mercoledì 3 giugno 2009

METAFORE DELL'AIDS NELLA CULTURA CONTEMPORANEA

La pubblicazione del bell'articolo riguardante il colloquio fra Patrizia Garofalo e Paolo Ruffilli mi induce a riproporre qui un mio scritto di qualche anno fa, che affrontava il problema delle rappresentazioni letterarie dell'Aids, tipiche del puntinistico e frantumato minimalismo postmoderno, ma alle quali la poesia di Ruffilli - cantabile e insieme drammatica, melodiosa e dolente, terrestre e celeste come nell'ultimo Luzi - aggiunge una nota più alta e pura, che va al di là di contingenze ed emergenze storiche e sociali destinate (si spera) a mutare, e investiga quasi metafisicamente il mistero della sofferenza e del male; mistero, mysterium tremendum oggi occultato, rimosso, marginalizzato, e dunque esso stesso confinato, si direbbe, nella "provincia dell'essere", quando non fiduciosamente e trionfalisticamente esorcizzato dalle certezze, talora arroganti, della scienza.

E colgo l'occasione, non pretestuosa, credo, né peregrina, per riprodurre, perché non si perdano nel nulla, alcuni appunti che presi a caldo, subito dopo la lettura delle Stanze del cielo, raccolta di Ruffilli edita nel 2008 da Marsilio, e quasi dimenticati, sepolti iin qualche foglio sgualcito del "libro della memoria".

E', nelle Stanze del cielo (sorta di fugato, dolorosamente melodioso, dialogo in absentia fra un carcerato e un drogato, entrambi prigionieri, l'uno delle mura, l'altro della chimica infernale in cui cerca l'oblio), davvero meraviglioso il conflitto, il discidium vitale e tragico fra la prigionia reale e l'illusoria evasione - fra la vita-morte, o morte-vita, dei segregati e la libertà, la trasgressione, l'"evasione" ingannevoli, e in realtà ugualmente vincolanti, della droga.

Eppure, c'è una sorta di duplice tensione mistica (lo sguardo levato verso le "dimore del cielo", gli ormai anch'essi aridi, sordi e desolati "templa serena" di una possibile ascesa metafisica, nella prima parte; e, nella seconda, l'autodissolvente, autodistruttiva immedesimazione, vagamente "beatnik", ma ben più consapevole, filtrata ed amara, con l'assoluto, l'essere, l'eterno, simulata dai paradisi artificiali delle droghe).

Ma è una tensione che infine sfocia e si disgrega (un po' come in quella mistica negativa, in quella sacralità del Nulla, del Vuoto, del Silenzio, che è del Buddismo come di certa teologia monastica) nel deserto dell'annientamento, nel naufragio della tenebra fonda.

E nel lettore (ma questa non è che una mia impressione del tutto soggettiva) può infine restare come il senso sospeso, limbico, di un'oscillazione quasi baudelairiana tra inferno e cielo, tra beatitudine e dannazione; e come la scia o l'eco di una tentazione, di una seduzione dell'annullamento, della nientificazione, della "morte del tempo", dell'eterno ossessivo ripetersi, che saranno comunque, paradossalmente, e forse fatalmente, purificatrici, con qualunque mezzo vengano colmate e placate; e che apriranno, forse, un insospettato sentiero verso un - direbbe Heidegger - "vivere autentico" conseguito proprio nella morte e nell'annientamento, che almeno liberano dalle catene del tempo e dalle maschere della socialità.

Sembra a volte che Ruffilli riscriva nichilisticamente (ma nel senso del Dio "nihil aeternum", o dello zanzottiano "ricchissimo nihil") Eliot - quello dei "Four Quartets", con il suo "tempo irredimibile", ma anche quello della "Rocca", che in Ruffilli diviene eterna ed immobile fortezza carceraria, più che strenuo baluardo di valori eterni.

Ci sarebbe molto altro da dire. Ma leggo in un mistico medievale che ogni conoscenza, ogni dire tendono di per sé all'infinito, e devono infine rassegnarsi alla loro limitatezza, alla loro gloriosa pochezza, al loro luminosissimo vuoto.

giugno 2009

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Le taglienti riflessioni sviluppate negli ultimi anni da Susan Sontag (da Malattia come metafora a L'Aids e le sue metafore, recentissimamente riuniti negli Oscar Mondadori sotto il titolo Malattia come metafora) hanno mostrato come i linguaggi della medicina, dei media e, in qualche caso, della stessa letteratura, adibiscano spesso la metafora a mezzo terroristico, a strumento di una specie di sortilegio che avvolge la malattia (il cancro come l'Aids) entro un alone di minaccia inesorabile, di fatale castigo, di degradante contaminazione.

A questo tipo di metafore della malattia gli scrittori possono però opporre una retorica di segno diverso, non necessariamente minacciosa e intimidatoria, che presenta la malattia non tanto o non solo come un'infermità fisica, un'alterazione organica, ma piuttosto come uno stato esistenziale, una chiave di lettura del reale, a volte addirittura come una paradossale scelta di vita, una forma di allontanamento dal mondo, una condizione sospesa ed estatica che prelude alla creazione: basti pensare a certe pagine decadenti (il Baudelaire degli scritti su Poe, il D'Annunzio del Piacere, il Mann della Montagna incantata), o al mito crepuscolare del “mal sottile”, o ancora alla malattia sveviana, intesa come “convinzione”, disagio psicologico, esasperata attitudine autoananalitica che paralizza l'azione.

Negli anni '80, l'irrompere dell'Aids ha suggerito agli scrittori un nuovo impiego della retorica della malattia.

Qualcuno ricorderà, in proposito, certi versi del Libro di poesia di Dario Bellezza, in cui l'Aids appariva personificato come un “nero angelo” che recava con sé un iniquo e paradossale castigo destinato ai “vecchi peccatori di un minuto”, e il poeta, quasi delineando una fosca profezia del proprio destino, chiedeva di essere “leccato” e “bevuto” dal morbo.

L'Aids è divenuto uno dei temi ricorrenti della narrativa d'ispirazione minimalista e pulp, che ha nella deriva e nella dispersione dei significati, nel frenetico spostamento dei centri e dei punti di riferimento, nella disgregazione delle strutture, uno dei suoi elementi essenziali; quasi che l'Aids, con le ferite e le deturpazioni che infligge alle carni, non potesse trovare una compiuta espressione letteraria se non attraverso una scrittura analogamente lacerata, dilaniata, decostruita.

Nondimeno, anche davanti alla sofferenza e all'orrore, la parola letteraria può conservare un suo spessore e una sua dignità.

Ne sono testimonianza due volumi usciti recentemente, il cui accostamento, dovuto al tema (l'Aids, appunto) è reso significativo anche e proprio dalla diversità di formazione, indole e vicende individuali che divide i due scrittori.

Il primo dei due libri in questione è Questo buio feroce (storia della mia morte) di Harold Brodkey, una sorta di allucinato diario d'infermità scritto nell'imminenza della morte ormai certa, dopo la diagnosi di malattia conclamata. In questo senso, Questo buio feroce rappresenta quasi un'estrema, cupa propaggine, tesa fino alla soglie del buio, dell'effuso discorso autobiografico già sviluppato nel romanzo fiume The runaway soul. E si ritrova qui - per quanto ormai impallidita, prossima alla definitiva disgregazione - la stessa immagine che Brodkey volle lasciare di sé in quell'opera più vasta: il ritratto di uno scrittore ribelle e maledetto, che aveva alle spalle una giovinezza segnata dall'inquietudine, dall'estraneità, dalla diversità sessuale e caratteriale, e che proprio della diversità faceva la propria bandiera, la propria maschera, il proprio difficile tramite per rapportarsi con il mondo della comunicazione.

La scrittura si snoda lungo l'esile lembo di luce che separa la vita dalla morte, la voce dalla quiete. La parola batte alle porte del silenzio, “un silenzio dolcemente indiscreto e irresistibile”, in cui l'autore intreccia con se stesso un “dialogo muto”, e che è poi anche il “silenzio di Dio”, che egli ha sempre avvertito, condizionato in questo anche dalle sue radici ebraiche.

E l'imminenza della morte segna anche la percezione del tempo, che diviene “durata reale”, tempo dell'anima, dello scavo interiore, della rievocazione autobiografica a volte impietosa, tutta giocata sul “tremolio di questo limite del tempo che ti rimane”; un tempo che a volte - segnato com'è dall'”andirivieni dei significati” - appare privo di ordine e di senso.

Ci si può chiedere che cosa resti, che cosa vada immune da questo ”andirivieni dei significati”. Ciò che permane, ciò in cui l'autore continua a nutrire un'incrollabile, quasi umanistica fiducia, è la scrittura, il linguaggio, con la sua “immediatezza ammiccante e debolmente radiosa”, il suo potere quasi narcotico. L'autore si definisce un “tossicodipendente del linguaggio”, pervaso da “un desiderio struggente delle parole degli altri, di amare gli altri per le loro parole”.

È proprio il tema della malattia e della morte ad accomunare l'opera di Brodkey a quella di uno scrittore da lui tanto diverso per indole, sensibilità e formazione, cioè Paolo Ruffilli, autore del poemetto La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids.

In questa raccolta è possibile ritrovare, anche sulla scorta della prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, lo stesso respiro metrico che animava le prove precedenti, da Piccola colazione a Diario di Normandia a Camera oscura: un inconfondibile verso breve, che raramente eccede la misura dell'ottonario, e che può svariare, volta a volta, con grande versatilità, da un andamento melodico e cantabile, che si direbbe rievochi certe serene e limpide armonie settecentesche, ad un'essenzialità lirica e ad una concisione rastremata che ricordano Ungaretti, per arrivare a volte ad un gusto postmoderno per il frammento, l'aforisma, la scrittura segmentata e nervosa (era Roland Barthes a parlare, a proposito di un precedente lavoro dell'autore, di una scrittura intesa come “spazio di morte” e “lettera della trafittura”).

Il poeta coglie il tragico paradosso di un male - “delitto atroce” di una leopardiana “natura indifferente” - che costringe i genitori a piangere i figli: “i padri seppelliscono / i figli, si prendono cura / delle loro vite perdute, / li stringono feriti / fra le braccia, li / vegliano morenti”.

Sennonché, uno dei messaggi più forti e più limpidi che emergono da libro è proprio la compenetrazione di morte e vita, la percezione (presente anche nella Montagna incantata) che la vita trae alimento dalla morte, e che l'esperienza della morte può essere iniziazione alla vita: la morte non è se non “l'altra faccia / rimasta in ombra / della vita”; “il lutto / chiama la vita, non altra morte”.

Ruffilli, che tra le altre cose ha tradotto Il Profeta di Gibran e il Tao-teh-ching, sembra avere appreso dall'uno che il segreto della morte va cercato “nel cuore della vita”, “perché la vita e la morte sono una cosa sola, così come una cosa sola sono il fiume e il mare”, dall'altro che “Essere e non-essere si generano l'un l'altro”.

Né manca, in quest'idea dell'essere vivente che muore “per essere rinato” e si consuma “per essere risorto”, un possibile richiamo alla concezione paolina del Cristo primogenitus mortuorum, dell'uomo che “muore corpo mortale” e “rinasce corpo spirituale”.

E il discorso poetico di Ruffilli si risolve infine in un'apoteosi di luce e di silenziosa armonia cosmica, che può ricordare il “miro gurge” e il “lume in forma di rivera” del Paradiso dantesco, così come certe folgoranti epifanie dei Four Quartets di Eliot. Oltre la morte, dice il poeta, “nello splendore / cosciente della luce”, “fluisce un grande / fiume di energia / che spande e che riversa / oltre le porte / l'eterno nel presente”.
H. Brodkey, Questo buio feroce. Storia della mia morte, Rizzoli.
P. Ruffilli, La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids, Marsilio.
S. Sontag, Malattia come metafora, Mondadori.

(2003)

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RETORICA DELL'IMMAGINE, LOGICA DEL DENARO E SFIDUCIA NELL'EDUCAZIONE. RIFLESSIONI SULLA SCUOLA, PARTENDO DA DE SANCTIS

Chi ancor oggi parla, con una retorica che suona a tratti quasi mazziniana o deamicisiana, di "missione educativa" non ha, perlopiù, mai messo piede in una classe.

Gli unici che a a scuola fanno qualcosa di sensato sono, forse, gli insegnanti di sostegno, che almeno cercano di aiutare un minimo, e nei limiti del possibile, alunni che ne hanno davvero bisogno, e che se creano problemi non lo fanno per colpa loro o per cattiveria (come i normali, per i quali far star male un insegnante è un divertimento, una scommessa, un innocuo motivo di chiacchiere, scherzi e risibili pettegolezzi), ma per la malattia (o la "disabilità", la"diversabilità", come si usa dire con quegli eufemismi tipici dell'"antilingua" su cui ironizzava amaramente Calvino, e che finiscono per svilire ulteriormente una realtà nel momento stesso in cui cercano di raddolcirla paternalisticamente, o di comodamente occultarla).

"Conchiusi che la rettorica, attirando l'attenzione sopra forme esteriori alle cose e appariscenti di falsa luce, indirizza la gioventú alla menzogna, e la svia da' forti studi,guasta l'intelletto e il cuore. Dissi il simile di quelle figure che hanno la loro radice nell'immaginazione e nel sentimento. 'Buttate al foco le rettoriche, - dicevo, - e anche le logiche. Ci vuole il verbum factum caro, la parola fatta cosa. Studiare le cose, questa è la vostra rettorica. Le cose tireranno con sé anche le forme, le quali solo in esse e con esse sono intelligibili. Lo studio isolato delle forme adusa l'intelletto al vacuo. Solo nello studio delle cose lo spirito esercita ed educa tutte le sue forze, e a questa educazione dee provvedere la scuola'".

Questo ai tempi del giovane De Sanctis. Noi, che Verbo possiamo trasmettere? E poi, chi lo ascolterebbe? Ed esistono ancora le cose, le "res" che i "verba" dovrebbero fedelmente e onestamente seguire e ricalcare, in quest'era digitale, virtuale, illusoria, immateriale, fatta di non-luoghi e di paradisi artificiali?

Noi sì che siamo soggiogati dalla logica e dalla retorica. Ma da una logica che non è quella di Aristotele o di Hegel, ma quella del denaro. E da una retorica che non è quella della parola e della persuasione argomentata, ma quella irriflessa, istantanea, prerazionale, precritica (e perciò onnipotente, sottratta ad ogni controllo), dell'immagine.

Né possiamo (come ripete qualcuno) insegnare ad analizzare criticamente quest'ultima, perché l'Immagine, ormai signora di ogni cosa, è sempre e comunque più veloce e più penetrante del pensiero e della parola. Ci si consola, nel privato, con il "vizio solitario" di una letteratura splendida e inutile, che non ha (né, almeno nella modernità, basata sull'autonomia dell'arte, ha forse mai avuto) alcuna funzione educativa, alcun valore formativo - ma è sempre stata, come diceva Petrarca, un "alieniloquium", un parlare d'altro, un pensare ad altro, una preziosa divagazione, una decorazione essenziale, finissima, la quale pure lasciava intravedere, agli occhi acuti di chi un tempo sapeva scorgerle, profondità nascoste, risonanze segrete ed originarie.

La poesia non serve a nulla, è assolutamente e splendidamente inutile, diceva Montale, con una sincerità travestita da snobismo, all'Accademia di Svezia, all'atto di ricevere il Nobel (Aldous Huxley, non diversamente, considerava l'etrusco, proprio perché assolutamente morto, dimenticato, in larga parte incomprensibile, l'unica lingua degna di essere studiata da un gentiluomo).

La poesia, soggiungerà Fortini, non muta nulla, non salva e non può salvare il mondo dalla violenza, dall'assurdo, dall'ingiustizia, dal male. Eppure, nonostante tutto, non si può far altro che continuare, disperatamente, con appassionato ed assurdo - e magari distaccato, rassegnato ed amaro - amore, a scrivere.

La poesia non muta nulla. "Nulla è sicuro. Ma scrivi".

Forse proprio a a partire da ciò, muovendo da questo vuoto, dal dato preliminare e sostanziale di questa nullificazione, la funzione educativa della Parola, del Verbo, può, paradossalmente, risorgere (magari, come diceva un filosofo, per educare non tanto ai "valori", quanto, più realisticamente, "alla disperazione", che bisogna guardare in faccia senza illusioni e senza autoinganni).


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venerdì 29 maggio 2009

DESUBLIMAZIONE REPRESSIVA E SIGNIFICATO DELLA CULTURA

Si è detto e ripetuto che i poeti devono scendere dal piedistallo, sporcarsi le mani, confrontarsi con la realtà, farsi capire da tutti. Il rischio di queste posizioni è quello di cadere in una sorta di neoromantica "retorica dell'antiretorica".

Io credo che, proprio in quest'epoca che liquida l'"alta cultura", che riduce tutto ad oggetto, che sancisce lo strapotere della merce, dell'immagine, dell'effimero, la poesia - comunque destinata, per la sua stessa immateriale e fragile natura, alla solitudine, all'isolamento, all'ombra, esclusa dalla "visibilità"e dalla "promozione" - debba paradossalmente accentuare il suo già consustanziale carattere elitario, la sua già necessaria e ardua densità culturale.

E' l'unico modo per non essere essa stessa travolta ed omologata nella montante marea di sontuoso e sgargiante nulla - per non essere arruolata, diceva un filosofo, nella grande fabbrica del vuoto.

Come notava Marcuse, la "liquidazione dell'alta cultura", la "desublimazione repressiva", la profanazione e la dissacrazione di un patrimonio culturale millenario finiscono per fare il gioco della mercificazione, dell'omologazione, della neutralizzazione ideologica ed intellettuale perseguite dal capitalismo.

Certa cultura di sinistra (penso ai "travestimenti", a volte ingegnosi, altre puramente, e un po' superficialmente, giocosi, a cui Sanguineti sottopone i classici) sembra non essersene resa conto.

Un tempo, la dittatura borghese si serviva del sublime e della retorica. Oggi si serve, al contrario, della volgarità, della banalità, della spazzatura. Proprio per questo noi dobbiamo a maggior ragione tutelare e perpetuare, come diceva Pasolini compiangendo la "generazione sfortunata" dei giovani senza storia, senza passato, senza coscienza, prede inerti e cieche delle mode effimere (dei "trend", si direbbe oggi), la "poesia della tradizione".

Chi non si sente ignorante leggendo un grande poeta? Anzi, quest'ultimo esercita anche la salutare funzione di esortarlo allo studio, alla ricerca, alla riflessione.

O voi che avete gli intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto il velame de liversi strani.

Ecco, da Virgilio a Dante a Mallarmé, l'essenza del poetico. La quale giace "sub tegmine", e deve essere faticosamente e pazientemente scavata e (in modo sempre parziale) rivelata. Il poeta scende nell'abisso del pensiero e del linguaggio, "e risale alla luce coi suoi canti".

Si fa spesso il nome di Rimbaud, indicandolo come poeta spontaneo, diretto, se non selvaggio e barbaro. Eppure, Rimbaud iniziò a poetare in latino. In latino, lingua madre per eccellenza, la Musa gli disse (come a tanti prima di lui e a tanti dopo di lui, in modo più o meno veritiero): "Tu Vates eris". Senza questo sostrato archetipico, questa memoria remota e pura, non si capirebbero certi suoi testi. Cosa può dire "Testa di Fauno" a chi non abbia insé un'anima antica? "Il battello ebbro" non è forse il viaggio di un''immaginazione nutrita di letture, cultura, memorie?

Non possiamo far altro che avviarci anche noi, con umiltà e pazienza, lungo questo cammino.


Herbert Marcuse, Eros e civiltà:

http://www.webster.it/libri-eros_civilta_marcuse_herbert_einaudi-9788806159009.htm?a=328366


Arthur Rimbaud, Opere:

http://www.webster.it/libri-opere_rimbaud_arthur_einaudi-9788806188498.htm?a=328366

http://www.webster.it/libri-opere_testo_francese_fronte_rimbaud-9788804560234.htm?a=328366

venerdì 15 maggio 2009

MORTE, SCRITTURA, MENZOGNA. SGUARDI SUL ROMANZO CONTEMPORANEO

Non è ovviamente pensabile poter riassumere, in queste poche pagine, tutti i molteplici, pressoché inesauribili caratteri e risvolti del romanzo contemporaneo: un discorso, quello del (e di conseguenza sul) romanzo, eminentemente contraddistinto dalla “polifonia” (cioè dal carattere composito, sfaccettato, multiforme, per più aspetti contraddittorio, che ad esso riconosceva Michail Bachtin nel suo ormai celebre Estetica e romanzo), dall'intreccio cangiante ed inestricabile dei cronòtopi (cioè delle situazioni, degli ambienti, delle atmosfere, delle unità spazio-temporali che lo compongono e in esso si intersecano), da un assiduo mutare dei punti di vista, delle angolazioni, dei piani narrativi e rappresentativi, e, infine, sovrastato e compiuto dall'artificio di cui parlava Sklovskij, vale a dire dallo straniamento (corrispettivo, con buona approssimazione, del Perturbante di cui parla la Psicanalisi), dallo sguardo “altro”, difforme, desueto, spiazzante, che il grande narratore, non asservito (come oggi perlopiù accade) alle banali, quasi meccaniche aspettative del pubblico e del mercato, riesce ad imporre alla materia trattata, alle ambientazioni, alle vicende, inducendo il lettore a modificare, o a mettere in discussione, la sua usuale e condivisa ottica sul mondo e sulla vita.

Ben prima del formalismo russo, del resto, già il nostro Pietro Borsieri, nelle Avventure letterarie di un giorno (un testo importante nella polemica fra romantici e classicisti che animò gli ambienti letterari italiani ai primi dell'Ottocento), definiva il romanzo come un genere «anfibio», ambivalente, diviso fra storia ed evasione, realismo ed immaginazione, ed impossibile da inserire nei canoni e nelle classificazioni di genere propri della classicità.

La «prosa della vita reale», specchio di una realtà già di per sé «ordinata a prosa», l'«epopea borghese» che Hegel, nell'Estetica, vedeva incarnate nel romanzo non si traducevano affatto, come avrebbero voluto certe restrittive letture ideologizzanti, in una stretta, predeterminata, quasi meccanica (o biologica) aderenza del discorso alle strutture storiche, sociali, economiche, ma lasciavano un largo margine alla capacità inventiva, analogica e trasfigurante dello sguardo letterario.

Eppure – quasi a ribadire, per una singolare ironia, per un curioso paradosso della storia e del pensiero, il carattere multiforme, caleidoscopico e, di conseguenza, inafferrabile del genere romanzesco – erano proprio alcune voci del mondo classico a definire per la prima volta, con sorprendente chiaroveggenza, taluni tratti essenziali e caratterizzanti del genere: da Apuleio, che nel proemio dell'Asino d'oro sottolineava di avere intrecciato, per il puro diletto del lettore (diletto, peraltro, dietro cui si celava, da esso veicolato, il messaggio profondissimo ed enigmatico di un percorso di iniziazione e di purificazione sotto il segno di Iside), «multas fabulas», avvalendosi di un «desultorium genus dicendi», di uno stile variegato, dinamico, mobile, proteiforme, divagante, polifonico appunto, a Luciano di Samosata, che nelle pagine introduttive della Storia vera rivendicava già (come avrebbe poi fatto, nel Cinquecento, Giraldi Cinzio nel Discorso dei romanzi) all'espressione letteraria la facoltà e il diritto di raccontare pseusmata poikila, «variopinte fole», pur se pithanos ed enalethos, in modo «persuasivo» e «non lontano dalla verità», e dunque di muoversi e vivere all'interno di una sorta di analogon rationis, come l'avrebbe chiamato il Baumgarten agli albori dell'estetica moderna, di una verità altra e difforme da quella ordinaria – in una specie, insomma, di mondo alternativo, virtuale, sospeso ed oscillante nei limbi dell'immaginazione e della fantasia, e nondimeno governato da una sua coerenza interna, da una sua peculiare ed autoreferenziale verosimiglianza, avallato e sorretto da leggi sue proprie, in certo modo omologhe o speculari, eppure non identiche, a quelle che governano la natura, la società e la storia.

Un'idea, questa della creazione artistica come opus superadditum operi, come mondo aggiunto al mondo, come creazione aggiunta alla Creazione, come "altra realtà" governata da sue leggi delle quali le parole retoricamente studiate ed elaborate sono i segni e le formule, che si ritroverà in varie estetiche moderne, dal manierismo fino al simbolismo e alla décadence.

Dichiarando di stare mentendo (anzi, letteralmente, dicendo la verità proprio nel momento in cui mente, in cui intreccia le sue variopinte fabulae), la figura del romanziere antico inaugura quella contaminazione, quella multiprospettica e spiazzante intersezione di verità e menzogna (menzogna in senso fenomenico e fattuale, più profonda e celata “verità” sul piano intellettuale, espressivo, in qualche caso morale) che rappresenterà uno degli aspetti fondamentali della modernità letteraria, dallo Svevo della Coscienza di Zeno (la cui inattendibile voce narrante rivela, aprendo così un labirintico ed inestricabile gioco di illusioni e di riverberi, di aver mescolato verità e bugie senza che l'una sia facilmente distinguibile dalle altre) al Manganelli della Letteratura come menzogna, che inviterà a ripensare, in termini di finzione letteraria, la concezione nietzscheana della verità comunemente accettata e condivisa come illusione di cui si è dimenticata l'illusorietà e, per contro, della menzogna artistica (o della dialettica provocazione filosofica) come potenziale, e paradossale, strumento di una verità purificata, rifondata, autonomamente ripensata e rivissuta – ricostruita, su altre basi, dalle proprie rovine.

Anche Achille Tazio, nell'incipit di Leucippe e Clitofonte, accostava la sua narrazione al raffinatissimo dipinto sidonio da cui essa aveva tratto spunto: dipinto in cui l'arte figurativa rivaleggiava con la natura e, implicitamente, con l'artificio della creazione letteraria, capace di stilizzare, di sublimare (o viceversa di mistificare, di confondere, di scomporre e ricomporre) la realtà della storia e dell'uomo (donde, pur se in una diversa luce, la sottile analogia, esplicita od implicita, fra romanzo e tableau che si ritroverà nel realismo ottocentesco, fra romanticismo e naturalismo, da Manzoni a Dickens, da Hugo a Balzac, fino all'écriture artiste – al crocevia fra naturalismo e simbolismo – di Huysmans e dei fratelli Goncourt).

Sul romanzo (e sulla vocazione “realistica”, in senso lato e con tutte le ambiguità che il termine porta con sé, ad esso consustanziata) pesa dunque, fin dall'origine, l'insidiosa dicotomia ontologica che Platone, e poi Wittgenstein, ravvisavano nella condizione dell'immagine, dell'eikon, che è e, nello stesso tempo, letteralmente, non è la cosa che rappresenta – che, anche al suo massimo grado di concretezza, verosimiglianza, addirittura brutalità e crudezza, comunque evoca, addita, accenna la cosa, l'evento, la circostanza esistenziale, senza però poter mai, letteralmente ed effettivamente, costituirne ed offrirne un'equivalenza piena.

Si può risalire ancora a ritroso, fino agli archetipi più remoti dell'esperienza romanzesca: ad esempio all'egizia Storia di Sinuhe, le cui peregrinazioni “di terra in terra”, volte, come poi nel romanzo ellenistico, alla purificazione, all'iniziazione, ad un cammino di autocoscienza e di riconciliazione, sono governate dal volere di un “Signore di percezione che percepisce gli uomini”, e il cui sguardo benevolo e provvido si identifica, infine, con l'occhio sovrano di quello che è forse il primo narratore onnisciente della letteratura universale; o al giapponese Diario di Murasaki Shibiku (in cui un lettore versatile, colto ed acuto come Montale additava addirittura un'anticipazione della moderna introspezione psicologica), narrazione incredibilmente sottile, lirica e sfumata delle peregrinazioni sentimentali del principe Genji, sempre segretamente e profondamente fedele, pur nei suoi cedimenti e nei suoi tradimenti (a danno degli altri come di se stesso), ad una imago materna ormai dispersa, svanita dal mondo, irrecuperabile nell'orizzonte dell'esistenza terrena, ricostituibile soltanto nello specchio impalpabile dell'affabulazione.

Iniziazione, autocoscienza (come quella del giovane Moreau nell'Éducation sentimentale di Flaubert), ricerca ed autenticità, smarrimento e tensione, più o meno coronata dal compimento, all'identità e all'origine (si pensi alle Vie dei Canti cui è dedicato il capolavoro di Bruce Chatwin, e più generale alla ricerca, problematica, multicentrica, spesso spaesata, delle radici culturali e dell'autenticità esistenziale ed affettiva nella letteratura postcoloniale): questi, forse, gli archetipi essenziali e più remoti, direi antropologici (si può rinviare qui anche al Calvino di Cibernetica e fantasmi, che riconduce l'origine della narrazione ad una natura e ad una funzione, in certa misura ancor vive nell'età tecnologica, di memoria collettiva, di enciclopedia tribale, di verbale esorcismo a difesa dai terrori più radicati ed oscuri), del narrare, che incontriamo già nei più antichi esempi di romanzo e che riaffiorano a più riprese (pur nelle molteplici, spesso drastiche e traumatiche, metamorfosi formali, rappresentative e antropologiche susseguitesi nel corso dei secoli, e soprattutto nel Novecento) fino all'età contemporanea.

Il “tempo vissuto” (potremmo dire con Ricoeur e con Minkowski) si struttura come narrazione, come fluire temporale sempre in diretto rapporto tanto con la sua origine, con la sua scaturigine prima, e ormai offuscata e perduta, quanto (essendo, come insegnano Platone e il platonismo, “immagine mobile dell'eternità”) con una sfera superiore, con una fantasmagorica proiezione figurale che lo trascende e in cui nondimeno, forse, si svela, per chi sappia scrutarlo, il significato più autentico di ogni apparentemente gratuito ed assurdo accadere.

A ben vedere, anche negli autori (penso ad esempio al Vassalli della Chimera, o, in un'ottica stilisticamente e formalmente antitetica, e ben più tesa e complessa, agli artefici dell'antiromanzo e dell'“irromanzo” novecenteschi, da Beckett a Sanguineti) più antiplatonici, remoti ed avulsi da ogni metafisica, chiusi ad ogni superiore e più puro orizzonte di senso, questa iniziatica ricerca di un significato ultimo e profondo è in qualche modo avvertibile, pur se magari destinata ad approdare alla constatazione di un assoluto nulla, di una apocalittica mancanza di fondamento - o viceversa a prendere le mosse da quella stessa constatazione.

Da Musil a certo giovane Hesse, dal Moravia del Conformista, della Noia, dell'Amore coniugale (sorta, quest'ultimo romanzo breve, di sottilmente ironica e demistificante riscrittura, in chiave di esistenzialismo borghese, di certi motivi del Poe più algido e lunare) al La Capria di Ferito a morte, lo schema fondamentale del racconto di ricerca, di iniziazione, di formazione, di metamorfosi sembra convertirsi o risolversi in un viaggio e in un cammino che approdano alla rivelazione dell'assurdo, dell'abisso, dell'incomunicabile, infine dell'insignificanza, o perlomeno dell'irriducibile, vagamente sinistra ambiguità, insite in ogni segno e in ogni messaggio.

Pur se in modi diversi, La Capria e Moravia esperiscono la tensione dialettica che oppone la Storia alla Natura, la temporalità sociale e culturale al perenne, immutabile fondo di pulsioni originarie e remote, al groviglio indistricabile ed oscuro di Eros e Thanatos, istinto di vitalità e di piacere e gorgo vorace, mostruoso maesltrom che, a malapena mascherato e schermato di amara, mondanamente superiore e distante, ironia, o di convenzione sociale a prima vista condivisa, stabile, rassicurante, trascina invece ogni cosa verso il nero vuoto senza fondo: la Natura, si legge in Ferito a morte di La Capria, vince la Storia, eppure «solo la Storia ha senso», sebbene l'uomo ne sia sempre distolto dal richiamo suadente delle Sirene, da quel « richiamo insensato», quale già appariva al Kakfa dei Frammenti, che attraversa «il silenzio del mattino, come uno spiro di vento» che subito dilegua e svanisce.

Nella Morte di Virgilio di Hermann Broch, si fanno evidenti lo sfociare, lo sfumare e il dissolversi del filo narrativo nelle vaste plaghe del nulla, del vuoto, del silenzio, della trascendenza indicibile in cui si annida e si cela il senso tragico (o forse la tragica assenza di senso) di una storia segnata dalle iniquità e dal sangue, e di una vicenda intellettuale e letteraria marchiata (come in Sartre) dal rischio o dal sospetto, sempre incombenti, dell'inautenticità.

Ogni esperienza vissuta ai margini, da «ospite della vita», da spettatore, per quanto affascinato o pietoso, dell'umana esistenza – ogni incontro, ogni parvenza, ogni esteriore ed occasionale fonte d'ispirazione inghiottita e dissolta dalla sapiente finzione, dalla «bella menzogna», della letteratura – altro non erano stati, per il Virgilio di Broch, «se non un accadimento, che pari ad un vaso delle sfere celesti, stesse per accoglierlo in sé ed immetterlo nell'infinito». Tanto la nascita, da cui l'homo viator trae origine, quanto la rinascita a cui (come l'iniziando di un rito orfico) anela, non potrebbero darsi «se dietro a loro non vi fosse, eterno e immutabile, ultima genesi, il nulla»; e «la grande luce dell'atemporalità» sgorga proprio dalla «silenziosa, divinante unione di essere e non essere». «Solo colui che cerca l'occhio della morte, potrà guardare nel nulla senza che il proprio occhio si spenga. [...] E colui che si immerge nel ricordo può ascoltare il suono di quell'istante in cui l'elemento terrestre deve aprirsi all'infinito e all'ignoto, dischiuso alla rinascita e alla risurrezione di un ricordo senza fine».

L'eternità, infine, è il nulla, il nihil aeternum dei mistici. Dell'essere, dirà Heidegger, ne è nulla. La parola narrativa della modernità più alta e consapevole è o finisce per essere, anche quando si assume intenti di realismo o di impegno, spia di una rivelazione negativa, spiraglio aperto sulla luce ferma e desertica del nulla: basti pensare a Petrolio di Pasolini, con la sua tragica, emblematica, oscuramente profetica incompiutezza, con il suo lucido e debordante delirio interpretativo affondato nelle falsità, nelle speculazioni e nelle reificazioni del mondo industriale, o al Tondelli di Un week-end postmoderno, con la sua frenetica e frammentante eversione dei confini fra romanzo e saggio, con la sua desolata e lucida diagnosi del declino e del degrado di una società e di un sistema, quelli borghesi e capitalistici, con i loro loro speciosi ed alienati equilibri.
Ciò che per Broch è il supremo, ultimo e primo, Essere-Nulla – il gorgo indistinguibile, apocalittico di origine e fine, alfa ed omega, alba ed annullamento – è invece, per Proust, il “Tempo ritrovato”, resuscitato e rinnovato dal ricordo, dalla memoria involontaria, dall'intermittenza delle reminiscenze e delle illuminazioni che (quasi platonica anàmnesis) sembrano, forse solo illusoriamente, ricondurre il fluire del tempo alla sua matrice originaria e pura – così come, in poesia, Valéry riporta il dire poetico «aux sources du poème».

Per il Joyce di Dedalus, questo Essere potrà invece annidarsi nell'istante rivelatore della epiphany, della radiance, nella subitanea rivelazione (quasi un montaliano, salvifico “fantasma”) della tomistica claritas, dell'armonia delle parti che è celata sotto la caotica casualità dell'accadere, e nella quale risiede il segreto, insieme razionale e mistico, della bellezza e della conoscenza.

Un'armonia che, nella babele spazio-temporale e linguistica dell'Ulisse, e più ancora di Finnegans Wake, andrà perduta ed infranta in un caleidoscopio di rutilanti ed irrelati frammenti: e il romanzo diverrà, allora, progressivamente, meandertale, primitivo-primigenio racconto-labirinto, convulsa e nevrotica espressione verbale dell'Essere-per-la-morte, della circolarità apocalittica di vita e morte – della morte «that bitches birth that entails the ensuance of existentiality». Anzi ogni discorso, ogni racconto possibile non saranno che «a rude breathing on the void of to be, a venter hearing his own bauchspeech in backwords» – parola vuota che riecheggia e ripete se stessa, facendo sordamente tintinnare, nel proprio inane vuoto sonoro, nelle proprie celate abissali cavità, la vacuità stessa di un'esistenza precaria e friabile, già inesorabilmente votata all'annullamento e alla dissoluzione.

Pur se in un contesto stilistico diametralmente opposto (un tedesco lucidissimo, tagliente, essenziale, che sembra, come suggeriva Deleuze, avere ereditato dall'yiddish la concisione sapienziale, gnomica, sentenziosa ed allusiva, e dallo spirito ebraico l'ironia amara, desolata, tragica, senza rancore e senza sorriso), Kafka vorrà forse additare – con il suo castello inaccessibile, le sue norme imperscrutabili, assurde, arbitrarie, la sua “porta della Legge” destinata a restare chiusa per sempre, pur essendo occultamente, e vanamente, destinata ad aprirsi proprio e soltanto per colui che desiderava, e non osava, avvicinarvisi – precisamente questo Senso ultimo, velato, eclissato, forse in realtà inconsistente.

Per Broch, l'approdo ultimo, il limite estremo coincidono – come per Mallarmé e come per Wittgenstein con la sua concettualizzazione del “Mistico” – nell'«inespresso, là dove il linguaggio [...] spalanca il terribile, improvviso abisso fra le parole, per indicare in questa muta profondità [...] la totalità dell'universo, la fluente contemporaneità in cui riposa l'eterno».

Questa bergosniana «fluente contemporaneità» in cui l'eterno si dispiega e, insieme, si raccoglie e si condensa nel suo immoto divenire, è la stessa in cui si muovono, nel loro discorso ugualmente fluido, cangiante, soffusamente melodioso e insieme concentrato, denso, essenziale, tanto l'Eliot dei Four quartets quanto il Proust del Temps retrouvé, che, per poter cogliere appieno e fermare sulla pagina la purezza e l'intangibilità dell'istante passato – che è in qualche modo archetipo, figura, modello ideale e più puro, di ogni istante, di ogni esperienza, di ogni pensiero presenti e futuri –, per poter perlustrare e riflettere nella scrittura le sterminate e flessuose distese spazio-temporali della soggettività, dell'homo interior, della quantitas animae, deve, come Agostino (le cui Confessiones sono, del resto, accanto alla Vita nuova di Dante, anch'essa segnata dalla rivelazione folgorante e cupa della mortalità della donna amata, e all'Elegia di Madonna Fiammetta di Boccaccio, sorprendentemente percorsa dalla dolce insidia della disperazione e dal pensiero del suicidio, fra gli antecedenti più nitidi del moderno romanzo autobiografico), «ridiscendere in se stesso», «discendere più profondamente in sé», rinvenendo le larve, i lemuri, le tracce esili ed esangui (i cliché astrali, come li chiamava l'antroposofia cara a Pirandello), di luoghi, volti, amori, momenti che il tempo e la morte (insidiatasi nel cuore «come fa un amore») hanno ormai redento, purificato, disincarnato, quasi mutato in puri, platonici schemata ideali, non vivi ormai che nel cielo rarefatto della mente.

Come l'iniziato ai misteri orfici o delfici, così il discepolo cresciuto all'ambigua e cangiante sapienza (quasi alchemica e nietzscheana “gaia scienza”) infusa dal romanzo moderno finisce per conoscere e conoscersi, per trovare (o ritrovare) se stesso, o almeno andarne in cerca, nel tempo, nel passato, nella memoria, e nelle intricate e fragili trame verbali delle loro narrazioni (non è forse troppo difficile trovare le tracce di un simile percorso iniziatico anche nelle grandi epiche romanzesche, nelle maestose architetture simboliche ed esoteriche, di Tolkien o di Lewis, come pure di Melville o del nostro D'Arrigo).

In Italia sono state forse le narratrici (accanto al Gadda della Cognizione del dolore) a vivere ed esprimere il tempo interiorizzato, assoluto e insieme nichilistico, purissimo e nondimeno sempre punteggiato e contaminato dai molteplici e variegati accidenti delle vicende individuali: ho in mente la Manzini di Tempo innamorato, che proietta e distende nel flusso della coscienza, del vissuto e della narrazione il “tempo assoluto” degli ermetici, o (con il suo sguardo ancora più vasto, la sua coscienza storica e ideologica ancora più duttile e prensile) la Morante della Storia, vasto affresco epocale la cui eroina vede, con gli occhi del ricordo, «tutto il passato [...] come un punto d'arrivo, tuttora confuso da un'immensa lontananza» – per poi abbracciare con lo sguardo, nel lirismo allucinato della visione onirica, «una sorta di specchio concavo senza luce, che rimanda alla visione dello stesso oceano, caotica e indistinta, come una memoria sul punto di scancellarsi», quasi a simboleggiare una mondana kenosis, un mallarmeano o montaliano annullamento e svuotamento della storicità, dell'esistenza e del pensiero.

In Menzogna e sortilegio, all'io rimemorante e narrante sperduto «nella camera taciturna e spopolata», avvolto dalla gelida e chiaroveggente «luce penetrante e fredda» della morte, della perdita, dell'assenza, non resta «nessun rimedio fuori che il triste sonno». Scrittrici, a ben vedere, la Morante e la Manzini, che, pur così diverse, per tanti aspetti stilistici e ideologici, l'una dall'altra, l'Italia può entrambe accostare, con qualche cautela, all'arte dell'analogia, dell'evocazione, della memoria, dello scandaglio psicologico ed esistenziale, della riflessione storica ed identitaria, sperimentata (certo con maggiore audacia e più radicale spirito d'innovazione sul piano dello stile, della forma e delle tecniche narrative) da una Woolf o da una Stein.

Ad ogni modo, neppure la nietzscheana “leggerezza”, la grazia lieve e tenue, l'apparente facilità e “sprezzatura”, il sapiente e disinvolto “salto mortale”, di certa narrativa contemporanea, da Nabokov a Kundera, da Calvino a La Capria, riescono del tutto ad esorcizzare, a medicare o a rimuovere il senso del vuoto, del nulla, della tragicità dell'esistere («Et in Arcadia ego», sembra costantemente bisbigliare lo spettro della morte e dell'insensatezza); semmai, la leggerezza è la forma che può assumere, nel discorso narrativo, il nietzsheano amor fati, lo zarathustriano sacro dire sì alla vita, il fermo, risoluto, ma forse celatamente, sordamente disperato, proposito di aderire, in ogni pensiero, in ogni scelta, in ogni gesto esistenziale, al ritmo che, come diceva un antico poeta, domina gli eventi, e che forse solo oltre la vita e oltre il tempo, scioltasi infine la catena aurea o ferrigna dell'eterno ritorno, rivelerà le sue leggi e il suo significato, per ora celati allo sguardo da un'alta coltre di bruma.

Si tratta, a ben vedere, della stessa leggerezza, della stessa signorile e sapiente noncuranza con cui Giuseppe Pontiggia poteva lasciar scivolare, a proposito di Lucano e della sua poesia ardente, truce, ferale, il nome di Heidegger, per poi cospargere la sua prosa narrativa classicamente composta, e insieme concisa ed energica (dalla Morte in banca al Giocatore invisibile alle Vite di uomini non illustri), degli oscuri e balenanti presagi, delle maschere trascorrenti e sogghignanti di una morte sempre illusoriamente procrastinata, ma inevitabile, ed incombente su ogni momento e ogni gesto della vita: mundus ipse senescit, lo sanno bene i professori amari e disincantati del Giocatore invisibile; poco sopravvive allo jaspersiano “naufragio” del tempo e della storia; l'acqua dell'inganno e dell'ipocrisia, dalle quali forse non va immune la stessa parola letteraria, è quella su cui l'intera vita veleggia ed oscilla, per venirne infine inghiottita e, forse, finalmente redenta e purificata, senza possibilità di ulteriori contaminazioni.

L'uomo, dice il Manganelli di Hilarotragoedia, è mosso da una inesorabile volontà discenditiva, percorre un già segnato cammino «infernico, supernamente infimo», che, come nella semiotica dello spazio rimbaudiana e simbolista, interseca e confonde, rovesciandoli l'uno nell'altro, l'alto e il basso, il cielo e l'abisso. L'angoscia, come la noia di Moravia (ma con ben altra tensione e ricerca stilistica), «si inconsanguinea alle cose» – le invade e le impregna, diceva Heidegger, come una nebbia nera. Così l'Orca di D'Arrigo solca imperturbabile, mossa essa stessa dal destino che incarna e reca ad effetto, «abissi di silenzio», avvolta «dalla tenebrosità come di roccia della sua sorte che sarebbe a dire dalla fatalità di essere e fare la Morte».

In un clima non lontanissimo si muove la historiographic metaficion che Linda Hutcheon (in un contesto di pensiero che ha riscoperto, a partire da Hayden White e dal Clifford di Writing culture, i nessi fra storiografia e narrazione, ricostruzione e rilettura dei documenti-monumenti ed elaborazione letteraria: nessi peraltro già intuiti, ancora una volta, dal Luciano di Come si deve scrivere la storia, geniale profeta della condizione astorica o antistorica del letterato apolis e xenos en tois bibliois, «senza patria» e ovunque «straniero fra i libri») ha additato come uno degli orientamenti fondamentali delle narrazioni postmoderne (segnate, paradossalmente, nonostante la vocazione epica che sembra a volte caratterizzarle, proprio dalla “fine delle grandi narrazioni”, almeno intese nella tradizionale, e ormai forse un po' angusta, accezione ideologica e metodologica).

Si staglia – o almeno si intuisce e si intravede, al di là del piano meramente evenemenziale, oltre o al di sopra degli eventi che si presumerebbero certi, tangibili, già dati – il grado più alto, più universale e vasto, ma nello stesso tempo più fluttuante, precario ed opinabile, dei fatti, che si risolvono o si disseminano in derive e anasemie verbali e semantiche, in elaborazione stilistica, espressione, discorso, scrittura. Il verum ipsum factum di Vico (egli stesso, per Bloom e la decostruzione, prima di tutto poeta, geniale ed immaginoso creatore di incarnazioni mitiche) sembra così risolversi in fatto letterario, in simulacro verbale, in affabulazione (nel senso più alto e veritiero) retorica e simbolica.

Come si ricorderà, Il Nome della rosa – esempio per eccellenza di controversa e sottilmente autoironica metanarrazione postmoderna, scritto dopo la fine delle ideologie, «per puro amor di scrittura» – si conclude nel segno di Meister Eckhart e del suo Dio come nulla eterno e come quiete deserta, pur continuando a palesare, a tratti, un'ostinata fiducia in una post-strutturalistica ed ermeneutica razionalità, peraltro (come nella fenomenologia di Paci, di Banfi, di Anceschi) aperta, duttile, pronta ad aderire alle diverse ed imprevedibili sollecitazioni dell'esperienza e del pensiero.

Si potrebbe chiosare l'approdo ultimo della narrazione nel Nome della rosa con ciò che Umberto Eco osservava introducendo, nel 1980, la riedizione della Struttura assente. Le stratificazioni dei metalinguaggi (dei linguaggi che spiegano e chiarificano un altro linguaggio), le forme e le strutture che dovrebbero illuminare e descrivere altre strutture e altre forme, finiscono, come in un gioco barocco di trompe l’oeil, in una manieristica prospettiva d' inganno, in una incessante ed illusoria sequenza di proiezioni, per approdare ad un fondo di silenzio, di ineffabilità, di inconoscibilità – e forse proprio su quel fondo oscuro ed insondabile giace l'Ur-Sprache dei romantici, la lingua madre, la matrice prima di ogni segno, di ogni codice, di ogni espressione.

E l'abisso di invisibilità, il solco di silenzio annidati nel cuore del linguaggio sono dimora della differenza, della béance, del vuoto, della presenza-assenza propri del segno – e in particolare del segno linguistico, lacerato, diceva Platone, dalla ferita, dallo stacco, dal korismos fra realtà e linguaggio, fra il mondo e la sua pronuncia, la sua orma impressa sulla grana friabile della voce, e più ancora della scrittura.

Il discorso del romanzo contemporaneo non può – implicitamente od esplicitamente, in modo più o meno consapevole – che snodarsi e vagare in questo deserto ontologico, conoscitivo e semantico. E la scrittura, cosa fra le cose, ente fra gli enti, confitta nel piano discontinuo, franto ed incomunicabile, dell'esistenza e dell'esser-ci, non può – dovrà riconoscere Sartre alla fine della Nausée – richiamare in vita il passato, redimere il tempo, eternare l'istante vissuto, nella stessa misura in cui «un esistente non può mai giustificare un altro esistente» – eppure è, con un mortuario paradosso, soltanto nel passato che l'uomo può riconoscersi, ripensarsi, «accettare se stesso».

Una sfumatura, un valore ontologici, e nel contempo potenzialmente nichilistici, questi, che affiorano addirittura dalle pagine del nouveau roman e dell'école du regard, pur nel loro volersi oggettive, fredde, esteriori, di una freddezza e di un distacco quasi fotografici o cinematografici. Penso, ad esempio, a L’Amour di Marguerite Duras, dove il simbolo quasi montaliano del mare viene a rappresentare il Nulla, una temporalità e un'esistenza nullificate nella loro ossessiva ed inesorabile ricorsività, oppressivamente immobili pur nel loro fluire, nel loro espandersi e contrarsi (e qui, come insegnano tanto il Sartre lettore di Faulkner – il quale gli sembra «capti, nel cuore stesso delle cose, una velocità congelata» –, quanto il Robbe-Grillet della Jalousie, la temporalità del romanzo potrà essere stata influenzata dalla teoria della relatività e dalla fisica quantistica, nel loro postulare un invalicabile limite proteso fino alle soglie dell'infinito, e rispetto al quale ogni differenza, ogni passaggio ed ogni scarto temporale risultano infinitesimalmente accentuati, e nel contempo quasi azzerati, o ridotti a pura, sconfinata potenzialità).

In Cent’anni di solitudine di Márquez (venendo al variegato, inesauribile panorama della cosiddetta letteratura post-coloniale, uno dei fenomeni più significativi della letteratura degli ultimi decenni) la scrittura profetica e mitopoietica, il mallarmeano e borgesiano Libro in cui sono scritte, o meglio si scrivono via via, le sorti del mondo, finiscono – come le intorte e labirintiche rovine circolari di un racconto di Borges, o come la mise en abyme del Gide dei Faux-Monnayeurs – per crollare ed implodere su se stesse, per divenire fomite del loro stesso annientamento, sorgente ed alimento del loro stesso autodistruttivo rogo.

Ed è significativo che tanto Insciallah della Fallaci, quanto i geniali ed apocalittici deliri del Pynchon di Arcobaleno di gravità e del De Lillo di Rumore bianco siano pervasi, in diverso modo, dalla nozione e dallo spirito dell'entropia, del disordine, della disarmonia prestabilita, immersi in una heisenberghiana atmosfera di indeterminazione, fluttuazione, impermanenza (alla morte, dice emblematicamente la Fallaci, risponde la morte, «decombinazione estrema dei possibili» secondo il Gadda del Pasticciaccio, al disordine altro disordine, in una dolente e stridente catena che non sembra poter avere mai fine).

La letteratura post-coloniale, divisa fra il “realismo magico”, che sembra costituirne il tratto saliente, da un lato, e il risentito impegno civile e ideologico dall'altro, anche quando privilegia quest'ultima linea (basti pensare al Soyinka di The Interpreters e di The man is dead) sembra ritrarre e trasmettere, infine, un medesimo scenario di morte e di dissoluzione. L'uomo muore quando viene costretto al silenzio da un potere feroce che assume la maschera della legge, ma anche quando non ha il coraggio di far sentire la propria voce e reclamare al propria dignità.

Eppure, diceva Vittorini, proprio allora, proprio quando sembra abbassato al rango di non-uomo, lacerato e vilipeso dall'esperienza dell'inquità e del dolore immeritato – proprio allora l'uomo è più uomo, animato dalla speranza ostinata ed estrema di un riscatto e di una redenzione. Il nichilismo, insegna Sartre, può convertirsi, paradossalmente, in nuovo umanesimo. Allora anche l'ontologia del nulla, il senso della caduta, della resa, della deiezione – dell'alienazione, della degradazione, del rigetto – possono convertirsi, paradossalmente, in valori attivi, se non positivi, di cui la letteratura sa farsi ancora (magari anche al di là dei suoi intenti e dei suoi contenuti fattuali, anche solo nella partecipe ed appassionata intentio lectoris, e senza per questo necessariamente abbandonarsi alle ingenue e generiche utopie di un inerte ed osmotico meticciamento, o di una indifferente ed onnivora multiculturalità globalizzata) testimonianza e veicolo.

Come suggerisce Assja Djebar in L’Amour, la Fantasia, l'individualità dello scrittore – per quanto vilipesa, violata e conculcata nella sua identità sessuale e culturale, nella sua civiltà, nelle sue radici, per quanto oppressa sia sul piano storico sia su quello esistenziale, affettivo e pulsionale, per quanto divenuta, come per Agostino, essa stessa la propria interminabile, inesauribile quaestio, «il luogo stesso della propria privazione» – riaffiorerà ostinatamente nelle parole strappate al silenzio come le reliquie della vita al deserto, nelle voci gementi ridestate dal sepolcro dei millenni, nel rimemorante ascolto offerto al «richiamo dei morti» – nella sacrale «fiamma della parola» ancora agitata «davanti al muro della separazione o della lontananza».

Il mondo accecato dall'integralismo e devastato dalla violenza ideologica può assumere (come l'indistinta e cruenta selva di membra e rottami su sui si apre la prosa variegata e polifonica dei Versetti satanici di Rushdie) la parvenza di un torbido verminaio di monadi irrelate e incomunicanti, «fragmented, equally absurd» – «debris of the soul, broken memories, sloughed-of selves, severed mother tongues, untranslatable jokes, extinguished futures».

Al-Lat, la luna infera, l'ambigua dea preislamica che apre la trinità femminile dei versetti famigerati, è a un tempo Venere e Atena, Afrodite e Mitra: incarna la sotterranea seduzione di una passione che può farsi distruttiva, di un entusiasmo che può divenire devastante, di una razionalità e di una sapienza che possono spingersi e spingere fino ad una tragica ate, ad una irreparabile perdita di confini, equilibri, misure, alla cancellazione di ogni spazio possibile di mediazione e di dialogo, e, dunque, alla distruzione e all'annullamento – eppure, proprio le tre fugaci e fantasmatiche “dee altovolanti”, guidato l'uomo fino al «Loto del limite», fino alla soglia di un Paradiso non ancora rivelato, possono, nella loro ambivalenza di Furie-Eumenidi, dischiudergli, dee terribili e rivelatrici, la luce di una verità.

E il protagonista del Paziente inglese di Ondaatje, che sogna un “mondo senza mappe”, senza barriere artificiose, senza contorni e limiti arbitrari, convenzionali e politicizzati, rischia per ciò stesso di perdere ogni distinzione e ogni senso morali, di trovarsi sperduto, al di là del bene e del male, in un mondo indefinito e vago, materiato, direbbe Agamben, di “nuda vita”, di sentimenti e passioni essenziali, di pulsioni e di estasi indeterminate e senza freni -̶ in uno spazio simile, dunque, al deserto, con la sua abissale ed insondabile instabilità, con la sua libertà e le sue insidie, la sua maestosa vastità e i suoi smarrimenti vertiginosi.

Ma è, infine, ancora Eliot, ben memore anch'egli delle peregrinazioni, delle ansie e degli smarrimenti agostiniani, a rammentarci che proprio attraverso la via negationis, la noche oscura del alma, proprio percorrendo, spogliati ed inermi, «the way of dispossession», si può forse oltrepassare il deserto e arrivare ad una meta; che proprio da un caleidoscopio vorticoso di «broken images» sarà forse possibile ricomporre un volto umano – che, infine, proprio con i frammenti è possibile puntellare le proprie rovine.

giovedì 30 aprile 2009

TEMPO E MEMORIA IN PROUST. SUGGERIMENTI PER UN PERCORSO INTERDISCIPLINARE, di Elisabetta Brizio

a Maria Maistrini
...quell’io che riconosco scorge talvolta
dei rapporti tra due idee, allo stesso modo
che, d’autunno, quando più non ci sono
né foglie né frutti, sentiamo nei paesaggi
gli accordi più profondi.
Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve
La vita, la vita finalmente scoperta e
tratta alla luce, la sola vita quindi
realmente vissuta, è la letteratura

Marcel Proust, Le temps retrouvé



A qualche anno di distanza dalla pubblicazione postuma degli ultimi libri della Recherche Walter Benjamin1 indicava la struttura anomala dell’opera proustiana - “risultato di una sintesi impossibile” - nella sovrapposizione, all’interno della scrittura, di “libera invenzione”, di componenti analogiche evocative e nella soppressione dei confini tra eterno e temporalità, con il conseguente approdo a una “sintassi di frasi senza sponde”, e indicava contemporaneamente come un’”opera letteraria superiore” potesse mostrarsi solo “nel cuore dell’impossibilità”2. Una scrittura rivelatoria, quella proustiana, che sorge su una infrazione sostanziale a qualsiasi norma sottesa alla narrazione (e al ruolo del narratore) e sulla svalutazione di ogni sforzo volontario - e in quanto tale fuorviante ed elusivo - del pensiero e di ogni inquadramento di carattere razionale dell’immaginazione creativa, che condurrebbero a un tipo di conoscenza logica ma non necessariamente vera, e, di conseguenza, a una forma di pseudoconsapevolezza del ricordo, come è possibile trarre da queste parole programmatiche:


Ogni giorno attribuisco minor valore all’intelligenza.
Ogni giorno mi rendo sempre meglio conto che solo
indipendentemente da essa lo scrittore può cogliere
nuovamente qualcosa delle sue impressioni, ossia
qualcosa di lui stesso e la sola materia dell’arte. Quel
che l’intelligenza ci restituisce sotto il nome di passato
non è tale. In realtà (…), ogni ora della nostra vita, appena morta,
s’incarna e si nasconde in qualche oggetto materiale;
e vi resta prigioniera, prigioniera per sempre, salvo che
noi non c’imbattiamo in quell’oggetto. Attraverso lui,
la riconosciamo, la chiamiamo, ed essa viene liberata.3


Roland Barhtes4 propone una lettura della Recherche rinunciando alla possibilità di un approdo a conclusioni definitorie, visto che il carattere inaudito dell’opera proustiana, introspettivo e metaforico, logico e analogico, “statutario e storico” fornisce un inventario infinito di ipotesi interpretative tutte legittimamente percorribili e insieme passibili di esiti parziali. In una simile prospettiva ogni progetto ermeneutico dovrà limitarsi alla “produzione di una scrittura supplementare”5, sulla base di un testo, la Recherche, definibile anche come livello precedente la scrittura, come letteratura e introduzione alla letteratura. Una anticipazione della coincidenza di avantesto e testo nella narrazione proustiana è reperibile in un saggio di Gérard Genette6 che intravede il carattere paradossale della Recherche in questo presentarsi a un tempo “come opera e come accesso all’opera, come termine e come genesi”7.

Una delle indagini possibili viene svolta da Barthes intorno al procedimento proustiano radicalmente orientato verso il rovesciamento delle apparenze incombenti sugli individui, sugli oggetti o sulle situazioni. Con la dissoluzione, nella Recherche, della classica figura del personaggio romanzesco e della sua funzionale caratterizzazione psicologica il soggetto proustiano risulta trascorrente, suscettibile di mutamento e di sconfinamento, perpetuamente in oscillazione e come tale finisce per difettare di organicità, diviene aperto a tutte le interpretazioni possibili e al tempo stesso è confinato in un ambito di scarsa attendibilità, quella che gli viene accordata dalle innumerevoli e incompatibili rappresentazioni extrasoggettive. Quello proustiano - scrive Giuseppe Raimondi – è “un popolo di figure” dai “tratti un poco fluidi, fluttuanti, incerti ma attiranti; come di un corpo intravisto in un acqua di fiume.”8

La scomparsa della identità individuale del soggetto potrebbe costituire una enfatizzazione del motivo della chiusura dell’uomo al mondo, senza altri orizzonti di senso che il proprio, tragicamente al di qua di una oggettività assoluta e mostrare contemporaneamente come la vita stessa si esaurisca - pirandellianamente - nel succedersi di una infinità di opinioni affatto individuali. Ma in Proust la sottolineatura della non assolutezza della verità - benché non del tutto marginale - pare legittimamente oltrepassabile.

Nella Recherche lo straniamento di un soggetto, rileva Barthes, può verificarsi anche all’interno di una singola opinione: è il caso di Verdurin, che parla in modo incoerente del professor Cottard, tenendo conto della stima che ne ha l’interlocutore del momento. Proust nondimeno tende ad attraversare simili casi di estrema scissione del soggetto, costringe e sintetizza l’ambito delle opinioni in uno schema di inversione attraverso cui “rovescia radicalmente un’apparenza nel suo contrario”9, non tanto allo scopo di ridescrivere il fin troppo praticato conflitto tra parvenze soverchiatrici e verità inattingibile, quanto di pervenire al riconoscimento di una “rotazione implacabile” che tutto rinvia a nuove identificazioni secondo un sistema globale di sintassi metaforica. Il moltiplicarsi dei casi di inversione, largamente documentabili lungo tutta la Recherche, ci spinge a controllare, scrive Barthes, “una forma di discorso la cui ossessione stessa è enigmatica”, malgrado a un livello più superficiale essa sembrerebbe delineare “un progetto di svelamento, un’energia di deciframento, una ricerca di essenza, il cui primo compito sarebbe quello di liberare la verità umana dalle apparenze contrarie che la vanità, la mondanità, lo snobismo le sovra-imprimono”10. Ma associare lo schema proustiano della inversione limitatamente a un discorso di smascheramento significherebbe tentare intorno alla irriduciblità del testo una soluzione comunque riduttiva, lontana anche da una più congrua valutazione di quelle che Barthes chiama “efflorescenze della forma”, esiti di una peculiarissima forma di percezione della temporalità, ovvero, meglio ancora, di “un effetto di tempo”11.

Un esatto scarto di tempo finirà per distinguere due momenti in un esemplare caso di rovesciamento. Nel treno di Balbec una signora dall’aspetto volgare assorta nelle pagine della “Revue des deux Mondes” viene scambiata dal Narratore per la tenutaria di un bordello. E una apparenza, separata da un tempo - quello impiegato dal treno per percorrere una distanza - dalla verità: nel viaggio successivo il Narratore, non più lo stesso del treno di Balbec (intanto era trascorso del tempo), viene informato sull’identità di quella signora, principessa Sherbatoff, frequentatrice assidua del salotto Verdurin. L’effetto controdeterminante del tempo, assunto non tanto allo scopo di risolvere una apparenza in verità, pare piuttosto indicativo di una situazione paradossale: quale potrebbe essere il colmo per una tenutaria di bordello? Essere la dama di compagnia della granduchessa Eudossia. O, scrive Barthes, viceversa. Di qui la sorpresa e lo stupore per qualcosa di inatteso che pervadono il Narratore in seguito a un così imprevisto rivolgimento delle apparenze: “essenza di sorpresa”, ci avverte Barthes, “e non essenza di verità”, come se un simile procedimento non possa “derivare altro che da un’erotica (del discorso)”12, da una esigenza e un invito a fruire della complicatio originaria del mondo attraverso la forma del racconto e delle sue soluzioni espressive.

Tuttavia non pare possibile limitare l’assunzione della forma dell’inversione isolatamente a circostanze particolari, dal momento che essa finisce per prevalere, nella Recherche, come essenziale scansione delle vicende mondane, come paradigma dominante indicativo di un diversamente inesprimibile scambio di identità e di ruoli, di uno sconvolgimento della caratterizzazione psicologica e della classificazione sociale, di una definizione mai individualizzante dei protagonisti, “soggetti a elevazioni e cadute ‘esatte’”13. Ha scritto in proposito Genette che “la società proustiana si conferma nella sua perpetua smentita”14. La mondanità, assoggettata a tale legge, appare incodificabile se non attraverso un incessante capovolgimento che, scrive Barthes, è insieme “di situazioni, di opinioni, di sentimenti, di linguaggi”15.

Una volta accettata la legalità del processo di inversione ogni tentativo di tradurre in termini razionali assoluti le vicende sociali o di costume o di pervenire a una impermutabile rappresentazione del soggetto è per definizione votato al fallimento. Scrive Proust, in Le temps retrouvé, che la realtà, la vita, non si possono osservare; le apparenze, “che osserviamo, debbono venir tradotte e spesso lette a rovescio, e decifrate con grande fatica.”16 La vicenda umana ha dunque un valore non intrinseco ma inferenziale, si può trarre dalla legge del rovesciamento, una legge a cui Proust finisce per ascrivere una valenza particolare: il rovesciamento vale come un sapere. Si tratta nondimeno di una forma negativa di conoscenza, che può accedere solo a una verità soggetta a continui spostamenti e derive; una forma di conoscenza volta verso uno straniamento dei significati abituali allo scopo di introdurli in un contesto sempre in corso di stabilizzazione. In tale prospettiva si verifica un superamento dei confini consueti accordati alla soggettività, in quanto, scrive Barthes, “uno dei termini permutati non è più ‘vero’ dell’altro: Cottard non è né ‘grande’ né ‘piccolo’, la sua verità, se ne ha una, è una verità di discorso”17. E contemporaneamente l’uso di una sintassi metaforica parallela si insinua nella sintassi tradizionale fino a sostituirla: la principessa Sherbatoff “è anche” la tenutaria di un bordello, perché il linguaggio metaforico, secondo Barthes mai interpretabile in un solo senso, non sancisce la soppressione di uno dei termini della traslazione. La metafora per Barthes non perviene a un significato traslato enunciabile in seguito alla eliminazione di un termine; essa attua un transfert di significato nel quale non avvengono decisive sostituzioni di significati. La metafora “si sposta sì da un termine all’altro, ma circolarmente e infinitamente.”18 Appare allora evidente come in questo caso di inversione il discorso metaforico stabilisca un istante di indifferenziazione tra apparenza e verità: nel senso che un elemento viene trasfigurato o sostituito senza per questo essere soppresso.

Dimostrata l’inconsistenza e pertanto l’improponibilità dell’ipotesi che sotto la forma del rovesciamento si potesse ancora dissimulare il progetto di una conciliazione dell’equilibrio turbato o di un attraversamento del negativismo ontologico Barthes indica come il ricorso a tale dispositivo riceva una giustificazione e una utilizzazione altrettanto profonde: l’inversione proustiana rende comunicabile una sorpresa, è una austera e tutt’altro che bizzarra ricerca dell’imprevedibile, una ricognizione della vita come inestinguibile e insopprimibile avvicendamento dei contrari. Il rovesciamento è chiamato pertanto a esemplificare - o a sollevare - “lo stupore di un ritorno, di un collegamento, di un ritrovamento (…): enunciare i contrari significa riunirli finalmente nell’unità stessa del testo, del viaggio di scrittura.”19 Particolarmente emblematico, a questo riguardo, è lo stupore del Narratore nelle pagine di apertura del Temps retrouvé, in seguito alla scoperta dell’esistenza di un sentiero trasversale che congiunge quelle due “parti” che finora gli erano parse due percorsi diversi e inconciliabili, a oggettivazione di una incolmabile distanza spirituale. Se per Barthes tale scoperta crea nel Narratore una sorpresa, per Benjamin essa finisce piuttosto per suscitare in lui “un doloroso choc di ringiovanimento”: e questo per “opera della memoria involontaria, della forza di ringiovanimento che non è inferiore all’inesorabile invecchiare.”20

La forma dell’inversione che ha dato appoggio alla complessa trama della Recherche comincia a diradarsi fino a scomparire, in uno sfondo di progressiva decadenza e dietro il riconoscimento delle cose che cominciano a finire, nel Temps retrouvé, dove avviene la fissazione dei protagonisti e sancita la loro definitività: “nella vita lasciata come una proroga” - scrive infine Barthes - essi non sono più soggetti a un differimento indeterminato, ma “prolungati, fissati (più ancora che invecchiati), preservati, e si vorrebbe poter dire: ‘perseverati’.”21

La necessità dell’impiego di un uso paradigmatico del linguaggio viene da Proust reiteratamente pronunciata nella zona centrale del Temps retrouvé come unica alternativa rimasta a ogni forma di realismo letterario, come eminente delazione - o quantomeno come pregiudiziale rifiuto - della falsità sottesa alle opere programmaticamente mimetiche e della loro arbitraria ridescrizione della realtà:

Così, ero ormai giunto a questa conclusione; che non siamo affatto
liberi di fronte all’opera d’arte, che non la componiamo a nostro
piacimento, ma che, preesistente a noi, dobbiamo, dacché è a un
tempo necessaria e nascosta, e come faremmo per una legge della
natura, scoprirla. Ma tale scoperta, che l’arte è in condizione di
farci fare, non è, in fondo, la scoperta di quanto dovrebbe esserci
più prezioso, e che di solito ci resta per sempre ignoto: la nostra vera
vita, la realtà quale l’abbiamo sentita, e che differisce talmente da quel che
crediamo da colmarci d’una così grande felicità allorché il caso
ce ne reca il ricordo vero? Me ne convincevo considerando la falsità
della cosiddetta arte realistica, la quale non sarebbe così menzognera se
nella vita non avessimo preso l’abitudine di dare alle nostre impressioni
un’espressione che ne differisce tanto e che scambiamo, dopo breve
tempo, per la realtà medesima.22

E, più avanti:

Quel che noi chiamiamo “realtà” è un certo rapporto
fra quelle sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente,
- un rapporto soppresso da una qualsiasi visione cinematografica,
la quale appunto per questo tanto più s’allontana dal vero quanto
più pretende di aderirvi, - rapporto unico che lo scrittore deve ritrovare,
se vuol concatenare per sempre nella sua frase i due termini differenti.
In una descrizione, possiamo elencare indefinitamente gli oggetti
presenti nel luogo descritto; ma la verità comincerà solo quando lo
scrittore avrà preso due oggetti differenti, ne avrà stabilito il rapporto,
analogo nel campo dell’arte a quello ch’è il rapporto unico della
legge causale nel campo scientifico, e li avrà saldati con gli anelli
necessari dello stile; o meglio, come la vita stessa, quando, raccostando
una qualità comune a due sensazioni, ne avrà liberato l’essenza comune
riunendole insieme, per sottrarle alle contingenze del tempo, in una
metafora.23

Assunto che l’esercizio letterario rappresenti la via privilegiata per distanziarsi ed emanciparsi dalla natura, il rapporto analogico, l’opportunità di leggere in una cosa le caratteristiche di un’altra, può essere, scrive Proust, “poco interessante, mediocri gli oggetti, cattivo lo stile; ma, finché non ci sarà tutto questo, non ci sarà nulla.”24

Uno dei primi a segnalare la funzione decisiva del rapporto analogico nella Recherche è stato - si diceva in apertura - Walter Benjamin, che nel ’29 indicava una eternità in Proust non come “tempo illimitato”, quanto come “tempo intrecciato”. Quello proustiano è l’”universo dell’intreccio” - scrive Benjamin - “è il mondo nello stato dell’analogia”25, irriconoscibile e indecifrabile, stravolto e implicato in quelle corrispondenze che sono di derivazione baudelairiana, ma che solo Proust ha saputo associare alla vita vissuta. In tal senso non è difficile isolare in Proust il tratto tipicamente baudelairiano della definizione dello scrittore come traduttore o decifratore delle essenze:

…mi accorgevo che quel libro essenziale, l’unico libro vero,
un grande scrittore non ha, nel senso comune della parola,
da inventarlo, in quanto esiste già in ognuno di noi, ma da tradurlo.
Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli di un traduttore.26

L’analogia è il luogo in cui la memoria involontaria attua uno strenuo tentativo di ringiovanimento, particolarmente nell’istante in cui, scrive Benjamin, “ciò che è stato si rispecchia nel nuovo”; e il tempo perduto non è altro che un irrimediabile rendersi conto di aver perso tempo, di un accorgersi tardivo della inconseguenza del nostro tempo passato, nonché della forza di dissoluzione del tempo:

Proust ha realizzato l’impresa inaudita di far invecchiare,
nell’istante, tutto il mondo di un’intera vita umana. Ma proprio
questa concentrazione in cui fulmineamente si consuma ciò
che altrimenti soltanto appassisce e si spegne lentamente si chiama
ringiovanimento. A la recherche du temps perdu è il continuo tentativo
di caricare un’intera vita della suprema presenza dello spirito.
Non è già la riflessione, ma la presentificazione che è il procedimento
di Proust. Egli è dominato dalla verità che noi tutti
non abbiamo tempo di vivere i veri drammi dell’esistenza che ci
è destinata. Per questo invecchiamo - non per altro. Le rughe
e le grinze sul nostro volto sono i biglietti da visita delle grandi
passioni, dei vizi, delle conoscenze che passarono da noi -,
ma noi, i padroni di casa, non c’eravamo.27

Il romanzo proustiano per Benjamin tende di continuo a restituire all’esistenza questa “suprema presenza dello spirito”, a redimere in un istante la nostra inevitabile assenza di fronte al trascorrere della vita: “lo spirito ha i suoi paesaggi, la cui contemplazione gli è concessa soltanto un attimo”28. Scrive ancora Proust:

Perché tale coincidenza tra due impressioni ci restituisce la
realtà? Forse perché allora essa risuscita per mezzo di quello
che omette, mentre, se ragioniamo, noi aggiungiamo o togliamo
qualcosa.29

Da una differente prospettiva, malgrado lo stesso presupposto dell’indagine basata sul convincimento di un impossibile accesso al risultato, Gérard Genette dimostra come nella Recherche “il passaggio dall’ontologico all’analogico, dallo stile sostanziale allo stile metaforico” costituisca “un progresso non tanto nella qualità della realizzazione estetica quanto nella coscienza delle difficoltà, o per lo meno delle condizioni di questa realizzazione.”30 Ha scritto Proust che solo attraverso la metafora lo stile diviene eterno. Ma la ricerca di uno stile - quale prefigurazione di una estetica - di cui diffusamente si parla nel Temps retrouvé, non va in alcun modo ricondotta a una esigenza di preziosità compositiva per il proprio materiale narrativo; al contrario lo stile, unica via rimasta per “riafferrare la nostra vita”, è per Proust, “un problema non di tecnica, bensì di visione”31. Solo un processo associativo o paradigmatico consente di indagare nell’essenza delle cose, di travalicarne la superficie scoprendone il significato profondo. In questo senso la metafora costituisce l’equivalente letterario della memoria involontaria, dal momento che questa, avvicinando - appunto, nella accidentalità del ricordo - due sensazioni avvertite in tempi distanziati, ne libera l’essenza comune, la corrispondenza interiore, con la differenza, scrive Genette, “che la reminiscenza è una contemplazione fuggevole dell’eternità, mentre la metafora gode della perpetuità dell’opera d’arte.”32 Successivamente Genette distinguerà nella Recherche tra metafora e metonimia (mostrando la loro reciproca integrazione), senza la quale il racconto non potrebbe aver luogo, in mancanza di quella indispensabile concatenazione di ricordi che, per quanto priva di un preciso orientamento, conserva comunque una relazione di contiguità logico-materiale e rende quindi possibile una storia33. Ha scritto Proust, sulla funzione evocativa che accomuna analogia e memoria involontaria:

…nella mia composizione, per passare da un piano
all’altro, ho semplicemente fatto uso non di un fatto,
ma di quanto ho trovato di più puro e prezioso come
collegamento; un fenomeno della memoria.34

Attraverso la scelta metaforica Proust disloca luoghi e oggetti secondo una immagine eideticamente diversa, laddove una forma di realismo letterario si arresterebbe a una definizione solo esteriore, e quindi a una ostentata falsificazione. L’ideale proustiano dello stile appare orientato verso due direzioni: a quello che Genette chiama “stile sostanziale”, che consiste nell’assimilazione in una unità profonda di tutto ciò che si presentava come diverso o accessorio, si affianca il miracolo analogico - il solo che permetta l’effabilità del ricordo -, descritto nel Temps retrouvé come il mezzo d’elezione per accedere a una realtà diminuita di tempo ma che aspira a impadronirsi del tempo in una configurazione spiritualmente intemporale.

Ammesso che in Le temps retrouvé il problema non si fondi più sulla conoscenza della realtà ma sull’arte stessa, si comprende come il passaggio dallo stile sostanziale a quello metaforico rappresenti un effettivo progresso nella percezione della sua stessa difficoltà. Come infatti conciliare il fatto che proprio la metafora, e cioè un intervento linguistico vòlto a decontestualizzare un oggetto per introdurlo in un ambito inconsueto, o, come scrive Angelo Marchese, “un caso di anomalia semantica” in cui lo straniamento condotto sulle parole “deriva dalla violazione delle presupposizioni referenziali”35, possa rivelarci l’essenza della realtà senza alienarla? Se infatti nella scelta metaforica è possibile riconoscere a un tempo, scrive Genette, “una rassomiglianza e una differenza, un tentativo d’’identificazione’ e una resistenza a questa identificazione, in mancanza di che non si avrebbe che una sterile tautologia, l’essenza non è forse maggiormente dalla parte che differisce e resiste, dalla parte irriducibile e refrattaria delle cose?”36 Ma per Genette è proprio l’intuizione di questa differenza che finirà per rivelarsi essenziale, come nell’accostamento Venezia-Combray.

Nella Recherche le trasposizioni metaforiche hanno luogo lungo due versanti distinti - e comunque intrecciati: quello temporale, che stabilisce nella sensazione un momento di equivalenza interiore, e quello spaziale, che non richiede necessariamente alcun istante affrancato dalla dimensione temporale. Sono le traslazioni di tipo spaziale a costituire, secondo Genette, le vere metafore proustiane. La metamorfosi - ad opera dal pittore Elstir, che fissa nella pittura il transitare degli aspetti ossimorici della realtà - del mare come luogo di indistinzione che contiene in sé anche il suo temine opposto, è il più vistoso di tutta una serie di stravolgimenti condotti sui consueti attributi del mondo oggettivo. Nelle tante marine presenti nello studio di Elstir il Narratore non poteva non riconoscere

…che il fascino di ciascuna consisteva in una
specie di metamorfosi delle cose rappresentate,
analoga a quella che in poesia si chiama metafora;
e che, se Dio Padre aveva creato le cose nominandole,
Elstir le ricreava togliendo loro il nome, o
dandogliene un altro. I nomi che designano le cose
rispondono sempre a una nozione dell’intelligenza,
estranea alle nostre vere impressioni, e che
ci costringe a eliminare da esse tutto quanto
non si riferisce a quella nozione.37

Le frequenti sovrimpressioni proustiane, realizzate, scrive Genette, attraverso una “sovrapposizione d’oggetti simultaneamente percepiti”38 ci introducono in un ambito estetizzante dove “la realtà si offre come la propria rappresentazione”39. Questa visione impone all’oggetto un esito incerto e transitorio, dal momento che se, ad esempio, il Narratore riconosce “l’ora del mezzodì a Combray nel suono delle sue campane”40, uno dei due termini dell’ identificazione analogica è destinato a disperdersi nell’altro fino a vanificarsi come fatto sensibile.

Così Proust:

La materia dei nostri libri, la sostanza delle nostre
frasi dev’essere immateriale, non presa qual essa è
nella realtà; ma le nostre stesse frasi, e anche gli episodi,
debbono esser fatti della sostanza trasparente dei
nostri momenti migliori, quelli in cui ci troviamo
fuori della realtà e del presente.41

La sovrimpressione sconfina anche nella sfera mondana, tanto che il personaggio proustiano, soggetto agli effetti del tempo, dà di sé un’immagine in cui tutti gli aspetti contrari sono simultaneamente evidenti. Non siamo più in un ordine di revocabilità o di ambivalenza; il soggetto proustiano, scrive Genette, è “una figura a più piani la cui incoerenza finale non è che la somma di troppe coerenze parziali”42, segno di una disposizione non schematica, volta alla ricerca di qualcosa di quintessenziale che sfugge a ogni sforzo razionale di individualizzazione. Ma quello che determina il verificarsi della sovrimpressione è l’opera trasformatrice del tempo, di cui la metafora costituisce il riflesso letterario. Lo stile metaforico esclude l’idea di evoluzione, è insieme forma e antiforma, forma che si edifica e che si distrugge, perché diversamente dal bergsoniano flusso di coscienza il tempo della ricerca proustiana è un avvicendarsi di momenti isolati che fa astrazione da ogni ordine logico e cronologico. Come gli effetti del tempo - scrive Genette - “si sedimentano nello spazio (…) per formarvi un’immagine confusa le cui linee si accavallano in un palinsesto a volte illeggibile”43, così, nell’ambito della narrazione, il principio compositivo della metafora dà luogo a una scrittura a più livelli, nella quale, se si distingue quello che sotto il testo risulta ancora incancellabile, sembrerebbe impossibile pervenire a una sintesi. Ma figure e significati si sovrappongono e si confondono in una complicata stratificazione per essere alla fine letti e decodificati solo in una complessissima prospettiva unitaria che impone uno statuto di univocità a tutte le presunte incoerenze: a condizione di saper leggere nelle alterazioni che accadono nel corso del tempo. Perché rileggere Proust - scrive Giacomo Debenedetti – “significa anche mettere a confronto noi con noi stessi; i noi di allora con ciò che il logorio e l’edificazione, i disastri e i risultati di molti mutamenti hanno fatto oggi di noi.”44
Un itinerario arduo è anche quello verso la salvezza alla quale, secondo Mariolina Bertini45, Proust tenderebbe attraverso lo svolgersi distinto e parallelo della metafora e della decifrazione indiziaria. La poetica sottesa al Temps retrouvé, dove compaiono quelle scelte di carattere pre-testuale che costituiscono la premessa estetica e ideologica a una ipotizzata opera a venire, è orientata verso “una rifondazione metaforica del mondo”46, nella quale la ricostruzione beatificante e crudele del deciframento e l’illuminazione analogica convergono in eguale misura. In una disposizione, scrive Giovanni Macchia “a guardare filosoficamente quella realtà come tentativo di un progressivo avvicinamento alla verità, continuamente compromessa dall’errore e che pur conserva la sua importanza strutturale e dinamica”.47

Attraverso la decifrazione indiziaria il Narratore-scrittore tenterà una rivisitazione del passato che ricomprenda anche quei segni inaccessibili a ogni comprensione razionale, rivelatori nondimeno di una realtà ancora implicata nell’intrasparenza e nell’indeterminazione. Nella vicenda esistenziale e poetica di Proust è possibile percepire, secondo la Bertini, un significativo passaggio “dalla contemplazione dell’apparenza al disvelamento dei complessi intrecci segreti che la determinano.”48 Proust attribuisce al progetto del deciframento un insostituibile valore conoscitivo; esso figura in Le temps retrouvé come lo strumento imprescindibile per la ricerca della verità e finirà con il figurare in rapporto complementare al paradigmatico percorso delle corrispondenze. Se infatti restano separati gli ambiti in cui tali procedimenti svolgono la propria indagine, comune è lo scopo a cui essi tendono: riconquistare l’essenza del passato attraverso indizi apparentemente insignificanti, difendendo quello che altrimenti finirebbe travolto dal tempo, e indicare infine la via della salvazione nell’istituzione di un’opera a venire. Scrive Gilles Deleuze, sull’attitudine eideticamente rivelatoria dell’arte in Proust:

Il tempo ritrovato, allo stato puro, è compreso nei segni
dell’arte. Non va confuso con un altro tempo ritrovato, quello
dei segni sensibili. Quest’ultimo è soltanto un tempo che
ritroviamo in seno allo stesso tempo perduto; esso mobilita
ogni risorsa della memoria involontaria e ci offre una
semplice immagine dell’eternità. Ma, come il sonno, l’arte è
al di là della memoria: fa appello al pensiero puro come facoltà
delle essenze. Quello che, grazie all’arte, ritroviamo, è il tempo
quale è implicato nell’essenza, identico all’eternità. L’extratemporale
di Proust è questo tempo allo stato nascente, e il soggetto artista
che lo ritrova. Possiamo quindi affermare, a stretto vigore, che
solo l’opera d’arte ci fa ritrovare il tempo: l’opera d’arte, “le seul
moyen de retrouver le temps perdu”, portatrice dei segni più alti,
il cui senso è situato in una complicazione primordiale, eternità
vera, tempo originario assoluto.49

La metafora proustiana - eminente espressione di una volontà a sottrarsi agli schemi irrigiditi dell’abitudine e insieme esigenza di far sopravvivere istanti del passato defunto o di isolare momenti di autenticità nel progressivo deterioramento dei rapporti umani - interviene a scoprire il senso di una esperienza individuale e insieme collettiva. Ma se prima del Temps retrouvé l’uso di un vocabolario allusivo si imponeva in vista del dissolvimento delle certezze che la ragione e l’abitudine formano incessantemente intorno alla nostra esistenza (esigenza, questa, reificata nel sintomatico discorso figurativo di Elstir che oppone a un mondo dominato da convenzionali certezze l’insospettabile “ambiguità di un paesaggio sovvertito”50) nell’ultimo libro della Recherche la metafora tende piuttosto alla invenzione - e al delinearsi - di uno stile che attraverso l’intuizione analogica scopra rispondenze, imponga connessioni e parallelismi tra le cose e trasferisca infine nell’ambito salvifico della scrittura le resurrezioni del passato suscitate dalla memoria involontaria:

Ma, perché mai le immagini di Combray e di Venezia
m’avevano dato, nell’un momento e nell’altro, una gioia
simile a una certezza e sufficiente, senza altre prove, a
rendermi indifferente la morte?51

Eventuale lettore - sembrerebbe, baudelairianamente, dirci Proust -, forse sai già di cosa si sta parlando.
Il lunghissimo apprendistato di Proust altro non è - scrive Giovanni Macchia - che un inesausto “tentativo, una lotta instancabile (…) per ‘isolare’ il proprio io, l’io profondo, l’io di chi scrive. L’opera non poteva rimaner prigioniera della persona empirica che la produce. Bisognava cercare di separare la propria anima, ‘l’âme originale’ (…) dall’’homme périssable’ cui era incatenata”52. La decifrazione dei segni sorge dunque sullo sgretolarsi della persona del narratore che - scrive la Bertini - volgerà “contro se stesso, affondando nelle zone più oscure della propria vita e della propria coscienza, lo strumento del sapere indiziario”53, per accedere, attraverso una opzione quasi disumana, vale a dire con una cancellazione di sé come soggetto empirico, a “una sua nuova esistenza, schiusa alle voci delle cose, del passato, delle creature amate e perdute minacciate dall’oblio.”54 Il soggetto disperso in una disorganica somma di indizi tornerà alla vita, dietro le rivelazioni dell’ispirazione analogica, non più vincolato ai momenti della volontà e del pensiero, ma riemergerà unicamente come memoria destituita di individualità, che nella percezione di quello che Proust definisce “tempo incorporato”, cioè il tempo trascorso non dissociato da quello attuale, troverà la condizione affinché sia finalmente esaudibile la propria vocazione a conservare la vita, indicando ai frammenti sparsi del passato “la raffigurazione, prossima e irraggiungibile, della salvezza”55. E’ il supremo riscatto dalla nullificazione, dalla prospettiva negativista, dall’imprigionamento nell’abitudine, dalla pseudoconsapevolezza della propria vita. Si potrebbe estendere a Proust quello che Matteo Veronesi scrive sulla solitudine della scrittura, sua intrinseca predestinazone - nonché la sua destinazione estrema:

Viaggiare e “scrivere il viaggio” sono la stessa cosa,
e tanto il viaggio quanto la sua trasposizione letteraria
sono come esili fili sull’abisso e sul mistero della morte.
E lo spettro dell’inutilità, dell’anonimato, dell’annullamento
si proietta su tutta l’avventura esistenziale e creativa
dell’autore, anzi su di una esperienza vitale che si risolve
totalmente, con una sorta di rivisitazione, in chiave tragica,
del mito decadente della vita come opera d’arte, in
esperienza letteraria.56

E se la decifrazione di segni si pone come obiettivo una interpretazione del tempo perduto, l’obliquo percorso della metafora si preoccupa di redimerlo attraverso l’arte, di trarlo dall’abbandono e dalla inautenticità, in una parola: di mantenerlo. Di sottrarlo a quell’abitudine - o Abitudine - la cui funzione, come indicava Samuel Beckett nel 1931, “è appunto quella di nascondere l’essenza - l’Idea - dell’oggetto nelle nebbie della concezione, anzi della preconcezione.”57

Come scrive Proust, esemplarmente:

Il mio compito era, dunque, quello di restituire
ai menomi segni che mi circondavano (I Guermantes,
Albertine, Gilberte, Saint-Loup, Balbec, ecc.), il loro
significato, che l’abitudine aveva fatto loro perdere
per me. E, quando avremo attinto la realtà, per esprimerla,
per conservarla, 58 noi dovremo ripudiare ciò che
differisce da essa e che ci vien portato di continuo dalla
acquisita velocità dell’abitudine.59

Quanto, di queste parole, potrebbe distanziarsi o identificarsi con lo spirito del famoso ritratto di Proust60 che eseguì Jacques-Emile Blanche?

Elisabetta Brizio

Macerata, dicembre 2008


Note

1). W. Benjamin, “Per un ritratto di Proust” (1929), in Avanguardia e rivoluzione, tr. it. Einaudi, Torino 1973.
2) Ibid., p. 27.
3) M. Proust, Contre Sainte-Beuve (1971), tr. it. Einaudi, Torino 1991, p. 3.
4) R. Barthes, “Un’idea di Ricerca” (1971), "aut aut", 193-194, gennaio-aprile 1983.
5) Ibid., p. 138.
6) G. Genette, “Proust palinsesto” (1966), in Figure I. Retorica e strutturalismo, tr. it. Einaudi, Torino 1969.
7) Ibid., p. 57.
8) G. Raimondi, Qualche suggestione su Proust, “Letteratura”, n. 36, novembre-dicembre 1947, p.22.
9) “Un’idea di Ricerca”, cit., p. 137.
10) Ibid., p. 138.
11) Ibid.
12) Ibid., p. 139.
13) Ibid.
14) “Proust palinsesto”, cit., p. 53.
15) “Un’idea di Ricerca”, cit. p. 139.
16) M. Proust, Il tempo ritrovato, tr. it. Einaudi, Torino 1978, p. 228 (da ora in poi Tempo).
17) “Un’idea di Ricerca”, cit., p. 140.
18) Ibid.
19) Ibid.
20) “Per un ritratto di Proust”, cit., p. 37.
21) “Un’idea di Ricerca”, cit., p. 141.
22) Tempo, p. 212.
23) Ibid., pp. 220-221.
24) Ibid.
25) “Per un ritratto di Proust”, cit. p. 37.
26) Tempo, p. 222.
27) “Per un ritratto di Proust”, cit., p. 37.
28) Tempo, p. 377.
29) Contre Sainte-Beuve, cit. pp. 105-106.
30) “Proust palinsesto”, cit. p. 41.
31) Tempo, p. 227.
32) “Proust palinsesto”, cit., p. 37.
33) Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972), tr. it. Einaudi, Torino 1976.
34) “À propos du style de Flaubert”, in La Nouvelle Revue Française, I gennaio 1920. Cito
da “A proposito dello stile di Flaubert”, introduzione a G. Flaubert, L’educazione
sentimentale
, Newton, Roma 1972, p. 22.
35) A. Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Mondadori, Milano 1978, p. 189.
36) “Proust palinsesto”, cit. p. 42.
37) M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, tr. it. Einaudi, Torino 1978, p. 438.
38) “Proust palinsesto”, cit., p. 45.
39) Ibid., p. 46.
40) Tempo, p. 221.
41) Contre Sainte-Beuve, pp. 110-111.
42) “Proust palinsesto”, cit. p. 50.
43) Ibid., p. 47.
44) G. Debenedetti, Rileggere Proust e altri saggi proustiani, Mondadori, Milano 1982, p.
11.
45) M. B. Bertini, Redenzione e metafora. Una lettura di Proust, Feltrineli, Milano 1981.
46) Ibid., p. 48.
47) G. Macchia, L’angelo della notte. Saggio su Proust, Rizzoli, Milano 1998, p. 145.
48) Redenzione e metafora, cit. pp. 30-31.
49) G. Deleuze, Marcel Proust e i segni (1964), tr. it. Einaudi, Torino 1967, pp. 46-47.
50) Redenzione e metafora, cit. p. 9.
51) Tempo, pp. 197-198.
52) L’angelo della notte, cit., p. 141.
53) Redenzione e metafora, cit., p.13.
54) Ibid., p. 64.
55) Ibid., p. 65.
56) M. Veronesi, Oriani e la solitudine della scrittura, “Studi Romagnoli”, LIV, 2003.
57) S. Beckett, Proust, tr. it. Sugar, Milano, 1978, p.35.
58) Corsivi miei.
59) Tempo, p. 229.
60) Cfr. in proposito G. Macchia, “Il ritratto di J.- E. Blanche” in Proust e dintorni,
Mondadori, Milano 1989.


Libri di e su Proust:


http://www.webster.it/c_power_search.php?shelf=BIT&q=proust&submit=Invia?a=328366

domenica 26 aprile 2009

FRAMMENTO SULLA TRADUZIONE

"Più sedative le ore che dedico al mio annoso tentativo di tradurre il Cimitero marino, tela di Penelope che faccio e disfaccio con una delizia mai stanca, accanito per ore sulle varianti d’un solo verso, senza decidermi di escluderne una sola:

Mare che ogn’ora sei uno e diverso…
Mare che non ti sazi di rinascere…
O tu che sempre rinnovelli, mare…
Mare, che ad ora ad ora ricominci…
Tu che rinasci ad ogni istante, mare…
O mare, infaticabilmente nuovo…
Mare che in ogni flutto ti rinvergini…
Mare, perpetuo moto, eterno inizio…
Mare, principio eterno, eterna fine…
Mare, incessante, pullulante palpito…
La mer, la mer, toujours recommencée…

che è l’ironico uovo di Colombo con cui concludo di solito, lasciando il verso perfetto com’è…".

(Gesualdo Bufalino, da Tommaso e il fotografo cieco)


Già, il "sole ogni giorno nuovo" di Eraclito (e proprio il Valéry del Cimitero marino inveiva contro il "crudele Zenone", eleatico uccisore del moto), il sole
"alius et idem" di Orazio, la "pulchritudo tam antiqua et tam nova" di Agostino, la primavera pascoliana che lascia nell'aria, anzi nel sole, "qualcosa di nuovo, anzi d'antico", il mare "vasto e diverso e insieme fisso" di Montale, infine la dialettica di ipse e idem in Ricoeur...

Tutte mobili, vivide e cangianti icone di una fissità che sempre diviene e si
trasforma, di un tempo che torna su se stesso nel suo apparente mutare, nel suo "delirio d'immobilità".

Così è anche delle nostre vite.

L'eternità è un istante, è stato detto. Figuriamoci poi la nostra vita, che è un lampo in quell'eternità, il volo repentino di un rapace in una stanza illuminata, una goccia nel mare o un'ala nello stormo... Un istante in un istante, una goccia infinitamente specchiata e scomposta in una goccia.

E la traduzione, che è di per sé una "gaia scienza", un'ars ermetica ed
alchemica, una disciplina malleabile e rigorosa della variabilità, dell'incertezza, della sfaccettatura, della polisemia, dell'ambiguità, della varietà, del mutamento, si muove e vive proprio in questo spazio intellettuale ed ontologico dell'impermanenza e dell'indeterminazione.

Nessuna traduzione è esatta e definitiva; tutte le traduzioni di uno stesso testo prima o poi diventano esse stesse leteratura e storia, paiono obsolete e superate, divengono lontane da noi come noi dal noi stessi di un tempo. Anche il testo, come il mare, il sole e noi stessi, è "toujours recommencé".

Proprio in questa misura, un po' angosciosa, di mutevolezza, di precarietà, in questo perenne mutare pur conservando intatti ed intangibili una sostanza, un noumeno comunque in se stessi indefinibili - più che nel loro presunto valore eterno ed immutabile - i classici sono davvero specchio di noi stessi, del nostro esistere, del nostro sentire, del nostro patire.


M. V.

lunedì 20 aprile 2009

GIAMPAOLO SQUARCINA, Poesie

La poesia di Giampaolo Squarcina (rivelatasi oltre un decennio fa con due plaquettes in cui un ritmo e una sonorità montaliani veicolavano una percezione temporale ed esistenziale cangiante, sofferta, eppure sorretta da un fondo di costanza, da una sotterranea ricerca di perennità e assolutezza) è nel frattempo rimasta lungamente avvolta nel silenzio e nell'ombra.

Eppure non ha taciuto, ha continuato a germinare e a ramificarsi nelle tenebre feconde di un'officina appartata e segreta - e proprio per questo, forse, più autentica.

Una ricerca espressiva, quella dell'autore, che dopo il romanzo Diazepam (stilisticamente vivido, tumultuoso, sismico, ribollente, e ideologicamente teso nella critica delle perversioni e delle storture della società postmoderna e tardocapitalistica) sembra aver ripiegato verso una ricerca di purezza, di limpidezza, di autenticità, da ricercare attraverso l'apparente, astuta neutralità e naturalezza, lo studiato ed artificioso “puro vedere”, dell'immagine fotografica da un lato, la scrittura in esperanto (lingua naturale, razionale, letterariamente vergine - eppure cólta, riflessa, studiata, meditatamente architettata) dall'altro.

Ma nel contempo, come si diceva, neppure la poesia in versi, la poesia propriamente detta ha del tutto cessato, nel suo laboratorio, di prendere forma ed articolarsi. Anzi, come documentano i preziosi inediti che qui riproduciamo, essa si è sviluppata (anche grazie alla raffinata cultura e alla sottile perizia fabrile che all'autore derivano dalla sua formazione di filologo romanzo) in ricercate, profonde e ramificate strutture combinatorie e neometriche.

“A chi 'l morire è grave / ogni momento è morte”, dicono due versi di Battista Guarini, riportati come explicit della raccolta Gli elementi (versi, per inciso, quelli del Pastor fido, modernissimi, che instillano nella musicalità lieve e trasognata di un'Arcadia di puri suoni il senso dolcemente lancinante, il soave veleno, di un quasi esistenzialistico “Essere per la morte” a cui, con tragico paradosso, solo la morte, non più illusoriamente procrastinata e stornata, potrà porre fine: “Altro mal non ha morte / Che 'l pensar a morire. / E chi morir pur deve, / Quanto più tosto more, / Tanto più tosto al suo morir s'invola”).

Una raccolta, quella di Squarcina, che in effetti, nella sua sapiente e rigorosa struttura combinatoria (che richiama in modo evidente il Levi sottile ed estroso del Sistema periodico), sembra voler esorcizzare, nel momento stesso in cui li raffigura, e anzi li ricalca e li riecheggia nel ricorsivo, quasi ipnotico inanellarsi dei componimenti, il ciclo fatale di vita e morte, origine e disfacimento, la vicissitudine perpetua della materia che (da Lucrezio a Foscolo al Valéry del Cimitero marino) “torna alla materia”, ultimata la sua breve vita, il suo effimero e transeunte progetto di forma organica e vivente.

Gli elementi – i primordia, i semina rerum – che diedero, con le loro musive connessure, origine alla vita, sono gli stessi in cui i corpi viventi dovranno presto o tardi disgregarsi e disperdersi. E il linguaggio poetico, con le sue “alchimie”, le sue combinazioni, le sue aggregazioni, le sue callidae iuncturae (le sue, direbbe la linguistica di Tesnière, “valenze” e “saturazioni”, non dissimili da quelle che regolano le congiunzioni degli atomi a formare le molecole e le reazioni - le simpatie e le antipatie avrebbero detto gli alchimisti - delle molecole e degli elementi fra di loro) riporta la vita dei fenomeni e dell'espressione alla sua tenebrosa origine - alla sua oscura, e insieme luminosissima, matrice.

Ma natura e matrix è anche, per antonomasia, la Donna, la Femmina, tiepida ed accogliente, avvolgente ma anche minacciosa (l'”orrido borro”, la cavità oscura in cui smarrirsi, del Dante petroso, la rosa tentatrice, ammaliante e narcotica delle allegorie medievali). Colei che dà la vita dà anche, indirettamente, la morte. Ogni creatura uscita alla tremula luce dell'esistere trova nella sua mortalità, nella sua caducità e finitezza, la propria condizione essenziale e insieme esistenziale, la propria sostanziale possibilità, sempre imminente – e, insieme, la propria più ineluttabile certezza.

“Cavat lapidem gutta”: “le temps coule”, dice Verlaine, fissando il picchiettare, il percolare, uno dopo l'altro, degli istanti la cui fuga inarrestabile logora ed erode l'esistenza come la goccia la pietra.

Nello stesso modo, con la stessa voce amaramente roca o disperatamente gioiosa, nello stesso assolato, sfuggente deserto, gridano, come gli antichi profeti, vita e morte: “pariter vita morsque clamantes”. La morte è, come in Montale, "morte che vive" - se non, come in una fosca figurazione secentesca, "obitus ridens", "morte che ride". E "l'impresa del mondo è un'esuvia": una exuvia, cioè traccia, testimonianza, ricordo - e insieme "spoglia", resto, abbandonato detrito che tutto il teatro del mondo è destinato a divenire, in cui ogni vita e ogni vicenda sono infine votate a mutarsi.



M. V.






Da Gli elementi


IDROGENO

Qui la materia vibra lentamente
in semplice addizione d’elettrone.
Da vasta immane d’alcol profusione
di nuovo ad elemento, per calore;
ed un momento dopo padre, complice
l’accoppiamento a due diverse madri,
di nevi e mari, d’alma immensa pioggia.


PLUTONIO

Dal ventre incandescente del tumore
calore baleno fragore
-poi niente;
la Russia Bianca un veleno-pulviscolo
(più dolce sparso fiele che ad Hiroshima);
ed il nero ha qui forma di luce,
come di notte vista in negativa.
I tornati incuranti lo respirano:
non c’è viaggio che compensi la morte.


Cernobyl 26-IV-1986/26-IV-1996


Da La soddisfazione


nel carcinoso bosco
come ad orto conchiuso
l'accesso negato a più remote zone;
a goccia a goccia (cavat)
l'erosione verso scavi dismessi
a infruttifere vene
di riarsi giacimenti. (lapidem)
L'inedibile stillato dei sensi
l'orlo che non si sfalda
la chiara vista di radure mediane
sovrabitate dalla Carne. (gutta)
L'impresa del mondo è un'esuvia
oscillante nel vento che trasporta.


(intermezzo)

Lasciata la speranza resta il sogno
più comoda dimora del peccato
che potremmo non avere pensato.
Vieni conformami Madre del Nero
oscena sconcia quanto ti desidero:
è breccia d'argilla il corso del piede
su dirupi entro cui mi precipiti.
-dell'attimo di scivolo nel vuoto
-dell'attesa di un altrove di carne

-di questo si vive. Del poco altro
pure si scorda il nome.


(esperimento del vero)

in antichi poemi di rose la cifra del male
che non trasporti a notazione nota;
-le varianti atterriscono se n'eleva
il novero le costanti
-semplicemente non sono-
né posseggo sedimento di scavo di senso dove
attingere quale
vena forare
ricomposto
adesso?
né ho convivi da allestire
solo zolle da occupare
sum obitus ridens -pariter vita morsque clamantes.