Si è detto e ripetuto che i poeti devono scendere dal piedistallo, sporcarsi le mani, confrontarsi con la realtà, farsi capire da tutti. Il rischio di queste posizioni è quello di cadere in una sorta di neoromantica "retorica dell'antiretorica".
Io credo che, proprio in quest'epoca che liquida l'"alta cultura", che riduce tutto ad oggetto, che sancisce lo strapotere della merce, dell'immagine, dell'effimero, la poesia - comunque destinata, per la sua stessa immateriale e fragile natura, alla solitudine, all'isolamento, all'ombra, esclusa dalla "visibilità"e dalla "promozione" - debba paradossalmente accentuare il suo già consustanziale carattere elitario, la sua già necessaria e ardua densità culturale.
E' l'unico modo per non essere essa stessa travolta ed omologata nella montante marea di sontuoso e sgargiante nulla - per non essere arruolata, diceva un filosofo, nella grande fabbrica del vuoto.
Come notava Marcuse, la "liquidazione dell'alta cultura", la "desublimazione repressiva", la profanazione e la dissacrazione di un patrimonio culturale millenario finiscono per fare il gioco della mercificazione, dell'omologazione, della neutralizzazione ideologica ed intellettuale perseguite dal capitalismo.
Certa cultura di sinistra (penso ai "travestimenti", a volte ingegnosi, altre puramente, e un po' superficialmente, giocosi, a cui Sanguineti sottopone i classici) sembra non essersene resa conto.
Un tempo, la dittatura borghese si serviva del sublime e della retorica. Oggi si serve, al contrario, della volgarità, della banalità, della spazzatura. Proprio per questo noi dobbiamo a maggior ragione tutelare e perpetuare, come diceva Pasolini compiangendo la "generazione sfortunata" dei giovani senza storia, senza passato, senza coscienza, prede inerti e cieche delle mode effimere (dei "trend", si direbbe oggi), la "poesia della tradizione".
Chi non si sente ignorante leggendo un grande poeta? Anzi, quest'ultimo esercita anche la salutare funzione di esortarlo allo studio, alla ricerca, alla riflessione.
O voi che avete gli intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto il velame de liversi strani.
Ecco, da Virgilio a Dante a Mallarmé, l'essenza del poetico. La quale giace "sub tegmine", e deve essere faticosamente e pazientemente scavata e (in modo sempre parziale) rivelata. Il poeta scende nell'abisso del pensiero e del linguaggio, "e risale alla luce coi suoi canti".
Si fa spesso il nome di Rimbaud, indicandolo come poeta spontaneo, diretto, se non selvaggio e barbaro. Eppure, Rimbaud iniziò a poetare in latino. In latino, lingua madre per eccellenza, la Musa gli disse (come a tanti prima di lui e a tanti dopo di lui, in modo più o meno veritiero): "Tu Vates eris". Senza questo sostrato archetipico, questa memoria remota e pura, non si capirebbero certi suoi testi. Cosa può dire "Testa di Fauno" a chi non abbia insé un'anima antica? "Il battello ebbro" non è forse il viaggio di un''immaginazione nutrita di letture, cultura, memorie?
Non possiamo far altro che avviarci anche noi, con umiltà e pazienza, lungo questo cammino.
Herbert Marcuse, Eros e civiltà:
http://www.webster.it/libri-eros_civilta_marcuse_herbert_einaudi-9788806159009.htm?a=328366
Arthur Rimbaud, Opere:
http://www.webster.it/libri-opere_rimbaud_arthur_einaudi-9788806188498.htm?a=328366
http://www.webster.it/libri-opere_testo_francese_fronte_rimbaud-9788804560234.htm?a=328366
venerdì 29 maggio 2009
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