È una
caratteristica di moltissima poesia odierna (e di quella di Davide
Rondoni in particolare) la ricerca di schegge di poeticità nella
dimensione quotidiana, più banale.
Ricerca
che, senza fare troppi sforzi di memoria, era già stata tentata e
portata avanti con risultati eccellenti da T.S. Eliot, con testi come
The love song of J. Alfred Prufrock,
o la serie di Sweeney.
Ma alla fin fine anche Eliot si convinse dell'impossibilità di
giungere ad un testo definitivo, causa la dispersione incontrollata
di tali epifanie poetiche, troppo numerose, troppo variegate; donde
l'opzione per il metodo mitico, l'unico capace di riunire saldamente
questa miriade di impressioni attorno ad un nucleo riconoscibile e
definito.
Questa virata,
questa manovra di salvataggio non sono ancora state tentate da quei
poeti che in Rondoni vedono e sentono il loro caposcuola. Né
potrebbero tentarla, ormai, essendosi adagiati in una sorta di
nicchia che ha una sua legittimazione e una sua visibilità nel
mosaico e nel sistema dell'editoria, dei premi, dei convegni, dei
“festival”.
Ignoro
se Rondoni preferisca questo sonnambulismo al fare vera poesia; non
credo però che possa preferirlo. Da caposcuola, da iniziatore (o più
umilmente, da sostenitore attivo) di questa poetica del quotidiano
non può sfuggirgli la ripetitività dei testi, conseguenza ovvia di
qualunque cosiddetta scuola,
e la loro spaventevole proliferazione dovuta all'infinità di
esperienze che si vogliono testimoniare. È,
insomma, una poesia tesa verso un traguardo irraggiungibile e che
forse nemmeno esiste. È
una poesia senza uno scopo definibile, quindi inutile per
costituzione; perché da questi testi non può derivare al lettore
quel piacere che è l'unico fine della vera poesia. Verrebbe da
suggerire ai poeti odierni di cimentarsi con un altro genere, più
consono alla loro visione: il diario, dove troverebbero un terreno
congeniale a questa poetica del minimo, del quotidiano, dell'inutile
dato effimero.
Ma volevo leggere
più nello specifico un testo di Rondoni, magari con il rischio di
sembrare poco umile nell'accostarmi ad un nome così importante
(ricordando che è solo il testo ad essere passibile di giudizio, e
mai il poeta); un testo preso a caso dalla rete, senza considerarne
le origini, la data di composizione, i motivi esteriori; per
dimostrare, se sarà possibile, che questa (non intesa come solo
rondoniana) poesia è fattibile in serie, senza troppo sforzo, senza
troppe pretese, perché legata non ad un singolo poeta, ma ad una
visione discutibile del compito della poesia in generale.
L'irregolarità
metrica, la pelle con cui si presenta quasi tutta la poesia di oggi,
porta ad una fluidità nella ripartizione del testo, tra le strofe e
tra i singoli versi, che disturba: tale scelta, che certamente non
deriva dalla scarsa maestria del poeta, è da imputare al gusto
imposto dai lettori. Si tratta del primo errore commesso dalla poesia
odierna, o almeno da buona parte di essa: cedere alle presunte
richieste del lettore, che non vuole nulla che lo impegni troppo o
che gli riesca di difficile lettura. Quindi ci si è lasciati
avvincere dalla mania della libertà espressiva, ci si è fatti scudo
di questa fantomatica libertà, già universalmente valida nei temi,
anche nei confronti di uno degli elementi necessari della poesia: la
metrica.
A Rondoni non è
certo imputabile alcuna colpa, in questo processo di semplificazione
e svilimento del dettato poetico. Anagraficamente, lo ha anche egli
semplicemente subìto e seguito. Tale anarchia metrica ha origini più
lontane, e ben più complesse.
Volendo dare un'idea
di quanto sia frastagliato questo testo (ma l'indicazione di massima
varrebbe per quasi tutta la poesia di oggi), ecco lo schema dei versi
e delle rarissime rime: prima strofa 13-8A-4sdr-11A; seconda strofa
9-9-10tr-6-8-5-10-14A-10A-11-6; terza strofa 12tr-8-11-11tr-11-9-8;
quarta strofa 8-10tr-9sdr-13-12-10-4sdr-10-7; quinta strofa 10tr -11.
Come si può vedere,
nessuna strofa assomiglia all'altra per numero di versi, per la
disposizione di versi isosillabici in essa, per schema rimico (che,
appunto, è carente fin quasi all'inesistenza). Si è giunti, qui e
in molti altri casi, a sostituire alla suddivisione dovuta all'unità
ritmica, metrica, musicale del verso un nuovo tipo di segmentazione,
basata sull'unità di elocuzione; si è passati a dare importanza a
ciò che viene detto (il che è accettabile), trascurando però il
modo in cui lo si dice (trasandatezza, invece, meno accettabile).
Ecco qualche esempio:
Quando anche tu
ti fermerai in questo grande
autogrill e il
viso stanco
vedrai rapido
sui
vetri, sull'alluminio del banco (vv. 1-4),
dove
l'attenzione viene messa subito su autogrill,
che iniziando il secondo verso è in posizione privilegiata, quasi a
volerne essere il centro (e vedremo come questo luogo sia uno dei due
cuori del componimento); e parimenti Rondoni fa risaltare le
suppellettili che lo riempiono, i vetri e
l'alluminio del banco,
sottolineate dalla rima, che impreziosisce per la sua rarità. Tutte
cose materiali (in un luogo forse immateriale, un non-luogo, o un
semplice posto di passaggio?) che fanno da contraltare all'unica
annotazione umana, chiamiamola così, che è quella del
viso stanco del viaggiatore.
E ancora:
sarà una sera
come questa
che nel vento
rompe la luce
e le nubi del
giorno, sarà
un grande
momento:
lo
sapremo io e te soli (vv.5-9),
con
quel verso, l'ultimo, che ha sapore di sentenza (e questo desiderio
di poter dire la parola definitiva lo ritroveremo nella strofa
finale, quel distico che è una vera e propria coda). I primi due
versi dell'esempio mostrano un minimo di regolarità, sono due
novenari che hanno già senso compiuto, anche senza l'aggiunta del
terzo verso, quel decasillabo tronco che sa di canzonetta. E poi,
quel senario che pare la réclame
di un gioiello: un grande momento.
Nel prosieguo altre
sentenze saltano all'occhio:
Ripartirai
(v. 10),
altro
vecchio vezzo della poesia italiana dell'ultimo secolo, mutuato forse
dal primo Ungaretti, proposto anche in seguito da Quasimodo et
alii, e che sembra impestare ancora i versi
di moltissimi poeti di oggi. Il quinario sembra isolato apposta per
una performance di lettura pubblica, come se, dopo la pausa narrativa
raggiunta con lo sapremo io e te soli
ci volesse una ripresa altrettanto solenne, qualcosa per non scendere
di tono e non perdere l'attenzione dell'ascoltatore (dato che oggi la
poesia è più ascoltata che letta, a quanto pare). E ancora:
La felicità del
tempo è dirti sì,
ci
sei (vv. 16-17),
oppure
la nostra vera
somiglianza
è
la dove non si vede (vv. 21-22),
che rasentano il
tono aforistico delle frasi di una famosa marca di cioccolatini. E
più avanti:
sarà il tuo
inferno, la tua virtù
questo udito da
cane o da angelo
che sente
all'unisono il giro dei pianeti
e la pastiglia
cadere nel bicchiere
due piani sotto,
dove due vecchi
si accudiscono.
Sarà questo
amore strepitoso
tuo
padre, quello vero (vv. 24-31),
versi in cui si
situa il secondo cuore del componimento, trasferito in una casa. Qui,
di nuovo, hanno sapore di sentenza il primo verso (con l'accenno,
ripetuto nel verso seguente, a due opposti), di nuovo vicino ad un
linguaggio pubblicitario, e gli ultimi due, altra bordata di tono
sapienziale.
E
ora un esempio da un testo, Il cane che ai
miei piedi guarda l'alba, piuttosto
controllato metricamente, di Isabella Leardini, altra voce che va
molto di moda, e che nei suoi componimenti mostra spesso un andamento
diaristico:
Ma noi restiamo
qui come le radio
dimenticate
accese in piena notte,
come le insegne
che hanno perso qualche luce
ma
cercano lo stesso di brillare (vv. 11-14),
dove si vede la
regolarità degli endecasillabi (anche se sciolti) distrutta dal
verso di tredici sillabe, che appunto è un enunciato finito, a sé
stante, e che esonda dalla misura perché il messaggio stava tutto
lì, nel paragone, e che l'autrice ci getta addosso quasi con ansia,
con la paura che a noi sfugga.
È poi possibile una
via di mezzo, tra l'unità di verso e quella elocutoria, ed è quella
che basa la sua segmentazione sulla rima: quindi, pur non rispettando
alcuna regolarità metrica, è legata comunque ad un elemento ritmico
come è la rima. Eccone un esempio, sempre da Rondoni:
quasi
un ricordo e i
silenzi delle scansìe di oggetti,
dei
benzinai, dei loro berretti (vv. 11-13),
che
mostra sì l'enfasi sonora della rima, ma anche quell'andamento
slegato, dal punto di vista della regolarità metrica, tipico di una
poesia da recitare. La rima serve per interessare il pubblico, che
rischia di perdersi in questa fluidità, in queste composizioni
amorfe, come dentro un mare infinito e senza appigli (e pare che i
poeti, oggi, abbiano fatto loro il suggerimento del Rucellai, Le
api, v. 11: fuggi le
rime, e 'l rimbombar sonoro).
Parte
della poesia odierna sembra aver seguìito, e forse promosso secondo
le sue scarse forze, un avvicinamento del proprio dettato a quello
della pubblicità. Si è fatta tutto un campionario di slogan da
sciorinare, pillole di saggezza che spalancano al lettore nuovi
universi, paradisi sconosciuti, come ad esempio in Roberto Cescon. Da
Le cose che compriamo abbiamo:
le
cose che compriamo ci raccontano (v. 14);
e del resto la
poesia in questione ha altri lampi epifanici, come quello messo in un
distico che s'imprime a fuoco nella memoria:
per le corsie
pensiamo cosa manca
nelle
antine della cucina bianca (vv. 7-8),
dove l'autore ha
cercato di condensare tutta la mancanza di significato dell'esistenza
odierna (tacendo del fatto che, nel corso di questa stessa poesia,
con molta grazia Cescon parla di assorbenti).
L'equivoco, se così
vogliamo chiamarlo, risiede nella convinzione, creatasi negli ultimi
anni, forse dovuta all'esempio di Pasolini, che la poesia debba
essere portatrice di un messaggio per i lettori. Che abbia, insomma,
un dovere verso di essi, un compito che sta a metà tra il salvifico
e il didattico. Ed avendo questo fine, deve anche adottare un modo di
esprimersi che si avvicini molto ai gusti e alla mentalità del
lettore. Come la pubblicità fa leva sui bisogni, veri o presunti,
del consumatore, così questa poesia si basa sulla convinzione di
poter fare da guida a chi la legge, quasi che i poeti di oggi (non
dico un Dante o un Leopardi) siano custodi della verità, profeti,
salvatori.
La pubblicità
grida, insinua, sussurra; questa poesia fa lo stesso. Non ha più un
suo linguaggio, basato su caratteristiche chiaramente riconoscibili
come poetiche, a parte l'andare a capo ogni tanto, il contare undici
sillabe (rischiando ogni tanto uno sdrucciolo, o restando in bilico
su un tronco) e quel tono da santone di cui non riesce più a
liberarsi. Essendo poesia da recitare, e non più da leggere, non ha
alcuna importanza il suo aspetto su carta, o la regolarità del metro
(perché sarà comunque l'autore / attore ad interpretarla per il
lettore); ciò che importa è mettere su uno spettacolo interessante,
gridato, o sussurrato, a seconda dell'oggetto di cui parla. Il testo
si è trasformato in un copione.
E
di conseguenza, il poeta diventerà più importante della sua
composizione, mentre la poesia del quotidiano dovrebbe, per sua
natura, far parlare le cose. In esse troverebbe forse una solidità,
anche espositiva, che invece le manca. Dovrebbe accadere il contrario
di ciò che dice Juan Ramòn Jiménez nella sua Intelijenzia,
dame:
que mi palabra
sea
la
cosa misma (vv. 3-4),
che cioè il peso
del poeta non schiacci quello, leggerissimo, etereo, dell'essenza
delle cose.
Ma
nella poesia di oggi le cose sono solo un pretesto. Il vero
protagonista è il poeta. Questo testo di Rondoni e moltissimi altri
hanno tutti lo stesso sapore perché tutti grondano del poeta che li
ha scritti. Il che, potrà obiettare qualcuno, è naturale: il poeta
deve uscire dal suo
testo, il lettore deve capirne l'animo e i sentimenti. In realtà il
poeta di oggi è passato dall'essere l'autore del testo a recitarvi
come attore, con il rischio della riduzione della poesia al diario
quotidiano.
La
vera poesia del quotidiano non è questa. Qui la voce
dell'autore-attore è troppo coprente, troppo roboante. Le cose, la
cui vera essenza, nascosta e da riscoprire anche nella quotidianità,
è pur sempre l'oggetto privilegiato dello sguardo del poeta, restano
filtrate, mai date direttamente al lettore; gli autori, con la loro
mole spropositata (rana rupta),
impediscono alla poesia di compiere il dovere che le spetta.
Approfondendo il
testo di Rondoni, comprenderemo meglio questo sfasamento.
L'immagine
complessiva della poesia risulta chiaramente spezzata in tre momenti,
basati su tre luoghi (in realtà, due), e cioè l'autogrill, dove
inizia la scena, la casa in cui Rondoni trasferisce, per aumentare il
senso di affetto familiare, se stesso e l'interlocutore, e poi di
nuovo l'autogrill.
Questa
spezzatura, che forse appare più forte ad un lettore che ad un
ascoltatore, rischia di compromettere la riuscita del testo.
L'autogrill è, per antonomasia, luogo di incontri e separazioni
veloci, possibilità di scoperte, di epifanie meravigliose, un po'
come l'albergo per il primo Montale (e degno di nota il fatto che
anch'egli mette l'accento sui vetri, ad esempio in Arsenio,
v. 5: ai vetri luccicanti degli alberghi);
ci ridà, insomma, un'idea di transitorietà che ben si lega alla
storia personale di ognuno (tutti, più o meno, avranno fatto
esperienza di un autogrill). La metafora era un ottimo spunto. Ma
quell'inserzione dell'ambiente familiare, così più duraturo, con
fondamenta più solide, e l'immagine dei due anziani che durano
assieme da anni, svilisce la forza iniziale del componimento.
L'incipit
della seconda strofa ha un sapore eliotiano. Ricorda (assieme a
io e te) l'attacco di The
love song of J. alfred Prufrock:
Let us go then,
you and I,
when the evening
is spread out against the sky
like
a patient etherized upon a table (vv. 1-3),
anche se
naturalmente manca della forza espressiva della metafora del testo
inglese. Il verso
che
nel vento rompe la luce (v. 6)
è di ascendenza
quasimodiana (strano, ma vero), specie per l'uso del verbo:
Un sole rompe
gonfio nel sonno
(Alla
mia terra, v. 1),
il soffio
di vento
prigioniero, rompe e fa eco
nella luce
(Che
vuoi, pastore d'aria?, vv. 7-9),
e in aggiunta, con
lieve cambiamento del verbo, di uguale significato,
La sera si
frantuma nella terra
(Un
arco aperto, v. 1).
C'è anche un altro
ricordo montaliano:
oscurità che
rompe
qualche foro
d'azzurro
(Accelerato,
vv. 11-12);
e
andando più indietro, qualcosa del Rimbaud del Bateau
ivre:
Je
sais les cieux crevant en éclairs (v. 29);
ed altri echi
restano forse più nascosti (ma la sera, dalla famosissima poesia del
siciliano, ha sempre ricoperto un ruolo principale nell'addolorarsi
dei poeti), e inarrivabili per l'ascoltatore, ipnotizzato dalla
performance del poeta che diventa egli stesso, sul palco, un lettore.
Ma
il testo, messo su carta, non imbroglia: quel mio
figlio, mio viaggiatore (v. 23) richiama
Baudelaire e il suo verso, famosissimo,
Hypocrite
lecteur, - mon semblable, - mon frère!
da
Au lecteur dei
Fleurs du mal, e che
lo stesso Eliot ripropose, quasi identico, in chiusura della prima
sezione della sua Waste Land
(con l'aggiunta di un You
a precederlo).
Rondoni
è un famoso traduttore di Rimbaud. Ne è anche un ottimo lettore.
Dal poeta francese sembra derivargli l'antitesi nel verso questo
udito da cane o da angelo (v. 25), che
ricorda la quasi identica contrapposizione rimbaudiana messa in luce
nel primo sonetto degli Stupras,
raccolta di testi ironici, dissacranti, e poco conosciuti:
Au
moyen age pour la femelle, ange ou porce (v.
5),
in cui è identica,
variando l'animale e la posizione, l'immagine dello scontro tra il
basso e l'alto, tra la vitalità e l'etereità.
La
chiusa, quel distico che vorrebbe mettere un suggello alla poesia e
che invece suona falso, troppo impostato (ma che risulterebbe
perfetto in una lettura pubblica), ha sapore quasi crepuscolare: è,
non dico ai livelli di un Carducci che scrive in memoria del
figlioletto morto, ma ugualmente coprente, e qui sensibilmente fuori
luogo.
Rondoni
voleva creare circolarità, giocando con la dimensione temporale, con
se stesso già scomparso e con il suo interlocutore cresciuto, ancora
vivo, ma quasi immemore delle parole che il poeta gli ha finora
rivolto; ma ottiene solo una specie di ritornello stonato. La poesia,
e il suo quid, sono
terminati versi prima, e la terza e quarta strofa sono un di più. Il
senso era il tempo che passa inesorabile, la speranza che un padre
pone nella capacità del figlio (spesso destinata a svanire) di
ricordare i suoi insegnamenti. E lì stava anche un buon messaggio da
parte di Rondoni, accettabile se non altro, perché sincero, sentito,
vero insomma.
Le
due strofe in questione contengono invece quella serie di aforismi,
dal tono troppo paternalistico, troppo benpensante, per riuscire
credibili. La speranza in qualcosa di duraturo che possa attraversare
il tempo non collima col resto del componimento, anche se ad un
lettore svagato potrà sembrare una bella contrapposizione, ben
congegnata e sistemata al posto giusto (ad un ascoltatore, intento
più che altro a misurare con l'occhio l'aspetto del poeta, assiso
sul palco, in un fasciame di luce, non risulterà molto di diverso da
quanto sentito prima).
Perché
in queste due strofe la poesia ridiventa messaggio, dimenticando il
proprio linguaggio specifico, che l'ha sostenuta abbastanza bene
nelle strofe precedenti e che poggiava sull'immagine, convincente,
dell'universale transitorietà umana; perde le caratteristiche
poetiche fondamentali, mantenendo quelle esteriori (e vale la pena di
chiedersi, con G. M. Hopkins, se tutto ciò che è scritto in versi
sia poesia) e giunge al suo vero scopo: piacere a tutti.
La colpa, qui, è
proprio del poeta. Egli sta recitando la parte di un padre (di nuovo,
quell'impostazione falsata in vista del fine pratico di questo genere
di poesia, e cioè la recitazione) e nella terza e quarta strofa, e
in altri piccoli interventi nelle precedenti, dopo un discorso
oggettivo, calibrato, basato davvero sulla forza esistenziale delle
cose, sul loro peso, sulla loro presenza, arriva a scivolare in
ammaestramenti inutili.
Si esce da questa
lettura, fatta da noi stessi o tramite l'autorevole voce del poeta
che conosce meglio del pubblico pause e attacchi, con un senso di
sballottamento. Cosa c'è di vero nelle sue parole? L'oggettività
del dettato è andata in panico molto presto, perché il racconto che
sta sotto è stato innervato di sentenze altere e soverchie, come se
Rondoni non avesse alcuna fiducia in chi lo legge. Tale è appunto
l'atteggiamento che l'autore di teatro assume nei confronti di un
sempre cangiante uditorio. Mancano soltanto (o forse ci sono,
travestite di una poetica semplicistica) le indicazioni su chi entra
in scena, chi ne esce, sulla postura da tenere. E qui fallisce la
serietà delle cose, subentra l'infallibile ego dell'autore.
Nei riguardi di
questa poetica, applicabile in serie quasi quanto quella poesia
sperimentale cui vorrebbe contrapporsi, e che aveva almeno il merito
di una maggiore sapienza formale; di questa poetica che punta alle
cose e alla fine le tradisce (poetica che, se attuata in modo davvero
efficace, con convinzione, con intelligenza, non sarebbe affatto da
rigettare, come non lo è la prima produzione di un Eliot), si
finisce per voler rispondere solamente con le parole di Callimaco,
nella traduzione di Quasimodo:
Non amo la poesia
comune e odio
la
strada aperta a chiunque,
nella speranza che
trovi spazio una poesia forse più personale, negli intenti, e molto
più universale negli esiti, ma sicuramente di più scelta ed accorta
ricezione.
Gabriele Marchetti