lunedì 14 dicembre 2009
Gordiano Lupi, "La poesia di Virgilio Piñera"
Ho il privilegio di pubblicare in anteprima , grazie alla cortesia di Gordiano Lupi, un testo di uno dei massimi autori cubani, che della coraggiosa, contrastata ma vitale ed insopprimibile libertà delle scelte esistenziali ed intellettuali ha fatto l'aspetto essenziale della sua versatile personalità di poeta diviso fra lirismo modernista ed aspra satira, romanziere immaginoso e vivido e geniale drammaturgo, precursore del teatro dell'assurdo così come dell'inquietudine propria della scena esistenzialista (non casuale l'interesse che per lui nutrì Sartre).
Il testo che presentiano, che ha tutta la potente e vivida intensità di colori, suoni e profumi di quell'internazionale, persistente e mitizzata provincia del mondo globalizzato, desta, nella mente di chi non è esperto di cose cubane, analogie forse avventate con le paradossali, estrose ma in fondo sapienemente amare peregrinazioni del Satyricon di Petronio come con il romanzo picaresco spagnolo, con Villon come con i maledetti francesi (e in particolare un Corbière). Ma emerge nitida e potente, su tutto, e in tutta la sua anti-ideologica ed impolitica problematicità, la drammatica individualità dell'essere umano, abbandonato alle strade del tempo e della vita senza una direzione prestabilita, senza catene e vincoli cogenti ma ad ogni passo esposto, proprio per questo, allo smarrimento, al dolore, agli imponderabili meandri del destino o del caso. (M. V.)
VIRGILIO PIÑERA (1912 – 1979)
Teatro dell’assurdo, poesia modernista e narrativa fantastica di uno scrittore pericoloso che non si piega al regime
Guillermo Cabrera Infante racconta in Mea Cuba (Est, 2000) che la morte e il funerale di Virgilio Piñera si trasformarono in una commedia dell’assurdo come quelle che l’autore era solito scrivere. Moriva uno dei più grandi scrittori popolari cubani, ma il regime che aveva perseguitato Piñera con tecniche staliniste, faceva di tutto perché nessuno partecipasse al suo funerale. Non solo. I giornali sudamericani non scrissero una parola sulla morte di Virgilio Piñera e la stampa italiana si adeguò perfettamente. L’editoria nostrana non conosce Piñera, anche se è un autore di livello mondiale, alla pari di Lima, Carpentier e Cabrera Infante. In Italia non esiste un solo romanzo pubblicato, a parte La carne di Renè, edito da un piccolo editore, da anni fuori catalogo e consultabile solo con prestito interbibliotecario. Stessa cosa dicasi per poesie, opere teatrali e racconti. Virgilio Piñera, secondo i nostri esperti di letteratura cubana, non è degno di comparire nemmeno in antologie di autori sudamericani. Ha avuto il torto di non schierarsi dalla parte del più forte, come capita a molti uomini liberi. Ripercorriamo la sua storia.
Virgilio Piñera nasce il 4 agosto 1912 a Cardenas (Matanzas), da padre agricoltore e madre maestra, ma la famiglia si trasferisce presto a Guanabacoa (Ciudad Habana) per motivi di lavoro. Nel 1925 consegue il diploma liceale a Camagüey, allievo di Felipe Echemendía e Felipe Pichardo Moya che lo indirizzano alla passione letteraria. Nel 1935 fonda, con Luis Martínez e Aníbal Vega, la Hermanedad de Jóvenes Cubanos, organizzazione per la diffusione della cultura. Comincia a scrivere le prime poesie e sente crescere dentro la sua vocazione di scrittore. Nel 1937 va a vivere all’Avana, dove viene iscritto gratuitamente alla facoltà di Lettere e Filosofia, a causa della precaria situazione economica. Questo dimostra un’altra bugia della propaganda castrista: non è un merito della Rivoluzione aver inserito le facilitazioni allo studio per i ragazzi meritevoli. Virgilio Piñera è uno studente molto dotato che vede pubblicare la poesia El grito mudo nell’antologia La poesia cubana en 1936 a cura di Juan Ramón Jiménez. Il suo debutto pubblico come poeta risale al 1938 alla Sociedad Lyceum con la lettura di alcuni testi di buona qualità presentati da José Antonio Portuondo (1911 - 1996). Nello stesso anno scrive l’opera teatrale Clamor en el penal, la prima di un gran numero di commedie, e definisce lo stile letterario. Nel 1939 pubblica altre poesie nella rivista Espuela de Plata (1939 - 1941), diretta dal poeta José Lezama Lima, dal critico d’arte Guy Pérez Cisneros e dal pittore Mariano Rodríguez, una delle riviste che precede Orígines (1944 - 1956). Nel 1940 collabora alla rivista Grafos e scrive il racconto El conflicto. Nel 1941 pubblica la prima raccolta di poesie Las furias, scrive l’opera teatrale Electra Garrigó, la migliore e più rappresentata di un vasto repertorio, tiene una conferenza su Gertrudis Gómez de Avellaneda, poetessa e narratrice cubana del secolo XIX. La conferenza su Avellaneda è un momento importante nella poetica di Piñera e fa capire la sua profonda polemica con il passato. “La Avellaneda ha un solo segreto: adornare tutto con le gale orientali delle parole e delle frasi più ricercate e melodiose. Parlare molto senza dire niente o quasi niente”. Piñera è uno scrittore moderno che rompe con la tradizione accademica e con la retorica del passato, sia nella saggistica che nella poesia. Scrive il saggio Dos poemas, dos poetas, dos modos de poesia, su Elegia sin nombre (1936) di Emilio Ballagas e Muerte de Narciso (1937) di José Lezama Lima, due figure poetiche importanti nella sua formazione culturale. Nel 1942 fonda e dirige la rivista Poeta che ha breve vita (solo due numeri), ma è importante per alcuni saggi sulla scrittura che contengono la sua filosofia: “Per me scrivere è stata sempre una vera tortura”. Nel 1943 appare il lungo poema La isla en peso, testo fondamentale nella storia della poesia cubana del XX secolo, paradigma di tutta la sua opera, lavoro emblematico come rottura degli schemi lirici tradizionali. Nel 1944 pubblica Poesia y prosa, dove riunisce otto poesie e quattordici racconti (tra questi Vida de Flora) che confermano la rottura con i vecchi schemi. Nel 1945 collabora a Orígines e scrive poesie importanti come En estos páramos, El oro de los días, Tesis del gabinete azul e La oscura. Nel 1946 lo troviamo a Buenos Aires dove rimane per un anno come vicario della Commissione Nazionale della Cultura ed entra in contatto con i migliori scrittori argentini che influiscono sulla sua formazione. Pubblica il racconto En el insomnio sulla rivista Anales de Buenos Aires, diretta da Borges, scrive su La Nación un articolo intitolato Los valores más jóvenes de la literatura cubana e compone la poesia Treno per la muerte del príncipe Fuminario Konoye. Prima di fare rientro all’Avana pubblica il racconto El señor ministro, ancora su Anales de Buenos Aires, alcune critiche su Realidad e diverse plaquettes ironiche. Il 23 ottobre 1948 debutta la commedia Electra Garrigó, interpretata dal gruppo teatrale Prometeo nel Teatro Valdés Rodríguez dell’Avana. La critica accoglie il lavoro in maniera sfavorevole e Piñera si vendica dei commentatori definendoli incolti sulla rivista Prometeo, nell’articolo Ojo con el critico. Nel solito anno scrive le commedie Jesús e Falsa alarma, la prima del teatro dell’assurdo ispanoamericano, antecedente a La cantatrice calva di Ionesco che risale al 1950. Falsa alarma viene pubblicata su Origines nel 1949, anno in cui Piñera comincia a scrivere il romanzo La carne di René (unico libro tradotto in italiano, ma difficilmente reperibile), pubblicato nel 1952 da Editorial Siglo XX di Buenos Aires. È anche l’anno del colpo di Stato di Batista che conquista il potere con l’aiuto dell’esercito. Piñera fa la spola tra L’Avana e Buenos Aires, città dove ricopre importanti incarichi consolari ma che ama per il moderno clima culturale. Scrive il racconto El gran baro, collabora a Ciclón, diretta da José Rodriguez Feo, interrompe la collaborazione con Orígines di Lima che persegue altri ideali estetici ed entra nella redazione di Sur (pubblica il racconto El Enemigo). Borges inserisce il racconto En el insomnio nella antologia Cuentos breves y extraordinarios.
Nel 1956 Piñera pubblica Cuentos fríos e, proprio mentre chiude la rivista Orígines, intensifica la collaborazione con Sur dove presenta i racconti La carne, La caída e El infierno. Nel 1957 pubblica tre racconti su Les Temps Modernes, mentre chiude anche Ciclón, perché secondo Rodríguez Feo non è il caso di fare una rivista letteraria nel pieno di una lotta armata contro Batista. Piñera continua a lavorare, viene rappresentata Falsa alarma, pubblica racconti sulla rivista Carteles e scrive la pièce teatrale La boda che verrà rappresentata un anno dopo.
Il primo gennaio 1959 trionfa la Rivoluzione. Piñera scrive la commedia El flaco y el gordo, pubblica Aire frío con Editorial Pagrán e comincia a collaborare attivamente al periodico Revolución, diretto da Carlos Franqui. Piñera cura la sezione Puntos, comas y paréntesis, all’interno della quale pubblica saggi e testi critici sotto lo pseudonimo di El Escriba. Molto importante anche la collaborazione a Lunes de Revolución, diretto da Guillermo Cabrera Infante, settimanale in polemica con Lima, Vitier e con tutti i rappresentati della vecchia rivista Orígenes. Le biografie pubblicate dai testi cubani tacciono colpevolmente sul fatto che Revolución e Lunes de Revolución erano riviste dirette da Franqui e Cabrera Infante, intellettuali dissidenti depennati da tutti i libri di letteratura dopo il loro esilio volontario. Tacciono pure sui gravi problemi insorti tra Piñera e il regime dopo una prima fase di convinta condivisione dei valori rivoluzionari. Lo pseudonimo di El Escriba è un’imposizione governativa, per coprire il nome di Piñera, autore noto per le abitudini omosessuali che la Rivoluzione vuole mettere al bando. Tutto ciò nonostante Piñera accetti le riforme rivoluzionarie e scriva articoli come La riforma literaria e Literatura y revolución, che comunque contengono critiche verso la letteratura diretta e al servizio della politica. Nell’articolo Pasado y presente de nuestra cultura (1960) mette in evidenza il grande cambiamento culturale rispetto al passato e si dice disposto a partecipare attivamente al processo rivoluzionario.
Nel 1960, Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir assistono a una nuova rappresentazione di Electra Garrigó, mentre viene pubblicato il Teatro completo di Piñera da Ediciones R dell’Avana. Casa de las Américas fa conoscere il primo capitolo del romanzo Presiones y diamantes, Lunes pubblica la commedia La sorpresa e Piñera scrive El filántropo. A questo punto i testi cubani scrivono che nel 1961 cessa le pubblicazioni Lunes de Revolución, ma non spiegano il motivo, perché non possono. Carlos Franqui e Cabrera Infante sono sempre più critici verso Fidel Castro e il Comandante mette a tacere una voce libera e indipendente. Il 1961 è l’anno decisivo della crisi di rapporti tra Piñera e la Rivoluzione. Lo scrittore non sopporta l’idea di un’arte sottomessa a un disegno politico e critica la messa al bando di libri e pellicole considerate controrivoluzionarie. Il famoso discorso agli intellettuali di Fidel Castro rappresenta la consacrazione di una politica che non può vedere Piñera al fianco di chi imbavaglia gli intellettuali. “Nella Rivoluzione tutto. Fuori della Rivoluzione niente. Il primo diritto della Rivoluzione è quello di esistere. Contro la Rivoluzione non può essere ammessa un’attività intellettuale che ne metta in pericolo l’esistenza”. Sono parole di Fidel Castro. Resta famosa la breve replica di Virgilio Piñera: “Ho molta paura. Non so perché ho questa paura, però so che è la sola cosa che voglio dire”. Reinaldo Arenas citerà questa frase storica di Piñera nel romanzo El portero. Nella vita cubana repressione e censura assumono un ruolo di primo piano, gli intellettuali che vogliono restare liberi non hanno vita facile e si rendono conto che la Rivoluzione si sta trasformando in una spietata dittatura. Questo è il vero motivo della chiusura di Lunes de Revolución, ricostruzione storica che non troverete mai nei libri di letteratura cubana. A Cuba non si fa parola neppure dell’arresto di Piñera, avvenuto nel 1961, durante una notte infernale che vede la polizia dare la caccia a prostitute, magnaccia e omosessuali, pure se lo scrittore si trova a casa, non è per strada ad adescare ragazzini. Secondo i principi rivoluzionari l’omosessualità è un decadente vizio borghese da estirpare, opposto alla naturale e sana eterosessualità del popolo. L’omofobia è un tratto caratteristico della cultura cubana, ma la Rivoluzione contribuisce a rinforzarlo e per gli omosessuali comincia un periodo di tristi persecuzioni. Virgilio Piñera resta a Cuba, nonostante la vita sia diventata un inferno, non se la sente dio compiere la stessa scelta di Cabrera Infante, Carlos Franqui e Reinaldo Arenas. Piñera dirige Ediciones R, molte commedie vengono rappresentate all’Avana e persino in televisione, viaggia in Cecoslovacchia e in Belgio, scrive il racconto Oficio de tinieblas e le poesie Un hombre es así, Yo estallo, El delirante e Un bamboleo frenético. La rivista nordamericana Odyssey pubblica una versione inglese della sua opera teatrale Los siervos e del racconto El gran Baro. Scrive i racconti Un fantasma a posteriori, Amores de vista, El señor ministro e le poesie Los muertos de la patria, Palma negra, Sin embargo…, Entre la spada y la pared e Cuando vengan a buscarme. Nel 1963 pubblica il romanzo Pequeñas maniobras (Ediciones R.), il racconto El filántropo viene tradotto in francese sulla rivista Les Temps Modernes e scrive la commedia Siempre se olvida algo.
Nel 1964 viene ancora rappresentata Electra Garrigó ed Ediciones Unión pubblicano Cuentos completos. Piñera viaggia in Europa, lo troviamo a Praga, Milano e Parigi. Nel 1965 scrive la poesia El jardín, il racconto El caso Baldomero e l’opera teatrale El no, proprio mentre si adatta per la televisione la commedia El álbum. Nel 1965, Piñera denuncia anche l’infame apertura delle UMAP, campi di lavoro forzato per antisociali dove vengono rinchiusi omosessuali, santeros, religiosi, rockettari e persone non in sintonia con la Rivoluzione. Questo i testi cubani non lo ricordano, soprattutto non rammentano le frasi con cui lo scrittore afferma che a Cuba sono ben sessantamila gli omosessuali arrestati. Nel 1966 partecipa al Secondo Incontro Nazionale degli Scrittori e degli Artisti a Matanzas, scrive la commedia La niñita querida. Nel 1967 fa parte della giuria del Premio Casa de las Americas, viene pubblicato il romanzo Presiones y diamantes (Unión), scrive la commedia Dos viejos pánicos, le poesie En el Gato Tuerto, Solicitus de canonización de Rosa Cagí e El banco que murió de amor. Nel 1968 vince il Premio Casa de las Americas per il teatro con Dos viejos pánicos e scrive la nuova commedia Una caja de zapatos vacía.
Virgilio Piñera si afferma come uno dei più importanti autori di teatro del XX secolo, le sue opere vengono rappresentate anche a Bogotà e a New York, soprattutto Dos viejos pánicos. Ediciones Unión pubblicano La vida entera, antologia della sua opera poetica, che rappresenta l’ultimo atto del suo esercizio letterario legittimato dallo Stato.
I primi anni Settanta sono i peggiori momenti della repressione nei confronti degli intellettuali che non si schierano anima e corpo con la Rivoluzione. Se sfogliate un testo di letteratura cubana autorizzato dal regime, vi rendete conto che dal 1970 al 1978 (anno della morte), Virgilio Piñera sembra non esistere, non pubblica niente, perché il governo lo mette da parte. “La proprietà intellettuale è dello Stato”, affermano i principi rivoluzionari, ma soprattutto gli artisti dissidenti e omosessuali vengono messi al bando perché negativi per la morale rivoluzionaria. Un omosessuale rischia trent’anni di galera e addirittura la pena di morte se ricopre un incarico pubblico. Piñera viene censurato a Cuba, accusato di omosessualità per metterlo ai margini della vita culturale. A Lezama Lima le cose vanno meglio, perché Paradiso (1968) è purgato dei passaggi omosessuali, ma non viene ritirato dal commercio. Reinaldo Arenas vive sulla sua pelle ogni tipo di persecuzione, ben descritte nel romanzo confessione Prima che sia notte (edito in Italia da Guanda), fino al sofferto esilio volontario.
Le opere di Piñera continuano a circolare fuori da Cuba. L’atto unico Estudio en blanco y negro viene pubblicato in Spagna, proprio mentre Dos viejos pánicos è rappresentato a Madrid ed esce tradotto in francese Cuentos fríos. Piñera scrive El trac, nuova opera teatrale, e molte poesie ricche di giochi verbali, ma il suo teatro conquista l’Europa. A Londra e a Francoforte sono rappresentate Electra Garrigó e Dos viejos pánicos. In Romania viene tradotto il romanzo Pequeñas maniobras, la televisione spagnola e la radio argentina diffondono Aire frío e Estudio en blanco y negro. Piñera muore di infarto cardiaco all’Avana il 18 ottobre 1979, proprio mentre sta scrivendo l’opera di teatro Un pico o una pala.
Dopo il 1985 a Cuba comincia il processo di rettificazione degli errori, le figure letterarie di Lezama Lima e Virgilio Piñera vengono rivalutate e valorizzate, omettendo tutte le persecuzioni che hanno dovuto subire. Piñera ha molti estimatori e discepoli tra gli scrittori cubani contemporanei della diaspora: Antón Arrufat, Abilio Estévez (I palazzi distanti e Tuo è il regno, Adelphi), Karla Suarez (Silenzi e La viaggiatrice, Guanda) ed Ena Lucía Portela. Il regime cubano ha messo al bando per anni l’opera di Piñera, ma adesso pare che voglia riconvertirlo alla causa rivoluzionaria, modificando e adattando alla bisogna persino la sua biografia. L’operazione è davvero squallida ma in perfetta sintonia con lo stile di una dittatura che non concede nessuno spazio alla libertà individuale. Un ottimo sito cubano raccoglie notizie sulla vita (omettendo i problemi tra il poeta e il regime), un’antologia di testi, la bibliografia e alcuni giudizi critici.
Indirizzo: www.cubaliteraria.cu/autor/virgilio_pinnera/index.html
BIBLIOGRAFIA
Las furias. Poemas. Viñeta y dibujo René Portocarrero. La Habana, Úcar García, 1941.
El conflicto. Un cuento. La Habana, 1942.
La pintura de Portocarrero. La Habana, Editorial Guerrero, 1942.
La isla en peso. Un poema. La Habana, Tipografía García, 1943.
Poesía y prosa. La Habana, Editorial Serafín García, 1944.
La carne de René. Novela. Buenos Aires, Editorial Siglo XX, 1952.// Madrid, Ediciones Alfaguara, 1985.// Pról. Antón Arrufat. La Habana, Ediciones Unión, 1995.
Cuentos fríos. Buenos Aires, Editorial Losada, 1956.
Aire frío: tres actos. Ed. Inaugural Extraordinaria. La Habana, Editorial Pagrán, 1959.
Teatro completo. La Habana, Ediciones R, 1960.
Pequeñas maniobras. Novela. La Habana, Ediciones R, 1963.
Cuentos. La Habana, Ediciones Unión, 1964.// Madrid, Ediciones Alfaguara, 1983 (Literataura Alfaguara, 120).// Madrid, Ediciones Alfaguara, 1990.
Presiones y diamantes. Novela. La Habana, Ediciones Unión, 1967.
Dos viejos pánicos. Teatro. La Habana, Casa de las Américas, 1968 (Colección Premio).// Buenos Aires, Centro Editor de América Latina, 1968.
La vida entera. Poesías. La Habana, Ediciones Unión, 1969.
El que vino a salvarme. Cuentos. Pról. José Bianco. Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1970.
Una caja de zapatos vacía. Teatro. Edición crítica y prólogo Luis F. González-Cruz. Miami, Florida, Ediciones Universal, 1986.
Un fogonazo. Cuento. La Habana, Editorial Letras Cubanas, 1987.
Muecas para escribientes. Cuento. La Habana, Editorial Letras Cubanas, 1987.// Madrid, Ediciones Alfaguara, 1990 (Alfaguara Hispánica, 72).// México, Editorial Diana, 1995.
Una broma colosal. Poesía. Introd. Antón Arrufat. La Habana, Ediciones Unión, 1988.
Teatro inconcluso. Selección, ordenamiento y prólogo Rine Leal. La Habana, Ediciones Unión, 1990.
Algunas verdades sospechosas. Cuentos. Selección Jorge Ángel Pérez Sánchez. Pról. Salvador Redonet. La Habana Editorial Abril, 1992.
El viaje. Un cuento. Pról. Mirta Yáñez. La Habana, Ediciones Unión, 1992.
Teatro inédito. La Habana, Editorial Letras Cubanas, 1993.
El no. Teatro. Pról. Ernesto Hernández Busto. Coyoacán, Editorial Vuelta, 1994.
Cuentos de la risa del horror. Selección Efraín Rodríguez Santana. Bogotá, Editorial Norma, 1994.
Poesía y crítica. Selección y prólogo Antón Arrufat. México, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, 1994.
Edizioni Italiane
La carne di René - traduzione di Giancarlo De Pretis - Il Quadrante - Torino, 1988 - ISBN 8871800664 - reperibile in prestito alla Biblioteca di Scienze Letterarie e Filologiche di Torino
La gran puta
Cuando en 1937 mi familia llegó a La Habana
—uno de los tantos éxodos a que estábamos acostumbrados—
mi padre —como tenía por costumbre sanguínea—
se dio de galletas y se puso a echar carajos.
Llegaron exactamente a las diez de la mañana
de un día de agosto mojado con vinagre;
antes de ir a esperar el Santiago-Habana
tomé un jugo de papaya en Lagunas y Galiano,
y como el deber se impone al deseo
perdí a un negro que me hacía señas con la mano.
Por esa época yo tenía veinticinco años
y toda la vida resumida en la mirada:
años mal llevados porque el hambre no paga:
"Virgilio —me decía Oscar Zaldívar—
no te alimentas lo suficiente. Hay que comer carne..."
De vez en cuando me llevaba a La Genovesa
en la esquina atormentada de Virtudes y Prado,
donde Panchita, una italiana operática(,)
le decía doctor a Oscar y a mí no me decía nada.
Las calles eran vahídos y las aceras desmayos:
en la cabeza los versos y en el estómago cranque.
Corría a la casa de empeños sita en Amistad y Ánimas
buscando que me colgaran entre docenas de guitarras(,)
yo, empeñado, yo empeñando un viejo saco de Osvaldo
para trepar jadeante la cazuela del Auditorium
a ver El avaro de Moliere que Luis Jouvet presentaba.
Era La Habana con tranvías y soldados
de kaki amarillo, haciendo el fin de mes
con los pesos de los homosexuales;
entre los cuales, en cierta manera, me cuento, es
decir, en mi humilde escala: no osaría ponerme
a la altura de la Marquesa Eulalia, del Pájaro Verde,
del Jarroncito Chino, de la Pulga Lírica y del Marqués
de Pinar del Río, y aunque una noche, en el Don Quijote(,)
bailé sobre una mesa disfrazado de maja,
mi alarde palidece ante la magnificiencia
del Pájaro Verde dejándose degollar en el baño.
Según se mire eran tiempos heroicos, tiempos
que fueron cantados por guitarras alcoholizadas(,)
palabras tremendas que eran pronunciadas
con el filo de un cuchillo, mientras allá,
en Marte y Belona, los bailadores realizaban
la confusa gesta del danzón ensangrentado.
Esta gesta alcanzaba proporciones épicas
en el cuchillo de San Miguel: allí Panchitín Díaz
le decía con su voz aflautada a la putica debutante:
"Muchacha, tienes toda la vida por delante..."
y dando dos pasos se metía en la barbería de Neptuno
para entablar un diálogo funambulesco
con la corpulenta Albertino, que se hacía afeitar
una barba imaginaria.
Una noche en el Prado, con su pedazo de cielo
particularmente convulso sobre leones de bronce verde,
sobre leones que temblaban al paso del
Emperador del Mundo —un negro tuberculoso con
el pecho constelado de chapitas de Coca Cola—,
se comentaba con terror manifiesto
la frase ciceroniana de la mujer que se tiró
bajo las ruedas del automóvil de Lily Hidalgo de Conill:
"¡Habana, ábrete y trágame!"
Pero La Habana se hizo aún más rígida
para que ella pudiera ir hasta Colón sin baches,
para que esas noches las putas chancrosas
hicieran buenos pesos y para que lloraran los
sentimentales, entre los cuales también me cuento,
al extremo que podría ser nombrado presidente de
los sentimentales, y ahora precisamente
recuerdo al hombre que vi matar junto a la estatua de Zenea
con su mano convulsa aferrada al seno de mármol
de la mujer que eternamente lo acompaña.
Me pareció que llegaba el Apocalipsis,
pero justo en ese momento oí: "¨¡Maní tostao, maní!"
y metían por mis ojos anegados en lágrimas
un cucurucho de voluptuosidad cubana.
Mi amiga, la Muerta Viva, una puta francesa
que recaló en Sagua allá por el veinticuatro
compraba todos los días el periódico para
ver si en la Crónica Roja aparecía muerto
el cabrón, decía ella, que la dejó plantada en Sagua.
Pero como la vida manda, seguía abriendo las piernas
sin sentimentalismo de ninguna clase.
Yo, que mi destino de poeta me impidió la putería,
soñaba persistentemente con abrir las mías:
cuando el hambre aprieta, sueños monstruosos
se perfilaban en cada esquina, monedas del tamaño de
una casa me caían encima, y todo terminaba al compás
de una frita deglutida al compás de
"Bigote de Gato es un gran sujeto..."
Sin embargo, pensaba en la inmortalidad
con la misma persistencia con que me acosaba
la mortalidad, porque aún cuando viéndome
forzado a escuchar "la inmortalidad del cangrejo"
y ver al tipo pálido sentado en el café de
los bajos de mi casa, con un palillo en los
dientes y un vaso de agua sobre la mesa
pensando en las musarañas, yo me aferraba
a la mentira piadosa siguiendo al mismo
tiempo con la vista los sandwiches de pierna
que rechinaban en mis tripas.
Suaritos anunciaba a Ñico Saquito,
Toña La Negra quebraba la luna con su voz
de tortillera mejicana, Batista daba golpetazos
en Columbia, Patricia la Americana se momificaba
en un disco y Daniel Santos galvanizaba los solares.
Claro está, en la ciudad del sol constante
los fantasmas acostumbraban salir a plena luz:
los he visto acompañándome por Monte y Cárdenas
el día del entierro de Menocal, con ron peleón,
porque de eso el general prodigó, enchumbó, anestesió
y el champán para él y Marianita en París.
"Querida, me dijo Jarroncito Chino, hoy todo el mundo
está jalao, haremos ranfla moñuda,
ya el General templó lo suyo y nosotras moriremos
con un troyó papá bien grande adentro."
Así murió efectivamente. Destino cumplido,
vida realizada, strip-tease de pelo en pecho,
sacando palanganas de agua de culo(.)
Cuando se la llevaron había un Norte de
tres pares de cojones.
Estos son los monumentos que nunca veremos en
nuestras plazas, amorfas, sí, amorfa cantidad
de donde extraigo el canto, en cualquier parte,
bajando por Carlos III que entonces tenía bancos(,)
escuálido, tembloroso, con mi amorosa Habana
siguiéndome los pasos como perro dócil
entre años caídos retumbando como cañones
dejando la peseta en casa de la barajera
para saber (—)¿para saber?(—) si mañana entraré
en la papa... Un pelado en el Mercado Único,
un guarapo en el Mercado del Polvorín,
siempre avanzando, en brecha mortal,
buscando la completa como se busca un verso(,)
¡oh, inacabables calles, oh aceras perfumadas
con orine! ¡Oh, hacendados con pañuelos
impregnados en Guerlain, que nunca
me pusieron casa!
Solo en mi accesoria haciendo mis versitos
veía pasar La Habana como un río de sangre:
y como una puta más del barrio de Colón
los contaba de madrugada como si fueran pesos.
Virgilio Piñera
La gran puttana
Quando nel 1937 la mia famiglia arrivò all’Avana
- uno dei tanti esodi ai quali eravamo abituati -
mio padre - come abitudine sanguigna -
si dette un paio di sberle e cominciò a bestemmiare.
Arrivarono esattamente alle dieci della mattina
di un giorno di agosto bagnato con aceto;
prima di andare ad aspettare il Santiago-Habana
bevvi un succo di papaya tra Lagunas e Galiano,
e siccome il dovere s’impone al desiderio
persi un negro che mi faceva segni con la mano.
A quel tempo avevo venticinque anni
e tutta la vita riassunta nello sguardo:
anni mal portati perché la fame non paga:
“Virgilio – mi diceva Oscar Zaldívar –
non ti alimenti abbastanza. Devi mangiare carne…”
Di tanto in tanto mi portava a La Genovesa
all’angolo tormentato tra Virtudes e Prado,
dove Panchita, un’italiana affabile,
chiamava dottore a Oscar e a me non diceva niente.
Le strade erano indisposte e i nervi stremati:
nella testa i versi e nello stomaco crampi.
Correvo al monte dei pegni posta tra Amistad e Ánimas
cercando di farmi appendere tra dozzine di chitarre,
io, dato in pegno, io impegnando un vecchio sacco di Osvaldo
per raggiungere ansimante il loggione dell’Auditorium
per vedere L’Avaro di Moliere che Luis Jouvet presentava.
Era L’Avana con tranvie e soldati
vestiti di gialle uniformi, che arrivavano a fine mese
con i pesos degli omosessuali;
tra i quali, in una certa maniera, mi conto, come
dire, nella mia umile scala: non avrei osato mettermi
all’altezza della Marchesa Eulalia, del Pájaro Verde,
del Jarroncito Chino, della Pulce Lírica e del Marchese
di Pinar del Río, anche se una notte, al Don Chisciotte,
ho ballato sopra una tavola travestito in modo attraente,
la mia ostentazione impallidisce davanti alla magnificenza
del Pájaro Verde mentre si concedeva nel bagno.
Secondo come si guardino erano tempi eroici, tempi
che furono cantati da chitarre alcolizzate,
parole tremende che erano pronunciate
con la lama di un coltello, mentre là,
tra Marte e Belona, i ballerini realizzavano
la confusa espressione del danzón insanguinato.
Questa espressione raggiungeva proporzioni epiche
nel coltello di San Miguel: lì Panchitín Díaz
diceva con la sua voce leziosa alla puttanella debuttante:
“Ragazza, hai tutta la vita davanti...”
e facendo due passi entrava nel negozio di barbiere di Neptuno
per intavolare un dialogo funambolesco
con la corpulenta Albertino, che si faceva tagliare
una barba immaginaria.
Una notte nel Prado, con il suo pezzo di cielo
particolarmente convulso sopra leoni di bronzo verde,
sopra leoni che tremavano mentre passava
l’Imperatore del Mondo - un negro tubercoloso con
il petto costellato di tappi di Coca Cola -,
si commentava con terrore manifesto,
la frase ciceroniana della donna che si lanciò
sotto le ruote dell’automobile di Lily Hidalgo de Conill:
“Avana, apriti e ingoiami!”
Ma L’Avana adesso è diventata più rigida
per poter andare fino a Colón senza difficoltà,
perché durante quelle notti le sudice puttane
avranno guadagnato buoni pesos per far piangere i
sentimentali, tra i quali anch’io mi conto,
al punto che potrei essere nominato presidente dei
sentimentali, e adesso precisamente
ricordo l’uomo che ho visto uccidere accanto alla statua di Zenea
con la sua mano convulsa aggrappata al seno di marmo
della donna che eternamente lo accompagna.
Mi sembrò che arrivasse l’Apocalisse,
ma proprio in quel momento udii: “Maní tostato, maní!”
grido che metteva nei miei occhi gonfi di lacrime
un cartoccio di voluttuosità cubana.
La mia amica, la Morta Viva, una puttana francese
che andò a finire in Sagua con il ventiquattro
comprava tutti i giorni il quotidiano per
vedere se nella Cronaca Nera dicevano che era morto
il bastardo, diceva lei, che la piantò in asso in Sagua.
Ma come pretende la vita, continuava ad aprire le gambe
senza alcun tipo di sentimentalismo.
Io, che il mio destino di poeta mi impedì di fare la puttana,
sognavo intensamente di aprire le mie:
quando la fame opprime, sogni mostruosi
si profilavano a ogni angolo, monete grandi come
una casa mi cadevano addosso, e tutto finiva al tempo
di una frittura deglutita al tempo di
“Baffi di Gatto è un gran soggetto…”
Malgrado ciò, pensavo all’immortalità
con la stessa persistenza con cui m’incalzava
la mortalità, perché anche quando mi vedevo
obbligato ad ascoltare “l’immortalità del granchio”
e a vedere il tipo pallido seduto al caffè
sotto casa mia, con uno stecchino nei
denti e un bicchiere d’acqua sul tavolo
con la testa tra le nuvole, io mi aggrappavo
alla menzogna caritatevole seguendo al tempo stesso
con lo sguardo i panini al prosciutto
che recalcitravano nella mia pancia.
Suaritos annunciava a Ñico Saquito,
Toña La Negra superava la luna con la sua voce
da lesbica messicana, Batista dava colpetti
in Colombia, Patricia l’Americana si mummificava
in un disco e Daniel Santos animava le catapecchie.
È chiaro, nella città del sole costante
i fantasmi si abituavano a uscire in piena luce:
li ho visti accompagnarmi verso Monte e Cárdenas
il giorno che sotterrarono Menocal, con il suo pessimo rum,
perché quello il generale elargì, profuse, anestetizzò
e lo champagne per lui e Marianita a Parigi.
“Cara, mi disse Jarroncito Chino, oggi tutti
sono ubriachi, faremo una gran festa,
il Generale ha già goduto abbastanza e noi moriremo
con una grande rassegnazione nell’anima.”
Così morì per davvero. Destino compiuto,
vita realizzata, strip-tease di pelo nel petto,
tirando fuori catinelle di acqua sudicia.
Quando se la portarono via aveva un Nord di
tre paia di coglioni.
Questi sono i monumenti che mai vedremo nelle
nostre piazze, amorfe, sì, amorfa quantità
da dove estraggo il canto, in qualche parte,
scendendo verso Carlos III che allora aveva panchine,
squallido, timoroso, con la mia amorosa Avana
seguendo i miei passi come un cane docile
tra anni caduti rimbombando come cannoni
lasciando la moneta in casa della chiromante
per sapere - per sapere? - se domani sarò coinvolto
nella patata... Un pelato nel Mercato Unico,
un succo di canna nel Mercato del Polvorín,
sempre avanzando, in un’apertura mortale,
cercando l’intero come si cerca un verso,
oh, interminabili strade, oh acciai profumati
di urine! Oh, possidenti con fazzoletti
impregnati di Guerlain, che non mi
dettero mai a casa!
Solo nel mio appartamento componendo i miei piccoli versi
vedevo scorrere L’Avana come un fiume di sangue:
e come una puttana in più del quartiere Colón
li contavo all’alba come se fossero pesos.
Virgilio Piñera
(1912 – 1979)
Traduzione di Gordiano Lupi
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Virgilio Piñera
giovedì 3 dicembre 2009
Elisabetta Brizio, “Lasciar tracce. Nota minima ed extrametodica sull’ontologia sociale di Maurizio Ferraris"
Pensare
cosa può essere – voi che fate
lamenti dal cuore delle città
sulle città senza cuore –
cosa può essere un uomo in un paese,
sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante
e dopo
dentro una polvere di archivi
nulla nessuno in nessun luogo mai
Vittorio Sereni, Intervista a un suicida
cosa può essere – voi che fate
lamenti dal cuore delle città
sulle città senza cuore –
cosa può essere un uomo in un paese,
sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante
e dopo
dentro una polvere di archivi
nulla nessuno in nessun luogo mai
Vittorio Sereni, Intervista a un suicida
In
Dove sei? Ontologia del telefonino
(2005) Maurizio Ferraris si appropria di uno dei nostri oggetti più
personali e ne definisce lo statuto ontologico nel segnare il
passaggio dalla società della comunicazione a quella della
registrazione: ci accorgiamo infatti di esser di fronte a una
macchina per scrivere, a un potente strumento per registrare e per
archiviare piuttosto che per comunicare, e come tale in grado di
contenere una vasta quantità di iscrizioni che appartengono
all’universo invisibile, e all’apparenza immateriale, della
realtà sociale. Incorporeo o evanescente soltanto all’apparenza
perché matrimoni, divorzi, lauree o anni di galera (gli esempi sono
di Ferraris) possono condizionare intere esistenze. La registrazione
insomma genera degli effetti tangibili. Nella scansione delle
argomentazioni Ferraris restituisce all’ontologia lo status che le
compete traendola dalla dispersione postmoderna caratterizzata dalla
tendenza a generalizzare i casi particolari e dall’indifferenza
verso la nozione di verità per un soggettivismo indeterminato.
Lavorare a una ontologia dell’attualità e misurarsi con le
trasformazioni cui assistiamo, nel tentativo di recuperare anche da
questo lato il legame con la realtà empirica, potrebbe apparire –
Ferraris scriverà poi in Sans papier
(2007) – forse monotono, ma è filosoficamente rilevante, dal
momento che l’argomento riguarda il nostro Dasein.
Sull’ontologia
sociale in particolare Ferraris si sofferma nella seconda parte di
Dove sei?, dove
analiticamente espone sia gli argomenti ammissibili che i limiti del
realismo (che postula l’esistenza degli oggetti a prescindere dai
soggetti) e del testualismo (che afferma l’esistenza degli oggetti
come costruzioni del soggetto) e propone l’iscrizione che sancisce
il valore sociale dell’atto (Ferraris definisce l’oggetto sociale
un «atto iscritto») solo nella misura in cui sia idiomatica,
individualizzante, tale cioè da conferire all’atto uno statuto
documentale. La società è imprescindibilmente connessa alla
registrazione senza la quale non solo una qualsivoglia dimensione
sociale, ma anche lo stesso pensiero non potrebbe aver luogo.
L’iscrizione idiomatica costituisce dunque il nesso fondante
dell’ontologia sociale, altrimenti di noi non permarrebbe che
«nulla nessuno in nessun luogo mai», dice Ferraris con un verso di
Vittorio Sereni che figurava in Sans papier
ad esemplificare sinteticamente la necessità
della traccia, segno scritto che garantisce la nostra memoria.
Lavoro, Sans papier,
in cui diffusamente si argomenta sull’universo di Internet, sulla
globalizzazione, sul confine tra pubblico e privato, sulla
correlazione paradossale tra il regredire del materiale cartaceo
(malgrado l’eccesso di carta che quotidianamente esce dalle nostre
stampanti) e il debordare della scrittura, sulla archiviazione e
sull’iscrizione idiomatica che fonda la realtà sociale: il mondo
sociale può dipendere dalle deliberazioni dei soggetti senza per
questo risolversi in costruzione soggettiva, perché è in virtù
della registrazione che gli oggetti sociali acquisiscono l’attitudine
a istituirsi
La
critica a quel postmoderno che aveva perso la distinzione tra essere
e sapere era passata attraverso le pagine di Goodbye
Kant (2004), del più disinvolto Babbo
Natale, Gesù Adulto
(2006) e di quelle commosse in memoria di Jacques Derrida (2006),
dove Ferraris ripensa alla sua emancipazione dal maestro, e in
particolare dall’assunto derridiano secondo cui «nulla esiste al
di fuori del testo», il quale, se aveva individuato la centralità
della traccia, aveva tuttavia assimilato gli oggetti ideali agli
oggetti sociali, confondendo – Ferraris scriveva in Dove sei? –
«il sapere con la sua socializzazione». E la filosofia della
scrittura, nella lettura alternativa di Ferraris della formula
derridiana, resta comunque un punto di riferimento costante: «nulla
di sociale esiste al
di fuori del testo», in quanto sia gli oggetti fisici che quelli
ideali hanno esistenza propria. Un moto revisionista che riannoda il
filo di un discorso interrotto e che pone i presupposti per la
costruzione della realtà sociale. Dalla scrittura, dal testo, dalla
traccia inizia l’iter verso l’oggetto sociale, il quale, a
differenza degli oggetti fisici non esiste a prescindere dai soggetti
ma in quanto i soggetti pensano che esistano, non è relativo solo
per il fatto di dipendere dal soggetto, né dipende solo dalla nostra
volontà. E alla registrazione, che sottende una vita sociale che
rammenta, cataloga e archivia.
La
preistoria di questa «svolta» è tracciabile in alcuni lavori
precedenti, quali Estetica
razionale (1997), una
revisione dell’estetica che culminerà in La
Fidanzata Automatica (Bompiani 2007), dove si
espone una teoria normalista dell’arte, né eccezionalista né
straordinarista dunque, che definisce l’opera un oggetto sociale
dotato di iscrizione idiomatica, a dispetto della sua forte vocazione
– se assunta dalla prospettiva dell’utente – a fingersi
soggetto. Ma in particolare nel Mondo esterno
(2001), dove, in una sorta di contromovimento rispetto al
trascendentalismo, Ferraris inclinava verso il riconoscimento
dell’evidenza e dell’autonomia, e di conseguenza della
«inemendabilità», di un mondo «incontrato», che esiste, resiste
e segue regole proprie indipendentemente da noi e dalle nostre
interpretazioni di esso, che non si risolve nel linguaggio, e del
quale il più delle volte abbiamo una conoscenza unicamente empirica
cui poco servirebbe associare strutture a priori o schemi concettuali
che conferiscano rilievo costitutivo.
Gli
oggetti verranno catalogati con frequenti riferimenti ai soggetti,
alla vita e alla quotidianità nel Tunnel
delle multe (2008), e nel più recente
Piangere e ridere
davvero (2009) due non
sempre incompatibili reazioni soggettive ai nostri stati affettivi
sono sottoposte a una implacabile verifica che ci induce a ridefinire
ciò che ritenevamo incontestabile. Ancora, dunque, contro ogni
presunzione di oggettività, anche il feuilleton
filosofico costituisce un invito a non acconsentire ad ovvietà e a
riconoscere la dicotomia tra l’essere e il credere infondato. Ma
soprattutto il rimando alla vita, alla sfera emotiva, caratterizza un
pensiero che è tutt’altro che una ossessione oggettivistica.
Ma è
nel suo ultimo libro – Documentalità.
Perché è necessario lasciar tracce (Laterza
2009) – che Ferraris espone sistematicamente i risultati della sua
ricerca di questi ultimi anni, integrandola e avanzandola,
inoltrandosi ulteriormente nell’ontologia del documento, termine
ultimo della teoria degli oggetti sociali. Gianni Vattimo, in una
recensione al volume apparsa il 29 novembre scorso su «La Stampa»
si chiede, invertendo i termini del sottotitolo e trasformandolo in
domanda, se «è davvero necessario lasciar tracce, e perché?».
Appare necessario – almeno al lettore ingenuo come me – in atti
che inverano una vita sociale che altrimenti non avrebbe né luogo né
memoria, e l’atto di «lasciar tracce» è inoltre inevitabile
nelle più correnti circostanze della vita ordinaria. Gli oggetti
sociali sono l’esito di atti sociali, e senza iscrizione – vale a
dire senza certificazione, la base ontologica della teoria degli
oggetti sociali – verrebbe meno la validità istituzionale
dell’atto.
La
cosiddetta conversione di Ferraris a una – come egli stesso la
definisce – «metafisica descrittiva di impianto realistico»,
secondo Vattimo, condurrebbe a una antecedenza, a un ritorno «a
prima di ogni modernità», ma non se ne avverte la tonalità arcaica
o arcaicizzante cui si allude – il catalogo del mondo, per Vattimo,
non sarebbe troppo dissimile dalle raccolte museali. Vi si potrebbe
invece percepire un altro genere di antecedenza, quell’Husserl che
nei «Prolegomeni» alle Ricerche logiche
sosteneva che «il ritorno alle questioni di principio resta un
compito che deve essere sempre di nuovo intrapreso». Le «arguzie»
e le «amenità» rilevate da Vattimo in alcuni lavori di Ferraris,
se appaiono funzionali a un alleggerimento della dissertazione,
talora sono esplicativi, come nel caso (forse in Dove
sei?) dell’episodio dell’Agnese dei
Promessi Sposi,
addotto a esemplificare la validità della registrazione dell’atto
che non necessariamente avviene per iscritto. Oppure, nell’esempio
della nota espressione nietzschiana «non esistono fatti, ma solo
interpretazioni» trasferita in un’aula di tribunale, tanto per
testare, e far reagire con la realtà, assunti non concepibili fuor
di metafora. Sia gli aneddoti tratti dalla vita che i riferimenti
alle opere letterarie concorrono allora ad abbassare il tono, per
così dire, accademico, in un procedere analitico che comunque
rigorosamente argomenta: la scrittura filosofica viene insomma
deprivata di quell’aurea freddezza tipica di certe filosofie,
mentre avvertiamo uno spessore e una intensità che traducono la
partecipazione dell’autore. Come nei rimandi alla Recherche.
Tra parentesi: parecchi anni fa ebbi la possibilità di seguire un
seminario tenuto dal Prof. Ferraris sull’estetica proustiana: senza
enfasi alcuna egli riuscì a trasfonderci una sconfinata passione per
Proust tenendo sempre ben presenti le implicazioni che quest’opera
può contemplare. Non ce lo disse allora che già quindicenne aveva
letto tutta la Recherche,
ma l’apprenderlo dalle pagine di Sans papier
o da quelle di Documentalità
non avrà affatto stupiti, né meravigliati, i lettori che come me lo
ascoltarono.
Dopo
l’annoso lavoro filosofico di Ferraris (che, come scrive in una
anticipazione del libro sul «Secolo XIX», è volto a «riconsiderare
tutto ciò che tradizionalmente si è pensato sotto la categoria
dello spirito concependolo come una modificazione della lettera», a
dimostrare che «Geist è .doc») e il suo approdo a conclusioni
inevitabilmente provvisorie (visto che ha il merito di confrontarsi
con l’attualità, quindi con un oggetto trascorrente), in quale
senso nella sua prospettiva sarebbe assente il «salto in una critica
di quel che c’è»? Perché questa perplessità, se il realismo si
caratterizza come dottrina critica?
La
filosofia insegna a dubitare, spessissimo incanta e affabula, talora
illude anziché dare, ove ciò sia possibile, risposte plausibili in
merito alla vita e all’esperienza. E non ci illude Ferraris: se gli
oggetti sociali, affidati come sono alla memoria della registrazione
che in larga parte avviene su supporti magnetici e digitali,
attraverseranno il futuro, almeno quello immediato, la
documentalizzazione della vita dovrebbe possedere tutte le
caratteristiche per consegnarci all’eternità, benché si tratti di
una eternità relativa, come Foscolo scrisse nell’explicit
dei Sepolcri («E
finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane»), legata alla
configurazione di transitorietà che la locuzione congiuntiva
introduce ed evoca: finché, dice Ferraris, nuove innovazioni non
renderanno illeggibili i supporti attuali.
lunedì 30 novembre 2009
Patrizia Garofalo, "Quando la maschera cede il passo al volto. Nota sulla poesia di Claudio Moica"
Titolo: Angoli nascosti
Autore:Claudio Moica
Edizioni: il filo
È da qui
che si respira
la ragione del cercare.
Alle estremità del pensiero
vive la verità nascosta….
L’incipit connota indubbiamente una poesia meditativa, del pensiero che nell’autore trova congiungimento nella relazione e contatto tra le cose circostanti che, risvegliate dalla pregnanza della parola poetica, animate popolano gli angoli del cuore.
Ad una prima lettura la frequenza delle ipallagi sembrerebbe enfatizzare la ricerca della conoscenza nell’attribuzione trasversale e multivoca di significati che si dissemina nei vari elementi del verso e del cuore, della ragione e delle emozioni se man mano non ci si addentrasse in un meandro di immagini surreali e metafisiche, ideali inerpicamenti d’abbraccio al mondo perché con calore esso si schiuda all’uomo e al poeta.
Consapevole della necessità di afferrare suoni, musiche e parole che li inveri di cui neanche il vento può riportare i significati, Claudio Moica confida nel silenzio “negli angoli del cuore” e percorre l’ipotesi tonale più alta di cogliere e afferrare il senso della la ricerca del sé.
Dall’ immagine dell’eremo delle carceri che apre suggestivamente la silloge, il poeta coglie la caducità dell’esistere tra un sospiro che appena trovata la verità può con un soffio essere condannato a perderla… e allora invita a salire e a trovare un varco, nell’accezione montaliana dell’impossibilità di rinvenire “la maglia rotta nella rete che ci stringe” che poi scompare nel testo fino a essere lui e lui solo abitante i luoghi del tempo, gli angoli temporali e ottici del cuore e della poesia.
Anche la finestra è un angolo, uno spazio al contempo aperto e defilato e condizione di tempo dal quale il poeta guarda scendere la neve e, in attesa di estati di sole, scrive: ”La neve dell’indifferenza / cala copiosa / ne sento il profumo;/ rimango immobile dalla mia finestra/ sperando / che tu non la sospinga/ alla porta del mio cuore.” E quindi tutto, anche l’amore, risuona nello scorrere del tempo e della ricerca di momenti di echi non raccolti, tensioni, attese, rimandi; e, analogamente, la parola poetica viene sempre più a connotare i tempi del cuore, e solo del cuore, e solo interiori.
E di commozione si parla quando si legge la silloge, un sentimento diverso dall’emozione di superficie e casuale ma un “avvertimento” di vitalità che esplode anche con “chiari presagi di porti mai raggiunti”, che si tinge di mare, di colori, di momenti, di tregue, di lontananze, di presagi: “Ho aspettato che la rabbia / fosse semplice passaggio / di nave senza rotta”.
È una poesia, quella di Moica, di umanesimo mai disgiunto dalla memoria della quale con sovraesposizione emotiva si inoltra nella delazione di “rottami di ipocrisie… ombre di inganni… urla strazianti… preghiere delle madri”; fino all’intensità di “stille di sangue/ come destini d’autunno/ vestirono il cielo/ e languide/ scesero nelle sue mani”.
In questi versi l’empatia del poeta disegna ipallagi disvelanti nel “destino d’autunno” che designano la morte, mentre un cielo partecipe al dolore piange sangue. Poesia quindi quella di Claudio Moica non solipsistica ma sommessa e insieme vitale adesione al mondo fino scrivere: “non possediamoci/ ma cerchiamoci al buio/ tra le pieghe dell’anima”.
“Trasformerò / l’eternità delle stagioni/ in piccoli riflessi/ giocando / al Dio dell’illusione/ pur convinto che“ al di là /di questo mare /baie / che il mio sguardo non scorge / …l’Anima adagiata / si conforta/ di pace presunta.” Le assenze vanno cercate nel rapimento di un volo “dove le nuvole vanno a dormire”, nelle rughe del viso negli “attimi fuggiti / per simulare un’altra volta/ il gioco della vita.”
Negli angoli nascosti dove il poeta custodisce il suo sentire per guardare persino oltre l’illusione: “tu, ladra d’emozioni, / hai carpito / il senso del mare / lasciando nelle mani / dei giovani ciechi/ solo acqua e sale.”
La valenza della silloge è anche nel possibile accoglimento del suo angolo nascosto al sentire del lettore, alle situazioni in cui ci si riflette specularmente leggendo i suoi versi, nelle possibili contingenze non scritte ma comuni, ce fanno sentire e riafferrare la suggestione della poesia quando essa si specchia in un'individualità emozionale e trova “tra le cavità del tramonto / la direzione del dolce sentire”, laddove “si scambiano emozioni/ quando la maschera/ cede il passo al volto.”
Patrizia Garofalo
Autore:Claudio Moica
Edizioni: il filo
È da qui
che si respira
la ragione del cercare.
Alle estremità del pensiero
vive la verità nascosta….
L’incipit connota indubbiamente una poesia meditativa, del pensiero che nell’autore trova congiungimento nella relazione e contatto tra le cose circostanti che, risvegliate dalla pregnanza della parola poetica, animate popolano gli angoli del cuore.
Ad una prima lettura la frequenza delle ipallagi sembrerebbe enfatizzare la ricerca della conoscenza nell’attribuzione trasversale e multivoca di significati che si dissemina nei vari elementi del verso e del cuore, della ragione e delle emozioni se man mano non ci si addentrasse in un meandro di immagini surreali e metafisiche, ideali inerpicamenti d’abbraccio al mondo perché con calore esso si schiuda all’uomo e al poeta.
Consapevole della necessità di afferrare suoni, musiche e parole che li inveri di cui neanche il vento può riportare i significati, Claudio Moica confida nel silenzio “negli angoli del cuore” e percorre l’ipotesi tonale più alta di cogliere e afferrare il senso della la ricerca del sé.
Dall’ immagine dell’eremo delle carceri che apre suggestivamente la silloge, il poeta coglie la caducità dell’esistere tra un sospiro che appena trovata la verità può con un soffio essere condannato a perderla… e allora invita a salire e a trovare un varco, nell’accezione montaliana dell’impossibilità di rinvenire “la maglia rotta nella rete che ci stringe” che poi scompare nel testo fino a essere lui e lui solo abitante i luoghi del tempo, gli angoli temporali e ottici del cuore e della poesia.
Anche la finestra è un angolo, uno spazio al contempo aperto e defilato e condizione di tempo dal quale il poeta guarda scendere la neve e, in attesa di estati di sole, scrive: ”La neve dell’indifferenza / cala copiosa / ne sento il profumo;/ rimango immobile dalla mia finestra/ sperando / che tu non la sospinga/ alla porta del mio cuore.” E quindi tutto, anche l’amore, risuona nello scorrere del tempo e della ricerca di momenti di echi non raccolti, tensioni, attese, rimandi; e, analogamente, la parola poetica viene sempre più a connotare i tempi del cuore, e solo del cuore, e solo interiori.
E di commozione si parla quando si legge la silloge, un sentimento diverso dall’emozione di superficie e casuale ma un “avvertimento” di vitalità che esplode anche con “chiari presagi di porti mai raggiunti”, che si tinge di mare, di colori, di momenti, di tregue, di lontananze, di presagi: “Ho aspettato che la rabbia / fosse semplice passaggio / di nave senza rotta”.
È una poesia, quella di Moica, di umanesimo mai disgiunto dalla memoria della quale con sovraesposizione emotiva si inoltra nella delazione di “rottami di ipocrisie… ombre di inganni… urla strazianti… preghiere delle madri”; fino all’intensità di “stille di sangue/ come destini d’autunno/ vestirono il cielo/ e languide/ scesero nelle sue mani”.
In questi versi l’empatia del poeta disegna ipallagi disvelanti nel “destino d’autunno” che designano la morte, mentre un cielo partecipe al dolore piange sangue. Poesia quindi quella di Claudio Moica non solipsistica ma sommessa e insieme vitale adesione al mondo fino scrivere: “non possediamoci/ ma cerchiamoci al buio/ tra le pieghe dell’anima”.
“Trasformerò / l’eternità delle stagioni/ in piccoli riflessi/ giocando / al Dio dell’illusione/ pur convinto che“ al di là /di questo mare /baie / che il mio sguardo non scorge / …l’Anima adagiata / si conforta/ di pace presunta.” Le assenze vanno cercate nel rapimento di un volo “dove le nuvole vanno a dormire”, nelle rughe del viso negli “attimi fuggiti / per simulare un’altra volta/ il gioco della vita.”
Negli angoli nascosti dove il poeta custodisce il suo sentire per guardare persino oltre l’illusione: “tu, ladra d’emozioni, / hai carpito / il senso del mare / lasciando nelle mani / dei giovani ciechi/ solo acqua e sale.”
La valenza della silloge è anche nel possibile accoglimento del suo angolo nascosto al sentire del lettore, alle situazioni in cui ci si riflette specularmente leggendo i suoi versi, nelle possibili contingenze non scritte ma comuni, ce fanno sentire e riafferrare la suggestione della poesia quando essa si specchia in un'individualità emozionale e trova “tra le cavità del tramonto / la direzione del dolce sentire”, laddove “si scambiano emozioni/ quando la maschera/ cede il passo al volto.”
Patrizia Garofalo
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lunedì 23 novembre 2009
PATRIZIA GAROFALO, "LA LUCE SEPOLTA DI REBORA"
"Come questa pietra / è il mio canto / che non si vede", dice Ungaretti in versi celeberrimi. E Serra, nell'"Esame di coscienza di un letterato", evoca, con timore e forse con oscura speranza, con una sorta di vago e sanguinante desiderio filiale, la terra "buona per i nostri corpi". Qualcosa di non troppo diverso - un consimile senso, quasi, di residuo inorganico, assenza di vita, regressione allo stadio impersonale e minerale proprio nel momento in cui, nel carnaio feroce della trincea, il corpo si fa più nudo e dolente, più atrocemente sentito nella sua fragile caducità - trasuda dai versi e dalle lettere di Rebora, che forse andrebbero ripensati e riletti con un più stretto riferimento al milieu vociano e al contesto storico della "Letteratura della Grande Guerra".
Il cielo, si leggeva nei Frammenti lirici, "Non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe, / Mentre la terra gli chiede il suo verbo". Umano e divino, il soldato ferito e il cristo sofferente, e insieme la terra e il cielo, il temporale e l'eterno, accavallati e intrecciati come in un arco teso, si abbracciano nell'esperienza del dolore, della fragilità, della finitudine, nello spazio in cui si muove, con il suo incompiuto anelito, la coscienza infelice, che non sa rassegnarsi a non poter essere tutto, a non poter scandagliare fino in fondo l'abisso del significato, del pathei mathos (e qui affiora forse il Rebora lettore dei Tragici), della conoscenza che è dolore e del dolore che è fonte di conoscenza. (M. V.)
LA MIA LUCE SEPOLTA
LETTERE DI GUERRA
CLEMENTE REBORA
A CURA DI MARCO DALLA TORRE
Viatico
O ferito laggiù nel valloncello
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio.
Grazie, fratello.
Clemente Rebora
Clemente rivela fin da giovanissimo una “ sensibilità intellettuale acutissima”: così Marco Dalla Torre presenta questo epistolario dal quale si evince come la tensione del percorso di Rebora si elabori e si coniughi lentamente nel suo essere dilaniato tra gli orrori della storia di inizio secolo, che investono e permeano l’animo in una devastante dolente tensione dello spirito che convergerà nella conversione.
Dalla partenza per il fronte appare evidente come il falso mito della guerra rivendicato dai “ vociani” lo veda distante ma anche vittima dell’ orrore più vasto dello sguardo pietrificante della Medusa. Indagare dentro questa tensione è stato attento compito di Dalla Torre, che si fa voce di orrori e riporta l’espressionismo semantico e la disgregazione della parola con la lucidità critica di una selezione che restituisce voce al silenzio che seguì, allora, la produzione di Rebora.
E’ desueto tentare la lettura di un critico che a sua volta riporta la voce di un grande nel suo travaglio. In realtà la mia non è la recensione di uno studio ma una forma di ringraziamento ad una lettura da reportage che Dalla Torre offre non alla sua breve lettura personale, ma, come dono, a chi si può avvicinare a Rebora senza impostazione autoferenziale.
A proprio modo ognuno può entrare nel testo, nell’epistolario poco noto e nel travaglio che lo anima tra la Medusa, più vicina al dipinto di Caravaggio che al mito greco, e un rapporto-dissidio sempre presente tra orrori di guerra e guerra dell’io.
Nella necessità di Rebora di essere parte delle sofferenze altrui, di una risorgenza comune e senza schieramenti , è sottolineata con significativi testi la progressiva disgregazione del linguaggio che esonda in urla disperate di pace. L’orrore e la deriva hanno gambe mozzate, teste dilaniate, sacrifici umani insieme alla puzza del sangue e della carne che marcisce, e reclama non solo sepoltura, ma risurrezione e trasfigurazione nella luce di Dio.
Patrizia Garofalo
Il cielo, si leggeva nei Frammenti lirici, "Non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe, / Mentre la terra gli chiede il suo verbo". Umano e divino, il soldato ferito e il cristo sofferente, e insieme la terra e il cielo, il temporale e l'eterno, accavallati e intrecciati come in un arco teso, si abbracciano nell'esperienza del dolore, della fragilità, della finitudine, nello spazio in cui si muove, con il suo incompiuto anelito, la coscienza infelice, che non sa rassegnarsi a non poter essere tutto, a non poter scandagliare fino in fondo l'abisso del significato, del pathei mathos (e qui affiora forse il Rebora lettore dei Tragici), della conoscenza che è dolore e del dolore che è fonte di conoscenza. (M. V.)
LA MIA LUCE SEPOLTA
LETTERE DI GUERRA
CLEMENTE REBORA
A CURA DI MARCO DALLA TORRE
Viatico
O ferito laggiù nel valloncello
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio.
Grazie, fratello.
Clemente Rebora
Clemente rivela fin da giovanissimo una “ sensibilità intellettuale acutissima”: così Marco Dalla Torre presenta questo epistolario dal quale si evince come la tensione del percorso di Rebora si elabori e si coniughi lentamente nel suo essere dilaniato tra gli orrori della storia di inizio secolo, che investono e permeano l’animo in una devastante dolente tensione dello spirito che convergerà nella conversione.
Dalla partenza per il fronte appare evidente come il falso mito della guerra rivendicato dai “ vociani” lo veda distante ma anche vittima dell’ orrore più vasto dello sguardo pietrificante della Medusa. Indagare dentro questa tensione è stato attento compito di Dalla Torre, che si fa voce di orrori e riporta l’espressionismo semantico e la disgregazione della parola con la lucidità critica di una selezione che restituisce voce al silenzio che seguì, allora, la produzione di Rebora.
E’ desueto tentare la lettura di un critico che a sua volta riporta la voce di un grande nel suo travaglio. In realtà la mia non è la recensione di uno studio ma una forma di ringraziamento ad una lettura da reportage che Dalla Torre offre non alla sua breve lettura personale, ma, come dono, a chi si può avvicinare a Rebora senza impostazione autoferenziale.
A proprio modo ognuno può entrare nel testo, nell’epistolario poco noto e nel travaglio che lo anima tra la Medusa, più vicina al dipinto di Caravaggio che al mito greco, e un rapporto-dissidio sempre presente tra orrori di guerra e guerra dell’io.
Nella necessità di Rebora di essere parte delle sofferenze altrui, di una risorgenza comune e senza schieramenti , è sottolineata con significativi testi la progressiva disgregazione del linguaggio che esonda in urla disperate di pace. L’orrore e la deriva hanno gambe mozzate, teste dilaniate, sacrifici umani insieme alla puzza del sangue e della carne che marcisce, e reclama non solo sepoltura, ma risurrezione e trasfigurazione nella luce di Dio.
Patrizia Garofalo
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venerdì 6 novembre 2009
NICOLA VACCA, UN POETA ALLA RICERCA DEL "DIO VERO"
Questi versi di Nicola Vacca mi ricordano (forse, anzi quasi certamente, per mera analogia, per semplice suggestione soggettiva di lettore, più che per riscontro filologico) il respiro, il passo, il ductus di certi grandi poeti mistici, da Angelus Silesius a Juan de la Cruz.
Dio, che visto da occhi e con occhi umani, è in se stesso purum nihil, antitesi del terrestre, opacità, eclisse, negazione, può forse, proprio dal silenzio, e con e nel silenzio, rivelarsi e parlare. Con il silenzio, meglio che con le parole, può essere umanamente invocato; e bisogna fare vuoto e silenzio nella propria anima perché nel profondo di essa possa risuonare - quale che sia, e qual che ne sia l'enigmatico, forse indecifrabile, messaggio - la sua voce.
Dice, con spirito modernissimo, un salmo: «Perché, signore, stai lontano, / nell'ora dell'angoscia ti nascondi?». Forse Dio è appunto concepibile proprio sotto la specie di quel «vuoto immenso» che le domande ultime e prime, destinate probabilmente a restare senza risposta, spalancano.
Da questo silenzio e da questo vuoto può derivare anche il respiro stilistico netto, secco, a volte in apparenza angoloso e contratto, della versificazione, che tende a procedere per versi raggrupati a due a due, o a volte isolati, ma sempre contrassegnati da una forte condensazione aforistica e da una acuminata pregnanza.
Viene in mente, per analogia come per contrasto, Il Dio dell'impossibile di Patrizia Garofalo, la cui vena è peraltro più sinuosa, più sensuale e fluente: «Il Dio dell'impossibile / Ti significa nell'anima / Mentre accolgo / La tua assenza / Nuda». L'assenza, la distanza, la lontananza (che non hanno misura né metro di comparazione, significando entrambe una stessa mancanza che è simile alla morte) possono accomunare amore umano e amore divino, sensualità e ansia di assoluto. Due tensioni che si fondono nella Sposa del Cantico dei Cantici, nella sua inesausta ed insoddisfatta ricerca: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato / l'amato del mio cuore; / l'ho cercato, ma non l'ho trovato».
Per l'uno come per l'altra, le parole sono «Vestali di vita e morte» - simili all'oraziana tacita virgo, messaggera di sacro silenzio come di eternità.
(M. V.)
A UN DIO VERO
La comunicazione si è interrotta
perché arriva il nulla
dallo scavo della crudeltà
nelle ferite dell’amore.
A un Dio vero chiedo
della paura che invade le anime
dell’inquietitudine che turba i cuori.
Lo invito a darmi tutte le risposte
che dal suo silenzio dovrebbero giungere.
Davanti alle domande
si apre un vuoto immenso.
A QUATTRO MANI CON MIA MOGLIE
Amo la notte
con la passione per il giorno
invento momenti
per vivere e morire.
C’è sempre un’onda che attraversa tutto
in un mare che travolge.
Riempio lo spazio di silenzio
respiro
facendo i conti con secondi.
Bisogna cucirsi addosso un destino
quando tutto sembra perduto.
Si ha sempre bisogno di ali
perché la vita continua
fino ad interrompersi.
CECITÀ
In compagnia dell’oscurità
avanziamo passi incerti.
Disincantati guardiamo in alto
verso un cielo che minaccia pioggia.
Dietro le nuvole ci sarà un sole
che attende di essere liberato.
Intanto abbiamo smesso
di conversare con la luce.
La cecità è il terrore che uccide la gioia.
E’ condannato alla morte più buia
solo che non sa raccontare il male.
Dio, che visto da occhi e con occhi umani, è in se stesso purum nihil, antitesi del terrestre, opacità, eclisse, negazione, può forse, proprio dal silenzio, e con e nel silenzio, rivelarsi e parlare. Con il silenzio, meglio che con le parole, può essere umanamente invocato; e bisogna fare vuoto e silenzio nella propria anima perché nel profondo di essa possa risuonare - quale che sia, e qual che ne sia l'enigmatico, forse indecifrabile, messaggio - la sua voce.
Dice, con spirito modernissimo, un salmo: «Perché, signore, stai lontano, / nell'ora dell'angoscia ti nascondi?». Forse Dio è appunto concepibile proprio sotto la specie di quel «vuoto immenso» che le domande ultime e prime, destinate probabilmente a restare senza risposta, spalancano.
Da questo silenzio e da questo vuoto può derivare anche il respiro stilistico netto, secco, a volte in apparenza angoloso e contratto, della versificazione, che tende a procedere per versi raggrupati a due a due, o a volte isolati, ma sempre contrassegnati da una forte condensazione aforistica e da una acuminata pregnanza.
Viene in mente, per analogia come per contrasto, Il Dio dell'impossibile di Patrizia Garofalo, la cui vena è peraltro più sinuosa, più sensuale e fluente: «Il Dio dell'impossibile / Ti significa nell'anima / Mentre accolgo / La tua assenza / Nuda». L'assenza, la distanza, la lontananza (che non hanno misura né metro di comparazione, significando entrambe una stessa mancanza che è simile alla morte) possono accomunare amore umano e amore divino, sensualità e ansia di assoluto. Due tensioni che si fondono nella Sposa del Cantico dei Cantici, nella sua inesausta ed insoddisfatta ricerca: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato / l'amato del mio cuore; / l'ho cercato, ma non l'ho trovato».
Per l'uno come per l'altra, le parole sono «Vestali di vita e morte» - simili all'oraziana tacita virgo, messaggera di sacro silenzio come di eternità.
(M. V.)
A UN DIO VERO
La comunicazione si è interrotta
perché arriva il nulla
dallo scavo della crudeltà
nelle ferite dell’amore.
A un Dio vero chiedo
della paura che invade le anime
dell’inquietitudine che turba i cuori.
Lo invito a darmi tutte le risposte
che dal suo silenzio dovrebbero giungere.
Davanti alle domande
si apre un vuoto immenso.
A QUATTRO MANI CON MIA MOGLIE
Amo la notte
con la passione per il giorno
invento momenti
per vivere e morire.
C’è sempre un’onda che attraversa tutto
in un mare che travolge.
Riempio lo spazio di silenzio
respiro
facendo i conti con secondi.
Bisogna cucirsi addosso un destino
quando tutto sembra perduto.
Si ha sempre bisogno di ali
perché la vita continua
fino ad interrompersi.
CECITÀ
In compagnia dell’oscurità
avanziamo passi incerti.
Disincantati guardiamo in alto
verso un cielo che minaccia pioggia.
Dietro le nuvole ci sarà un sole
che attende di essere liberato.
Intanto abbiamo smesso
di conversare con la luce.
La cecità è il terrore che uccide la gioia.
E’ condannato alla morte più buia
solo che non sa raccontare il male.
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sabato 31 ottobre 2009
NUOVA NOTA SU REMO PAGNANELLI
Tanto le lettere, vivissime e struggenti, a Daniela Marcheschi, quanto la tesi di laurea di Remo rispecchiano, in eguale misura, e pur se in modi e contesti diversi, uno stesso travaglio intellettuale, uno stesso, per così dire, dramma della mente e della coscienza, una stessa "tragedia della cultura": rendono, insomma, la testimonianza di un uomo e di un intellettuale che cercò, con estremo ed ostinato rigore, la propria identità, il proprio ruolo, la propria interiore, intracoscienziale avrebbe detto Sartre, ricomposizione etica e identitaria, e in un mondo dominato dall'inganno, dai ruoli, dalle maschere pagò (lui che non poteva, come vilmente facciamo in tanti, accettare di impersonare la parte, oggi inevitabilmente farsesca, dell'"insegnante", dell' "educatore") con la morte questa sua ricerca di autenticità - un'autenticità, un'identità con se stesso che forse trovò anche e proprio nella sua fine, nella sua scelta eroica che non era, nel suo caso, segno di viltà e di fuga, ma di coraggio e coerenza - testimonianza nel senso proprio di martirio - “Nunc duo concordes / anima moriemur in una”, dice il Narciso di Ovidio.
Forse è troppo facile, tragicamente facile, ricordare Remo per la sua morte, sub specie mortis; sarebbe meglio ricordarlo anche, e soprattutto, per la sua vita, per l'amore, disperato e paradossale, per la vita che affiorava da i suoi versi pur così tragicamente amari, e che, in fondo, l'atto stesso del suicidio finisce, in molti casi, per testimoniare ed esprimere, sotto la forma fosca e convulsa della reazione estrema e autodistruttiva ad un'imposibilità di vivere e gioire della vita stessa, di una vita divenuta impossibile, altra, sraniata, quasi irreale, e da ultimo inaccettabile.
Eppure, credo che difficilmente si troverebbe, in tutta la letteratura (si potrebbero citare la Woolf, la Plath, Sarah Kane - tutte donne, non a caso, alla ricerca disperata di un'impossibile identità intellettuale), un'altra figura che, come quella di Remo, abbia perseguito con la stessa assiduità, la stessa coerenza, lo stesso spirito di oblatività e di sacrificio, la stessa lucida e lacerante consapevolezza, la ricerca di un'autenticità intellettuale, di un impegno che non fosse solo ideologico o letterario, ma anche, nella stessa tragica misura, esistenziale.
Remo era conscio, anche da storico e da critico, dei rischi insiti nella letteratura come vita, che tendeva a risolversi, o ad involvere, in vita come letteratura, e dunque stilizzazione, posa, formalismo, estetismo, turris eburnea. E allora preferì, se mi perdoni la retorica tragica, una letteratura come morte e una vita come morte - una platonica "morta vita", o morte apportatrice di vita.
Non sono sofismi. Lo stesso Remo dichiarava, con tragica ironia, di muoversi "fra un tentativo e l'altro / suicidiario", scolpendo, intanto, con le sue pagine di critico, i tombeaux eburnei e imperituri dei poeti, amati e odiati come si odia e si ama un impossibile specchio veridico.
"Le tombeau toujours comprendra le poète", dice un grande. Il poeta forse trova il suo senso, e la sua pace, solo nella morte. Anche questo può aiutare chi sopravvive (diceva Eschilo che i morti uccidono i vivi) ad "elaborare il lutto", come si dice con clinico tecnicismo.
C'è chi non ha neppure questa consolazione, perché l'uomo comune, non baciato dal genio, la sua vita vorrebbe disperatamente viverla, non scriverla, e se rinuncia alla vita lo fa proprio perché la sente strozzata ed incompiuta; non per via della letteratura ma (altro tragico sofisma) della vita stessa. Invece anche morendo, anzi proprio con la morte e nella morte, il genio si salva dalla morte stessa, entra in quell'immortalità che rappresentava fin dall'origine il suo destino, il suo compimento, e insieme la sua “forma a priori”.
Forse è troppo facile, tragicamente facile, ricordare Remo per la sua morte, sub specie mortis; sarebbe meglio ricordarlo anche, e soprattutto, per la sua vita, per l'amore, disperato e paradossale, per la vita che affiorava da i suoi versi pur così tragicamente amari, e che, in fondo, l'atto stesso del suicidio finisce, in molti casi, per testimoniare ed esprimere, sotto la forma fosca e convulsa della reazione estrema e autodistruttiva ad un'imposibilità di vivere e gioire della vita stessa, di una vita divenuta impossibile, altra, sraniata, quasi irreale, e da ultimo inaccettabile.
Eppure, credo che difficilmente si troverebbe, in tutta la letteratura (si potrebbero citare la Woolf, la Plath, Sarah Kane - tutte donne, non a caso, alla ricerca disperata di un'impossibile identità intellettuale), un'altra figura che, come quella di Remo, abbia perseguito con la stessa assiduità, la stessa coerenza, lo stesso spirito di oblatività e di sacrificio, la stessa lucida e lacerante consapevolezza, la ricerca di un'autenticità intellettuale, di un impegno che non fosse solo ideologico o letterario, ma anche, nella stessa tragica misura, esistenziale.
Remo era conscio, anche da storico e da critico, dei rischi insiti nella letteratura come vita, che tendeva a risolversi, o ad involvere, in vita come letteratura, e dunque stilizzazione, posa, formalismo, estetismo, turris eburnea. E allora preferì, se mi perdoni la retorica tragica, una letteratura come morte e una vita come morte - una platonica "morta vita", o morte apportatrice di vita.
Non sono sofismi. Lo stesso Remo dichiarava, con tragica ironia, di muoversi "fra un tentativo e l'altro / suicidiario", scolpendo, intanto, con le sue pagine di critico, i tombeaux eburnei e imperituri dei poeti, amati e odiati come si odia e si ama un impossibile specchio veridico.
"Le tombeau toujours comprendra le poète", dice un grande. Il poeta forse trova il suo senso, e la sua pace, solo nella morte. Anche questo può aiutare chi sopravvive (diceva Eschilo che i morti uccidono i vivi) ad "elaborare il lutto", come si dice con clinico tecnicismo.
C'è chi non ha neppure questa consolazione, perché l'uomo comune, non baciato dal genio, la sua vita vorrebbe disperatamente viverla, non scriverla, e se rinuncia alla vita lo fa proprio perché la sente strozzata ed incompiuta; non per via della letteratura ma (altro tragico sofisma) della vita stessa. Invece anche morendo, anzi proprio con la morte e nella morte, il genio si salva dalla morte stessa, entra in quell'immortalità che rappresentava fin dall'origine il suo destino, il suo compimento, e insieme la sua “forma a priori”.
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UN APPUNTO SU SCIENZA E FEDE
Se la teologia non fosse (come vorrebbero i new atheists, sulla base di argomentazioni non diverse da quelle del vecchio sensismo materialistico, o di certo un po' rozzo monismo e riduzionismo materialistico ed evoluzionistico) altro che un cumulo di vaneggiamenti di fanatici, allora si dovrebbe annoverare in questa categoria anche la prova matematica dell'esistenza di Dio data da Goedel, il quale altro non faceva che articolare nei termini della logica matematica l'argomento ontologico di Sant'Anselmo; ed era, del resto, proprio Goedel, con il suo teorema dell'incompletezza, a mettere in dubbio anche l'assoluta certezza dei fondamenti della matematica (il principio di indeterminazione di Heisenberg fa lo stesso nella fisica).
Certo, la dimostrazione di Goedel è stata confutata; ma si potrebbero forse confutare anche le confutazioni. Difficile chiedere alla teologia certezze assolute ed oggettive che a volte nemmeno la matematica e la fisica (le quali hanno a che fare non con la trascendenza, ma con la realtà materiale e le entità concettuali) sono in grado di dare.
Del resto, credenti erano Keplero, Newton (basta leggere i suoi manoscritti postumi, ma già lo Scholium generale dei Principia mathematica), Galileo (che nelle Lettere copernicane si avvale di concetti teologici e dell'interpretazione allegorica, non letterale, delle Scritture, anch'essa radicata nella tradizione teologica), lo stesso Einstein (che certo non credeva nel dio trascendente, ma in quello del panteismo spinoziano, eppure diceva che "Dio non gioca a dadi con l'universo" enunciando il suo scetticismo circa la fisica quantistica, e che "sottile è il Signore, ma non malizioso", evocando, consapevolmente o meno, un concetto teologico, quello della subtilitas, dell'inafferrabilità e della latenza proprie dello spirito vitale che pervade il cosmo - dell'"etere", concetto ottocentesco tornato in auge in alcune odierne teorie cosmologiche).
D'altro canto, esiste un "argomento entropico" dell'esistenza di Dio, che si fonda su concetti della fisica (solo una forza trascendente ed inteligente può trattenere l'universo dal precipitare nel caos, nell'indistinzione della mera materia dissolta in energia con una continua dispersione); né priva di implicazioni teologiche è la condizione t=0 della "singolarità" da cui si sprigionò (o si sarebbe sprigionato) il Big Bang, la quale confermerebbe la visione agostiniana di un tempo che ha avuto origine con la creazione, preceduta dall'assoluto ed immobile nulla.
Io credo che quello dell'inconciliabilità totale fra scienza e fede sia un pregiudizio come tanti altri; basta consultare il Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede (www.disf.it) per rendersene conto. Molti scienziati si dichiarano atei solo perché danno per scontato che uno scienziato debba per forza essere tale, e non si pongono nemmeno il problema.
Nessuno di noi ha mai visto dio, certo, se non interiormente e metaforicamente. Ma neppure un fisico può avere percezione ed esperienza dirette dell'universo "finito ma illimitato", del continuum spazio-temporale - ma nemmeno, a livello dei processi microscopici, determinare nello stesso momento posizione e velocità di un elettrone, se non alterando l'oggetto stesso dell'osservazione.
Galileo, oltre che alle "sensate esperienze", ricorreva anche alle "necessarie dimostrazioni", esclusivamente mentali, non dissimili, nella forma e nella struttura, da quelle teologiche (fra i suoi maestri al Collegio Romano c'erano stati, del resto, teologi insigni, come quel Domingo de Soto che intuiva e precorreva alcuni aspetti del principio di inerzia e del calcolo infinitesimale).
Paradossalmente, quando Galileo cerca di dimostrare l'eliocentrismo con un argomento tratto dall'esperienza fenomenica, sbaglia, attribuendo la causa delle maree al moto terrestre.
Insomma la questione è complessa, e forse destinata a restare senza soluzione definitiva. Eppure, porsela è una delle più affascinanti e decisive sfide del pensiero umano.
Certo, la dimostrazione di Goedel è stata confutata; ma si potrebbero forse confutare anche le confutazioni. Difficile chiedere alla teologia certezze assolute ed oggettive che a volte nemmeno la matematica e la fisica (le quali hanno a che fare non con la trascendenza, ma con la realtà materiale e le entità concettuali) sono in grado di dare.
Del resto, credenti erano Keplero, Newton (basta leggere i suoi manoscritti postumi, ma già lo Scholium generale dei Principia mathematica), Galileo (che nelle Lettere copernicane si avvale di concetti teologici e dell'interpretazione allegorica, non letterale, delle Scritture, anch'essa radicata nella tradizione teologica), lo stesso Einstein (che certo non credeva nel dio trascendente, ma in quello del panteismo spinoziano, eppure diceva che "Dio non gioca a dadi con l'universo" enunciando il suo scetticismo circa la fisica quantistica, e che "sottile è il Signore, ma non malizioso", evocando, consapevolmente o meno, un concetto teologico, quello della subtilitas, dell'inafferrabilità e della latenza proprie dello spirito vitale che pervade il cosmo - dell'"etere", concetto ottocentesco tornato in auge in alcune odierne teorie cosmologiche).
D'altro canto, esiste un "argomento entropico" dell'esistenza di Dio, che si fonda su concetti della fisica (solo una forza trascendente ed inteligente può trattenere l'universo dal precipitare nel caos, nell'indistinzione della mera materia dissolta in energia con una continua dispersione); né priva di implicazioni teologiche è la condizione t=0 della "singolarità" da cui si sprigionò (o si sarebbe sprigionato) il Big Bang, la quale confermerebbe la visione agostiniana di un tempo che ha avuto origine con la creazione, preceduta dall'assoluto ed immobile nulla.
Io credo che quello dell'inconciliabilità totale fra scienza e fede sia un pregiudizio come tanti altri; basta consultare il Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede (www.disf.it) per rendersene conto. Molti scienziati si dichiarano atei solo perché danno per scontato che uno scienziato debba per forza essere tale, e non si pongono nemmeno il problema.
Nessuno di noi ha mai visto dio, certo, se non interiormente e metaforicamente. Ma neppure un fisico può avere percezione ed esperienza dirette dell'universo "finito ma illimitato", del continuum spazio-temporale - ma nemmeno, a livello dei processi microscopici, determinare nello stesso momento posizione e velocità di un elettrone, se non alterando l'oggetto stesso dell'osservazione.
Galileo, oltre che alle "sensate esperienze", ricorreva anche alle "necessarie dimostrazioni", esclusivamente mentali, non dissimili, nella forma e nella struttura, da quelle teologiche (fra i suoi maestri al Collegio Romano c'erano stati, del resto, teologi insigni, come quel Domingo de Soto che intuiva e precorreva alcuni aspetti del principio di inerzia e del calcolo infinitesimale).
Paradossalmente, quando Galileo cerca di dimostrare l'eliocentrismo con un argomento tratto dall'esperienza fenomenica, sbaglia, attribuendo la causa delle maree al moto terrestre.
Insomma la questione è complessa, e forse destinata a restare senza soluzione definitiva. Eppure, porsela è una delle più affascinanti e decisive sfide del pensiero umano.
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