sabato 13 febbraio 2010

LA POESIA FRA IMMAGINAZIONE E SCIENZA. DOMANDE DI PATRIZIA GAROFALO A PAOLO RUFFILLI

Sollecitato dalle domande acute e simpatetiche dell'intervistatrice, uno dei più importanti poeti italiani contemporanei rivela alcuni nuclei essenziali della sua concezione. In particolare, nella sua visione la lettura scientifica del mondo si fonde con quella poetica. Lo spazio-tempo in cui si muove l'immaginario del poeta è quello di Einstein, dilatato fino ai confini del cosmo curvilineo, finito ma illimitato, e ricorsivo, tornante su se stesso fino a fondere idealmente infinita lontananza e infinita compresenza del medesimo a se stesso (chi fissasse il confine estremo dell'universo, chi davvero cogliesse “l'ultimo orizzonte”, vedrebbe la propria nuca, così come la parola poetica torna a se stessa e riflette se stessa dopo aver teso a trascendersi, aver tentato di abbracciare l'illimite).

La materia oscura, l'antimateria, la zona cupa, il lato d'ombra dell'essere e dell'esperienza sono l'altra faccia, la metà celata ma baluginante, rivelatoria o inquietante, dell'evidenza e della superficie. Essere e nulla, vita e morte, parola e non-detto (indicibile) si compenetrano e si coimplicano, come per una platonica symploké. L'immaginazione, l'intuizione, allora, non sono affatto evasione dalla realtà, ma, nel senso dell'eidetica husserliana, rivelazione, intuitiva e insieme riflessa, della sua essenza – unomnia o coincidentia opppositorum in senso neoplatonico.

La simbolica e la metafisica della luce che pervadono Le stanze del cielo riassumono in sé tutti i colori, tutte le epifanie, tutte le forme percepite o immaginate, e insieme le trascendono, le inverano annullandole nella loro temporalità contingente e transeunte. Anche la musicalità, il canto del verso dell'ultimo Ruffilli (che non mi pare si possano ridurre, come vorrebbe Alfredo Giuliani, ad una «cantabilità sommessa e antilirica», e mostrano semmai sorprendenti consonanze con il Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini e di Dottrina dell'estremo principiante) divengono, quasi, declinazione immanente, “immagine mobile” di una musica mundana, di una silenziosa armonia eterna che si involge, o sfuma senza dissolversi, nella sublimità del silenzio interiore.

«È qui, dove niente / accade, il tempo / è senza essere / mai stato, un'attesa senza luce / e senza fine». «Il buio negli occhi / e il suono del silenzio / dentro la mente». «Notte eternamente / luminosa / nella sua chiusa / fulminante assenza». (R ed S, Reish e Shin della Cabala: ideofoni eterni ed archetipici, segni di vibrazione e quiete, eterno ritorno dell'uguale e annientamento nella suprema pace, attestazione ed autoriconoscimento del Sé e fatale, ma conscio, naufragio nel mistero e nell'aperto).

La malattia che isola dal mondo intesa come soglia del mistero, come iniziazione all'alterità assoluta. Noche oscura del alma, «luminosissima tenebra», divina caligo, come nel linguaggio dei mistici. Ma anche dark matter e music of the void come nella cosmologia contemporanea – realtà, o irrealtà, attinte ed intuite per via indiziaria, indiretta, indeterministica, quasi aleatoria, confermate per via suppositiva, schermata, più che sperimentale – dunque come opache entità ideali, esangui e nebulosi eide velati di brume. (M. V.).


L’ossessione è motivo emozionale della coscienza, la libertà invece razionale costruzione di se stessi e responsabilità di scelta.
Nel contrasto fra tali elementi nasce forse la tipologia strettamente originale della tua poetica?


La tua interpretazione mi convince e mi chiarifica il mio stesso rapporto conflittuale con l’ossessione della perdita della libertà. Probabilmente comincio a prenderne via via coscienza, dopo la pubblicazione del libro e la serie di affondi perlustrativi che si sono messi in moto a lavoro creativo concluso.


L’immaginazione non è intesa come fantasia, ma come aderenza alle cose che invitano, nella loro realtà, a contemplare altre possibilità che da essa scaturiscono. Il leopardiano “io nel pensier mi fingo” e “la molteplicità del reale” di scuola metafisica tedesca possono spiegare meglio la parola “immaginazione” e sottrarla al termine del fantastico poco consentaneo alla tua poesia?

Analizzando la mia poesia, Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto che la realtà, per me, è in fondo tale solo se pensata dal soggetto. E credo che abbia colto nel segno. Ribadendo tuttavia che non c’è nessun disprezzo della realtà. Ma gli oggetti per me contano come specchi della mente. Io che ho la felice ossessione delle etimologie non posso dimenticare che tutta la famiglia delle parole "speculare", "speculativo", "specola", rimanda a specchio, cioè alla radice indoeuropea SPEK, che indicava il guardare durativo, focalizzato e fisso. Ecco, allora, che qualsiasi genere cambia genere. Perché, in ogni caso, scrivere per me significa usare l’immaginazione, nel senso che intendeva Einstein, cioè come capacità di penetrazione conoscitiva in cui l’intuizione pesca su un fondale tutt’altro che arbitrario. Dunque per me la realtà non è mai quella che si vede e si tocca (non sono un realista). Come realtà pensata, il tessuto informativo trova un momento di risoluzione in quelli che chiamerei "topoi della mente". Cionondimeno, non avverto come più importanti questi rispetto a quello. C’è una connessione indissolubile, anzi parlerei di orchestrazione, usando un termine musicale. Perché, in poesia, per me la musica è tutto o quasi. Senza contare che per me l’autobiografismo, anche in poesia, conta poco o niente, visto che da sempre ho la tendenza a rovesciarmi nella vita degli altri.

“Le stanze del cielo” è un titolo capace di sezionare il concetto di infinito in meravigliosi spazi appartenenti all’uomo. In questo consiste la “laicità spirituale” del poeta o meglio il suo panteismo espanso all’“indefinito”?

Non ci avevo pensato, ma mi ritrovo in questa tua ipotesi.

La libertà quindi è la religione dell’uomo, della quale però egli può essere privato anche senza propria volontà dalla malattia fino alla constatazione
dell’insufficienza della parola?


Sì, è così. E ancora di più. Perché ci sono le limitazioni e le catene che ognuno impone quotidianamente alla propria libertà, costringendosi a non vivere come vorrebbe. Può anche darsi che sia impossibile vivere nel pieno la libertà…

Si può parlare anche in te di correlativo oggettivo? I condannati del libro stanno alla libertà come ossi di seppia allo scheletro dell’uomo?

Qualcuno ne ha parlato a proposito della mia poesia. Ma non saprei dire se a ragione oppure no. In ogni caso, per me la realtà è quella pensata: sempre e solo quella. Ed è una realtà, evidentemente, carica di simboli e di riferimenti.

La mancanza di paesaggi e colori nella tua poesia connota una visione esistenziale che si analizza da dentro senza consolazioni esterne? L’amore per gli interni, quindi, potrebbe essere la ricerca di una stanza del cielo o comunque l’area di concentrazione forte del verso poetico?

Non è nominando i colori che fai colore, così come con gli odori o i sapori. A stimolare i sensi funziona di più l’allusione o la reticenza… Sarà per questo che un mio critico di qualche anno fa, Luigi Baldacci, ebbe a scrivere che a leggermi “si scatenano vista, olfatto, udito, gusto e perfino sensazioni tattili”. In ogni caso, è vero che prediligo gli interni agli esterni. Ma, in entrambi i casi, non descrivo mai. Immagino…

Ti senti di poterti avvicinare nei tuoi scritti poetici ad un’adesione alla poesia congetturale di Borges?

Borges è stato uno dei miei scrittori di riferimento, in particolare per la sua dimensione di pensiero. Anche per me la scrittura è sempre avventura mentale, di pensiero e immaginazione, come ti dicevo.

Avverto nei tuoi testi una mediazione molto bassa con il tema trattato
e con la voce parlante. Quindi il poeta è fingitore in quanto anche menzognero, o solo perché “nel suo pensier si finge” le stanze del cielo? La finzione, la menzogna possono, cioè, essere strumenti di verità, in quanto tramiti dell'immaginazione?


Sì, è proprio così. Del resto, la citazione da Pessoa è lampante. E non a caso Pessoa è uno dei miei scrittori preferiti. Condivido la sua stessa famelica tendenza a rovesciarsi nelle vite degli altri e a rappresentarla attraverso la “finzione” che è l’unico vero modo per conoscere. Il discorso ci riporta all’immaginazione. È l’immaginazione che riesce a rendere tutto più vero del vero, ma non realistico. L’importante è mantenersi in equilibrio tra conscio e inconscio e, a questo fine, l’unica facoltà capace di aiutarti è appunto l’immaginazione. L’unica in gradi di sfuggire al vincolo dei sensi e della ragione e di mettere in rapporto il mondo della psiche e quello della materia.

Più esperienze artistiche convergono nei tuoi testi, quella cinematografica con Fellini è quella che si avverte di più nell’icasticità della parola e nel montaggio degli interni, hai mai pensato di portare in teatro i tuoi ultimi due testi?

Io non ci ho mai pensato, ma ci hanno pensato gli altri. Ho anche scritto per il teatro, sia di prosa (un paio di commedie, appunto rappresentate) sia musicale (un paio di libretti d’opera, appunto musicati e cantati). Però scrivendo poesia non mi sono mai posto il progetto di teatralizzazione. Lo hanno fatto gli altri (registi e adattatori), sia per “Piccola colazione”, sia per “La gioia e il lutto” e perfino per “Le stanze del cielo”.


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giovedì 4 febbraio 2010

"Ruth Fainlight, la Sibilla elegante" - di Patrizia Garofalo

La poesia di Ruth Fainlight (autrice cosmopolita, capace di fondere in sé diverse identità: quella inglese e quella americana, l'eredità dello spirito ebraico, con la sua perenne ed errante ricerca di un contorno mai compiuto e sempre fluente, e la reminiscenza del mito classico, archetipo remoto e già dato, eppure ricco di sfumature e di nuove possibili riletture) compie, attraverso la parola e la scrittura, un'opera assidua di demistificazione, di ripensamento, di straniamento del quotidiano attraverso l'irruzione improvvisa ed assidua, freudiana, del perturbante, di sovversione del tempo tramite la contaminazione (retroattiva o proiettiva) del passato nel presente, della giovinezza e dell'infanzia con i loro bagliori vividi e contrastati nella luce ferma della maturità.
“Ripartorirsi”, dice la Garofalo: mito ed immagine di rigenerazione, come nel rito della primavera, della fecondazione, dello sbranamento orfico e dionisiaco a cui consegue la perenne rinascita – ma in pari tempo, nell'ottica ebraica, messianica tensione escatologica verso il compimento e la redenzione, ma in un'ottica mondana, contingente, immersa nel quotidiano, senza estasi mistiche.
Redenzione e rinnovamento del linguaggio è anche la traduzione poetica, se a compierla è (con la collaborazione di Alessandra Schiavinato) un poeta come Paolo Ruffilli, che certo trova nella Fainlight un'autrice consentanea alla propria sensibilità più recente, per la consimile tensione verso una ricomposizione degli opposti (vita e morte, passato e futuro, maternità universale ed universale condizione filiale, od orfana).
E certo il poetare si riflette sul tradurre, il poeta non manca di imprimere la propria mano sulla materia della riscrittura.
«Her lips, though still full, meet firmly in a straight hard line» diviene «le sue labbra, anche se piene, restano serrate in una dura linea retta». La sentenza di Sibilla non si perde, come in Dante, "nel vento, sulle foglie lievi" - è, al contrario, pur nella sua ingannevole doppiezza (o forse proprio per rendere quella doppiezza ancor più penetrante ed insidiosa), fissata in sillabe limpidissime, nette, dure e taglienti, come diamanti.
«Into the deep stone bath of water» è, con meravigliosa concisione, «nel profondo bagno di pietra». Non si stenta a riconoscere, nella versione, la pronuncia netta, precisa, quasi tagliente, eppure dolce, musicale, melodiosa, di una levità e una sprezzatura quasi settecentesche, del poeta di Camera oscura e La gioia e il lutto.
Anche lo stile fluido, dall'apparenza sorridente, dalla sapienza dolce e mite, dall'allure al primo sguardo quasi mozartiana, è, invero, strumento di consapevolezza e di demistificazione. Stile ben consono, dunque, all'indole di una poetessa che (amica di Sylvia Plath negli ultimi, tormentati anni, prima che scendesse su di lei, sul suo affanno immedicabile, la nera pace della morte) ha cantato «womanliness, / and love, and anguish, and war», essere donna, e amore, e angoscia, e guerra, e nella poesia ha riposto la funzione, e la missione, forse impossibile, ma eroica e vivida, di sceverare l'intreccio di necessità ed imprevisto, legge indefettibile dell'esistere e mistero di ogni singola, irriducibile, vicenda esistenziale. (M. V.).

Mito e desiderio di cogliere l’eternità, pur consapevoli della caducità delle cose, trovano nella poesia vie di scampo al deterioramento del tempo; Ruth Fainlight, poetessa angloamericana (La verità sulla Sibilla, traduzione e cura di Paolo Ruffilli, Edizioni del Leone), attraverso la possibile verità della Sibilla e la musica di Orfeo, rinnova le stagioni e diventa, allo specchio, madre del suo essere bambina e rinnovata stagione della profezia del vivere.

La libertà della Sibilla è nella sua rinascenza in morte, quando potrà diventare «la faccia della luna – orbitando come lei / liberata dalla sua estasi oracolare / Solo una Sibilla può fissare in faccia il sole».

Non penso che l’articolo indeterminativo stia ad indicare i vari luoghi di venerazione della Sibilla, ma piuttosto una qualità; quella del poeta, che concede eternità nel coagulo di presente, passato e futuro non in successione, ma mescolati come in un gioco di carte: «Collocò l’età dell’oro nel futuro lontano / non nel passato remoto, ed era ostile / all’idolatria come un ebreo. Non cedette ad Apollo / la sua verginità, e non si mise addosso mai nessun profumo».

Come il poeta, prende le distanze dalla richiesta di chi nella menzogna le chiede di sentenziare, dalla stoltezza con cui gli uomini si appropriano di abiti non loro, alterando mente e corpo nel palcoscenico della follia, e comprende l’inutilità della parola; aspettando di prendere il posto della luna, «le sue labbra, anche se piene, restano serrate in una dura linea retta». Solo quando sarà svestita si offrirà autentica al dio, alla parola, alla rinascenza, al verso, alla scarnificazione, alla catarsi dell’acqua gelida «nel profondo bagno di pietra» per ridefinirsi nuovamente bambina, donna, ebrea, madre e poeta.

La prefica piange nell’odore di primordialità, nella tensione di specchiare immagini dentro sé, nel filo di vento «che alza l’angolo del tappeto un momento/ soltanto e poi lo lascia andare come se/ non fosse successo niente ma sai che non è così».

Il tempo lascia segni, rughe, ricordi, fastidi, intemperanze, nostalgie: «È duro segnare l’inizio del complesso di scontentezza / condiviso da ogni primate metafisico /… Ci sono giorni in cui immagino, lontano nel futuro, / qualcuno che mediti sul principio e sulla fine delle cose / piangendo i morti e prendendosi cura del suo giardino».

La metafisica, come tentativo di conciliare gli opposti e di cogliere nei meandri del pensiero l’ordinario come straordinario, conduce le liriche. La poetessa con intensa fisicità vive il tempo del ricordo strappandolo alla dimenticanza e affidandolo allo specchio con l’incisiva capacità di compattare i tempi in un unicum di versi scanditi da una cadenza rituale e da molteplici rifrazioni di luci .

Il rivedere abiti usati le fa scrivere: «La fine e l’inizio / della mia giovinezza, due / manichini in vetrina / che sembrano quasi vivi». E domandare: «Ditemi amiche la verità. Sentite pure voi / talvolta una furtiva e gaia indifferenza, / o meglio ancora, momenti straordinari / in cui state salutando con gioia il nuovo / viso che si è offerto allo specchio / come una madre – non la vostra, ma quell’altra / sognata – che – sempre – avete rincorso. / Il vostro viso, se ci provate, può diventare il suo. Lo deve». Ecco, in questo ripartorirsi credo consista la chiave del libro che dolcemente accetta il rinascere delle stagioni e sente la primavera palpitare sotto il freddo dell’inverno: «…le prime foglie fresche / intatte sembrano fragili coaguli arrossati e grumi / di carne aggrappati ai ramoscelli, come se / fossero venute qui di notte le baccanti / a compiere il sacrificio rituale della primavera, / e avessero gettato i brandelli sanguinanti / delle membra di Orfeo sui rami».

Il mito vuole che la testa di Orfeo scivolasse nell’acqua e continuasse a cantare prima di diventare la costellazione della Lira vicino alla luna, proprio lì dove Ruth Fainlight vorrebbe essere per sempre.


Patrizia Garofalo

mercoledì 13 gennaio 2010

Patrizia Garofalo, "'Occhi di zagara' di Paola Sarcià"



E tu vento del sud forte di zagare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi.

Questi i versi splendidi, potenti, sonanti, luminosamente lirici e mediterranei, che ad un poeta oggi troppo snobbato dalla critica accademica, Salvatore Quasimodo, furono ispirati dal profumo della zagara (un fiore che, diceva, se non erro, anche D'Annunzio, evoca il suo profumo con il solo suono, lieve, alato e insieme intenso, del proprio nome) - versi da raffrontare, forse, con quelli che Montale rivolse, invece, al gelido vento del nord, che è al contrario salvifico proprio perché blocca, paralizza, "suggella" sul nascere la vita con il suo assiduo, spesso doloroso, moto e mutamento, con le sue potenzialità angoscianti proprio perché indeterminatamente molteplici: "Ritorna più forte / vento di settentrione che rendi care / le catene e suggelli le spore del possibile".

Fiore che ha occhi di poeta, fiore dal profumato pianto, come dice splendidamente la Garofalo, la zagara è, rispetto alla ginestra leopardiana, simile e insieme diversa. Al pari di essa resiste, nonostante tutto, con la sua assurda e vana bellezza spuntata dalle asperità e dall'abbandono, alla dolorosa angoscia del vuoto; ma lo fa non con l'umiltà dello stelo "lento", flessibile, potentemente docile, della ginestra, bensì con l'intensità decisa, con la disperata gioia dei suoi colori (l'opposto del rifiuto montaliano del croco dalle tinte troppo accese e squillanti) e dei suoi afrori.

Ma, in definitiva, nell'un caso come nell'altro, il profumo non consola che i deserti, si innalza, come in "Ognissanti" di Manzoni, "ai deserti del cielo", in offerta generosa e vana, non vista, levata e consacrata ad una alterità e ad un'assenza - eppure in sé, e per il devoto offerente, e forse anche per il misterioso, eterno Altro, essenziale e vitale.

M. V.



“All’inizio fu la stanza dei bambini, con le finestre che davano sul giardino e oltre il giardino, il mare” (V.Woolf, Le onde)

“Fai sempre in modo che l’uomo sia figlio dell’attimo in cui roccia e mare s’incontrano” ( Heine )

Il mare, nella parola dell’autrice, assume una valenza fortemente musicale e, come l’onda e il suo dissolversi, diventa paradigma dell’inarrestabile corso della vita e del tempo perso e ritrovato, nostalgico e inclemente, inaccessibile e segreto, nascita e morte, parola e silenzio.

Una “battigia” semantica di parole cancellate e riscritte sulla riva del dolore , segnano la sabbia di sangue e di rinascite in un non allineamento sentimentale ed artistico che denota , in questa silloge d’esordio, l’onestà artistica dell’autrice.

La zagara è fiore forte, resiste al gelo pur nella fragilità del suo stelo rugiadoso, e ha occhi da poeta. Il fiore assunto a specularità di sé dalla poetessa viene a significare l’ossimoro dell’esistere nell’indissolubile connubio con gli abissi, il naufragio, la morte, la catarsi. Un libro di elaborazione del dolore nei confronti del quale l’autrice non si celebra né si offre vittima: con profumato pianto, diventa lei stessa la zagara che aspetta e nell’attesa si “ripensa” nel mondo dei sentimenti e del reale, suggerendo inconsapevolmente che il riscatto è proprio nello scriversi senza difese e rimozioni, e il suo dare forma al dolore mantiene inalterati i solchi del tempo, le cicatrici e la loro rielaborazione emotiva.

Paola Sarcià nell’accettazione di sé offre versi anche di un solo sintagma, imprigiona il tempo nell’urgenza dello scatto-immagine e, in modo icastico, ogni volta propone versi che incidono la pagina di una assoluta volontà di coscienza. Poesia quindi non immaginifica e sognata ma poesia dell’intelletto che ne contiene l’emozione. La silloge priva di memorialismo, di soggettivismo e personalizzazione costituisce un diario dell’anima; senza date di riferimento, titoli e senza patetismi persegue l’ipotesi di un “noi” come unici protagonisti del nostro attraversamento per mare.

Naufrago
nei tuoi occhi di mare
approdo sicuro
il tuo corpo
pone fine
al mio errare

Tutto
è
ombra e luce
un mare d’acciaio
riflette
la mia anima

Ostinata
perseveranza
fino al dolore dell’anima
fino a quando anche il dolore
si è arreso
all’essenza
di un’assenza
che spegne il fuoco
e prosciuga
il mare

Quest’ultima lirica, la cui incisività concettuale crea un forte impatto emotivo, segna un doloroso prosciugamento della sostanzialità dell’esistere nell’assenza,

L’intensivo iniziale “ostinata-perseveranza” si espande nel cielo che sembra scientemente raccogliere il dolore di una donna e smettere di risorgere luminoso .

Nella paronomasia (essenza –assenza), Paola Sarcià sfida la deriva dell’essenza nella sostanzialità dell’assenza, del vuoto, del baratro che tutto prosciuga, anche il mare - ma non la vita che continua ad essere fissata nel susseguirsi delle liriche con la “fede” di chi crede che il vivere vada scritto per non essere cancellato, e per rinascere alla vestale-poetessa come fuoco inestinguibile.

Inseguendo un profumo
di salsedine
ho confuso
le onde
con le nuvole
e
atteso una notte
di stelle di mare

Una tavolozza d’infinito confonde in un continuum mare e cielo, li profuma di salsedine e trasporta le stelle nel fondo del mare. Ho parlato dell’autrice come poetessa del mare per la varietà di etonimi che sono ad esso attribuibili e sempre così profondamente da sentirne sensibilmente la fisicità anche quella memoriale della nascita e del ritorno, del naufragio e dell’approdo.

“Luna d’Asia / dominatrice / seducente / di vascelli / in cerca / di rotte". Lo spaesamento e il dolore diventano viaggi per mare in cerca di ammaraggi e affidati alla luna, illuminata compagna di viaggio, cifra della solitudine poetica che in simbiosi con il creato rielabora in “fermo-immagine / lo scorrere della follia", in un “ fragore di onde / di spuma / di alghe”; “…l’onda sovrana / sfida la roccia / violenta di cicale /e di fronde nodose…".

Nella ipallage sorprendente in cui la roccia diventa attesa dell’incontro con il mare trovano il loro definirsi i versi di Heine citati in apertura, e il mare diventa il ritorno alle radici dell’autrice, la quale così definisce la sua poesia: "Pensieri / diafani / indistinti / si spandono/ sulla carta / polvere di sabbia…”.

Il mare è ancora “terra” di una bambina che scrive e gioca sulla sabbia, di una donna che ha “scavalcato mura d’ansia… / di labbra stuprate / di radici ferite", foriero di un’ancora probabile
“gita al faro” con tutte le nostalgie che comporterà. Sarà la Sicilia ad accoglierla e lei a “ripensarsi” nel luogo dell’anima, nella assolata terra del padre, e l’andamento lento dei versi la proietta, riconciliata, verso un approdo:

leggero il mio cammino
su questa terra
di ulivi gravidi
di fichi d’india
protesi in un abbraccio
al cielo
di agavi in fiore,
illuse
di distrarre la morte-
Di questo luogo
mi riconosco
figlia
e non più
errante
in un cielo opaco
fra vicoli
senza orizzonti
di una città antica.
Nello specchio
l’immagine riflessa
l’arcano richiamo
di terre assolate
levigate dal vento
bagnate dal mare

La Vestale non ha accettato il fuoco spento, ed esso si riaccende epifanico dentro di lei

Nella mia anima
in punta
di piedi
sono



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martedì 12 gennaio 2010

Elisabetta Brizio, "La grigia 'povertà cogitabonda' nella poesia di Marino Moretti"

La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la sua voce
la sirena del mondo e il mondo è un grande
deserto. Nel deserto
io guardo con occhi asciutti me stesso.


Camillo Sbarbaro


Chinar la testa che vale?
Che vale fissare il sole
e unir parole e parole
se la vita è sempre uguale?

Marino Moretti



Oppressi dalla dannunziana mitologia del poeta-vate i crepuscolari ostentano una povertà stilistica e di contenuti, attenuano i grandi motivi decadenti e decantano la propria incapacità di sostituirli; in tutti c’è l’aspirazione a distanziarsi da esperienze poetiche di carattere assertivo, vale a dire dagli esiti naturalistici o più tipicamente civistici carducciani, dal modello dannunziano, ma anche da Pascoli, che pur con un eccesso di malinconia, l’attenzione verso le piccole cose o la scelta regressiva dice sempre e comunque qualcosa che è, non che non è. La poesia viene dai crepuscolari fatta passare per qualcosa di diverso dalla poesia: è antilirica confessione della negatività, priva di riferimenti, nonché di destinatari, smascheramento - più o meno irriguardoso - della falsificazione. E il presupposto comunicativo della negazione crepuscolare è un rifiuto delle ideologie non ideologicamente caratterizzato: un disconoscimento - di secondo grado dunque - della possibilità stessa che sussistano ancora dei significati.

Della poesia i crepuscolari inverano la morte e una condizione aurorale, aspetti compresenti nell’ambivalenza sottesa alla metafora del crepuscolo che Giuseppe Antonio Borgese inaugurava su “La Stampa” nel 1910:

A interrogare il gran pubblico, si direbbe invece che dopo le Laudi e i Poemetti la poesia italiana si sia spenta. Si spegne infatti, ma in un mite e lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte. Presso un popolo ricco di energie creatrici come il nostro la lirica esaurita sonnecchia stanca, ma non dorme e non muore. In una morbida ignavia soffusa di vaga inquietudine si confondono gli ultimi sospiri di una grandezza che fu coi primi sommessi balbettii di una grandezza che verrà un giorno alla luce, e il chiarore del tramonto si protrae fino a disperdersi nei primi raggi dell’alba. (…). Ecco tre giovani poeti crepuscolari - Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves - che sono indubbiamente tra i migliori rappresentanti di una scuola poetica ogni giorno più numerosa: quella dei lirici che s’annoiano e non hanno che un’emozione da cantare: la torbida e minacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare.

Marino Moretti - nella trilogia che annovera Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911) e Il giardino dei frutti (1915), cui seguì un lunghissimo, emblematico silenzio poetico protrattosi fino a Diario senza le date, uscito solo nel 1965 - accondiscende all’atmosfera crepuscolare attraverso un impoverimento tanto delle emozioni che della valenza d’eco sia del catalogo oggettuale che dei luoghi del crepuscolarismo. In lui l’obiezione al naturalismo e allo storicismo avviene in una dimensione strenuamente ironica, nell’intrattenersi con una realtà poetabile solo per diminuzione. Non siamo nell’orizzonte della riduzione mallarmeana (pur se umanamente, tragicamente sentita come algida distanza dal mondo, e dunque richiamata, anche se per mediazione intellettuale, entro la sfera di una dolente e tormentosa esistenzialità esperienziale) verso la purezza, né di quella corazziniana verso l’essenzialità e l’astrazione linguistica delle ultime raccolte, nelle quali il soggetto lirico-empirico delinea l’esito di un divenire che tragicamente accede al punto d’arrivo. Con evidente intenzione mistificante - ma fino a che punto? - Moretti esibisce, come uniche emozioni, un cupo grigiore e la noia della vita. Ma sovrappone a tali referti la propria inclinazione riduzionistica vistosamente diminuendoli, e filtrandoli attraverso uno schermo che li riduce fino a rivelare della realtà la sua qualità “lillipuziana”:

Tu vedi: la mia stanza è un bugigattolo,
tu vedi: la mia penna è una matita,
e la mia vita, la mia dolce vita
è come l’arte, un gioco od un giocattolo

(Parole al fratello dispotico, Poesie di tutti i giorni).

Il celebre morettiano “nulla da dire” potrebbe assimilarsi all’indebolimento del verlainiano “Plus rien à dire!”. Il "nulla da dire" di Verlaine (nel celebre sonetto Je suis l'Empire à la fin de la décadence) è comunque inserito in una visione storica quasi vichiano-spengleriana (la decadenza tardo-ottocentesca è rivissuta, individualmente, come eco o riverbero delle tante decadenze di cui è tramata e intessuta, nella ruota dell'eterno ritorno, dei corsi-ricorsi, la storia, e in particolare di quella tardo-imperiale, che tanto affascinò gli spiriti di fine secolo, da Huysmans a Pater).

L'afasia di Moretti può invece apparire più individuale, intimistica, provinciale, marginale, perciò talora anche fastidiosa, oltreché povera di significati letterari e culturali, proprio perché scissa da una percezione della profondità storica e del divenire dei secoli.

Nondimeno, che anche il non-dire possa essere paradossalmente fonte di poesia, che anche il mutismo e il non senso possano generare suono e significato, per quanto grigi e smorzati, è idea molto moderna, che sta, ad esempio, alla base dell'alea musicale così come del teatro dell'assurdo - mentre il théatre du silence di Maeterlinck era dominato da un silenzio espressivo e significante, da una pausa che poneva in rilievo la parola, come in un gioco di chiaroscuro, come l'ombra nella pittura, come il silenzio, la reticenza, la pausa, l'indugio, nella letteratura e nella musica.

Il nulla da dire invade anche i morettiani luoghi della retrospezione e si intreccia con il rammemorare, con la regressione, come in Il ricordo più lontano, posto a chiusura di Poesie scritte col lapis. E tale tendenza al regressus accomuna il poeta agli altri crepuscolari, con la differenza che egli finisce per reificarla sul piano formale attraverso la diminuzione, la ricorsività dei ritornelli, l’ironia gratuita, quasi a tratteggiare un crepuscolarismo ormai fatiscente (scriveva parecchi anni or sono Luigi Baldacci che leggendo Moretti si avverte la sensazione che egli sia intervenuto nel momento in cui la poesia crepuscolare si era pressoché esaurita), come nella dichiarazione apertamente programmatica - e ormai non più neppure antidannunziana - della sua poesia-prosa, emblematizzata nella metafora del frutteto:

Ecco dunque la mia prosa, la mia prosa-poesia

(…)

Qual mia gioia più sincera se al gentil visitatore
che mi chiede a caso un fiore, glielo do con una pera?

(Il giardino dei frutti).

E viene spontaneo qui l’accostamento alla più nota e fors’anche più sottile esternazione di Gozzano, contenuta in L’altro:

Buon Dio, e puro conserva
questo mio stile che pare
lo stile di uno scolare
corretto un po’ da una serva.

Rispetto al più scaltrito Gozzano, il cui prosaismo, com’ebbe a dire Montale, viene sapientemente e imprevedibilmente coniugato con “l’aulico”, con la componente della tradizione, con l’esibizione di una letterarietà travestita da dimessità che ne legittimerebbe la classicizzazione, Moretti, si diceva, sembrerebbe descrivere l’esaurimento del crepuscolarismo, codificarne una versione epigonica e talora quasi caricaturale.

Un crepuscolarismo, quello di Moretti, eideticamente devitalizzato, deprivato di sensibilità e di inquietudine, quasi compiaciuto di stazionare su una ontologica e poetica nihilitas nella quale l’inaridimento viene apparentemente vissuto senza ombra di pathos. Con questo, la morettiana prosa-poesia non è tuttavia esente dal coefficiente aulico: come in Gozzano, la componente letteraria viene solo accortamente dissimulata, e con loro, come poi con Montale, la questione del sublime d’en bas e sublime d’en haut, tra “sublime inferiore e sublime superiore”, come notava Edoardo Sangiuneti, diventa eminentemente una questione tra sublime e non sublime.
La poesia di Moretti si presenta con metrica e forme chiuse, e con l’ostinazione della rima; resistente al verso libero, la sintassi morettiana mostra comunque forti spezzature (ad esempio in A Cesena), con prevalenza di enunciati paratattici sprovvisti di segni funzionali. Lo accomuna a Gozzano un’ironia che impegna il lettore in una decodifica della semanticità del linguaggio poetico, nel tentativo di decifrare il livello profondo dell’espressione. Con Gozzano Moretti condivide anche la dimensione della inafferrabilità del soggetto dell’esperienza, ma rispetto al poeta torinese, che costantemente si propone per poi immediatamente smentirsi, Moretti evita finanche di proporsi, restando al di qua di qualsiasi affermazione:

Aver qualche cosa da dire
nel mondo a se stessi, alla gente!
che cosa, io non so veramente
perch’io non ho nulla da dire

(Io non ho nulla da dire, Poesie di tutti i giorni).

Che senso ha dire in poesia “io non ho nulla da dire”? È una forma di negazione della poesia in quanto tale? Verbalizzare un nulla da dire alluderebbe a un segno più radicale rispetto alla corazziniana negazione, al palazzeschiano divertissement o alla gozzaniana vergogna di essere poeta. Forse è una maniera estrema per non assoggettarsi alla falsificazione: non dire nulla equivarrebbe a non dire menzogne, ad astenersi dal mistificare, dove l’indolente ironia permette al poeta di non sbilanciarsi tra i due eccessi, o poli, dell’azione e dell’astensione. Un inclinare all’impartecipazione, ovvero, per dirla alla Gozzano, alla “rinuncia volontaria”, che talora nondimeno si esprime in forme e toni maggiormente assorti e riflessivi:

Felicità, cosa che sa d’amaro,
parola che si lascia dire e ride,
fior che fiorisce come un frutto raro,
gioia che il cuor sopisce ma non uccide;

felicità, larva di donna, riso
di donna, occhio di donna, ombra di donna,
seppi io forse il tuo gran rombo improvviso,
rabbrividii nel tuo bacio che assonna?

E se la stringo al mio cuore soave
la chiave della mia casa solinga,
felicità, forse t’ho chiusa a chiave,
fior, gioia, donna, infelicità?

(Cosa e parola, Il giardino dei frutti)


A Moretti, rispetto al liricissimo Corazzini, alla sovrabbondante ispirazione di Govoni, al Gozzano perlomeno delle Farfalle, non pertiene quella tendenza a entrare in sintonia - seppure per sottolinearne lo scarto - con le forze cosmiche, in una mistica corrispondenza con il mistero. Così come gli è estraneo il corazziniano indulgere all’ondulazione e alla stilizzazione, quell’andamento a volute, quelle linee curve del verso che ad alcuni crepuscolari derivò dal liberty - vibrazioni e volute di puro suono, ma implicate anche negli innumerevoli simboli tratti dal mondo della natura, di ascendenza simbolista e soprattutto maeterlinckiana.

Quella vicinanza, in altri termini, alle soglie del segreto pare in Moretti risolversi tutta nel prosaismo dell’esperienza e della parola. Laddove l’elemento strutturale, enunciativo, portante mai viene scorporato da ciò che evoca, conservando una consistenza fenomenologica espierenziale ricercatamente minimale.

Un’esperienza eminentemente grigia (“non c’è che un colore: / il grigio”, Che vale?), colore debordante nei versi di Moretti, che sottentra al bianco corazziniano, tonalità del silenzio e della morte. Grigia è la domenica di provincia, pervasa dal grigiore dello spleen crepuscolare:

Voglio cantare tutte l’ore grige
in questa solitudine remota
mentre ripenso, pallida, a una gota,
mentre rivedo, piccola, un’effige

(Che malinconia!, Poesie scritte col lapis);

Non c’è né duolo, né gioia
non ci son luci, né ombre:
il grigio, il grigio che incombe
sui cuori e un tarlo, la noia!

(Che vale?, Poesie scritte col lapis)

Il grigio di Moretti è il colore dell’inazione (l’antecedente crepuscolare è Armonia in grigio et in silentio del più “barocco”, impressionista e coloristico Govoni), è colore che collima con la noia, è il tono smorzato dei segni del lapis, della malinconia e della “tetraggine” (“malinconia / del tuo color che non è più colore”, Ode al lapis). Un “grigio borgo” dove piove e “s’avvicina / l’ombra grigiastra” è Cesena, grigie sono le ore, “grigia è l’immensità in La domenica di Bruggia, grigio il diurno morettiano vagabondare (“lentamente camminando / per la città sconosciuta / dove nessuno mi saluta / fuorché un cane a quando a quando”, La domenica dei cani randagi). La malinconia delle mezze tinte si ricollega all’astensione, al nulla da dire come indistinzione del segno riluttante a significare. Il girovagare, si diceva, il nulla da fare, già sottolineato da Borgese: un vagolamento, un far passare il tempo che non assumono il carattere crepuscolare del notturno come esperienza estetica (stando ai ricordi dei crepuscolari del cenacolo romano) o come insofferenza al vedere quanto lo scopo non-scopo di esteriorizzare il nulla da dire. Nulla da dire e nulla da fare si legano all’idea di versificare durante questo inconcludente vagabondare, nel quale il poeta sembra pago

d’una felicità fatta di cose
randagie, di brevi atti di passanti,
di ritornelli facili, di pose
vecchie d’innamorati interessanti

(A Firenze con Palazzeschi).

La poetica dell’oggetto, del proverbiale oggetto crepuscolare, antefatto letterario del montaliano correlativo oggettivo, subisce con Moretti una sensibile deviazione. Se in Corazzini l’oggetto era il compimento di una visione o la simbolizzazione di un’ossessione emotiva, ovvero l’incarnazione materiale dell’anima, in una parola, “un altro me”, deperibile e soggetto a consunzione, segno d’elezione dell’estrinsecarsi dello spirito, in una relazione paritaria con il soggetto lirico (una variazione del mondo reale dal punto di vista del soggetto), in Moretti l’oggetto trascende il soggetto e sancisce tale distanza conservando una dimensione più realistica e meno astrattiva, e patisce la trasfusione di una mancanza di sentimento. In Moretti gli oggetti non paiono in alcun modo emotivamente o esistenzialmente connotati se non in modo implicito, silente, che eventualmente sarà decifrato dal lettore. Mentre in Govoni la fusione tra il soggetto lirico e l’oggetto è esemplare, in Palazzeschi c’è l’oggetto vuoto, la cosa nuda (“Oro doro odoro dodoro”).

L’indifferenza permea e impregna, avvolge e imbeve anche lo stile di Moretti, che si qualifica come stile al grado zero, insieme alla fredda luce degli oggetti e degli ambienti, che riflettono in modo solo implicito, senza alcun romantico o decadente analogismo, l’assenza di un vero autentico stato d’animo.

Ma non alla maniera del superegotico Gozzano, riempiti di ironico rimpianto, talora sbeffeggiati, ma saturi comunque di un contenuto soggettivo, di un’aura di passato ormai cristallizzato, la sola consistenza che Gozzano riesca a padroneggiare, a fruire, oltreché l’unica a distanziarlo dal presente e da ogni inquadramento ideologico. Il rituale che Gozzano inscena con la poetica dell’oggetto è in vista dell’edificazione di una sorta di “altare del passato”: e il carattere di passato che pervade i versi gozzaniani sopperisce a una tutt’altro che metaforica vacanza di presente.

Gli oggetti di Moretti rivendicano la propria autonomia, e malgrado talora dessero l’impressione di adombrare una evasione, una qualche risonanza, hanno una dimensione univoca e inequivocabile, sono concreti e letterali, per usare la definizione che Roland Barthes associava agli oggetti robbe-grilletiani. Il morettiano oggetto fattuale dunque fa la cosa senza svelarne alcunché. Moretti non ne sperimenta né la vita né la dissoluzione, né li assume, gozzanianamente, come obsoleti nella loro assoluta fissità, e neppure sono obsolescenti come le corazziniane cose “che sanno”, in una poesia dove poeta e oggetto condividono lo stesso destino in una comunione indivisa. E in Corazzini a ragione si può parlare di metafisica dell’oggetto e della prospettiva cosale.

Inoltre, il repertorio oggettuale della poesia di Moretti introduce elementi che esorbitano dal consueto catalogo crepuscolare e in parte già simbolista: l’orario ferroviario, il libro contenitore dei sogni (“tutte conosci le città dei miei / sogni e paesi che non vedrò mai”), e che tanto doveva affascinare Marcel Proust, il quale diceva quanto il suo essere spirituale riuscisse - fantasticando sull’orario ferroviario - a travalicare le “barriere del visibile”, attingendo nel suo stato di reclusione a “voluttà profonde” nella “fascinosa evocazione di quei paesi di luce e di vita”.

Insieme all’orario ferroviario, l’ascensore, il telefono fanno la loro comparsa nei versi crepuscolari, tuttavia deprivati della loro componente usufruibile. Come accade in Ascensore (in Poesie di tutti i giorni, poi non confluita nell’edizione mondadoriana del ’49), “questa celletta piccola e imbottita / che va su che va su”, e in Telefono (anch’essa espunta dall’edizione del ’49):

Sei tu! sei tu! la voce mi giunge
da una profondità d’anima oscura:
ho paura di te, di quest’ordigno,
che al mio povero cuor che più non sogna
dona la voce tua, la tua menzogna
come per uno spirto maligno.

In Moretti non assistiamo al transfert del soggetto nell’oggetto, né a quello che sarà il montaliano passaggio dal fisico al metafisico (come superlativamente nella metafora del muro). Nondimeno, anche in Moretti si verifica uno sconfinamento nell’extraoggettuale: nel monologante dialogare con l’anima, “la dolce anima” di La domenica di Bruggia (testo che riecheggia il titolo del rodenbachiano Bruges-la-Morte), l’”animula da nulla” di Parole al fratello dispotico, e con la Musa, figure vigilanti i grigi segni del lapis.

Oggetto eccentrico, il lapis (per una esemplare interpretazione di Ode al lapis e della poesia di Moretti rimando a Il “lapis” di Marino Moretti di Silvio Ramat), metafora dell’indecisione e dello svaporare nell’invisibile, rispetto agli altri oggetti morettiani nei quali, si diceva, si percepisce una consistenza quasi esclusivamente letterale. Il lapis emblematizza la crepuscolare poesia in tono minore, è prossimità con la consunzione e quindi con il silenzio e il dileguare, è inattitudine a edificare alcunché di duraturo nel tempo. Quale legittimazione del nulla da dire, il lapis tratteggia una poesia preparatoria, è prefigurazione al dire, un dire embrionale in gozzaniana “perplessità”, di sostanza di attesa. Il lapis prefigura lo scolorare dell’attesa, l’evento salvifico del verbo che nondimeno è predestinato a svanire, ma non per questo a fallire:

Poi che se vane furon le parole
che ombrasti appena su le nuove carte
e non ebbero i fremiti dell’arte
perché non germinarono nel sole,

dolce mi fosti e dolce mi sarai
compagno tu nella solinga vita:
vedi, la vecchia penna è arrugginita
e non v’è inchiostro più nei calamai.

(Ode al lapis, Poesie scritte col lapis).

Condizione liminare - quello che resta dell’intenzionalità artistica -, mozione verso l’espressione e indecisione perpetua, il lapis lambisce la parola ancora da dire. Perché, scrive Moretti,

E’ triste. Credetelo, in fondo
è triste. Non essere niente!
Sfuggire così facilmente
a tutte le noie del mondo!

Sentirsi nell’anima il vuoto
quando altri più parla e ragiona!
Veder quella brava persona
imporsi un gran còmpito ingoto!


(Io non ho nulla da dire).


Dice Claudio Di Scalzo, in una delle sue iperboliche “scritture supplementari” (come La maschera funebre di Sergio Corazzini) in margine ad autori amati:

scrivere è il sonno turbato da cento scricchiolii / scrivere è una corsa lungo mura in cattiva salute / scrivere è un volo controvento convinti d’esserne sospinti / scrivere è l’ispirazione sotto vuoto spinto / scrivere è la punta della matita trattata male / scrivere è la trapunta per il velo di una sposa senza attributi / scrivere è la tortura di una penna che ti solletica il cuore / scrivere è un vestito fuorimoda rovesciato / scrivere è il passo lieve sul terreno d’altri / scrivere è rivolta con la lingua capovolta / scrivere è l’avvenire di una mosca che non ha deposto uova / scrivere è uno scivolone sui cornicioni umidi del testo / scrivere è salire una scala malferma che porta alla soffitta di tutti / scrivere é tutta la mia cattiveria (da Rigagnolo senza sorgente per l’orto di Moretti, 1978).

Scrivere dunque, anche stilando con il lapis, per demitizzare la storia e per vaticinare una presenza seppure intrisa di una “povertà cogitabonda” (L’albergo della tazza d’oro) consapevole dell’inattingibilità a una oltranza, scampata comunque sia all’inerzia che a ogni volontà di costruzione: eluso ogni compromesso sentimentale, nonché poetico, resta la libertà “irresponsabile” dell’assenza di scarto tra la vita e la poesia. Le “cognite cose”, dal canto loro, continueranno ad appartenere al mondo:

Essere sempre come un’ombra,
come un’indistinta forma di passante
fra le cognite cose, fra la gente:
essere un’ombra che, fra tante, ha un nome.

(Angolo d’hortulus, Poesie scritte col lapis).

domenica 10 gennaio 2010

UNA CROCIFISSIONE DI RINASCITA. RICORDO DI MARIBRUNA TONI PITTRICE E POETESSA










Nel caso della compianta Maribuna Toni, l'oraziano ut pictura poesis non è una frase fatta o una citazione scontata, ma trova verificato il proprio significato segnico, il proprio valore semantico - parole deposte, stese sulla pagina come tratti di pennello, campiture cromatiche, pennellate incisive, contorni, espressioni.

Quadri, quelli dell'autrice, singolarmente divisi tra il figurativo e l'informale, con qualche forma, qualche tratto o memoria di realtà che affiorano ed emergono a fatica, con sofferenza - e il colore, la materia pittorica trasudano quella sofferenza, e nel contempo disperatamente la redimono - il volto della donna è sfigurato, ma nello stesso tempo inverato, celebrato quasi, dal suo risolversi in pura forma, puro segno, pura sostanza grafico-pittorica.

Lo stesso spasimo del pensiero che esce, che si sprigiona e rampolla dalla materia delle parole, dalla creta e dai pigmenti del linguaggio, come la forma dal blocco e la visione dal bianco della tela, credo di poter scorgere anche nei brani di poesie citati da Patrizia Garofalo nella sua affettuosa rievocazione.

La pittrice poetessa (per la quale certo la poesia era un'appendice, un corollario, della pittura, senza per questo essere marginale, ma acquisendo, piuttosto, il valore di un completamento e di un commentario) depositava, per parafrasare Ardengo Soffici, le parole sulla pagina come il pittore i colori sulla tela.

Viene in mente (non tanto come pittore, quanto come poeta) De Pisis. "ciglia, occhi-ciechi / anima vegetale / che s’offre abbacinata a la luce, / fronte, bocca, mento, cuore". "Dal muro alto sporgono / alberi spogli / forche, braccia, grucce". Parole-segni, tracce-emblemi deposti ed accostati, appunto, sulla pagina-tela, così come si assommano e si affollano sulla scena ilare e tragica del mondo e nello spazio, ammaliato o contorto, dello sguardo.

Come in Maribruna, con un'intensità esistenziale e simbolica se possibile addirittura maggiore:

I muri asciutti
e vinti,
un fondo congelato
che si staglia
e ritaglia i bordi
dei rami,
cinerei fiumi,
sbuffi di terra d’ombra
delle ciminiere
su un fondo cupo
di lavagna.


(M. V.)


“Ho innalzato / su piedistalli di cartapesta / idoli di creta / poi è piovuto./ E ora/ i basamenti son poltiglia / e gli idoli / soltanto una fanghiglia /
Resta intatta solo la memoria / incisa a fuoco dentro la mia carne / così il passato diverrà presente”.

La memoria fa da collante, da tessuto all’oggi di cui siamo protagonisti e responsabili. Nessuna condanna anche nei versi più esasperati dell’autrice,
se non a se stessa che non ha saputo né voluto essere diversa e ha sentito e cantato la pena del disincanto, dell’inganno, dell’amore non ricevuto, dei sogni trovati impiccati alle sbarre: “suicidi disperati per paura / che li uccidessi con l’indifferenza”. Ma l’indifferenza non regna in nessuno dei suoi versi, la ricerca di autenticità è esasperata al punto di affidare a scrigni, segreti, dolori, amori, se stessa e le sue ceneri, in groppa ad un‘onda che la porti lontana e la congiunga al cielo.

Una tavolozza di colori che si mescolano e diventano parola poetica , sconvolgono di pennellate le stelle, il pianto, la vita e la morte e l’ordine delle cose; la ricerca del colore diventa trascendenza, spiritualità, infinito.

Se il mondo non ha voluto entrare nel suo giardino, darle la mano e conoscere “il mio bosco, il mio lago e le foreste/ i paradisi o i magici miraggi di oasi incantate / i giochi, le canzoni, le risate / i flauti, gli organi i violini", la poetessa lo terrà con sé racchiuso nella “veglia della morte mia” dove "non c’è olio sufficiente/ per riaccendere/ il lume dei ricordi", e attraverserà la vita consapevole che l’uomo ha già, da sempre, sostituito l’amore di una carezza con l’indifferenza, elemento in lei presente solo come linea di demarcazione dal suo mondo e mai possibile rifugio al dolore, quale invece la suggerì Montale.

Maribruna penetra il mondo con una fisicità sorprendente, con un’aderenza d’anima che via via si fa sempre più metamorfosi panica con gli elementi della natura, con la quale gioca a vivere creando mosaici puzzle di cui lei stessa è tessera integrante: ”ho razzolato/ tra le nubi/ che concimavano solchi di mare: / cercavo la luna / se ne stava nascosta / pudibonda/ tra le rughe della notte".

Notte che Mariarosa vive nelle sfumature e negli echi delle conchiglie, dei silenzi, delle albe attese, nei tramonti che lasciano tralucere ombre, mistero, ignoto, nella preghiera di un pianto che ristori mentre la luna si specchia sul mare, popolato di “meduse / flaccide e dolenti / racchiuse nel pallore tremolante / di una morte recente".

Consapevole che basterebbe “la svirgolata d’ala/ d’un sorriso” a parare a festa una solitudine, inventa cieli e farfalle e bagliori e ombre fatate, pleniluni tremuli d’acqua e di mare, d’incanti e di salsedine, di bleu cobalto e di meraviglia e di tutto questo stupore si farà “ vestale d’amore” per sempre.

Intense nel dolore che le incide le parole di Giovanna Vizzari: “se non c’è chi ti ascolta a che pro aprirsi ad una vertigine di suoni, meglio nascondere la scoperta del male come un virus e amare indifferentemente uomini e cose a loro insaputa”. La poetessa aveva risposto già alla prefigurazione della sua fine con il silenzio del suo urlo, perché la poesia è anche elaborazione del dolore ma non della propria morte che faticosamente si dipinge e si scrive.

Di essa Maribruna vive la sua investitura per l’infinito.

Mi vesto di paillettes e di perline
mi velo di voiles e di chiffons,
mi lego il collo, le caviglie, i polsi,
con le fredde catene dei bijoux.
Mi ha messo anche un diadema sulla fronte
e un nastro di seta allo chignon,
un anello di ametista al dito
ed alle orecchie due pendents.
Adesso sono pronta per la festa
eccomi prostituta per la strada.
Sono di tua proprietà.
Tu sei il padrone.
Ed io la tua puttana.

Un'investitura solitaria e disperata che non trova conforto se non nell’abbandono di un mondo in cui neanche i gabbiani hanno più ali, il corvo perseguita il sonno, le rondini sono fulminate e le vene sono trapassate inutilmente da aghi, analisi e camici bianchi, il sole è talvolta vissuto come incanto “ubriaco” ma sempre più presenti insistono coni d’ombre, silenzi che neanche nella tela distendono più il colore; resta l’ urlo silenzioso: ”il grido muore / e mi gorgoglia in gola", e la mano che non si distende sulla tela “ha solo dita adunche / chiuse a pugno / rattrappite / in un’imprecazione”, e solennemente addita da lontano la morte come unica nostra proprietà ineludibile.

Ma la vestale non spegne il fuoco , non si spoglia della veglia, non smette di custodire, vive da cieco vate “tra tenaglie d’onde / ripiegate/ in lamine di fogli / di latta / in una lotta / liquida spirale / di cavalli / e creste”, e dona ceneri di vita. “E mentre il vento/ ti si aggrappa in grembo / prendi il mio cuore / e inchiodalo ad un palo / per una crocifissione di rinascita".
Patrizia Garofalo

mercoledì 30 dicembre 2009

Elisabetta Brizio, "Karl Michelstädter e l’utopia del 'libero mare'"

Il tema della fugacità, dell'inafferrabilità del tempo, e dell'inesorabilità del suo consumarsi e decadere verso l'orizzonte oscuro della fine e dell'enigma, è, paradossalmente, un tema che vince il tempo stesso, che lo trascende ripresentandosi nelle epoche e nelle culture più diverse ("Non c'è cosa bella e gloriosa che non abbia d'un tratto reciso il respiro, e non precipiti nella tomba. Orrida tomba è anche la culla del sole, e lumi d'astri le ombre funeree", scriveva Nezahualcoyotl senza nulla sapere della Bibbia, della sapienza egizia o della tragedia greca, e in modo cupamente profetico, solo pochi decenni prima che il suo grande regno fosse cancellato, divorato dalla bramosia dei conquistadores).
Poeta-filosofo, e filosofo-poeta, mitteleuropeo e italiano, lieve di reminiscenze di una cantabilità petrarchesca e leopardiana, moderno e nel contempo classico nei temi e nello spirito (basti qui ricordare i celebri versi in cui Orazio raccomanda, letteralmente, di "recidere dal breve tempo una lunga speranza", o prima ancora le meditazioni pre-shakespeariane e pre-heideggeriane di Pindaro e di Sofocle intorno all'uomo skias onar, "sogno di un'ombra"), Michelstaedter cercò, come Faust, di afferrare l'istante, di coglierlo e di assaporarlo rendendolo puro ed assoluto eppure lasciandogli, nondimeno, la sua natura di istante, la sua consustanziale transitorietà, la sua ossimorica essenza fatta di caducità, di impermanenza, di evanescenza. L'istante, la temporalità si depurano e assolutizzano proprio nel riconoscimento, lucido e femo più che rassegnato, della loro irredimibile transitorietà.
L'imagérie dei versi citati nel testo che segue (testo ragguardevole anche per la ricerca formale, densa di neologismi, e spasmodicamente tesa a rendere comunicabile una materia concettuale così sottile e sfuggente, come appunto il tempo medesimo a cui si riferisce) è comunque, nonostante queste risonanze universali ed archetipiche, schiettamente primonovecentesca. Penso al mare in Montale (il mare "vasto e diverso / e insieme fisso"), in Valéry ("la mer toujours recommencée"), e prima ancora, e soprattutto, in Corazzini, librato "verso un cielo più novo e più lontano / sovra il pianto degli uomini e del mare", o fisso nella contemplazione di "una vela / piccola che s'incela / a l'estremo del mare" (ma si può vedere lo studio di Virginia Di Martino).
Il tempo della vita si eterna, si sublima, diviene celeste, proprio nell'orizzonte, appena varcato, della sua finitudine. Il tempo infinito, l'infinità del tempo di cui parla Michelstaedter non sono nell'infinitamente grande, nell'indefinita e sterminata distesa dell'aion, ma piuttosto nel'infinitamente piccolo, nello sdipanarsi e sfilare degli istanti, minimi "atomi di tempo", inanellati nella collana bergsoniana e montaliana:
Ahimè, non mai due volte configura
il tempo in egual modo i grani! E scampo
n'è, ché, se accada, insieme alla natura
la nostra fiaba brucerà in un lampo.
(M. V. )
Forse è questo il peccato originale, essere incapaci
di amare e di essere felici, di vivere a fondo il
il tempo, l’istante, senza smania di bruciarlo, di
farlo finire presto. Incapacità di persuasione, diceva
Michelstaedter. Il peccato originale introduce la
morte, che prende possesso della vita, la fa sentire
insopportabile in ogni ora che essa arreca nel suo
trascorrere, e costringe a distruggere il tempo
della vita, a farlo passare presto, come una
malattia: ammazzare il tempo, una forma educata
di suicidio.

Claudio Magris, Microcosmi

Nella poesia di Karl Michelstädter la metafora assoluta del mare esprime l’aspirazione a varcare il deserto della vita (“lasciami andare oltre il deserto, al mare”), e della dimensione della “rettorica”, della “inadeguata affermazione d’individualità”, come egli in La persuasione e la rettorica definisce l’inautentica forma di esistenza, poliforme incarnazione del vuoto.
La metafora del mare nondimeno si complica nella michelstädteriana distinzione tra un “libero mare senza sponde”, pelagus substantiae infinitum, lontano da coste e da scogliere, un “mare dove l’onda non arriva”, luogo infinibile e irraggiungibile, oggetto di una tensione mai appagata, sostanziale e autosufficiente (“da sé genera il vento, / manda la luce e in seno la riprende”), e quello di cui facciamo esperienza, colmo esso stesso di deserto e difettivo di vita, oppresso da un vento che lo accomuna alla terra, quel mare “che non è mare s’anche è mare”, le cui onde si accavallano alla stessa maniera dei nostri desideri.
Il “libero mare” si oppone sia al vivere obsolescendo del non persuaso che all’amour du mensonge della “rettorica”:

Onda per onda batte sullo scoglio
- passan le vele bianche all’orizzonte;
monta rimonta, or dolce or tempestosa
l’agitata marea senza riposo.
Ma onda e sole e vento e vele e scogli,
questa è la terra, quello l’orizzonte
del mar lontano, il mar senza confini.
Non è il libero mare senza sponde,
il mare dove l’onda non arriva,
il mare che da sé genera il vento,
manda la luce e in seno la riprende,
il mar che di sua vita mille vite
suscita e cresce in una sola vita.

(Onda per onda)


Il mare è simbolo di una persuasione umanamente inaccessibile, è filosofia della libertà, sottrazione di sé alla condizione “rettorica” dell’esperienza, al destino di parole che mimano una comunicazione assente e che sostanziano la noia, parole assunte come necessari narcotici e “ornamenti dell’oscurità”. Con l’elemento di mistificazione introdotto dalla “rettorica” l’uomo attinge al sapere, all’essere per qualcosa, non già all’essere. “Libero mare” è emblema di annullamento di passioni e di desideri che inducono alla omissione di un presente vòlto in continua progressione verso il futuro e che precludono la possessione della vita. Esso è sovrana indifferenza, è tempo a cui l’evento contingente non attiene, pur contenendolo.
Scrive esemplarmente Claudio Magris (profondo conoscitore del poeta e filosofo goriziano, sul quale diffusamente si sofferma) nel bellissimo romanzo Un altro mare, in cui la figura di Carlo ispirerà le vicende del protagonista, designato a un’esistenza persuasa, ideale vanamente perseguito da Enrico:

In quelle pagine c’è la parola definitiva, la diagnosi della malattia
che rode la civiltà. La persuasione, dice Carlo, è il possesso presente
della propria vita e della propria persona, la capacità di vivere
pienamente l’istante, senza sacrificarlo a qualcosa che ha da venire
o che si spera arrivi quanto prima, distruggendo così la vita nell’attesa
che passi più presto possibile. Ma la civiltà è la storia degli uomini
incapaci di vivere persuasi, che costruiscono l’enorme muraglia della
rettorica, l’organizzazione sociale del sapere e dell’agire, per nascondere
a sé stessi la vista e la coscienza del loro vuoto.

Per esemplificare l’automatismo della impersuasione Michelstädter introduce la metafora del peso e della sua insoddisfazione che lo induce a scendere sempre più in basso: esso è spinto costantemente dalla volontà di scendere. È la mancanza di possesso a conferirgli il suo statuto di peso. La destinazione del peso, alla maniera di quella umana, è l’esito della vacanza del e dal presente. La volontà di possesso soppianta il possedere, la possibilità di consistere, la persuasione. Dice Michelstädter: “Per possedere sé stessa - per giungere all’essere attuale essa corre nel tempo: e il tempo è infinito poiché nel momento ch’essa riuscisse a possedersi, a consistere, cesserebbe d’essere volontà di vita (…). La vita sarebbe se il tempo non le allontanasse l’essere costantemente nel prossimo istante”. È ciò che Michelstädter definisce “l’illusione della persuasione”. L’inappagamento della volontà vanifica ogni cosa che intanto è già passata, consacrando il tempo alla morte. In questa prospettiva dell’essere come voler essere o aver da essere il tempo sottrae alla vita l’autentica dimensione del presente. L’esistenza è un incessante spostamento in avanti che esclude l’idea della possessione, e della vita non resta che la sensazione di averla già vissuta.
Il “lontano mare” si configura come tensione a impossessarsi del puro presente delle cose avvertite nell’appagamento della loro astanza, un anelito alla persuasione, è rifiuto della maschera della retorica, è autosufficienza estranea al volere e al desiderare. Vivere inseguendo la vita equivale a morire, a sancisce la dicotomia tra l’essere e il divenire e a patire un’esistenza agonica e immemoriale:

e con l’occhio all’orizzonte
dove il ciel si fondeva col mare
si sentiva vacillare
Senia, e disse: “Vorrei morire”.
Ma più forte sullo scoglio
l’onda lontana s’infranse
e nel fondo una nota pianse
pei perduti figli del mare.
“No, la morte non è abbandono”
disse Itti con voce più forte
“ma è il coraggio della morte
onde la luce sorgerà.
Il coraggio di sopportare
tutto il peso del dolore,
il coraggio di navigare
verso il nostro libero mare,
il coraggio di non sostare
nella cura dell’avvenire,
il coraggio di non languire
per godere le cose care”.


In questi versi del poemetto I figli del mare i protagonisti rifiutano la propria adiacenza alla terra, la propria mancanza, e subiscono una sorta di trasfigurazione in entità marine. In Michelstädter la terra è sempre negativamente connotata come regno della “rettorica” e dell’impersuasione.
Il mare, ma “un altro mare”, delinea la teleologia michelstädteriana dell’essere. Che è essere-per-la-morte, della zarathustriana “libera morte”: “Io vi insegno la morte che compie l’incompiuto, e diviene per i vivi stimolo e promessa”, si legge nello Zarathustra. Esiste forse un nesso tra la metafora del mare e il nietzschiano amor fati, l’amare la necessità anche a rischio di naufragare, e l’itinerarium verso la riconquista della persuasione, la risoluzione a dare patria a sé stessi.
I figli del mare sembrano anelare ad infinitarsi, e ciò è reso anche attraverso l’impiego frequente del verbo all’infinito che rima con “mare” (una profonda e circostanziata esegesi di questi versi è stata condotta da Sergio Campailla nella sua interessantissima introduzione all’edizione 1987 dell’Adelphi delle Poesie di Michelstädter), un “mare aperto senza rive e senza navi” (Magris) quale prefigurazione di consistenza ma insieme di annullamento: nel mare dell’essere, dell’essere-per-la-morte che assiste alla ricomposizione della totalità diveniente, una morte da saper affrontare, “che congiunge e non divide”, avvolta in un’aura escatologica, più che una forma di nullificazione .

“Libero mare” è vaticinio di quiete, di arghia, sulla scorta delle michelstädteriane meditazioni filosofiche dell’esistenza, secondo cui filosofia, quale “amore della sapienza indivisa, vuol dire vedere le cose lontane come fossero vicine, abolire la brama di afferrarle, perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere” (Magris).

Consistere è uscire dalla desertificazione, attraversare la “retorica” decodificandone ogni ingannevole dialettica, “farsi fiamma” affrancandosi dalla mutevolezza, condizione che nondimeno è consustanziale e coessenziale all’uomo e all’esistenza.

Al mio sole, al mio mar per queste strade
dalla terra o dal mar mi volgo invano,
vana è la pena e vana la speranza,
tutta è la vita arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di sé stessa in un punto faccia fiamma.

(Onda per onda)

E al mar l’annuncio porta della lotta
che nebbia e vento nel ciel combattono,
al mar l’annuncio porta del tumulto
che in cor m’infuria quando la nausea,
quando il torpore, il dubbio, l’abbandono
per la tua vista, Argia, più fervido
l’ardir combatte e sogna il mare libero.

(All’Isonzo)

Elisabetta Brizio, dicembre 2009

domenica 27 dicembre 2009

Patrizia Garofalo, "I 'Quaderni dell'impostura' di Alessandro Assiri"

Ha scritto Alessandro Assiri: "Credo che ogni parola oggi sia principalmente parola contaminata e che compito del dire poetico sia il ricondurre al tentativo di accasarsi in un senso". La scrittura letteraria assolve allora la sua funzione nell'opporsi alla deriva, alla deiezione, alla corsa vana e furiosa che espelle ed evacua ogni vissuto e ogni espressione come superflue zavorre, come materia occasionale da ardere e disperdere. Così, la sua scrittura recupera una dimensione memoriale, proustiana di richiamo, resurrezione, riappropriazione, redenzione del passato - ma, nel contempo, quella di un nietzscheano esorcismo che, attraverso la scrittura, strappa l'istante eterno dall'angoscia del suo perenne, indefinito ripetersi, nel momento stesso in cui lo eterna nella forma affidata al futuro delle interpretazioni (pregnante, in tal senso, il riferimento, proposto dalla Garofalo, ad Ulisse: un Ulisse che è forse più quello di Saba, sospinto al largo dal "doloroso amore" della vita, che quello di Ulisse, intento e fisso alla sua eroica meta).
Si leggeva in una raccolta precedente:

Mi percuote e mi assilla
questa assenza di voce
una scena muta
un istante della terra.

Il nitido silenzio
socchiude la porta
a un'altra scomparsa.

A preservare il vissuto, a rendere cristalini e traslucidi il suo fluire e il suo trascolorare pur serbandone la mutevolezza, è un pirandelliano "limpido silenzio" - il silenzio che avvolge, come una cortina di nubi sacre, la sfera della meditazione, della creazione e dell'espressione. (M. V.)



“Converso con ogni solitudine che non abbia una destinazione e cerco l’umiltà per dire ogni cosa che sfioro”

A.Assiri

“Chi passa nel mio giardino?
Il giardiniere. Eppure non è lui.
La vita si stacca da sé, ne rimane l’illusione
Di cui si parla in treno tra viaggiatori sudati”

P.P.Pasolini


“Poesia in forma di rosa”, scriveva Pasolini senza soffocanti omologazioni. “Poesia in forma di diario” è quella che si legge nel testo di Alessandro Assiri, attraversamento cosciente e congetturato in rimandi continui di pensiero, immaginazioni e silenzi, perplessità e dolore che accompagnano la sostanzialità della vita come continuo preparativo per un viaggio.

Al centro dell’indagine, lo scandaglio della parola che diventa ricerca del sé e attesa di una possibile alterità: “la controversia solita per parole troppo scarne, alla fine è un presente da confidare e un passato che rimorde”; “e penso ad ogni madre che ha imbellettato un fiocco, che ha stretto al cuore un amore e che separandosi dall’orgoglio ha accennato una carezza, così lieve perché non sembrasse un saluto”.

Una scrittura “dolosa” si significherebbe con linguaggio e modalità di un vero scoperto ma non rivelato, vestito di letterarietà e poco di vita. Ma essa tracima fin dai versi sopra citati in brandelli che si ricuciono e fanno emergere la fragilità di una vita appuntata su quaderni della vera impostura che è quella della perdita dell’innocenza , del linguaggio e della comunicazione interiorizzate nel viaggio dove turista e nomade confondono solitudini e parole.

Il deserto propone pagine sole e tele da imbrattare dove “la finzione” scaturisce, a mio avviso, in quell’attimo necessario che passa dal pensiero al prendere una penna o un pennello e segnare un passaggio, appuntare una nota.

“Nessun incanto potrà mai essere sincronia, non c’è da meravigliarsi se non nel distacco. (...) E quel piccolo disagio che ogni volta m’inquieta se solo ti allontani, confonde le sirene con soavi armonie”, per poi dire: “Quando le cose si allontanano c’è una strana grazia nel loro sbiadire, una sorta di morbidezza della dimenticanza, come lo spalancarsi dell’infinito prima dell’oblio”. “Verrà un frammento e avrà il suo passo, il suo reclamo da fare, le sue parole da dire”.

Non certo reale oggettivo ma immaginato è quello che si sfoglia nel testo e forse nel vivere, dove ogni attimo ne prefigura un altro nei preparativi per la partenza che non sono inizio di un viaggio ma coscienza di una progettualità già conclusa nell’attendere. Nell’immaginare il significato del contenuto si snodano senza respiro gli scritti dei quaderni, alla velocità della parola si oppone la necessità di un vuoto “come se l’assenza di dinamicità rallentasse il mutamento”. E a quest’ultimo che invece mi sembra ci si opponga con la forza del poeta che ha conosciuto la fine della meraviglia, il sapore della noia e la perdita di un paradiso a cui aspira mentre veleggia su “vele nere” di omerica memoria, rievocando la tessitura di Penelope.

E nell’apparire e sparire in simultaneità dell’immagine-parola-significato, Assiri connota il dolore dei vivi: “E' l’urlo dei vivi che mi dà turbamento, l’incapacità di trattenere un orrore per l’impossibilità di poterlo spiegare”; dove tutto è silenzio, vuotezza, “dignità calpestata dove è solo vergogna essere uomini” e "la dissolvenza è atto privato o qualcosa da consumare in solitudine”.

Lo scavo della parola, la sua rinascenza la restituirà vergine nello scambio di un dialogo che forse avviene. E riporto, allora, la voce intensissima di un ricerca che affanna e logora ma non si arrende: “E’ la piccola storia del crollo di una letteratura allusiva, dove ormai trovo poco diletto, dove forse eccedo in un eccesso di sconfitta. Un piccolo scandalo di borgata che non fa più notizia, che sfuma nella piccolezza dei protagonisti. Tu ed io per favore restiamone fuori, e misuriamo ancora il tempo della parola con quello del respiro”. Con il convincimento e la commozione della lezione poetica autentica e sofferta che Alessandro Assiri ci ha donato.


Patrizia Garofalo