lunedì 23 novembre 2009

PATRIZIA GAROFALO, "LA LUCE SEPOLTA DI REBORA"

"Come questa pietra / è il mio canto / che non si vede", dice Ungaretti in versi celeberrimi. E Serra, nell'"Esame di coscienza di un letterato", evoca, con timore e forse con oscura speranza, con una sorta di vago e sanguinante desiderio filiale, la terra "buona per i nostri corpi". Qualcosa di non troppo diverso - un consimile senso, quasi, di residuo inorganico, assenza di vita, regressione allo stadio impersonale e minerale proprio nel momento in cui, nel carnaio feroce della trincea, il corpo si fa più nudo e dolente, più atrocemente sentito nella sua fragile caducità - trasuda dai versi e dalle lettere di Rebora, che forse andrebbero ripensati e riletti con un più stretto riferimento al milieu vociano e al contesto storico della "Letteratura della Grande Guerra".
Il cielo, si leggeva nei Frammenti lirici, "Non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe, / Mentre la terra gli chiede il suo verbo". Umano e divino, il soldato ferito e il cristo sofferente, e insieme la terra e il cielo, il temporale e l'eterno, accavallati e intrecciati come in un arco teso, si abbracciano nell'esperienza del dolore, della fragilità, della finitudine, nello spazio in cui si muove, con il suo incompiuto anelito, la coscienza infelice, che non sa rassegnarsi a non poter essere tutto, a non poter scandagliare fino in fondo l'abisso del significato, del pathei mathos (e qui affiora forse il Rebora lettore dei Tragici), della conoscenza che è dolore e del dolore che è fonte di conoscenza. (M. V.)



LA MIA LUCE SEPOLTA
LETTERE DI GUERRA
CLEMENTE REBORA

A CURA DI MARCO DALLA TORRE



Viatico

O ferito laggiù nel valloncello
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio.
Grazie, fratello.

Clemente Rebora


Clemente rivela fin da giovanissimo una “ sensibilità intellettuale acutissima”: così Marco Dalla Torre presenta questo epistolario dal quale si evince come la tensione del percorso di Rebora si elabori e si coniughi lentamente nel suo essere dilaniato tra gli orrori della storia di inizio secolo, che investono e permeano l’animo in una devastante dolente tensione dello spirito che convergerà nella conversione.

Dalla partenza per il fronte appare evidente come il falso mito della guerra rivendicato dai “ vociani” lo veda distante ma anche vittima dell’ orrore più vasto dello sguardo pietrificante della Medusa. Indagare dentro questa tensione è stato attento compito di Dalla Torre, che si fa voce di orrori e riporta l’espressionismo semantico e la disgregazione della parola con la lucidità critica di una selezione che restituisce voce al silenzio che seguì, allora, la produzione di Rebora.

E’ desueto tentare la lettura di un critico che a sua volta riporta la voce di un grande nel suo travaglio. In realtà la mia non è la recensione di uno studio ma una forma di ringraziamento ad una lettura da reportage che Dalla Torre offre non alla sua breve lettura personale, ma, come dono, a chi si può avvicinare a Rebora senza impostazione autoferenziale.

A proprio modo ognuno può entrare nel testo, nell’epistolario poco noto e nel travaglio che lo anima tra la Medusa, più vicina al dipinto di Caravaggio che al mito greco, e un rapporto-dissidio sempre presente tra orrori di guerra e guerra dell’io.

Nella necessità di Rebora di essere parte delle sofferenze altrui, di una risorgenza comune e senza schieramenti , è sottolineata con significativi testi la progressiva disgregazione del linguaggio che esonda in urla disperate di pace. L’orrore e la deriva hanno gambe mozzate, teste dilaniate, sacrifici umani insieme alla puzza del sangue e della carne che marcisce, e reclama non solo sepoltura, ma risurrezione e trasfigurazione nella luce di Dio.



Patrizia Garofalo

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