giovedì 4 febbraio 2010

"Ruth Fainlight, la Sibilla elegante" - di Patrizia Garofalo

La poesia di Ruth Fainlight (autrice cosmopolita, capace di fondere in sé diverse identità: quella inglese e quella americana, l'eredità dello spirito ebraico, con la sua perenne ed errante ricerca di un contorno mai compiuto e sempre fluente, e la reminiscenza del mito classico, archetipo remoto e già dato, eppure ricco di sfumature e di nuove possibili riletture) compie, attraverso la parola e la scrittura, un'opera assidua di demistificazione, di ripensamento, di straniamento del quotidiano attraverso l'irruzione improvvisa ed assidua, freudiana, del perturbante, di sovversione del tempo tramite la contaminazione (retroattiva o proiettiva) del passato nel presente, della giovinezza e dell'infanzia con i loro bagliori vividi e contrastati nella luce ferma della maturità.
“Ripartorirsi”, dice la Garofalo: mito ed immagine di rigenerazione, come nel rito della primavera, della fecondazione, dello sbranamento orfico e dionisiaco a cui consegue la perenne rinascita – ma in pari tempo, nell'ottica ebraica, messianica tensione escatologica verso il compimento e la redenzione, ma in un'ottica mondana, contingente, immersa nel quotidiano, senza estasi mistiche.
Redenzione e rinnovamento del linguaggio è anche la traduzione poetica, se a compierla è (con la collaborazione di Alessandra Schiavinato) un poeta come Paolo Ruffilli, che certo trova nella Fainlight un'autrice consentanea alla propria sensibilità più recente, per la consimile tensione verso una ricomposizione degli opposti (vita e morte, passato e futuro, maternità universale ed universale condizione filiale, od orfana).
E certo il poetare si riflette sul tradurre, il poeta non manca di imprimere la propria mano sulla materia della riscrittura.
«Her lips, though still full, meet firmly in a straight hard line» diviene «le sue labbra, anche se piene, restano serrate in una dura linea retta». La sentenza di Sibilla non si perde, come in Dante, "nel vento, sulle foglie lievi" - è, al contrario, pur nella sua ingannevole doppiezza (o forse proprio per rendere quella doppiezza ancor più penetrante ed insidiosa), fissata in sillabe limpidissime, nette, dure e taglienti, come diamanti.
«Into the deep stone bath of water» è, con meravigliosa concisione, «nel profondo bagno di pietra». Non si stenta a riconoscere, nella versione, la pronuncia netta, precisa, quasi tagliente, eppure dolce, musicale, melodiosa, di una levità e una sprezzatura quasi settecentesche, del poeta di Camera oscura e La gioia e il lutto.
Anche lo stile fluido, dall'apparenza sorridente, dalla sapienza dolce e mite, dall'allure al primo sguardo quasi mozartiana, è, invero, strumento di consapevolezza e di demistificazione. Stile ben consono, dunque, all'indole di una poetessa che (amica di Sylvia Plath negli ultimi, tormentati anni, prima che scendesse su di lei, sul suo affanno immedicabile, la nera pace della morte) ha cantato «womanliness, / and love, and anguish, and war», essere donna, e amore, e angoscia, e guerra, e nella poesia ha riposto la funzione, e la missione, forse impossibile, ma eroica e vivida, di sceverare l'intreccio di necessità ed imprevisto, legge indefettibile dell'esistere e mistero di ogni singola, irriducibile, vicenda esistenziale. (M. V.).

Mito e desiderio di cogliere l’eternità, pur consapevoli della caducità delle cose, trovano nella poesia vie di scampo al deterioramento del tempo; Ruth Fainlight, poetessa angloamericana (La verità sulla Sibilla, traduzione e cura di Paolo Ruffilli, Edizioni del Leone), attraverso la possibile verità della Sibilla e la musica di Orfeo, rinnova le stagioni e diventa, allo specchio, madre del suo essere bambina e rinnovata stagione della profezia del vivere.

La libertà della Sibilla è nella sua rinascenza in morte, quando potrà diventare «la faccia della luna – orbitando come lei / liberata dalla sua estasi oracolare / Solo una Sibilla può fissare in faccia il sole».

Non penso che l’articolo indeterminativo stia ad indicare i vari luoghi di venerazione della Sibilla, ma piuttosto una qualità; quella del poeta, che concede eternità nel coagulo di presente, passato e futuro non in successione, ma mescolati come in un gioco di carte: «Collocò l’età dell’oro nel futuro lontano / non nel passato remoto, ed era ostile / all’idolatria come un ebreo. Non cedette ad Apollo / la sua verginità, e non si mise addosso mai nessun profumo».

Come il poeta, prende le distanze dalla richiesta di chi nella menzogna le chiede di sentenziare, dalla stoltezza con cui gli uomini si appropriano di abiti non loro, alterando mente e corpo nel palcoscenico della follia, e comprende l’inutilità della parola; aspettando di prendere il posto della luna, «le sue labbra, anche se piene, restano serrate in una dura linea retta». Solo quando sarà svestita si offrirà autentica al dio, alla parola, alla rinascenza, al verso, alla scarnificazione, alla catarsi dell’acqua gelida «nel profondo bagno di pietra» per ridefinirsi nuovamente bambina, donna, ebrea, madre e poeta.

La prefica piange nell’odore di primordialità, nella tensione di specchiare immagini dentro sé, nel filo di vento «che alza l’angolo del tappeto un momento/ soltanto e poi lo lascia andare come se/ non fosse successo niente ma sai che non è così».

Il tempo lascia segni, rughe, ricordi, fastidi, intemperanze, nostalgie: «È duro segnare l’inizio del complesso di scontentezza / condiviso da ogni primate metafisico /… Ci sono giorni in cui immagino, lontano nel futuro, / qualcuno che mediti sul principio e sulla fine delle cose / piangendo i morti e prendendosi cura del suo giardino».

La metafisica, come tentativo di conciliare gli opposti e di cogliere nei meandri del pensiero l’ordinario come straordinario, conduce le liriche. La poetessa con intensa fisicità vive il tempo del ricordo strappandolo alla dimenticanza e affidandolo allo specchio con l’incisiva capacità di compattare i tempi in un unicum di versi scanditi da una cadenza rituale e da molteplici rifrazioni di luci .

Il rivedere abiti usati le fa scrivere: «La fine e l’inizio / della mia giovinezza, due / manichini in vetrina / che sembrano quasi vivi». E domandare: «Ditemi amiche la verità. Sentite pure voi / talvolta una furtiva e gaia indifferenza, / o meglio ancora, momenti straordinari / in cui state salutando con gioia il nuovo / viso che si è offerto allo specchio / come una madre – non la vostra, ma quell’altra / sognata – che – sempre – avete rincorso. / Il vostro viso, se ci provate, può diventare il suo. Lo deve». Ecco, in questo ripartorirsi credo consista la chiave del libro che dolcemente accetta il rinascere delle stagioni e sente la primavera palpitare sotto il freddo dell’inverno: «…le prime foglie fresche / intatte sembrano fragili coaguli arrossati e grumi / di carne aggrappati ai ramoscelli, come se / fossero venute qui di notte le baccanti / a compiere il sacrificio rituale della primavera, / e avessero gettato i brandelli sanguinanti / delle membra di Orfeo sui rami».

Il mito vuole che la testa di Orfeo scivolasse nell’acqua e continuasse a cantare prima di diventare la costellazione della Lira vicino alla luna, proprio lì dove Ruth Fainlight vorrebbe essere per sempre.


Patrizia Garofalo

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