giovedì 14 ottobre 2010

Elisabetta Brizio, "'Doppio ritratto' di Alberto Carollo o della Melancholia"



Tonio Kröger è l’insegna e l’insegnante di uno schiaffo per gli autori e/o intellettuali. Lo schiaffo è il lato non retorico e non espressivo della letteratura. Cioè: scrivere è più una maledizione che una vocazione. Scrivere è più un portamento e un comportamento che una dichiarazione di contenuti. È una questione di fisionomia e di marchio: “alcunché di simile potrebbe cogliersi nei tratti di un principe che passi in abiti borghesi attraverso la moltitudine. Non c’è abito borghese che tenga” (come traduce Emilio Castellani). Quando l’individuo dovrebbe cominciare a sentirsi in sintonia con il mondo intuisce la sua predestinazione ad altro: muore così l’armonia con il mondo esterno e si diventa “borghesi smarriti”, il che oltre tutto è un marchio d’infamia.    
     Quello di Kröger, per molti versi, è il disagio che scorta e paralizza il protagonista di Doppio ritratto di Alberto Carollo (Edizioni Creativa, Torre del Greco 2010, Prefazione di Patrizia Garofalo) Alfredo Algelo, insegnante di lettere e aspirante scrittore. L’infanzia di Alfredo, evocata in uno dei flash back del racconto, è segnata da un soffrire il distacco, dalla incomunicabilità con i suoi coetanei, se non fosse per la sua attitudine al disegnare. L’arte, prima il disegno, poi la scrittura sull’arte, sembrerebbero le sue sole forme di comunicazione. Letteratura è dannazione, condanna, la quale, Carollo diceva in un’intervista, con esplicito riferimento a Tonio Kröger, fa quasi rimpiangere una comune vita borghese, preclusa a chi ha il demone della creatività. E a Thomas Mann dobbiamo inevitabilmente rifarci ancora, in particolare alla contestualità di malattia e conoscenza, in Alfredo doppiamente messa alla prova: nell’attività creativa e nella passione amorosa per Alina – per lui l’amore è una sorta di epistemologia dell’eros.  Il nesso tra malattia e conoscenza è accentuato nel romanzo da Ilaria Baldini con l’ipotesi, altamente inquietante, di assumere le corsie ospedaliere – i “quartieri del pensare” – quali paradigmi della vita. Luoghi che muovono a riflessioni vere sull’esistenza, e nei quali, in fondo, l’umore malinconico dovrebbe relativizzarsi, se non fosse esso stesso, per l’appunto, malattia. Eletta a criterio di valutazione. In un celebre saggio Mann adduce queste parole di Nietzsche: “La capacità di soffrire più o meno profondamente determina il diverso valore degli individui” (Al di là del bene e del male, af. 270, nella traduzione di Bruno Arzeni). 

     Doppio ritratto, ovvero della Melancholia. “Melanconia è una pioggia uguale lenta perché dice all’uomo l’infinita monotonia, l’immutabilità, la mancanza di scopo nelle cose”. Così Karl Michelstädter, Dialogo della salute. Quella di Alfredo è la storia di una disaffezione alla vita estenuata da un’analitica della melanconia, che entra nel racconto – come se fosse di casa – con una enigmatica signora in grigio. Segue immediatamente il lungo flash back nel quale vengono introdotti i personaggi – ogni figura colma una funzione, un tipo – che affluiscono intorno ad Alfredo, un gruppo di amici della Vicenza di fine anni Ottanta (il fattore ambientale ovviamente riassume i caratteri di altre realtà di questo tipo). Una storia, quindi, anche di illusioni e di delusioni generazionali, che indurranno alcuni dei protagonisti a risolversi verso un’esistenza che non sia il vagheggiamento di altre esistenze. 
     Giovanni, antagonista di Alfredo, sia per temperamento che per il possesso di Alina, è uno spirito pragmatico e con scarsi scrupoli morali. Adone è regista teatrale, un idealista che in seguito a ripetuti insuccessi si convertirà alla vita di tutti. Alina, figura indecifrabile, sembra inseguire una confortevole stabilità (per paura di cosa?). Irene, psicologa per passione, tenta ossessivamente un inquadramento dei sogni di Alfredo in un rigido schematismo, elusivo e manierizzante (qui, come in Zeno, i sogni sono infrastrutture essenziali alla narratività, parti integranti della trama e non di essa esplicativi). Ma c’è molto altro in ognuno, un che di ineffabile, di ctonio, impenetrabile anche a volenterose interpretazioni oniromantiche. Infine Ilaria, anziana scrittrice, animo affine ad Alfredo, sua anima sorella diremmo, incontrata al circolo letterario “Allegria di naufragi”. A lei Alfredo (i cui occhi, dice Ilaria, sono gli stessi della bionda Inge del Tonio Kröger) confessa – e con lei scevera – il proprio disagio, quel voltarsi alle cose, quel rivoltare il suo tempo ed avvertirne soltanto l’ombra. E il sentirsi ovunque fuori luogo, una difficoltà sia a reprimere certi pensieri che a tradurli e fissarli in una forma per “poterli contemplare finiti”. Sentimento straniante, che egli esprimerà in una delle parti corsivate del romanzo.

Accade che ho notti come questa,
impalpabili,
alle quali non so dar nome.
Accade
che è solito farmi visita un Demonio di Donna
avvolta in una pelliccia grigia,
una Donna fredda come l’inverno che ho dentro.

     La stesura del suo trattato sulla melanconia (che incrementa le pagine di Doppio ritratto nel florilegio delle sezioni corsivate, con espressivo iato dalla narrazione) ritma, soprattutto nella prima parte del libro, le varie fasi della malattia di Alfredo con i lineamenti della sua creatività. Le flessioni della malinconia sono qui variamente significanti, e costituiscono tanto l’oggetto della riflessione e della scrittura di Alfredo che l’emblema della sua vita interiore condivisa con quegli artisti – per lo più pittori – vittime di uno spleen diversamente vissuto. Lo spazio del racconto diviene allora una argomentazione figurata.
     In Hugo van der Goes la malinconia è nemesi divina. È la quasi degna sanzione per la sua vanità estetica e per aver sovrastimato le proprie doti artistiche. Il pittore allude alla sua condizione atrabiliare attraverso l’ancolie, l’aquilegia, veste allegorica e senhal della melanconia, effigiata tra fiori e spighe nel primissimo piano del Trittico Portinari. Dove van der Goes lateralmente, e quasi di nascosto, si autoritrae mentre obliquamente fissa l’osservatore (perché ci guarda?). La malinconia è in Baudelaire (ammiccante anch’egli, mediante un altro codice), non solo nel sovrasenso che prende forma in sillabe lavorate secondo un modello ritmico, oppure ispirate alle cinque parole-temi nella ripresa di Invitation au voyage. Nel discorso narrativo di Carollo Baudelaire è chiamato a caratterizzare l’amore giovanile di Alfredo – un soggetto petrarchesco – per Laura (nome/amore dolceamaro per definizione): “Un volto di donna è una provocazione tanto più attraente quanto più il volto è generalmente malinconico”, dice Baudelaire, nelle pagine immediatamente successive evocato anche dallo Spleen di Parigi. Il nome Laura, con le sue variazioni polisignificanti, riveste anche qui un ruolo allegorico. Associato da Petrarca all’espressione l’aura, che vuol dire sì, vento, ma anche etereo soffio vitale, alone luminoso, quasi anima – quella cosa che alla fine del tempo a noi dato si distacca dal corpo e vola via dove nessuno mai potrà seguirla. Quindi, nostalgia, simbolo della donna ideale e inattingibile, dello svanimento della riserva di sogni e di illusioni. Delle aspirazioni inappagabili, deluse. E ancora lauro, che in Petrarca partecipa di Laura, può essere un “lauro reciso”(senza più vita, separato dalla sua radice, alla quale si anela come alla vita) come in Campana o in Pascoli. O l’auro che le “bionde chiome” sono all’altezza di surclassare. E ricordiamo che la giorgionesca Laura di Vienna si staglia su uno sfondo scuro in cui risaltano rami di alloro, per rimanere nell’orizzonte intertestuale di quest’opera così fitta di sotterranei rinvii.
     Melanconia è il malcontento di Faust, che ha inutilmente scandagliato gli arcana naturae. È la condizione visualizzata da Dürer nell’acromatica Melancholia, dove quell’angelo caduto guarda di sbieco, in modo torbido, perplesso, insoddisfatto e impotente, pensa Alfredo, un mondo distante, che vanamente cerca di interpretare con gli strumenti dell’indagine scientifica e con le cristallizzazioni geometriche del pensiero astratto. 
     Non è possibile scindere la malinconia di Baudelaire dalla sua coscienza critica. L’uomo perde il contatto affettivo ed emotivo con l’altro da sé, con il divino, con le proprie stesse emozioni quando la riflessione si intreccia al sentimento fino ad inquinarlo, e quasi a comprimerlo. Tra il Baudelaire uomo segnato e individualità infelice e il Baudelaire poeta che pensa e che scrive c’è poi, appunto, questo esile ma nitido diaframma dell’autocoscienza: la fenditura fluida e dilatabile come lo spazio medesimo del dire, che, secondo Eliot, deve interporsi tra “l’uomo che soffre e la mente che crea”. Alfredo è drammaticamente imbrigliato in una condizione del genere.
     Il genio malinconico di Hugo van der Goes ispira Van Gogh e lo inizia al genere dell’autoritratto. Anche solo il malinconico atteggiarsi del Dottor Gachet è un autoritratto, uno “specchio nel quale l’animo stesso del pittore si contempla”, dice Alfredo. È malinconico il clown di Heinrich Böll, malato di malinconia vera, Alfredo pensa in una situazione limite, mentre fa l’amore con una donna: “tutti sanno, cioè, che un clown dev’essere malinconico per essere un buon clown, ma che per lui la malinconia sia una faccenda maledettamente seria, fin lì, non ci arrivano”. Ma l’umore melanconico è anche un modo non patologico di essere, dicevano i peripatetici (e già Aristotele: “i ‛melanconici’ sono persone eccezionali non per malattia ma per natura”, Problemata. Sono i malinconici naturali a distinguersi nei vari campi del sapere), uno stato d’animo speculativo. Un valore eminente, una delle declinazioni della bellezza, argomentano Alfredo ed Ilaria. Edward Munch esprime la malinconia come estraneità: con l’isolamento della figura, relegata ai margini del campo visivo della superficie pittorica. In Melankoli il sentimento melanconico assume i contorni di una perplessità pensosa e le sfumature del volto si diluiscono e si commisurano con la tonalità triste di un tutt’altro che indifferenziato sfondo.
     Tuttavia l’attenzione di Alfredo – e di Carollo, narratore eterodiegetico fino a un certo punto, palesemente omodiegetico nel caso di opere letterarie o artistiche – si volge in particolare al Doppio ritratto di Giorgione che dà il titolo al romanzo e che diffrange l’accezione di malinconia mentre ne circoscrive la natura di enigma. È una intensa espressione dell’anima, dove è impresso un senso di vita interiore fino ad allora scarsamente riscontrabile in pittura. E che nel racconto meglio definisce il Leitmotiv del doppio e dello sfaldamento identitario. Anche in Giorgione l’umore melanconico accade di notte: e “quanto all’ora, sai che preferisco le ore notturne”, aveva detto ad Alfredo la signora in grigio in esordio. L’idioma giorgionesco, pur procedendo – sulla scorta di Pietro Bembo – da un codice neoplatonico, mostra un certo coinvolgimento autobiografico. Nella superficie pittorica i volumi delle due figure sono investiti da una illuminazione quintessenzialmente differente: la luce è più sferzante oltre il giovane a mezzobusto in primo piano, che è immerso in una calda penombra che lo avvolge, e con lui il centro del quadro. A una lettura neoplatonica, dice Alfredo, il raggio di luce filtrata che fascia il giovane meditativo “discende da una causa più alta e incontra, nel nostro giovane tristemente assorto, l’ascesi interiore della coscienza verso i gradi più elevati della contemplazione”. Ascesi che si realizza “se mossa dall’Eros di cui parla Ficino”, ma privato del suo anelito al soprannaturale. Il ritratto pensoso e disforico è lambito dalla luce nella sua postura malinconica che esalta l’atto del contemplare e nella mano che porge il melangolo, la cui essenza dolceamara allegorizza la passione d’amore apportatrice di melanconia (nome di cui non sfugge la parziale identità fonica con melangolo). O comunque l’andamento alterno e discontinuo dell’amore. Arte e amore, dunque, come veicoli di elevazione verso “un quadro superiore di perfezione”. Il dipinto sembrerebbe scisso, sia dal profilo dell’attribuzione della luce (ora incidente ora avvolgente), sia per l’incompatibilità tra gli stati d’animo dei due effigiati. Dallo sguardo spento e distante, malinconicamente “assorto in pensieri amorosi”, come sospeso fuori delle cose del mondo, il primo. Dai tratti realistici, permeabile e ben disposto verso una luce indiscreta, ruvidamente concreto e dai lineamenti marcati, quasi spavaldo il secondo – del quale è evidente l’esuberante edonismo –, direttamente investito da una luce frontale, che “rivela un pieno appagamento dei sensi e della vita materiale”. Si volge all’osservatore come a dire che è fatto per questo mondo e che non avrebbe problemi a prendervi parte. Una sicurezza di sé che qualcuno invece indebolisce, interpretandola come solidarietà verso il ritratto malinconico: quello che scambiamo per edonismo è piuttosto una competenza della malinconia, un senso istintivo di affinità per il ricordo pungente di esperienze simili, il cui risuonare nella memoria e nell’anima induce a temerne la ripetizione o gli effetti a distanza.
     È l’uomo stesso questo contrasto, metaforizzato nel giorgionesco doppio pittorico? È egli questa discordante armonia, questo conflitto di condizioni psicologiche? Ed è inconciliabile quel dislocamento di figure e di fonti luminose? Diversamente detto: è possibile la congiunzione di eros e di pensiero? Arduo è il disambiguamento del contesto giorgionesco, ma con spirito platonizzante vediamo ciò che già sappiamo. E la stessa concretezza della seconda figura non può non alludere alla melanconia come dramma fattuale: non potrebbero infatti sussistere un pensiero e una sfera emotiva disgiunti dalla dimensione della fisicità.
     Quanto ad Alfredo, come egli dice ispirandosi a Giorgione, è alla “ricerca di una forma di perfezione attraverso la conoscenza di ciò che siamo soliti definire Amore”. Nella sua stanza, aveva notato un giorno Alina, c’era la riproduzione di un particolare della Persistenza della memoria di Salvador Dalì, che suonava quasi come una esortazione: eludere la tirannia della istituzione temporale, darle un diverso senso per un fluire della memoria, e confidare nell’identità individuale che su di essa statutariamente si fonda. Ma la freccia del tempo va, quindi bisogna agire di conseguenza. E sull’amore, in occasione di un incontro con Alina, Alfredo aveva intanto abbassato il tiro, e insieme centrato la sostanza della cosa. 

Non c’era spazio per analisi e interpolazioni; in quel nido degli abissi non gli
avrebbero lasciato portare con sé carta e penna. Non c’era niente da rappresentare 
là, bisognava vivere e basta, prendere ciò che di splendido e terrificante la vita
aveva da dare o passare il resto del tempo a macerarsi nel rimpianto.

Ma Alfredo finirà comunque per tormentarsi in una autentica saison en enfer, l’amore è da lui vissuto come malinconia amorosa. L’eros, la Stimmung amorosa, è l’altro grande tema che nel discorso narrativo si interseca alla conoscenza. L’amore è tramite per la conoscenza perché tra le tante tonalità dell’eros cattura il modo di essere di ognuno, ci individualizza. Per Alfredo l’amore è un’esperienza estrema che finirà per devastarlo, per Giovanni è manifestazione della sua pulsione al dominio. 
     Il romanzo difetta di descrizioni paesaggistiche, scarsamente definite. Al massimo, una luce vagamente straniera penetra negli interni, rischiarando, ad esempio, la stagnante stanza di Alfredo. Difetta di esterni, e quindi di divagazioni da quello che è uno degli intenti di Carollo: circostanziare, anche con la stringatezza di dialoghi serrati ed incisivi, i conflitti interiori, delineare tipi di maniere di stare al mondo. Quindi, a differenza degli sfondi, gli interni vengono oltre modo dettagliati, come prolungamenti della vita di ciascun personaggio. Asfittica, e perpetuamente in preda a un emblematico disordine, è la casa di Alfredo, segno di un’esistenza interlocutoria vissuta in giorni e giorni di abbandono all’oblio. Culminati nella nevrosi e nella totale perdita di riferimenti. Ruolo che neppure la figura paterna era riuscita ad assolvere.
     Un nodo di nevrosi cui concorre la quasi condanna per aver preso troppo sul serio la sua vocazione estetica trascurando la vita. Perché allora scrivere, se la scrittura è tutt’altro che uno svago intellettuale? Parlando con Adone, Alfredo comprende che “il mondo non sentiva alcun bisogno di loro”, cioè degli intellettuali. C’è tutto un mondo fuori incurante di certe tensioni spirituali: è forse un luogo di bêtise, il senso comune presenta questa insufficienza? E inoltre, può il così detto orizzonte di attesa condizionare le ragioni dell’artista? Considerazione, quella implicita di Alfredo, che da un lato suppone un destinatore che consacra la propria esistenza all’arte, nella consapevolezza di cadere nell’indifferenza del senso comune. E dall’altro implica la domanda fondamentale: per chi si scrive? Chi è il vero destinatario? Ogni autore è il destinatario di se stesso, lascerebbe dapprima intendere Carollo. Ma più avanti nel romanzo farà dire a Ilaria Baldini:

Di tanto in tanto possiamo godere di momentanei ascolti, circondarci di amate figure di lettori che spesso non hanno volto. Sono parole contenute in lettere di ammirazione, o mani che stringiamo alle presentazioni dei nostri libri. Sono creature che vagheggiamo nel silenzio del nostro studio; esseri speciali, dotati di attenzione e discernimento, che ci pungolano a guardare quanto abbiamo fatto con nuovi occhi, che rianimano con le loro passioni quella materia morta che abbiamo cristallizzato in parole. È per questa gente che non deponiamo le armi, è per loro che non accettiamo la sconfitta anche quando la lotta è chiaramente impari.

     Se tale interrogativo – per chi si scrive? – vale in relazione alla città di Vicenza agli inizi degli anni Novanta, che fa da cornice al racconto, i cui valori egemoni si riducono a fattori produttivi ed economici, e dove poco senso avrebbe avuto parlare di arte (l’artista era un isolato, un recluso, a meno che non avesse prodotto arte di consumo, facilmente ricevibile e da metabolizzare in fretta), la domanda può essere generalizzabile, ed è quello che si chiedono Alfredo ed Ilaria: può un artista bastare a se stesso, o piuttosto non cerca egli, nel fondo di sé, l’opportunità di una ricezione e di una corrispondenza con anime spiritualmente affini? “Vorrei trovare qualcuno che mi assomigli”, pensava spesso Alfredo. “Ogni opera – diceva Carollo – sottende sempre, implicitamente, un pubblico, sia pur esso quello di nicchia composto dai dieci lettori di manzoniana memoria. È questa la dicotomia di chi produce arte: esprimere se stessi compiutamente e cercare nel contempo di veicolare il proprio messaggio ad un pubblico più o meno ricettivo. Impresa titanica, dai risvolti dolceamari. Come nel mio Doppio ritratto”. E quelli come Alfredo senza la scrittura che proferisce e colma il non possesso della vita, che disperde l’astrazione nichilista benché scrittura della mancanza, senza la baudelairiana connivenza di spleen et idéal, vivrebbero una condizione di apocrifia, e questa forse sarebbe la loro vera dimensione fallimentare. 
     Doppio ritratto, romanzo erotico, psicologico, critico, ha le caratteristiche di un Entwicklungsroman inversivo, scollegato, e termina infatti con l’accentuazione dell’irrisolto e con l’estraneazione piuttosto che con una Bildung realizzata. Il protagonista progressivamente disimpara o indebolisce quello che gli viene dalle sue esperienze nel mondo: ciò che davvero vale, paradossalmente, è la cognizione del fallimento non rifondabile, la conquista della malinconia come coscienza ansiosa dell’imperfetto e della mancanza. Il romanzo si chiude nei tempi dell’esordio. Con la differenza, nelle pagine finali, dell’introduzione della prima persona narrativa, mentre il resto della storia era narrato in terza persona. Come io narrante Alfredo si congeda dall’enigmatica signora in grigio, che per un attimo unisce in sé l’impronta disforica e la seduzione, quel composto che, con Baudelaire, per Alfredo qualificava il suo amore giovanile, Laura: “l’espressione languida che assume quando si regge il mento con la mano”. 
     Ritorna il doppio. Lo statuto di sdoppiamento si coglie anche nelle due voci narrative, in un narratore fluttuante (che non ha esitato a dare la parola ad Ilaria, in certi punti pressoché narratore metadiegetico) e con ciò allusivo del fatto che nulla può vantare una configurazione radicale e definitiva. C’è svolgimento in Doppio ritratto pur nella distorsione temporale, e c’è insieme il rientro all’inizio in una generale convergenza di parti – un coacervo di simboli, plausibili tutti benché stridenti – in un primo tempo date in antitesi: ma ogni fattore, ogni lampo, lato o fatto, ogni ipotesi o ciò che si ignora mantengono e testimoniano la propria singolarità. Come nel Doppio ritratto di Giorgione. 
     In prima persona – e con tono melanconico, quindi con neghittosità espressiva – Alfredo alla fine sembra confessarsi al lettore che forse non ha ancora decifrato l’arcano differito della donna in grigio, enigma che per lui non è mai stato tale: la signora vestita di grigio è la personificazione (come spesso in poesia o nelle arti figurative) della Melancholia, che in effetti è difficile ricordare dove e quando la si è conosciuta. 
                                                                                    


Elisabetta Brizio

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