente e soffertamente novecentesco, tra fenomenologia, nichilismo, esistenzialismo, postmodernismo, si affermò il peculiare “classicismo” di questi poeti: classicismo non come anacronismo, rifiuto del presente, rifugio in un'antichità remota e defunta, ma come coscienza e ricerca della forma “necessaria”, segnata e figurata da una necessitas che è sì equilibrio, armonia, naturalezza studiosa e calcolata, convenientia, adattamento, rispondenza della forma al contenuto e del contenuto alla forma, ma anche destino (si ricordi, di Rosario Assunto, filosofo caro alla Pontesilli, il libro Forma e destino), fosse pure doloroso e tragico, traccia in qualche modo già scritta, predeterminata, incisa nell'ordine superiore e insieme immanente della natura e dell'esistenza, ma che pure l'autore persegue, con volontà e coscienza tragiche appunto, in modo deliberato, voluto, ostinato, dietro la serena compostezza, apollinea e oraziana, del marmo scolpito e levigato. Un classicismo, questo, che proprio per la sua inattualità, la sua coscienza culturale, il suo lavorio di lima, può apparire, nel mondo distratto ed effimero della comunicazione e della socialità contemporanee, più salutare, necessario, forse anche più trasgressivo, di qualsiasi chiassoso e gratuito gesto d'avanguardia.
In quest'ottica, grazie alla figura di Federico Caffè, economista dal volto umano, addirittura il linguaggio dell'economia, solitamente cabalistico, tendenziosamente nebuloso, volutamente e perversamente oscuro (mentre quello poetico è tale, quando lo è, semmai per eccesso di significazione, spessore, pregnanza), mistifcante ed ingannevole, può acquisire, proprio perché ricondotto ad una misura di autenticità umana ed etica, di adesione alla sostanza dell'essere e dell'esistenza, un valore rivelatorio ed illuminante (M. V.).

Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, saggio pubblicato sulla rivista “aut aut” nel 19981, l'inosservato, isolato Guido Davide Neri (1935-2001), illustra mirabilmente il lavoro di Jan Patocka (1907- 1977), il grande filosofo cecoslovacco, dissidente del nichilismo, di cui il Neri “rimarrà per tutta la vita il più attento studioso italiano” (2), e di cui allora era appena uscita l'edizione italiana di Platone e l'Europa (3).
Neri ci spiega come Patocka, “attraverso una riflessione che impegna tutta la sua vita”, sia giunto alla nozione di “mondo naturale” meditando sul rapporto di quest'ultimo con la filosofia e rielaborando creativamente l'analoga nozione husserliana che, negli scritti tardi di Husserl -inaugurati da “Rovesciamento della dottrina copernicana”(1934) e “La filosofia nella crisi dell'umanità europea” (del 1935) (4) - prende il nome di mondo-della-vita (Lebenswelt).
Per Husserl, com'è noto, le scienze europee, ossia le scienze fisiche moderne (imposte come solo vero sapere dalla cultura dominante dei “signori e padroni di questo mondo: politici, ingegneri e industriali” (5), si separarono, già con Bacone e Galilei, dal mondo-della-vita, delegittimando il sapere intuitivo, immediatamente condiviso, del “senso comune” (6) a favore di quello fisico-matematico dello scienziato, il solo, coi suoi calcoli, che lo può percepire; fino ad arrivare via via alla negazione estrema -variamente presupposta dall'odierna epistemologia - di tutte le evidenze originarie, supreme, esperite e condivise nel mondo-della-vita, cioè, in sostanza, alla negazione dell'Essere; negazione che, seguendo l'impostazione di Patocka, si può anche definire, pregnantemente, regressione: pre-filosofica, pre-politica, pre-istorica.
Questo processo di separazione tra uomo e scienziato, mondo-della-vita e dominio scientifico-tecnico fu, ed è, un terribile trapasso epocale, l'abbandono di un aureo, perenne paradigma, di “quel nucleo di certezze inconfutabili che ogni uomo possiede” (7) e che era valso, nelle epoche e nelle civiltà antiche e medievali, come base, pre-comprensione per tutto l'edificio del sapere; base, fondamenta di certezze che ci appartengono per costituzione, assiomi, giudizi originari e naturali, giudizi d'esistenza: c'è il mondo, non so come, ne ho stupore, ma c'è (ha essere), indipendentemente da me che pure sono (ho essere) e che lo vedo, è a modo suo, secondo un proprio fondamento intrinseco, una legge, un ordine, un' essenza (8).
Mentre il moderno e odierno paradigma recita, sia pure sordamente, irresponsabilmente, illogicamente, di fatto così: niente è, ossia niente è in modo proprio, stabile, in una sua costituzione sostanziale, intangibile, contemplabile, niente è se non manipolabile, per chi lo manipola, cioè utilizzato, trasformato, organizzato dal soggetto, che, a sua volta, non ha essenza, non è, se non - come il resto - illimitatamente manipolabile.
Nichilismo, dunque (9); e, col procedere del macchinismo e del dominio occidentale sulla Terra, sempre più invasivo, regressivo, disumanizzante: dapprima, oblio dell'Essere, contro cui però, nel '700, '800, '900, lavorarono strenuamente tante singole, insigni persone; poi, quando anche il Singolo, sempre più inosservato e isolato sia sfinito, zittito, oblio dell'oblio dell'Essere, cioè solo Forza, Dominio, Apparato.
Guido Neri, intorno ai quarant'anni, maturò la comprensione che la rinnovata, “intenzionale” coscienza dell' Essere husserliana, per la sua straordinaria tensione etica e al contempo per l'inoppugnabile, instancabile altezza e originalità teoretica, vero e proprio “eroismo della ragione”, fosse l'avamposto di una svolta epocale, la completa delegittimazione razionale del Nichilismo, e di ogni relativismo, scetticismo, nominalismo: non “un punto di vista” filosofico, ma, come intendeva Husserl, “la stessa filosofia finalmente costruita su basi incrollabili: un'impresa rigorosamente scientifica alla cui realizzazione (del resto aperta all'infinito) si richiedeva il lavoro concorde e perpetuo delle generazioni filosofiche. Né si trattava di un'impresa tra le tante. Il destino della filosofia era per Husserl strettamente connesso con quello dell'umanità intera, cioè con la possibilità di una sua interiore riplasmazione etico-teoretica (che si riassumeva nel concetto di una 'responsabilità assoluta') o - altrimenti - con la sua ricaduta nella barbarie” (10).
Così pensò fortemente anche il maestro di Neri, Enzo Paci (1911-1976), secondo cui Husserl è l'unico, tra i filosofi contemporanei, a poter veramente orientare e guidare, “per il fatto paradossale che Husserl idealmente non precede l'esistenzialismo ma lo supera e lo corregge, rinnovando la filosofia contemporanea” (11).
Negli stessi anni, il Neri, frequentando a Praga Jan Patocka, cominciò a meditare, tra i pochissimi, l'idea di Europa.

In quel preciso momento, in Italia c'è Braci.
Braci, infatti, come rivista di poesia, inizia il suo lavoro a Roma tra l’ 80 e l' '84, ma - come inosservata, isolata “comunità” di poeti - c'è anche dopo, e anche prima.
Anche il Neri frequentava a Milano negli anni '60 una comunità, la comune di via Sirtori, dove, dal '60 e ancor fino al '75, ferveva un lavoro culturale vivo, generoso, non ideologico, animato dai seminari di Enzo Paci e dei suoi allievi (Neri, Filippini, Piana, Rozzi, Gambazzi) che, al marxismo e allo scientismo allora dominanti, opponevano lo studio - nonché le prime traduzioni italiane - dei testi fenomenologici, e la rilettura creativa di Marx: Il Capitale, i Manoscritti economico-filosofici.
Mentre a Roma, nell '80, nella casa a San Lorenzo del poeta di “Braci” Giuliano Goroni, si studiava insieme la Metafisica e più tardi, a casa di Mariella Vivaldi che ospitava Gino Scartaghiande, Gino lesse e commentò l'Iliade, per intero.
Per capire questo salto drastico di interessi e di studi, può soccorrerci in parte - considerato
analogicamente - il pensiero sui “paradigmi” di Kuhn (12).
Braci era un nuovo paradigma; le sue coordinate, i suoi principi di fondo, i suoi criteri, erano non solo diversi, bensì “incommensurabili” rispetto a quelli “post-moderni”, semplicemente perché di nuovo basati su ciò che da secoli si è negato, nascosto, e che invece è un mistero sicuro, evidente: l'Essere.
Chissà come, d'un tratto, spontaneamente, l'Essere era riapparso per i poeti di Braci e certo per nominarlo, per dire - com'è logico e giusto - l'Essere è l'Essere; l'Essere è e non può non Essere; l'Essere è e il non essere non è, si dicevano anche, come sempre, i suoi tre predicati fondamentali, come Lui assoluti, cioè inderivati, costitutivi e coessenziali all'Essere: Bello, Vero, Bene.

-”Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle”.

-“L'Arte non è, come pensavano i moderni, al di là del bene e del male. L'Arte è puro bene”.

-“L'arte è una chiara guida al Bene”.

-“La lingua è soprattutto virtù”:

queste, alcune delle loro intuizioni. E ancora:

- “L'estetismo, cioè la mancanza assoluta della volontà di esperire e di dire il Bello, il Vero. Anzi il non credere che Egli possa esistere”.

- “L'unità è l'unità etica, la persona, il centro. La poesia è conoscenza di sé, scienza di se stesso”.

Ora, come già dice Kuhn, il passaggio da un paradigma ad un altro, “proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da una esperienza neutrale. Come il riorientamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non in un istante) oppure non si compirà affatto”(13).
Volendo descrivere ciò che accadde, si può dunque dire così: gli appartenenti a Braci, chissà come, spontaneamente, erano non nichilisti, erano “affermatori istintivamente” (come di sé disse Slataper); tuttavia, dapprima studiarono, come d'obbligo, tutti i fasti moderni: tutti, più di tutti; poi, d'un tratto - sebbene, dunque, non in un istante -, venne loro semplicemente detto che basta, li si lasciava perdere, e premeva invece studiare, per la vita, per il presente, l' incalcolato Petrarca, e i medievali, e i filosofi antichi.
Ce lo spiega, semplicemente, il poeta di Braci Claudio Damiani, che dice: “Ricordo che io, ragazzo, quando dall'avanguardia che leggevo passai per caso a Petrarca, rimasi sbalordito dall'immediatezza e dall'attualità della sua lingua e le parole dell'avanguardia mi sembravano vecchie, desuete”(14).
Anche Petrarca, a un certo punto, aveva rotto con tutti e s'era messo a studiare gli antichi: perché gli dispiaceva radicalmente il proprio tempo: lo vedeva “disumano e disumanizzante” (come scrive Garin), soprattutto per due aspetti: lo scientismo di tipo aristotelico, di cui dice, nel De ignorantia, che non serve a nulla riguardo alle domande “esistenziali” (domande, dunque, sull'Essere) e il teologismo anch'esso di scuola aristotelica che, pur pensando a Dio e all'uomo, lo faceva astrusamente, “specialisticamente”, contenendo - a ben vedere - un implicito scetticismo, erudizione fine a se stessa, degenerazione - quella della fase involutiva della Scolastica, segnata, non a caso, dal cruciale dibattito sull'Essere, l'Essere degli “universali”.
Per opporsi al proprio tempo, anche Petrarca non esita a fare un salto drastico, a tralasciarlo: “E mi sono comunque sforzato di dimenticare questa età, sempre inserendomi spiritualmente in altre” - scrive nella lettera Alla posterità.
Spiritualmente, infatti, egli è vicino agli antichi e riprende a coltivarne gli studi, “questi studi” - scrive - “negletti per secoli” (Seniles, XVII, 2). Ma lo fa non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si è perduto, perché vede che dal passato può imparare qualcosa di massima importanza che non può imparare dai suoi contemporanei, perché - vivendo in età di declino (15) - questa è l'unica via praticabile per poter riguadagnare un' intelligenza adeguata dei problemi fondamentali, e perché, così facendo, solleva, vivifica, chiama gli uomini, i suoi contemporanei, a unirsi a lui in questo risveglio, a questo impegno morale e comune con gli altri, al suo umanesimo (umanesimo - come Braci comprese - ontologico, non soggettivo e psicologico come quello che gli venne attribuito dai moderni, e che invece prevarrà dopo, dal Cinquecento, per sfociare infine nell'odierno nichilismo).
Braci si è posta di fronte a Petrarca come lui si è posto di fronte agli antichi, e cioè in modo vivo, urgente, vitale e così facendo ha voluto chiamare gli uomini, gli odierni, isolati, sradicati, smembrati, al ristoro di un impegno morale e intellettuale comune, a una vita nuova, un nuovo - ontologico - umanesimo.
Dice Kuhn che quando, d'un tratto, si riapre un modello per capire le cose, ricomincia, in qualche modo, la rinascita, la vita.
Ora, infatti, si pensano le cose di prima ponendole in direzioni differenti da prima, e si pensano cose non pensate da secoli, si vede l'uno, e dunque il legame, il discorso comune, nei vari lavori, le varie discipline, si ricordano persone obliate, ignorate, si ritrovano, “futuri”, gli autori antichi.
E non solo gli antichi, certo, non solo.
Per esempio: per comprendere, la “libera, sincera, disinteressata” rivista La Voce, che voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” (così Prezzolini (16)), occorre un altro sguardo, un altro Pensiero, così come per comprendere Scipio Slataper, Jahier, Ippolito Nievo.

Per descrivere più essenzialmente il lavoro che “Braci” propose, c'è una terza, inosservata “comunità” di cui si deve parlare: la comunità di via del Castro Laurenziano a Roma, facoltà di Economia, ala, aula di Politica economica, docente Federico Caffè.
E' ancora un luogo, in Italia, in cui in questi anni l'Essere riappare, perché i giovani lì riuniti con il maestro Federico Caffè (1904 - 1987), alla Forza, al Dominio economico-mediatico del libero mercato e dell'economia virtuale, opponevano semplicemente lo studio della loro disciplina, l'economia, “uno studio degli uomini” - diceva Caffè “intendendo correttamente” Alfred Marshall - uno studio, cioè, al servizio dell'equità, del Bene (17).
Di qui il ruolo superiore che Caffè e i suoi allievi riconoscevano alla realtà politica, allo Stato, chiamato a sua volta a gran voce a “essere”, con opere creative, coscienziose, puntuali, affinché il moderno mito del libero mercato fine a se stesso, autoreferenziale, non produca il deserto, la desertificazione umana e naturale.
Ciò che Caffè esigeva dall'economia, “Braci” lo esigeva dalla poesia; nello stesso modo in cui economia è per Caffè questione sociale, poesia è per “Braci” questione della lingua: dunque, la questione sociale della poesia, il suo coerente impegno, la sua strenua, incorruttibile militanza, è, per “Braci”, la poesia medesima, cioè la lingua.
Sempre, i poeti di “Braci” hanno ritenuto che ciò che li univa e costituiva la novità della loro rivista non era una poetica comune, che sarebbe come dire un'ideologia, bensì una lingua comune, una lingua.
E, analogamente, Caffè e i suoi allievi, non erano uniti da un'ideologia economica, bensì dall'economia in carne e ossa, creativa, libera, la cui questione è quella sociale, è la puntuale decisione del verso, della direzione etica, pratica, reale.
Poiché, le varie scienze e discipline, essendo naturalmente, oggettivamente ancorate al comune fondamento dell'Essere, sono feconde, non ideologiche, vive, solo se acconsentono a questo chiaro, caro ancoraggio, a “cose buone”, “cose giuste”, Idee.
Non a caso, per ciò, gli interventi di Gino Scartaghiande e Claudio Damiani all'inosservato Convegno sulle Ultime tendenze della poesia italiana, La parola ritrovata (Roma, 1993), si intitolavano rispettivamente “La gloria della lingua” (così Dante “chiama” Guido Guinizzelli) e “Lingua e linguaggio”(18) (“Ogni cultura di solo linguaggio” – ci spiegava già Gino - “è senza ‘sostanza’, non ha l’oggetto in sé come dato reale, ma solo come dato linguistico, nominale”).
Non a caso, nel brano di Claudio Damiani prima citato, il poeta di “Braci” parla della lingua di Petrarca, rimanendo sbalordito della sua immediatezza e attualità in confronto a cui le parole dell'avanguardia gli sembravano vecchie e desuete.
Riesumato petrarchismo, dunque? “Questione della lingua” risolta alla maniera del Bembo, del Cinquecento che venera Armonia? "Imitazione “grammaticale” di ritmi, metri, Tradizione? Oppure, purismo anzitutto “identitario”, “patriottico”, alla maniera di Giordani, o di Cesari, o Monti?
No, certo: in nessuna poesia di “Braci” è riscontrabile un così inteso, letterario petrarchismo, anzi, Petrarca letteralmente non vi è mai imitato; né si riscontra che i poeti di “Braci” siano “stilisticamente” vicini tra loro, sebbene le loro opere, personali, autonome, diverse, siano, a ben vedere, unanimi, analoghe.

Per esempio:

Se posso parlare anche adesso
la tua figura è doppia,
è ambigua;
perciò non potrei parlare
ancora, e dirti la verità
che solo avviene
quando coscientemente
è avvenuta la scelta
e uscendo da vane fantasticherie
si entra nella realtà.
Tutte le realtà che tu dici vicine
ancora ti sono lontane
entro una lingua che si perde
come se fosse linguaggio.

…..............................................

Noi stiamo ricostruendo tutto
da dentro. Ci vediamo come pochi
in una stanza, tutto si ricompone
il tempo senza tempo ed ogni
luogo, e solo vediamo l'erranza
di chi per nulla s'agita, e per nulla
intende l'animo suo al vero
(o che per nulla intende
il vero che al vero
l'anima sua intende).

Queste sono poesie di Gino Scartaghiande. Analoghe a:

Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v'ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch'è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
Io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d'aver
qui nella casa un'altra casa, d'ombra,
e nella vita un'altra vita, eterna.

…................................................................

Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle.
Se al calligrafo non parve l'ironia
bastevole d'un plurale che dona,
io pur v'aspetto ore liete e crudeli.
Un androne più buio impauriscono
pochi selvatici sgabelli e alcuna
delle mantelle e gli spolverini
bigi e solidali, e vola tutta
una polvere grigia che s'afferra,
che più lunare erede di tutta già
la grande faccenda del cielo vive,
al suo modo, vive e azzittisce.
Che conviene star zitti ribelli,
la poesia ha la sua forma legittima.

….............................................

egli non ama certamente il grigio
focolare dell'orma e la forma
caudata della ellisse, non ama
l'astrazione del selvaggio informe
ragionar casto e sicuro. e grido
e greve insaccamento del limo
dove dorme la gora, e l'animo
fioco del tumulto, e la nazione.
ma per sua naturale inazione
e diacona effigie di maestro
accoglie a sé con amorosa laude
l'arte del fabbro e il pentimento vero
del segno inaccessibile e il canto
gioioso dell'ape pronuba.

Questo è Beppe Salvia, a cui si deve il nome di Braci.

Analogo a:

Con me porto il suono d'un ricordo
che se sento in tanto transito
far cenno intorno e ridere da un viso,
di tutte le parti della vita

una, più si dà a parer viva,
qualunque sgomento o capriccio
il tempo eserciti fra le nostre
domestiche mani.

Questo è Giuliano Goroni. Analogo a Claudio Damiani:

Camminare sulla tua via,
o sei tu, sentiero, che cammini dentro di me,
o sei tu la creatura
e io un cammino, una via.
Perché tu, come sei intero,
come sei fatto bene, e formato
in tutte le tue parti.
E quando ti incontro, mi sembri vivo
ché ti fai incontro a me, felice,
o quando ti batte la pioggia, e stai immoto
come le mucche, senza cercare un riparo,
e già chiacchiera l'acqua
e diventi un ruscello.

E Claudio, in fine, è analogo a Gino:

Ora la notte scende in questa valle,
dove un tuo puro volto io vedo.
L'oscurità è calata su alberi e cose
e dappertutto come una placida
fiumana del suo silenzio il mondo
s'è riempito. Qui sospeso da una luce
silenziosissimo appare e mi guarda
un tuo puro volto.

Ma quale fu dunque, qual è per Braci la questione della lingua?
Si trattò, già si è accennato, come d' un riorientamento gestaltico, d' un nuovo paradigma, con il quale, a tale questione plurisecolare “Braci” diede un'impostazione esplicitamente diversa, o forse solo, in fondo - vista la stretta epocale - una rinnovata, drastica esplicitazione.
Dicendo: non ha importanza che la lingua, materialmente, sia questa o quella, il fiorentino scritto del Trecento, quello parlato, il toscano, le parlate regionali, né importa difendere, materialmente, l'italiano o il francese o il portoghese dalle voci straniere, o dall'inglese, perché non è questa la vera questione della lingua, e anche l'analisi lucida e catastrofica di Pasolini sulla “unità” “linguistica” “televisiva”, può essere intesa solo così: la lingua non è un problema formale, bensì ontologico, sostanziale; la lingua, qualunque materialmente essa sia, è veramente tale se nomina l'essere, se le parole non sono nomi falsi, o nomi vuoti fini a se stessi, autoreferenziali, bensì corrispondono, com'è logico e naturale, all'essere delle cose.
Ora, quest'ordine, questa legge universale è già del tutto chiara nel mondo-della-vita, dove, nelle lingue volgari di tutti i popoli, nei vari idiomi e dialetti, ci sono mille modi di dire - analoghi, che esattamente la esprimono.
Quando si dice, ad esempio, in tante lingue, in tanti modi: “sono solo parole”, “si fa presto a parlare”, “non bastano le parole”; oppure, invece: “mi ha dato la sua parola”, “trova sempre le giuste parole”, “non si scherza con le parole”.
Ovunque, si vuol dire così, in così tanti modi, che la parola è vuota, e vana se non si fonda sull'esperienza “reale” di ciò che si dice, se, per così dire, non è parola “espiata”, di chi si permette di parlare solo perché ha messo alla prova quella parola, si è conformato costantemente, coerentemente con quello che dice, dice ciò che è vero, ciò per cui ha pagato, si è sacrificato, cioè sempre, in definitiva l'essere, l'essere vero dell'uomo e delle cose.
Perché, come sempre e naturalmente tramite la coscienza avvertiamo, le cose sono, hanno essere, ed è questo loro stabile essere, questa salda essenza, questa loro Idea formale, che la lingua rispettosamente “dice”.
Ed è unicamente questo legame con l'essenza, con l'essere vero delle cose che dà dignità di lingua alla parola.
Come scrive Gino Scartaghiande in “La gloria della lingua”, è stato Dante, con il De vulgari eloquentia, a dire qualcosa di definitivo e di ineguagliato sulla lingua; essa è per Dante - come Gino, riorientando, comprende e descrive - “la stessa lingua per tutti gli uomini, anche se si esprime con i più vari idiomi, e dialetti. E' il volgare naturale, quello che si apprende, appena si incomincia a parlare. Ora, nell'ambito di ognuno di questi volgari naturali, è possibile raggiungere un'eccellenza, qualcosa di straordinariamente perfetto, per cui parliamo non più di volgare naturale, ma di volgare illustre, un volgare che illumina gli altri uomini, e rende illustre colui che lo sa adoperare.
Esso non è il toscano, e nessuno in specifico dei dialetti italiani, anzi Dante annovera tra i primi e massimi esempi di volgare illustre un trovatore provenzale, Arnaldo Daniello.
Questa lingua <>, è una lingua di nobilissimo intendimento, lingua d'Amore, di gentilezza, e di potenza; essa, la sua potenza, non è altro che quella della poesia, con cui in definitiva coincide”(19).

Nell'Europa dal fondo del suo declino, “Braci” ha compreso questa lingua, come Petrarca, nell’ “aureo Trecento”, l'aveva a sua volta compresa e vista compresa, dal momento che essa, divenuta umanesimo italiano, divenne europea.
Ma perché, invece, il lavoro di “Braci” è rimasto incompreso?
Ancora una volta, può soccorrerci -per analogia- il pensiero di Kuhn, quand'egli dice che perché un nuovo paradigma sia accolto e ritenuto tale, gli occorrono innanzitutto “alcuni sostenitori”, la loro franca, libera adesione, “conversione” - lui dice, “fiducia” in esso , “fede” (20).
Ora, senza dubbio Petrarca, giustamente cosciente del suo valore, si aspettava di avere ed ebbe, ai suoi tempi, alcuni ferventi amici, interlocutori, sostenitori (primo fra tutti Boccaccio, il cui Decameron viene ora compreso, in modo sorprendentemente “antimoderno”, da Franco Cardini21); e il suo biografo più illustre, Ernest Hatch Wilkins, dice che “Francesco Petrarca fu l'uomo più grande del suo tempo ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi [...] soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie” (22).
Solo con questi amici, grazie a questi amici che in lui ebbero fiducia, iniziò l'opera, il lavoro dell'umanesimo europeo.
“Braci”, come la libera, sincera, disinteressata rivista La Voce, voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” e si aspettava, anche lei, di trovare amici, interlocutori, sostenitori; non per presunzione, o per propria ambizione, ma perché vedeva che quel risveglio, quello studio, quella ragione erano veri, urgenti, vitali, e perciò credeva che alcune -tra le riviste di poesia, alcuni -tra i poeti italiani, li avrebbero condivisi, compresi: per lavorare insieme, per fare il nuovo -ontologico- umanesimo europeo.
Non è accaduto, perché ben altra è la Forza, ben altro l'Apparato, il Nichilismo della presente epoca rispetto a quello che pure tanto ostacolò La Voce, ben più difficile oggi vedersi, essere amici, essere vivi: “un più vasto consenso di amici ci era negato” - ha scritto Gino - “per la complessità della situazione, e <> come scrive Beppe, in Lettera.
Non è accaduto, e Braci ha condiviso questo silenzio, questo rifiuto con Guido Neri, con Federico Caffè, con Enzo Paci, eclissandosi, nascondendosi, ma non -come teme Franco Dionesalvi- nel nichilismo passivo, “nel gorgo totalizzante di telefonini e canali satellitari”, bensì, semmai, nel solo “luogo” da Federico Caffè consegnato, indicato; quand'egli visse; e scrisse mirabilmente che se il periodo che viviamo è “particolarmente amaro”, “allora non resta che una soluzione alla Guicciardini. Intesa però, correttamente, non come egoistico rifugio nell'interesse individuale; bensì come disperata dedizione al proprio dovere personale, familiare, professionale, quando non ci sia possibilità di azione e di impegno civile” (23).
Credo che in vario modo sia avvenuto questo, in questi anni, e con la loro “disperata dedizione”, con la vita: con l'opera, lo dicono: lo fanno Antonio Neiwiller, Remo Pagnanelli, e anche, “con sguardo tranquillo e imprevedibile” -come ha scritto Gino- Angelo Fasano:

Non disturbare la pernice che vola sui campi
oggi la terra è fertile anche se abbandonata.
Ascolta, non so nulla del mondo.
Passo avanti. Egualmente.
Già duri come il tempo,
davamo indicazioni
di vita a chi rimane.
Poi riposammo freddi nella notte,
nudo coccio, sagrato.
Se guardo nello specchio
io vedo l'occhio solo e il coccio in fiamme,
il raggio che arde e taglia la figura:
rinfrange luce al piano, l'anfora oggi è calda.

E Antonio Ricci:

L’aria sta dappertutto e dentro l’aria
può starci un’altra aria o l’aria stessa.
Un’altra aria può avere un odore
che a volte sbaglia strada e si respira.
Di dentro, l’aria brucia e invece fuori
se passa passa fresca e non si vede:
perché l’aria può stare e non può stare
dove ci sia altra aria e l’aria stessa.

E ancora Beppe Salvia:

“Il genio d'un luogo adesso è spettro”

Mi trovavo di fronte il serpente blu di scope
e verdi e celesti e ROSA di Pino Pascali. Capii
che una linea curva era sul pavimento.
E il piancito bigio di quella galleria italiana
era piatto, mogio. Un pianto frigio screpolò
allora le mie guance, un grigio grido pietoso.
Pascali è, tra gli altri, uno che è morto in
moto. A Roma. Alcuni anni fa. Abitare in una
casa a Boccea, fu l'arte di Pascali.
Il mistero non c'è, carina!
Un'arte per i prossimi è un'arte di ieri. Noi
siamo l'arte inevasa del presente. Ogni lettera
perduta (ricordate dove lavorava prima Bartleby!)
è una lettera perduta. Ogni opera d'arte oggi
in Italia sarebbe bene che si perdesse. Il
valore d'un cencio è il valore d'un cencio.
Un serpe bastava!


Ma è forse avvenuto qualcos'altro - anche? Qualcosa che può di nuovo far pensare, sperare? Qualcosa che può forse far accorrere, soccorrere - finalmente - alcuni sostenitori, alcuni amici?
Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, Neri riconosce questo pensiero a Jan Patocka, che nelle ultime pagine dei suoi Saggi eretici sulla filosofia della storia, come pure nelle ultime pagine della sua vita, ci consegna anch'egli come fronte, come fonte sorgiva “la resistenza contro questi motivi <>, terrorizzanti e ingannatori del giorno”; “è una protesta che si paga con il sangue” -dice- […] “nell'isolamento, nella distruzione dei piani e delle possibilità della vita, […] ma occorre comprendere che proprio qui è il luogo dove si svolge il vero dramma della libertà; [...] “questo è il punctum saliens, la vetta ben situata da cui si può dominare con un colpo
d'occhio il campo di battaglia” (24).
“Qui”, in “questo” punto, ecco il pensiero: in qual modo - si chiede Patocka - questa resistenza, questa “esperienza del fronte” può assumere una forma tale da diventare un “fattore storico”? Perchè ancora non lo diventa?
E scrive: “Il mezzo per superare questa situazione è la solidarietà degli scossi”, cioè, ci spiega Neri, la solidarietà di “tutti coloro che hanno vissuto il crollo” (25) lo scuotimento, lo sconvolgimento che prima o poi, inesorabilmente, li ha isolati, sradicati, smembrati.
Proprio per ciò, proprio allora, illuminati d'un tratto dalla deportazione, dall'orrore, dal buio, “salvi quasi per caso, e in questo prodighi” (26), gli scossi sentiranno la “responsabilità assoluta” di Husserl e dunque la comunità, la solidarietà con i propri simili, i propri scossi, e li soccorreranno, li ascolteranno.


Sono scosse, ora, alcune - tra le riviste di poesia, scossi, alcuni - tra i poeti italiani? Sono pronti per questo risveglio, questo studio, questa ragione?

Notizie:

Giselda Pontesilli (Roma, 1955) ha studiato con Rosario Assunto e Fedele D’Amico e ha lavorato nell’ambiente romano della rivista Braci. Ha pubblicato tre raccolte di poesia: Il pensiero bello di lui (1993), Campagna (2003) e Ditta Al Farabi (2006), per la quale ha ricevuto il Premio Bertolucci.


* Con riferimento all'editoriale di Franco Dionesalvi “I poeti si sono ritirati nell’iperuranio” sul N° 16 di “Capoverso”, Luglio-Dicembre 2008. E anche all'introduzione di Marco Merlin, Attraversando la selva oscura, a Poeti nel limbo, dello stesso Merlin, Interlinea, Novara 2005, nella quale è tra l'altro riportato un brano di Stefano Dal Bianco sulla “comunità”.


Note

1) L' Europa dal fondo del suo declino è stato poi ripubblicato in: Guido Davide Neri, Il sensibile, la storia, l'arte, Scritti 1957-2001, ombre corte, Verona 2003.
2) Guido Neri è così definito da Mauro Carbone nella prefazione a Jan Patocka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Einaudi, Torino 2008, p. XVIII.
3) Jan Patocka, Platone e l'Europa, Vita e Pensiero, Milano 1997.
4) Il rovesciamento della dottrina copernicana è stato pubblicato in “aut aut” 245, 1991, pp.3-18. La Filosofia nella crisi dell'umanità europea è pubblicata in E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1975, pp. 328 sgg.
5) E. Husserl, Erste Philosophie, I, Njihoff, Haag 1956, p. 283.
6) Cfr. Antonio Livi, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, Leonardo da Vinci, Roma 2005.
7) Antonio Livi, Storia sociale della filosofia, Soc. Dante Alighieri, Roma 2004, vol. I, p. 11.
8) Patocka, in Platone e l'Europa, declinando questa evidenza originaria fenomenologicamente, per “dire lo stesso con parole nuove, con mezzi nuovi”, scrive: “Sembrerebbe, quindi, che la manifestazione del mondo sia una sorta di fatto ultimo di cui non possiamo che prendere atto; noi ci muoviamo continuamente nel suo quadro, e conosciamo in questo suo quadro, e agiamo in questo suo quadro”. E ancora: “Il fatto che non siamo liberi all'interno della manifestazione, che ciò che si mostra è per noi stringente, si esprime attraverso la nostra fiducia in ciò che si presenta a noi, in ciò che è qui, in ciò che è presente” ivi pp. 120, 53, 50.
9) Patocka individua in esso, in sostanza, il “sentimento generale dell'epoca”: “Questo sentimento è di uno smarrimento profondo, della perdita di ogni fondamento, di ogni base, per quanto poco solida”. Viviamo in “una situazione di declino, di caduta, che è evidente a tutti e che si è manifestata in modo clamoroso nella nostra epoca, con il crollo, in un breve lasso di tempo, di tutta la nostra sfera spirituale edificata nel corso di due millenni [...]” (ivi pp. 36-37, 70).
10) Guido Davide Neri, L' <> della Crisi di Husserl, p. 41, in Il sensibile, la storia, l'arte, op. cit. pp. 40-65.
11) Enzo Paci, introduzione a G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, Bompiani, Milano 1960, p. 7 .
12) Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.
13) Ibidem, p. 182 .
14) Claudio Damiani, Arte e natura, in Orazio, Arte poetica, Fazi, Roma 1995, p. 9.
15) Riguardo al criterio con cui valutare il declino o la condizione positiva, cfr. tutto il saggio di Jan Patocka, La civiltà tecnica è destinata al declino? in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.105-131, da cui è tratta la seguente definizione: “E' in declino quella società il cui stesso funzionamento conduce a una vita decadente, una vita in balia di ciò la cui natura non è più umana” (ivi, p.107).
16) “Ma noi volevamo lavorare per i giovani, anzi per i giovanissimi: perché la nuova generazione che sorge trovasse già formato un luogo di ritrovo, d'appoggio, di rifugio, aperto a tutte le buone volontà, come noi non trovammo quando cominciammo a pensare con la testa nostra. E ai giovani abbiamo sempre aperto le porte; come sanno i vari che conoscemmo e accogliemmo fraternamente, senza pensare ad altro che al loro valore dimostratoci da scritti o da discorsi privati, allargando gli argomenti di questo giornale man mano che essi ci portavano l'aiuto del loro pensiero più fresco e della loro esperienza. Trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro, è stato, in questi dieci mesi di milizia, il conforto migliore per tutte le meschine ostilità e le piccole calunnie con le quali si credeva di ostacolare il nostro cammino”. Giuseppe Prezzolini, in Relazione del primo anno de <<>>, 11 nov. 1909. Ma si veda pure il fondamentale scritto di Scipio Slataper Ai giovani intelligenti d'Italia in La Voce, 26 ag.1909. La Voce è definita “libera, sincera, disinteressata” da Carlo Martini nel suo bel libro La Voce, Nistri-Lischi, Pisa 1956, con prefazione dello stesso Prezzolini.
17) Federico Caffè, Le parole dell'economia, in Scritti quotidiani, il manifesto-manifesto libri, Roma 2007, p. 85.
18) In: Atti del Convegno nazionale La parola ritrovata (Roma 22-23 settembre 1993), a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Marsilio, Venezia 1995.
19) In La parola ritrovata, cit. p. 156.
20) Kuhn : “Ma perché un paradigma possa trionfare, deve conquistare prima alcuni sostenitori, che lo svilupperanno fino ad un punto in cui molte solide argomentazioni potranno venire prodotte e moltiplicate” (op. cit. p. 191). “Colui che abbraccia un nuovo paradigma fin dall'inizio, lo fa spesso a dispetto delle prove fornite dalla soluzione di problemi. Egli deve, cioè, aver fiducia che il nuovo paradigma riuscirà in futuro a risolvere i molti vasti problemi che gli stanno davanti, sapendo soltanto che il vecchio paradigma non è riuscito a risolverne alcuni. Una decisione di tal genere può essere presa soltanto sulla base della fede” (op. cit. 190). “Le conversioni avranno luogo poche alla volta finché, dopo la morte degli ultimi oppositori, l'intera comunità degli scienzati di professione si troverà ancora a svolgere la propria attività sotto la guida di un unico paradigma, ma si tratterà ora di un paradigma differente” (op. cit. p. 184).
21) Franco Cardini, Le cento novelle contro la morte -Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, Salerno Editrice, Roma 2007, in cui, a p. 123, si legge: “Il messaggio ultimo del Decameron, per generazioni intere malinteso a causa d'una sua lettura episodica e frammentata, in cui le singole novelle venivano estrapolate dal loro contesto (e lette pertanto in una prospettiva fatalmente equivoca), acquista oggi, per il lettore del XXI secolo, un inatteso e per molti versi sconvolgente significato “antimoderno”, che si può dire lo avvicini non solo alla Divina Commedia dantesca, ma anche al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes”.
22) E. H. Wilkins, Vita del Petrarca, Feltrinelli, Milano 1985, p. 9.
23) Federico Caffè, Che spregiudicato quell'economista, ha scoperto la legge della giungla, in Scritti quotidiani, op. cit. p. 18.
24) Jan Patocka, Le guerre del XX secolo, in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.150-153.
25) Guido Davide Neri, L'Europa dal fondo del suo declino, op. cit. p. 284.
26) Beppe Salvia, Lettera, in Cuore (cieli celesti), Rotundo, Roma 1988.

mercoledì 8 settembre 2010

DANIELE BARNI, POESIE

Presento, qui, dopo un silenzio abbastaza lungo, i versi di Daniele Barni. Versi che trasmettono davvero, a mio giudizio, una "secousse nerveuse", un "frisson nouveau", come dicevano Hugo e Baudelaire: quel brivido cerebrale che può insorgere e diffondersi all'ascolto della musica e della poesia davvero intense, significative, necessarie, sempre nuove per quanto possano essere antiche.
C'è, in questo dettato, lirico e insieme narrativo, qualcosa del Montale più maturo o del Luzi di Nel magma: non dico poesia narrativa o poesia prosastica, categorie abusate e un po' vuote; ma poesia che riversa e fonde e travasa il tempo nell'oltretempo, nell'assoluto della memoria, e muta i fatti, gli eventi, le sensazioni, i nomi, i volti, in emblemi destinati a permanere anche e proprio nella loro immortale volatilità, ad essere perpetuati nella mobile compiutezza di una tramatura fonica solida, necessaria, quasi una rete di "parole sotto le parole", che nasconde, quasi con pudore, nel mezzo e nell'interno dei versi, rime ed assonanze vitali, semanticamente motivate, scandite del ritmo dell'anima e del cuore più profondi ed impregiudicati, e tali da mettere in discussione, come sempre fa la vera poesia, la convinzione (essa stessa convenzionale) della natura convenzionale ed arbitraria del segno linguistico.
Le parole dialettiali non sono richiami gratuiti, note di colore, tratti bozzettistici o macchiettistici, o indizi di un realismo crudo e scabro. Piuttosto, quasi come nel Pascoli dei poemetti, le voci popolari, gergali, perdute, le “parole di legno” del vernacolo o del lessico rusticale sono tratti realistici, punte irte ed acute di intensità e vergine e albale autenticità espressiva ma, in pari misura, anche, per così dire, gocce di quell'oltretempo come cadute da lontano, filtrate e percolate, sottilmente, nel divenire, nel flusso temporale del discorso poetico. Versi, come si accennava, “classici”, di cadenza, a volte, leopardiana o cardarelliana ‒ e insieme divenienti, mobili, discorsivi, dialoganti, aperti ad una misura più ampia e imprevedibile come le circostanze, le contingenze, gli incontri del vissuto e dell'esperienza.
"Morte, madre automatica". "Dora, implora quest’ora che muore che non muoia". "Poi ritrovo l’odore della vita presente, / quest’odore di niente". "Fino a te, sullo stradario afoso dei ricordi".
"Cimitero d’istanti / è la memoria". "A Rimini, d’inverno, ritornai: / dal romorìo nebbioso della macchina / trasparivano all’alba / gli imperterriti muri dei ristori". /T/, /R/, /M/, /O/, i fonemi della morte, della ripetizione, del ritorno ‒ della matrice, della terra, della madre ‒ dell'ossessione, dell'ansia, del timore e tremore, sembrano ricorrere con particolare frequenza, filigranando l'ipnotico, necessitato ricorrere di determinate cadenze versali inscritte forse ab aeterno nel codice genetico del poetare in italiano: tessere foniche che sono, forse, la cifra verbale, l'icona sonora di una condizione esistenziale universale.


(M. V.)




DANIELE BARNI


FINESTRE



DALLA SEZIONE “A QUINTO DI GENOVA”


I

Morte, madre automatica,
noi dalla terrestre
placenta partorisci nell’ignoto. Imbavati
in questa pioggia amniotica,
viscida alle finestre,
sono lampioni, vie, palazzi le tue viscere.
Qui attendo, nella stanza,
scrivendo finché a volte la notte trasparisce,
i giorni della tua gravidanza
volubile. Ma senza pianto sarà il mio parto,
come il parto dei morti.

II

Dora, implora quest’ora che muore che non muoia.
A questa metropolitana noia
di stelle, ora che dormi, sulle spalle il sudore ti fibrilla:
sembra quasi la brina
riottosa e irrisoria che prima di mattina
me sgambettava, salvato da mio nonno, contro le rampe della villa
dove eravamo, come dicevano, a servizio.
Stasera, è il mio piacere quel tuo vizio
di piccola infedele. Più del buio
i tuoi boccoli bui
coprono ciò che scoprono spudorate coperte;
ma poi conserte le tue mani zitte,
pure forse a preghiera, quelle adombrano
durevoli e scabrose
di mia madre che seppero educarmi.
Nella disattenta ombra,
ora addenta il tuo sonno le polpose
trapunte, con lo stesso spensierato appetito
di me, quando la nonna con amorevoli armi
vinto aveva nel buio il bobo arabbito1.
Dora, non risvegliarti,
i tuoi assecondo assibilati scarti
e le più parti lascio a te del letto:
la tua si schiude ora miopia cobalto,
la stessa di mio padre che dall’alto,
come un ambiguo firmamento, prima dava a precipitare
il rabbioso rimbombo, presto poi si riempiva di segreto solare.
Contiene il parapetto
la stracca ebollizione del lungomare stracco,
da cui fino a qui evaporano abbagli di modernità, smacco
e vittoria di bulli in salegiochi,
e da lontano rochi
resti di combustioni di ristoranti e pizzerie. Che accanto
non mi sei più lo dice della doccia
la nebula vanesia che t’imboccia
come in un sogno o in un ricordo. Sei qui ora e sono io altrove:
fra poco sarai altrove
ed io sarò qui. Intanto
che ti rivesti quest’ombroso odore mi riscuote di cuoia.
Dora, implora quest’ora che muore che non muoia.

III

Di momenti volatili
la nostalgia è questo odore rado,
che captiamo impennati
sulle narici prima del suo svelto degrado.
In questa primavera
verniciate fragranti striano l’aria,
che ora appare una tempera
colante di più varii
ricordi: Rem2 ritrovo,
che quella notte mi rubò la doccia
con tutto il poco che di te avevo;
e l’acre stampa acrilica ritrovo
del primo sussidiario; e anche ritrovo
l’incenso che si arroccia3
in riccioli sul capo d’officiante benevolo.
Poi ritrovo l’odore della vita presente,
quest’odore di niente.


DALLA SEZIONE “VIAGGI E TACCUINO”

I

Sirolo, fino a te, sullo stradario afoso dei ricordi,
fin su al ristorante La Conchiglia, ho guidato,
come scabrosa balma incastonato
dentro la balza frettolosa a mare:
una fotografia d’allora sembra
ciò che nel parabrezza rimane incorniciato
non appena risosto nel sudato piazzale.

Lo stesso cameriere, ma con alcune tacche
di più su fronte e guance,
aggiunte nel frattempo
dal tempo, attenda svelto sul tavolo il menù,
da cui ordino ricordi senza prezzo di te:
il vino freddoloso nel quale erano sciolte le parole
che per vergogna mai
avevamo azzardate;
e la chiassosa ciáccia4, plasmata da falangi mascoline
della cuoca da allora imbalsamata,
con la quale la bocca m’impedivi
se parole cosmetiche le guance ti arrossavano.
Fra i pedalò, al tramonto, tratti a secca,
mentre intorno i colori tendono lentamente ad uno solo
e più e più di bar auto salegiochi si arroventa il crogiolo,
riunimmo spaventosi i nostri corpi
come le ritrovate metà di fantasiosi talismani:
recitammo l’un l’altro misteriche promesse,
quasi fosse la formula su scritta
di quella, per noi nuova, stregoneria d’amore.

Dimenticammo, io e lei, quelle promesse;
quell’amore perciò non è dimenticato:
non ha, come il cerino sulla grana, mai sfavillato strofinando sopra
la quotidianità, per poi finire spento bruciando fra le dita.


II

Sugli intricati labbri di lei quante le volte
che impigliato lasciasti per sempre il tuo respiro!
Quante, quante le volte
che dalla tua poltrona più fonda risalirono
aerei testamenti! Quante semmai le volte
che, alla fine dell’agra
meccanica d’ufficio, timbrate sull’ennesima
riga del cartellino, due cifre ti furono la prima
e la postuma anagrafe!

Sono i nodi i ricordi
con cui un filo di tempo rifacciamo da frinzagli5 discordi.

Cimitero d’istanti
è la memoria, e poco l’uno all’altro distanti
ci trovi marmi innumeri
con la tua foto, il nome tuo e i tuoi numeri.

III

A Rimini, d’inverno, ritornai:
dal romorìo nebbioso della macchina
trasparivano all’alba
gli imperterriti muri dei ristori,
lungo la stanca statale cadenzati
che claudica da qui fino alla riviera:
attraverso le rauche finestre i ragazzi vedevo
mentre, ubriachi, allegri e stufi di esserlo,
mandata giù in discoteca la notte con la bevuta,
fra tazzine e dolciumi
ignoravano il sonno.

Sognava ancora la città, blaterando,
quando arrivai: i semafori impettiti
ammiccavano pur sempre a vetture
inesistenti; e sopra i marciapiedi,
polverosi di brina,
le peste diseguali
suggerivano volti
e ghirigori di vite che lì s’erano
incrociate.
Incontro al molo, di gomene frangiato, mi fermai
e poi fermai il fragore: sullo specchietto
retrovisore traballò un istante
il fotogramma del passante; zitto,
acquattato più in là del muricciolo,
sussultava alle prime eliche il mare.

Ai riminesi il coro dei marosi
dispare nelle orecchie
come al supermercato le musiche:
loro il paesaggio appuntano
alla parete dell’abitudine.
Per chi in acrobazia
campa, poi, nel circo serio delle vacanze,
è la bassa stagione
l’ignominiosa rete sotto al trapezio dell’estate.
Eppure a me le seggiole annoiate nei locali
mogi e come stizzito il lungomare,
le giostre intirizzite
sull’insabbiata sabbia
erano cornici che mi sfiguravano d’ammirazione.

E lei mi camminò accanto, intrampolando6
sui tacchi riottosi,
con cui lottava per sembrare donna
neppure forse a diciott’anni.
Nel cellulare bisbigli nascondeva;
poi, scanditi dal metronomo calmo dei fianchi,
ritornelli ripeteva di suoi cantanti.
Sviò, all’improvviso, nel viale
che, simile a traiettoria di fuoco d’artificio,
schioppava in pirotecniche
viuzze. La seguii. Lontano scomparve
il litorale: stracche le saracinesche al vento
mugugnavano; davanti a birrerie
le bottiglie supine
allargavano gore; ancora vigili i lampioni
addensavano intorno a sé il giorno.

L’orizzonte sembrava uno schema aguzzo
di gronde, fra le quali s’incagliava il cielo.
L’ansia ti spintonava verso qualche dove, Rosa Tathiana:
con questo nome ti sentii salutare,
mentre nell’aria frusolavano7 gli allegri
moccoli dei bottegai di Piazza Tre Martiri,
quando, appena prima di presto, il mondo invitavano
nei loro bugigattoli:
gelatai, fruttivendoli, calzolai, pizzicagnoli,
reliquie in mezzo ad agenzie per viaggi,
a vetrine di mode, a esoterici, ancora,
negozi di computers. Quell’innesco di vita
ai miei occhi tramandò lo stupore
del cerino dal Dio scriccato8
nel buio originale.

Dopo, non so dove e da dove, una palazzetta,
scucita nell’intonaco liso,
come seduta a margine in sicura attesa,
su era balzata, mi ammirava educata
dai cent’occhi quadrati. Passai in punta
di fiato. Un terremoto mnemonico
sconquassava ogni cosa: sotto i piedi
la memoria, a strapiombo, si era
divaricata e,
buttandoci lo sguardo,
ne sondavo i cerchi
fin quasi puntiformi del cono. La pensione

trovai dove, bambino,
al guinzaglio zampettavo dei nonni
che, per due o tre settimane, sotto il sole caotico
a posare accorrevano le braccia contadine,
già bruciate dal gomito in giù:
tutto l’anno scorticavano un orto indurito,
barattato con qualche assegno di pensione,
perché la terra, dopo averli invecchiati,
diventata era il vizio.
Nella facciata i vetri incasellai su cui scoperto
avevo le misteriose ragnatele dei polpastrelli,
nelle quali rimasto ero per ore intrigato;
e la stanza in cui, vibratile di febbre,
a trovarmi una volta venuta era la paura:
allora di me, così lontano dalla cruna
del possibile, riso aveva il vecchio dottore e...
Anche tu ridevi adesso, Rosa Tathiana,
e un motivetto cantilenavi inaudito:
“Sono l’amor… te vorrò… te per sempre…”
Mi voltai. Sparita eri di già.

IV

Supino in quell’abbraccio floreale
sembravi, amico mio,
la statua dormiente
di giovinezza. Il prete,
pregando violento,
l’aria come incollata graffiava, ora, d’incenso.
Dei presenti una lacrima è bastata
a spengere la stenta
fiamma d’un’esistenza.


DALLA SEZIONE “A SANSEPOLCRO”

I

Nella finestra s’incornicia il quatto campanile di esatto calcestruzzo,
da cui l’altoparlante compunti scampanii prova a imitare
per convocare al loro divino titolare
i buoni dipendenti. Di sole qualche spruzzo
sul tetto della chiesa ora si asperge,
forse a benedizione. Poi… infrenate9 frenate: ecco parcheggia
il porsche color abisso vicino alla scalea, e a un tratto ne emerge
qui il cellulare con giacca fanatica, di là, dopo il mannaggia
devoto, con stivale che inciampa la frenetica pelliccia.
Lei bacia lui. Ma lui bacia il microfono comiziando in codice
borsistico di azioni, di opa e opzioni. Riattacca. Alcuni spiccioli
spiccio conta al barbone, che di vendere aspetta almeno il suo odio.
Poi di slancio, a lei accanto, compiaciuto,
attraversa la cruna all’Assoluto.

II

Momenti s’improvvisano che tutta la tua vita
cola in una lacrima
o sfioca in un sorriso senza labbra
o come ora nel pugno si compatta
che, afasico, rinserri per non cedere:
come le gore che il respiro quasi
fisso raggruma sul profondo video di questa finestrella,
si dissolvono subito i ricordi, stanotte, e anche i propositi…
La città ancora calda appena sfrigola
di fari e di lampioni, che alle stelle radenti si confondono
fra i capannoni e le ultime ciminiere laggiù
da dove, pur alzandosi, va avanti
a ritroso lo sguardo:
due pupille non bastano per contenere tanto
mistero costellato.
E vorresti al telefono riunirti a qualcuno, lei magari,
ma nessuno potrebbe fino a questa
intima latitudine raggiungerti.


NOTE

1) Bobo arabbito: Orco arrabbiato.
2) Marca di profumo.
3) Arrocciare: ripiegarsi più volte.
4) Focaccia.
5) Frinzaglio: pezzetto di filo, scarto di cucitura.
6) Intrampolare: incespicare, inciampare, camminando in modo precario come su trampoli.
7) Frusolare: il rumore che rilascia l’aria sferzata da un oggetto teso e sottile.
8) Scriccare: strofinare, anche scricchiolare.
9) Infrenare: ingarbugliare, aggrovigliare.