martedì 20 aprile 2010

POESIE DI GIACOMO LERONNI


Di Giacomo Leronni, del quale ho recensito altrove la preziosa e lungamente meditata raccolta Polvere del bene, ho ora l'onore di pubblicare altri testi, che confermano l'indole essenziale della sua Musa e ne suggeriscono, forse, un ulteriore sviluppo (che non necessariamente segna, nella perpetua simultaneità, nella “contemporaneità di tutti tempi” direbbe Luzi, che è propria della vicenda poetica, una fase cronologicamente successiva, ma, piuttosto, una ulteriore, interna articolazione ipostatica, che avviene, avrebbe detto un filosofo, per autoctisi di una medesima identità creatrice).

Scavata nel silenzio, quasi dolorosamente aureolata, e insieme assediata, come in Ungaretti o in Celan, dal bianco del silenzio, del non detto e forse indicibile (del “Mistico” di Wittgenstein), è la parola del poeta: parola che sorge da profondità minerali, quasi da radici inorganiche o preorganiche, eppure oscuramente, immensamente vitali, come quelle che cela la terra ardua, grama, tormentosa, del suo Sud – e, insieme, strenuamente consce di se stesse.

Poesia notturna e, insieme, albale, aurorale: poesia della fine e dell'inizio, dell'Omega e dell'alfa, ciclicità dell'essere e dell'esistere risolta e distesa, però, nel discorso ciclico, progressivo-regressivo, nel respiro duplice e bidirezionale, del versus.

La “notte amica” di Ungaretti (ma prima ancora quella mistica e maestosa di Novalis) è, nella sua oscurità, fonte di luce: quella che pare pietra cieca è specchio, invece, colmo di stelle; se dapprima la notte è dimora dell'autentico, e il giorno mascherata di menzogna, nella polivalenza del dire poetico oscurità e luce, silenzio e voce si fondono invece in un nesso inscindibile e duplice. Il presente notturno della creazione poetica è un “presente eterno”, agostiniano e petrarchesco punctum temporis “a cui tutti li tempi son presenti”. E nelle rovine del tempio interiore possono celarsi l'acqua di vita e la nuova fioritura, ignorate, eternamente, preziosamente vive, anche se forse soltanto per se stesse (il tempio interiore di Dell'eterno in minuzie sembra alludere al Dio, senecano ed agostiniano, che abita in interiore homine; ma non è, qui, fatto oggetto di alcun culto: il Dieu caché, il Deus absconditus di Pascal invade con la sua presenza-assenza anche il sacrario dell'interiotià, e viene così ad essere manifestazione del subconscio, dell'abisso interiore, intentato e non lambito, a ben vedere, se non dalla parola poetica stessa). (M. V.).


LEZIONI DALL'OSCURITÀ


Dispongo le tempere
del giorno
poi le ripongo

il meccanismo
s’inceppa
ma io insisto
faccio forza
prevalgo

sorge l’alba

senza che alcuno
sappia
spingendo, tendendo
i muscoli
altre ore di falsità
sono pronte.

***

C’è un pozzo
una giberna per il silenzio

labbra come mensole
il tappeto delle rese:

un ricordo procura
la luce necessaria
un giuramento disorienta

spingo oltre il giudizio
a mezzo
del corridoio di tenebra

eludo l’agguato
della soddisfazione
l’approdo, il tatto:

questa la casa
il ricovero.


***

Opera incidendo
accade

essere frusto
che si aggruma
sasso
che sollecita la marea

a volte il suo specchio
rigetta il grido
a volte lo assorbe

lo descrivi
ma non è così
occulto
e colmo di stelle

potrebbe essere un seme
una spilla

è schivo
non comprende
perché caparbiamente
vuoi dargli un nome.


***


La notte
mi piega a sé
mi affida
la sua albagia:

è tardi
per mentirle
per ripagarla
con monete d’identità.

Sfolgora il pregiudizio
smania il corpo
presagendo la prova:

indosso
cellule esiliate

mi circonda
il buio presente di chi scrive
presente eterno.


***


Non sono più io
ma il male
che m’interroga

l’assurdo che impatta
grumi terrestri

il picchio del male
che indaga se stesso.

Non sono io
sono un dito di morte

lava che squadra
l’abisso

rifugio improvvido
in cui archiviano preghiere
le mie malnate
foglie verdi.


***


Dentro tace il presente
si apposta
si fa vena

scorgo un taglio
è loquace

fuori chiamano
nitidamente
sboccia ripetuto
un nome

ancora dentro
l’ora è già smalto
cellule si stirano

sono dietro l’angolo
mi vedo
oltre il gomito
caudato delle stelle

invischiato
invocato
per portare buio.


***

Risalgo l’alba

la luce che sgorga
da un nucleo minuscolo

il fiore dell’insidia.

Ad ogni approdo
inatteso sostegno

una cipria di vittime
il cui fervore dispensa
dalla visione.

Procedo
per la febbre
che s’impenna

senza l’obbligo del grido

fino all’ottusa vena
che concepisce.


***

Il ricordo è il mattino

che s’innalza
da ogni parte

è una fionda
una sberla
per le ansie

scuce il presente
lo spezzetta

si aggiudica il mare.

Il ricordo:
un’aurora salda

un guizzo di parole
tessute con cura

abbaglianti
e già sconfitte.


***


Case adulte
lance di necessità

guglie, tronchi
di pietra:

la vetrata del cielo
ricomposta

porfidi insondati
capaci di canto.

La pena è elusa
il ricordo s’incasella:

torna la città
al martirio sonoro

la sera reca l’ambra

le strade vibrano
dolci come nomi.


***

Ecco la sera

è questo il suo nome

un acero il seno
derma viscoso

ecco parla
ed io registro
arrivo da voi
piccole mosche
che trattenete il fiato

arrivo licheni
più gagliarda
dal precedente abbraccio

non posso fermarmi
scivolo
per chine taglienti
resisto gioconda

per accompagnare
tutto questo legno
di ore
ad ardere.


***

Niente può separare
la luce dal chiodo

la cattura è definitiva

la mente ne ripercorre
l’eco
e s’intorbida.

Sfrigola il fiore
della pena, lucida
le sue barricate:

niente può separare
l’ombra dalla meta
la folgore dall’orgoglio

e c’è chi con i passi
converte il buio

un bambino di prato
un adulto
che scalcia la gravità

niente può arrestare
il cuneo che avanza
una nudità dopo l’altra.


***

Quanto cercare
dopo il primo colpo

ci sono altre strade
il pruno le impara

i sassi apprendono
un codice sapiente

invece si insiste
si cerca il privilegio
inguainato nel buio

si bussa
a porte di geranio
si urtano frasi
di terra pavida

ci sono altre fronde
le percorre la luce

dritto davanti a noi
o appena indietro

un coro di spasmi
da cui semplicemente
attingere.



***

SINE DIE


Mente
che si scompone
in altra mente

resina
incisa dalla luce

o piega
di creatura assorta
nella notte indulgente

mente
china sul segreto
in ascolto
per agganciare il mistero

e formularne il nome

l’essere
in spirito e assenza

e intorno fanfaluche
esitazioni

esecuzioni.


***



DELL’ETERNO, IN MINUZIE

1.

Frasi d’ambra
giorni affogati in altri giorni
d’eccellenza o incuria

erba esiliata sul colle
oltraggiato fino al midollo
poi rappreso
per l’incontro in vista

pietre che rigano la fedeltà
gonfie di tutto il sentire
gli approdi, la futilità
dell’eterno in minuzie

parole affastellate, trascorse
il tempo di girarsi
di accostare il vuoto che fruscia

lampo su lampo
scossa dopo scossa

eccolo annotato, siglato
il luogo non-luogo
il senso imperscrutabile

di tutta questa luce che non sazia.

2.

Replicare passi sconsacrati
scarni i tratti, le tracce
arenate
del cuore che sgombra

più vivo per questo
l’ansimare della storia
più acuta l’intrusione
dei sensi

fra vite sepolte, riemerse
dove le pietre si flettono
e l’incanto recalcitrando
si spegne.

È in questa voce che attendo
i tuoi occhi, i margini d’osso
i muschi
fra l’occulto e l’esploso

nella città inerme
che mi abbraccia

nei ruderi
di templi interiori
che nessun culto ha mai sfiorato.

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