venerdì 15 maggio 2009

MORTE, SCRITTURA, MENZOGNA. SGUARDI SUL ROMANZO CONTEMPORANEO

Non è ovviamente pensabile poter riassumere, in queste poche pagine, tutti i molteplici, pressoché inesauribili caratteri e risvolti del romanzo contemporaneo: un discorso, quello del (e di conseguenza sul) romanzo, eminentemente contraddistinto dalla “polifonia” (cioè dal carattere composito, sfaccettato, multiforme, per più aspetti contraddittorio, che ad esso riconosceva Michail Bachtin nel suo ormai celebre Estetica e romanzo), dall'intreccio cangiante ed inestricabile dei cronòtopi (cioè delle situazioni, degli ambienti, delle atmosfere, delle unità spazio-temporali che lo compongono e in esso si intersecano), da un assiduo mutare dei punti di vista, delle angolazioni, dei piani narrativi e rappresentativi, e, infine, sovrastato e compiuto dall'artificio di cui parlava Sklovskij, vale a dire dallo straniamento (corrispettivo, con buona approssimazione, del Perturbante di cui parla la Psicanalisi), dallo sguardo “altro”, difforme, desueto, spiazzante, che il grande narratore, non asservito (come oggi perlopiù accade) alle banali, quasi meccaniche aspettative del pubblico e del mercato, riesce ad imporre alla materia trattata, alle ambientazioni, alle vicende, inducendo il lettore a modificare, o a mettere in discussione, la sua usuale e condivisa ottica sul mondo e sulla vita.

Ben prima del formalismo russo, del resto, già il nostro Pietro Borsieri, nelle Avventure letterarie di un giorno (un testo importante nella polemica fra romantici e classicisti che animò gli ambienti letterari italiani ai primi dell'Ottocento), definiva il romanzo come un genere «anfibio», ambivalente, diviso fra storia ed evasione, realismo ed immaginazione, ed impossibile da inserire nei canoni e nelle classificazioni di genere propri della classicità.

La «prosa della vita reale», specchio di una realtà già di per sé «ordinata a prosa», l'«epopea borghese» che Hegel, nell'Estetica, vedeva incarnate nel romanzo non si traducevano affatto, come avrebbero voluto certe restrittive letture ideologizzanti, in una stretta, predeterminata, quasi meccanica (o biologica) aderenza del discorso alle strutture storiche, sociali, economiche, ma lasciavano un largo margine alla capacità inventiva, analogica e trasfigurante dello sguardo letterario.

Eppure – quasi a ribadire, per una singolare ironia, per un curioso paradosso della storia e del pensiero, il carattere multiforme, caleidoscopico e, di conseguenza, inafferrabile del genere romanzesco – erano proprio alcune voci del mondo classico a definire per la prima volta, con sorprendente chiaroveggenza, taluni tratti essenziali e caratterizzanti del genere: da Apuleio, che nel proemio dell'Asino d'oro sottolineava di avere intrecciato, per il puro diletto del lettore (diletto, peraltro, dietro cui si celava, da esso veicolato, il messaggio profondissimo ed enigmatico di un percorso di iniziazione e di purificazione sotto il segno di Iside), «multas fabulas», avvalendosi di un «desultorium genus dicendi», di uno stile variegato, dinamico, mobile, proteiforme, divagante, polifonico appunto, a Luciano di Samosata, che nelle pagine introduttive della Storia vera rivendicava già (come avrebbe poi fatto, nel Cinquecento, Giraldi Cinzio nel Discorso dei romanzi) all'espressione letteraria la facoltà e il diritto di raccontare pseusmata poikila, «variopinte fole», pur se pithanos ed enalethos, in modo «persuasivo» e «non lontano dalla verità», e dunque di muoversi e vivere all'interno di una sorta di analogon rationis, come l'avrebbe chiamato il Baumgarten agli albori dell'estetica moderna, di una verità altra e difforme da quella ordinaria – in una specie, insomma, di mondo alternativo, virtuale, sospeso ed oscillante nei limbi dell'immaginazione e della fantasia, e nondimeno governato da una sua coerenza interna, da una sua peculiare ed autoreferenziale verosimiglianza, avallato e sorretto da leggi sue proprie, in certo modo omologhe o speculari, eppure non identiche, a quelle che governano la natura, la società e la storia.

Un'idea, questa della creazione artistica come opus superadditum operi, come mondo aggiunto al mondo, come creazione aggiunta alla Creazione, come "altra realtà" governata da sue leggi delle quali le parole retoricamente studiate ed elaborate sono i segni e le formule, che si ritroverà in varie estetiche moderne, dal manierismo fino al simbolismo e alla décadence.

Dichiarando di stare mentendo (anzi, letteralmente, dicendo la verità proprio nel momento in cui mente, in cui intreccia le sue variopinte fabulae), la figura del romanziere antico inaugura quella contaminazione, quella multiprospettica e spiazzante intersezione di verità e menzogna (menzogna in senso fenomenico e fattuale, più profonda e celata “verità” sul piano intellettuale, espressivo, in qualche caso morale) che rappresenterà uno degli aspetti fondamentali della modernità letteraria, dallo Svevo della Coscienza di Zeno (la cui inattendibile voce narrante rivela, aprendo così un labirintico ed inestricabile gioco di illusioni e di riverberi, di aver mescolato verità e bugie senza che l'una sia facilmente distinguibile dalle altre) al Manganelli della Letteratura come menzogna, che inviterà a ripensare, in termini di finzione letteraria, la concezione nietzscheana della verità comunemente accettata e condivisa come illusione di cui si è dimenticata l'illusorietà e, per contro, della menzogna artistica (o della dialettica provocazione filosofica) come potenziale, e paradossale, strumento di una verità purificata, rifondata, autonomamente ripensata e rivissuta – ricostruita, su altre basi, dalle proprie rovine.

Anche Achille Tazio, nell'incipit di Leucippe e Clitofonte, accostava la sua narrazione al raffinatissimo dipinto sidonio da cui essa aveva tratto spunto: dipinto in cui l'arte figurativa rivaleggiava con la natura e, implicitamente, con l'artificio della creazione letteraria, capace di stilizzare, di sublimare (o viceversa di mistificare, di confondere, di scomporre e ricomporre) la realtà della storia e dell'uomo (donde, pur se in una diversa luce, la sottile analogia, esplicita od implicita, fra romanzo e tableau che si ritroverà nel realismo ottocentesco, fra romanticismo e naturalismo, da Manzoni a Dickens, da Hugo a Balzac, fino all'écriture artiste – al crocevia fra naturalismo e simbolismo – di Huysmans e dei fratelli Goncourt).

Sul romanzo (e sulla vocazione “realistica”, in senso lato e con tutte le ambiguità che il termine porta con sé, ad esso consustanziata) pesa dunque, fin dall'origine, l'insidiosa dicotomia ontologica che Platone, e poi Wittgenstein, ravvisavano nella condizione dell'immagine, dell'eikon, che è e, nello stesso tempo, letteralmente, non è la cosa che rappresenta – che, anche al suo massimo grado di concretezza, verosimiglianza, addirittura brutalità e crudezza, comunque evoca, addita, accenna la cosa, l'evento, la circostanza esistenziale, senza però poter mai, letteralmente ed effettivamente, costituirne ed offrirne un'equivalenza piena.

Si può risalire ancora a ritroso, fino agli archetipi più remoti dell'esperienza romanzesca: ad esempio all'egizia Storia di Sinuhe, le cui peregrinazioni “di terra in terra”, volte, come poi nel romanzo ellenistico, alla purificazione, all'iniziazione, ad un cammino di autocoscienza e di riconciliazione, sono governate dal volere di un “Signore di percezione che percepisce gli uomini”, e il cui sguardo benevolo e provvido si identifica, infine, con l'occhio sovrano di quello che è forse il primo narratore onnisciente della letteratura universale; o al giapponese Diario di Murasaki Shibiku (in cui un lettore versatile, colto ed acuto come Montale additava addirittura un'anticipazione della moderna introspezione psicologica), narrazione incredibilmente sottile, lirica e sfumata delle peregrinazioni sentimentali del principe Genji, sempre segretamente e profondamente fedele, pur nei suoi cedimenti e nei suoi tradimenti (a danno degli altri come di se stesso), ad una imago materna ormai dispersa, svanita dal mondo, irrecuperabile nell'orizzonte dell'esistenza terrena, ricostituibile soltanto nello specchio impalpabile dell'affabulazione.

Iniziazione, autocoscienza (come quella del giovane Moreau nell'Éducation sentimentale di Flaubert), ricerca ed autenticità, smarrimento e tensione, più o meno coronata dal compimento, all'identità e all'origine (si pensi alle Vie dei Canti cui è dedicato il capolavoro di Bruce Chatwin, e più generale alla ricerca, problematica, multicentrica, spesso spaesata, delle radici culturali e dell'autenticità esistenziale ed affettiva nella letteratura postcoloniale): questi, forse, gli archetipi essenziali e più remoti, direi antropologici (si può rinviare qui anche al Calvino di Cibernetica e fantasmi, che riconduce l'origine della narrazione ad una natura e ad una funzione, in certa misura ancor vive nell'età tecnologica, di memoria collettiva, di enciclopedia tribale, di verbale esorcismo a difesa dai terrori più radicati ed oscuri), del narrare, che incontriamo già nei più antichi esempi di romanzo e che riaffiorano a più riprese (pur nelle molteplici, spesso drastiche e traumatiche, metamorfosi formali, rappresentative e antropologiche susseguitesi nel corso dei secoli, e soprattutto nel Novecento) fino all'età contemporanea.

Il “tempo vissuto” (potremmo dire con Ricoeur e con Minkowski) si struttura come narrazione, come fluire temporale sempre in diretto rapporto tanto con la sua origine, con la sua scaturigine prima, e ormai offuscata e perduta, quanto (essendo, come insegnano Platone e il platonismo, “immagine mobile dell'eternità”) con una sfera superiore, con una fantasmagorica proiezione figurale che lo trascende e in cui nondimeno, forse, si svela, per chi sappia scrutarlo, il significato più autentico di ogni apparentemente gratuito ed assurdo accadere.

A ben vedere, anche negli autori (penso ad esempio al Vassalli della Chimera, o, in un'ottica stilisticamente e formalmente antitetica, e ben più tesa e complessa, agli artefici dell'antiromanzo e dell'“irromanzo” novecenteschi, da Beckett a Sanguineti) più antiplatonici, remoti ed avulsi da ogni metafisica, chiusi ad ogni superiore e più puro orizzonte di senso, questa iniziatica ricerca di un significato ultimo e profondo è in qualche modo avvertibile, pur se magari destinata ad approdare alla constatazione di un assoluto nulla, di una apocalittica mancanza di fondamento - o viceversa a prendere le mosse da quella stessa constatazione.

Da Musil a certo giovane Hesse, dal Moravia del Conformista, della Noia, dell'Amore coniugale (sorta, quest'ultimo romanzo breve, di sottilmente ironica e demistificante riscrittura, in chiave di esistenzialismo borghese, di certi motivi del Poe più algido e lunare) al La Capria di Ferito a morte, lo schema fondamentale del racconto di ricerca, di iniziazione, di formazione, di metamorfosi sembra convertirsi o risolversi in un viaggio e in un cammino che approdano alla rivelazione dell'assurdo, dell'abisso, dell'incomunicabile, infine dell'insignificanza, o perlomeno dell'irriducibile, vagamente sinistra ambiguità, insite in ogni segno e in ogni messaggio.

Pur se in modi diversi, La Capria e Moravia esperiscono la tensione dialettica che oppone la Storia alla Natura, la temporalità sociale e culturale al perenne, immutabile fondo di pulsioni originarie e remote, al groviglio indistricabile ed oscuro di Eros e Thanatos, istinto di vitalità e di piacere e gorgo vorace, mostruoso maesltrom che, a malapena mascherato e schermato di amara, mondanamente superiore e distante, ironia, o di convenzione sociale a prima vista condivisa, stabile, rassicurante, trascina invece ogni cosa verso il nero vuoto senza fondo: la Natura, si legge in Ferito a morte di La Capria, vince la Storia, eppure «solo la Storia ha senso», sebbene l'uomo ne sia sempre distolto dal richiamo suadente delle Sirene, da quel « richiamo insensato», quale già appariva al Kakfa dei Frammenti, che attraversa «il silenzio del mattino, come uno spiro di vento» che subito dilegua e svanisce.

Nella Morte di Virgilio di Hermann Broch, si fanno evidenti lo sfociare, lo sfumare e il dissolversi del filo narrativo nelle vaste plaghe del nulla, del vuoto, del silenzio, della trascendenza indicibile in cui si annida e si cela il senso tragico (o forse la tragica assenza di senso) di una storia segnata dalle iniquità e dal sangue, e di una vicenda intellettuale e letteraria marchiata (come in Sartre) dal rischio o dal sospetto, sempre incombenti, dell'inautenticità.

Ogni esperienza vissuta ai margini, da «ospite della vita», da spettatore, per quanto affascinato o pietoso, dell'umana esistenza – ogni incontro, ogni parvenza, ogni esteriore ed occasionale fonte d'ispirazione inghiottita e dissolta dalla sapiente finzione, dalla «bella menzogna», della letteratura – altro non erano stati, per il Virgilio di Broch, «se non un accadimento, che pari ad un vaso delle sfere celesti, stesse per accoglierlo in sé ed immetterlo nell'infinito». Tanto la nascita, da cui l'homo viator trae origine, quanto la rinascita a cui (come l'iniziando di un rito orfico) anela, non potrebbero darsi «se dietro a loro non vi fosse, eterno e immutabile, ultima genesi, il nulla»; e «la grande luce dell'atemporalità» sgorga proprio dalla «silenziosa, divinante unione di essere e non essere». «Solo colui che cerca l'occhio della morte, potrà guardare nel nulla senza che il proprio occhio si spenga. [...] E colui che si immerge nel ricordo può ascoltare il suono di quell'istante in cui l'elemento terrestre deve aprirsi all'infinito e all'ignoto, dischiuso alla rinascita e alla risurrezione di un ricordo senza fine».

L'eternità, infine, è il nulla, il nihil aeternum dei mistici. Dell'essere, dirà Heidegger, ne è nulla. La parola narrativa della modernità più alta e consapevole è o finisce per essere, anche quando si assume intenti di realismo o di impegno, spia di una rivelazione negativa, spiraglio aperto sulla luce ferma e desertica del nulla: basti pensare a Petrolio di Pasolini, con la sua tragica, emblematica, oscuramente profetica incompiutezza, con il suo lucido e debordante delirio interpretativo affondato nelle falsità, nelle speculazioni e nelle reificazioni del mondo industriale, o al Tondelli di Un week-end postmoderno, con la sua frenetica e frammentante eversione dei confini fra romanzo e saggio, con la sua desolata e lucida diagnosi del declino e del degrado di una società e di un sistema, quelli borghesi e capitalistici, con i loro loro speciosi ed alienati equilibri.
Ciò che per Broch è il supremo, ultimo e primo, Essere-Nulla – il gorgo indistinguibile, apocalittico di origine e fine, alfa ed omega, alba ed annullamento – è invece, per Proust, il “Tempo ritrovato”, resuscitato e rinnovato dal ricordo, dalla memoria involontaria, dall'intermittenza delle reminiscenze e delle illuminazioni che (quasi platonica anàmnesis) sembrano, forse solo illusoriamente, ricondurre il fluire del tempo alla sua matrice originaria e pura – così come, in poesia, Valéry riporta il dire poetico «aux sources du poème».

Per il Joyce di Dedalus, questo Essere potrà invece annidarsi nell'istante rivelatore della epiphany, della radiance, nella subitanea rivelazione (quasi un montaliano, salvifico “fantasma”) della tomistica claritas, dell'armonia delle parti che è celata sotto la caotica casualità dell'accadere, e nella quale risiede il segreto, insieme razionale e mistico, della bellezza e della conoscenza.

Un'armonia che, nella babele spazio-temporale e linguistica dell'Ulisse, e più ancora di Finnegans Wake, andrà perduta ed infranta in un caleidoscopio di rutilanti ed irrelati frammenti: e il romanzo diverrà, allora, progressivamente, meandertale, primitivo-primigenio racconto-labirinto, convulsa e nevrotica espressione verbale dell'Essere-per-la-morte, della circolarità apocalittica di vita e morte – della morte «that bitches birth that entails the ensuance of existentiality». Anzi ogni discorso, ogni racconto possibile non saranno che «a rude breathing on the void of to be, a venter hearing his own bauchspeech in backwords» – parola vuota che riecheggia e ripete se stessa, facendo sordamente tintinnare, nel proprio inane vuoto sonoro, nelle proprie celate abissali cavità, la vacuità stessa di un'esistenza precaria e friabile, già inesorabilmente votata all'annullamento e alla dissoluzione.

Pur se in un contesto stilistico diametralmente opposto (un tedesco lucidissimo, tagliente, essenziale, che sembra, come suggeriva Deleuze, avere ereditato dall'yiddish la concisione sapienziale, gnomica, sentenziosa ed allusiva, e dallo spirito ebraico l'ironia amara, desolata, tragica, senza rancore e senza sorriso), Kafka vorrà forse additare – con il suo castello inaccessibile, le sue norme imperscrutabili, assurde, arbitrarie, la sua “porta della Legge” destinata a restare chiusa per sempre, pur essendo occultamente, e vanamente, destinata ad aprirsi proprio e soltanto per colui che desiderava, e non osava, avvicinarvisi – precisamente questo Senso ultimo, velato, eclissato, forse in realtà inconsistente.

Per Broch, l'approdo ultimo, il limite estremo coincidono – come per Mallarmé e come per Wittgenstein con la sua concettualizzazione del “Mistico” – nell'«inespresso, là dove il linguaggio [...] spalanca il terribile, improvviso abisso fra le parole, per indicare in questa muta profondità [...] la totalità dell'universo, la fluente contemporaneità in cui riposa l'eterno».

Questa bergosniana «fluente contemporaneità» in cui l'eterno si dispiega e, insieme, si raccoglie e si condensa nel suo immoto divenire, è la stessa in cui si muovono, nel loro discorso ugualmente fluido, cangiante, soffusamente melodioso e insieme concentrato, denso, essenziale, tanto l'Eliot dei Four quartets quanto il Proust del Temps retrouvé, che, per poter cogliere appieno e fermare sulla pagina la purezza e l'intangibilità dell'istante passato – che è in qualche modo archetipo, figura, modello ideale e più puro, di ogni istante, di ogni esperienza, di ogni pensiero presenti e futuri –, per poter perlustrare e riflettere nella scrittura le sterminate e flessuose distese spazio-temporali della soggettività, dell'homo interior, della quantitas animae, deve, come Agostino (le cui Confessiones sono, del resto, accanto alla Vita nuova di Dante, anch'essa segnata dalla rivelazione folgorante e cupa della mortalità della donna amata, e all'Elegia di Madonna Fiammetta di Boccaccio, sorprendentemente percorsa dalla dolce insidia della disperazione e dal pensiero del suicidio, fra gli antecedenti più nitidi del moderno romanzo autobiografico), «ridiscendere in se stesso», «discendere più profondamente in sé», rinvenendo le larve, i lemuri, le tracce esili ed esangui (i cliché astrali, come li chiamava l'antroposofia cara a Pirandello), di luoghi, volti, amori, momenti che il tempo e la morte (insidiatasi nel cuore «come fa un amore») hanno ormai redento, purificato, disincarnato, quasi mutato in puri, platonici schemata ideali, non vivi ormai che nel cielo rarefatto della mente.

Come l'iniziato ai misteri orfici o delfici, così il discepolo cresciuto all'ambigua e cangiante sapienza (quasi alchemica e nietzscheana “gaia scienza”) infusa dal romanzo moderno finisce per conoscere e conoscersi, per trovare (o ritrovare) se stesso, o almeno andarne in cerca, nel tempo, nel passato, nella memoria, e nelle intricate e fragili trame verbali delle loro narrazioni (non è forse troppo difficile trovare le tracce di un simile percorso iniziatico anche nelle grandi epiche romanzesche, nelle maestose architetture simboliche ed esoteriche, di Tolkien o di Lewis, come pure di Melville o del nostro D'Arrigo).

In Italia sono state forse le narratrici (accanto al Gadda della Cognizione del dolore) a vivere ed esprimere il tempo interiorizzato, assoluto e insieme nichilistico, purissimo e nondimeno sempre punteggiato e contaminato dai molteplici e variegati accidenti delle vicende individuali: ho in mente la Manzini di Tempo innamorato, che proietta e distende nel flusso della coscienza, del vissuto e della narrazione il “tempo assoluto” degli ermetici, o (con il suo sguardo ancora più vasto, la sua coscienza storica e ideologica ancora più duttile e prensile) la Morante della Storia, vasto affresco epocale la cui eroina vede, con gli occhi del ricordo, «tutto il passato [...] come un punto d'arrivo, tuttora confuso da un'immensa lontananza» – per poi abbracciare con lo sguardo, nel lirismo allucinato della visione onirica, «una sorta di specchio concavo senza luce, che rimanda alla visione dello stesso oceano, caotica e indistinta, come una memoria sul punto di scancellarsi», quasi a simboleggiare una mondana kenosis, un mallarmeano o montaliano annullamento e svuotamento della storicità, dell'esistenza e del pensiero.

In Menzogna e sortilegio, all'io rimemorante e narrante sperduto «nella camera taciturna e spopolata», avvolto dalla gelida e chiaroveggente «luce penetrante e fredda» della morte, della perdita, dell'assenza, non resta «nessun rimedio fuori che il triste sonno». Scrittrici, a ben vedere, la Morante e la Manzini, che, pur così diverse, per tanti aspetti stilistici e ideologici, l'una dall'altra, l'Italia può entrambe accostare, con qualche cautela, all'arte dell'analogia, dell'evocazione, della memoria, dello scandaglio psicologico ed esistenziale, della riflessione storica ed identitaria, sperimentata (certo con maggiore audacia e più radicale spirito d'innovazione sul piano dello stile, della forma e delle tecniche narrative) da una Woolf o da una Stein.

Ad ogni modo, neppure la nietzscheana “leggerezza”, la grazia lieve e tenue, l'apparente facilità e “sprezzatura”, il sapiente e disinvolto “salto mortale”, di certa narrativa contemporanea, da Nabokov a Kundera, da Calvino a La Capria, riescono del tutto ad esorcizzare, a medicare o a rimuovere il senso del vuoto, del nulla, della tragicità dell'esistere («Et in Arcadia ego», sembra costantemente bisbigliare lo spettro della morte e dell'insensatezza); semmai, la leggerezza è la forma che può assumere, nel discorso narrativo, il nietzsheano amor fati, lo zarathustriano sacro dire sì alla vita, il fermo, risoluto, ma forse celatamente, sordamente disperato, proposito di aderire, in ogni pensiero, in ogni scelta, in ogni gesto esistenziale, al ritmo che, come diceva un antico poeta, domina gli eventi, e che forse solo oltre la vita e oltre il tempo, scioltasi infine la catena aurea o ferrigna dell'eterno ritorno, rivelerà le sue leggi e il suo significato, per ora celati allo sguardo da un'alta coltre di bruma.

Si tratta, a ben vedere, della stessa leggerezza, della stessa signorile e sapiente noncuranza con cui Giuseppe Pontiggia poteva lasciar scivolare, a proposito di Lucano e della sua poesia ardente, truce, ferale, il nome di Heidegger, per poi cospargere la sua prosa narrativa classicamente composta, e insieme concisa ed energica (dalla Morte in banca al Giocatore invisibile alle Vite di uomini non illustri), degli oscuri e balenanti presagi, delle maschere trascorrenti e sogghignanti di una morte sempre illusoriamente procrastinata, ma inevitabile, ed incombente su ogni momento e ogni gesto della vita: mundus ipse senescit, lo sanno bene i professori amari e disincantati del Giocatore invisibile; poco sopravvive allo jaspersiano “naufragio” del tempo e della storia; l'acqua dell'inganno e dell'ipocrisia, dalle quali forse non va immune la stessa parola letteraria, è quella su cui l'intera vita veleggia ed oscilla, per venirne infine inghiottita e, forse, finalmente redenta e purificata, senza possibilità di ulteriori contaminazioni.

L'uomo, dice il Manganelli di Hilarotragoedia, è mosso da una inesorabile volontà discenditiva, percorre un già segnato cammino «infernico, supernamente infimo», che, come nella semiotica dello spazio rimbaudiana e simbolista, interseca e confonde, rovesciandoli l'uno nell'altro, l'alto e il basso, il cielo e l'abisso. L'angoscia, come la noia di Moravia (ma con ben altra tensione e ricerca stilistica), «si inconsanguinea alle cose» – le invade e le impregna, diceva Heidegger, come una nebbia nera. Così l'Orca di D'Arrigo solca imperturbabile, mossa essa stessa dal destino che incarna e reca ad effetto, «abissi di silenzio», avvolta «dalla tenebrosità come di roccia della sua sorte che sarebbe a dire dalla fatalità di essere e fare la Morte».

In un clima non lontanissimo si muove la historiographic metaficion che Linda Hutcheon (in un contesto di pensiero che ha riscoperto, a partire da Hayden White e dal Clifford di Writing culture, i nessi fra storiografia e narrazione, ricostruzione e rilettura dei documenti-monumenti ed elaborazione letteraria: nessi peraltro già intuiti, ancora una volta, dal Luciano di Come si deve scrivere la storia, geniale profeta della condizione astorica o antistorica del letterato apolis e xenos en tois bibliois, «senza patria» e ovunque «straniero fra i libri») ha additato come uno degli orientamenti fondamentali delle narrazioni postmoderne (segnate, paradossalmente, nonostante la vocazione epica che sembra a volte caratterizzarle, proprio dalla “fine delle grandi narrazioni”, almeno intese nella tradizionale, e ormai forse un po' angusta, accezione ideologica e metodologica).

Si staglia – o almeno si intuisce e si intravede, al di là del piano meramente evenemenziale, oltre o al di sopra degli eventi che si presumerebbero certi, tangibili, già dati – il grado più alto, più universale e vasto, ma nello stesso tempo più fluttuante, precario ed opinabile, dei fatti, che si risolvono o si disseminano in derive e anasemie verbali e semantiche, in elaborazione stilistica, espressione, discorso, scrittura. Il verum ipsum factum di Vico (egli stesso, per Bloom e la decostruzione, prima di tutto poeta, geniale ed immaginoso creatore di incarnazioni mitiche) sembra così risolversi in fatto letterario, in simulacro verbale, in affabulazione (nel senso più alto e veritiero) retorica e simbolica.

Come si ricorderà, Il Nome della rosa – esempio per eccellenza di controversa e sottilmente autoironica metanarrazione postmoderna, scritto dopo la fine delle ideologie, «per puro amor di scrittura» – si conclude nel segno di Meister Eckhart e del suo Dio come nulla eterno e come quiete deserta, pur continuando a palesare, a tratti, un'ostinata fiducia in una post-strutturalistica ed ermeneutica razionalità, peraltro (come nella fenomenologia di Paci, di Banfi, di Anceschi) aperta, duttile, pronta ad aderire alle diverse ed imprevedibili sollecitazioni dell'esperienza e del pensiero.

Si potrebbe chiosare l'approdo ultimo della narrazione nel Nome della rosa con ciò che Umberto Eco osservava introducendo, nel 1980, la riedizione della Struttura assente. Le stratificazioni dei metalinguaggi (dei linguaggi che spiegano e chiarificano un altro linguaggio), le forme e le strutture che dovrebbero illuminare e descrivere altre strutture e altre forme, finiscono, come in un gioco barocco di trompe l’oeil, in una manieristica prospettiva d' inganno, in una incessante ed illusoria sequenza di proiezioni, per approdare ad un fondo di silenzio, di ineffabilità, di inconoscibilità – e forse proprio su quel fondo oscuro ed insondabile giace l'Ur-Sprache dei romantici, la lingua madre, la matrice prima di ogni segno, di ogni codice, di ogni espressione.

E l'abisso di invisibilità, il solco di silenzio annidati nel cuore del linguaggio sono dimora della differenza, della béance, del vuoto, della presenza-assenza propri del segno – e in particolare del segno linguistico, lacerato, diceva Platone, dalla ferita, dallo stacco, dal korismos fra realtà e linguaggio, fra il mondo e la sua pronuncia, la sua orma impressa sulla grana friabile della voce, e più ancora della scrittura.

Il discorso del romanzo contemporaneo non può – implicitamente od esplicitamente, in modo più o meno consapevole – che snodarsi e vagare in questo deserto ontologico, conoscitivo e semantico. E la scrittura, cosa fra le cose, ente fra gli enti, confitta nel piano discontinuo, franto ed incomunicabile, dell'esistenza e dell'esser-ci, non può – dovrà riconoscere Sartre alla fine della Nausée – richiamare in vita il passato, redimere il tempo, eternare l'istante vissuto, nella stessa misura in cui «un esistente non può mai giustificare un altro esistente» – eppure è, con un mortuario paradosso, soltanto nel passato che l'uomo può riconoscersi, ripensarsi, «accettare se stesso».

Una sfumatura, un valore ontologici, e nel contempo potenzialmente nichilistici, questi, che affiorano addirittura dalle pagine del nouveau roman e dell'école du regard, pur nel loro volersi oggettive, fredde, esteriori, di una freddezza e di un distacco quasi fotografici o cinematografici. Penso, ad esempio, a L’Amour di Marguerite Duras, dove il simbolo quasi montaliano del mare viene a rappresentare il Nulla, una temporalità e un'esistenza nullificate nella loro ossessiva ed inesorabile ricorsività, oppressivamente immobili pur nel loro fluire, nel loro espandersi e contrarsi (e qui, come insegnano tanto il Sartre lettore di Faulkner – il quale gli sembra «capti, nel cuore stesso delle cose, una velocità congelata» –, quanto il Robbe-Grillet della Jalousie, la temporalità del romanzo potrà essere stata influenzata dalla teoria della relatività e dalla fisica quantistica, nel loro postulare un invalicabile limite proteso fino alle soglie dell'infinito, e rispetto al quale ogni differenza, ogni passaggio ed ogni scarto temporale risultano infinitesimalmente accentuati, e nel contempo quasi azzerati, o ridotti a pura, sconfinata potenzialità).

In Cent’anni di solitudine di Márquez (venendo al variegato, inesauribile panorama della cosiddetta letteratura post-coloniale, uno dei fenomeni più significativi della letteratura degli ultimi decenni) la scrittura profetica e mitopoietica, il mallarmeano e borgesiano Libro in cui sono scritte, o meglio si scrivono via via, le sorti del mondo, finiscono – come le intorte e labirintiche rovine circolari di un racconto di Borges, o come la mise en abyme del Gide dei Faux-Monnayeurs – per crollare ed implodere su se stesse, per divenire fomite del loro stesso annientamento, sorgente ed alimento del loro stesso autodistruttivo rogo.

Ed è significativo che tanto Insciallah della Fallaci, quanto i geniali ed apocalittici deliri del Pynchon di Arcobaleno di gravità e del De Lillo di Rumore bianco siano pervasi, in diverso modo, dalla nozione e dallo spirito dell'entropia, del disordine, della disarmonia prestabilita, immersi in una heisenberghiana atmosfera di indeterminazione, fluttuazione, impermanenza (alla morte, dice emblematicamente la Fallaci, risponde la morte, «decombinazione estrema dei possibili» secondo il Gadda del Pasticciaccio, al disordine altro disordine, in una dolente e stridente catena che non sembra poter avere mai fine).

La letteratura post-coloniale, divisa fra il “realismo magico”, che sembra costituirne il tratto saliente, da un lato, e il risentito impegno civile e ideologico dall'altro, anche quando privilegia quest'ultima linea (basti pensare al Soyinka di The Interpreters e di The man is dead) sembra ritrarre e trasmettere, infine, un medesimo scenario di morte e di dissoluzione. L'uomo muore quando viene costretto al silenzio da un potere feroce che assume la maschera della legge, ma anche quando non ha il coraggio di far sentire la propria voce e reclamare al propria dignità.

Eppure, diceva Vittorini, proprio allora, proprio quando sembra abbassato al rango di non-uomo, lacerato e vilipeso dall'esperienza dell'inquità e del dolore immeritato – proprio allora l'uomo è più uomo, animato dalla speranza ostinata ed estrema di un riscatto e di una redenzione. Il nichilismo, insegna Sartre, può convertirsi, paradossalmente, in nuovo umanesimo. Allora anche l'ontologia del nulla, il senso della caduta, della resa, della deiezione – dell'alienazione, della degradazione, del rigetto – possono convertirsi, paradossalmente, in valori attivi, se non positivi, di cui la letteratura sa farsi ancora (magari anche al di là dei suoi intenti e dei suoi contenuti fattuali, anche solo nella partecipe ed appassionata intentio lectoris, e senza per questo necessariamente abbandonarsi alle ingenue e generiche utopie di un inerte ed osmotico meticciamento, o di una indifferente ed onnivora multiculturalità globalizzata) testimonianza e veicolo.

Come suggerisce Assja Djebar in L’Amour, la Fantasia, l'individualità dello scrittore – per quanto vilipesa, violata e conculcata nella sua identità sessuale e culturale, nella sua civiltà, nelle sue radici, per quanto oppressa sia sul piano storico sia su quello esistenziale, affettivo e pulsionale, per quanto divenuta, come per Agostino, essa stessa la propria interminabile, inesauribile quaestio, «il luogo stesso della propria privazione» – riaffiorerà ostinatamente nelle parole strappate al silenzio come le reliquie della vita al deserto, nelle voci gementi ridestate dal sepolcro dei millenni, nel rimemorante ascolto offerto al «richiamo dei morti» – nella sacrale «fiamma della parola» ancora agitata «davanti al muro della separazione o della lontananza».

Il mondo accecato dall'integralismo e devastato dalla violenza ideologica può assumere (come l'indistinta e cruenta selva di membra e rottami su sui si apre la prosa variegata e polifonica dei Versetti satanici di Rushdie) la parvenza di un torbido verminaio di monadi irrelate e incomunicanti, «fragmented, equally absurd» – «debris of the soul, broken memories, sloughed-of selves, severed mother tongues, untranslatable jokes, extinguished futures».

Al-Lat, la luna infera, l'ambigua dea preislamica che apre la trinità femminile dei versetti famigerati, è a un tempo Venere e Atena, Afrodite e Mitra: incarna la sotterranea seduzione di una passione che può farsi distruttiva, di un entusiasmo che può divenire devastante, di una razionalità e di una sapienza che possono spingersi e spingere fino ad una tragica ate, ad una irreparabile perdita di confini, equilibri, misure, alla cancellazione di ogni spazio possibile di mediazione e di dialogo, e, dunque, alla distruzione e all'annullamento – eppure, proprio le tre fugaci e fantasmatiche “dee altovolanti”, guidato l'uomo fino al «Loto del limite», fino alla soglia di un Paradiso non ancora rivelato, possono, nella loro ambivalenza di Furie-Eumenidi, dischiudergli, dee terribili e rivelatrici, la luce di una verità.

E il protagonista del Paziente inglese di Ondaatje, che sogna un “mondo senza mappe”, senza barriere artificiose, senza contorni e limiti arbitrari, convenzionali e politicizzati, rischia per ciò stesso di perdere ogni distinzione e ogni senso morali, di trovarsi sperduto, al di là del bene e del male, in un mondo indefinito e vago, materiato, direbbe Agamben, di “nuda vita”, di sentimenti e passioni essenziali, di pulsioni e di estasi indeterminate e senza freni -̶ in uno spazio simile, dunque, al deserto, con la sua abissale ed insondabile instabilità, con la sua libertà e le sue insidie, la sua maestosa vastità e i suoi smarrimenti vertiginosi.

Ma è, infine, ancora Eliot, ben memore anch'egli delle peregrinazioni, delle ansie e degli smarrimenti agostiniani, a rammentarci che proprio attraverso la via negationis, la noche oscura del alma, proprio percorrendo, spogliati ed inermi, «the way of dispossession», si può forse oltrepassare il deserto e arrivare ad una meta; che proprio da un caleidoscopio vorticoso di «broken images» sarà forse possibile ricomporre un volto umano – che, infine, proprio con i frammenti è possibile puntellare le proprie rovine.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.