mercoledì 17 luglio 2013

Anacleto Margotti, un pittore bucolico e metafisico

Raccolta dei covoni


 C'è ancora un po' di tempo, qualche giorno (fino al 21 luglio), per visitare, al Centro Gianni Isola, la bella mostra che la Fondazione Cassa di Risparmio ha dedicato ad Anacleto Margotti (http://www.fondazionecrimola.it/attivita-culturali/archivio-news/anno-2013/giugno-2013/mostraanacleto-margotti-collezioni.html), mostra organizzata secondo un lineare percorso cronologico e tematico ed accompagnata dall'agile e documentato catalogo curato da Matteo Bacci.

Un'occasione, forse, anche per rivedere il cliché del Margotti realista, campagnolo, erede dei macchiaioli o della pittura verista, bucolico e georgico, chiuso alle suggestioni del moderno.

Fu Carlo Carrà, che pure contribuirà ad alimentare lo stereotipo nella presentazione della mostra roveretana del '48, ad associare, in un articolo apparso sull'«Ambrosiano» nel '29, Margotti al Novecentismo, per il modo in cui sapeva trattare «il rilievo il chiaroscuro la solidità e la sintesi».

E, in effetti, forse anche per influsso di certe estetiche francesi, da Charles Blanc a Maurice Denis, diffuse fra Ottocento e Novecento, le quali vedevano nell'arte una sorta di homo additus naturae, di elemento umano che traeva dalla natura un'essenza estetica ed intellettuale per ritradurla, o sublimarla, o fosse pure distorcerla, nel linguaggio delle linee, degli spazi e dei colori, delle tinte e dei chiaroscuri, Margotti coglie e porta alla luce, in tutte le forme della natura, del paesaggio, del lavoro agreste (come osserverà, da pittore-poeta capace di dipingere anche la parola, Ardengo Soffici), «il mistero del loro prototipo».

Sulla scia di Cézanne, e prima ancora della pittura italiana del Rinascimento, estaticamente ammirata al Louvre durante il soggiorno parigino, Margotti immerge le figure e il movimento entro un sistema, implicito, di forme geometriche, di rigori prospettici, di parallelismi e rispondenze ed echi visivi che paiono già presenti, e come dimenticati, nella realtà, nella natura, nella physis, avvolti nel manto della materia, e in attesa di essere rivelati, anche attraverso impercettibili correzioni del dato visivo, dallo sguardo pittorico che si protrae e si trasfonde, per così dire, nel gesto e nel colore.

Così, i buoi e gli uomini sono avvolti dallo stesso fascio di linee che ne sottolinea lo sforzo, e che si prolunga, idealmente, immaterialmente, al di fuori dei limiti del quadro; le vanghe e i cappelli dei braccianti descrivono tre linee rivolte verso l'alto, verso un cielo invisibile; un solenne ed austero schema triadico, da pala d'altare, sembra discendere sugli uomini e le donne intenti ad ammassare i covoni di fieno.

L'uomo che attraversò due guerre, esasperato, come egli stesso scrisse, dalle «prevedibili contraddizioni», tragiche quanto paradossalmente banali, della storia, e che fissò in nervosi schizzi espressionistici i soprassalti, i traumi e gli stenti della Linea Gotica, forse trovava nella fervente immobilità nella natura, nell'animoso ripetersi dei cicli del lavoro agreste, quell'armonia e quella pace che il divenire della storia infrangeva.

E le donne lavoratrici di Margotti, che siano contadine o segretarie, hanno nei volti un'austerità, una solennità quasi monumentale di linee che fanno quasi pensare (senza averne la compostezza) all'arcaismo di un Manzù o di un Casorati (e rimandano, prima ancora, forse inconsciamente, all'archetipo della Grande Madre, matriarcale, possente, feconda, che dalle Veneri paleolitiche arriva, in certa misura, a quelle di Giorgione e di Tiziano); vi è, certo, qualcosa di bucolico e di georgico, di carducciano e di pascoliano (il «divino del pian silenzio verde», l'aratro abbandonato «in mezzo alla maggese», emblema della solitudine e dell'attesa vana, le bestie virgiliane «sospese in lontananza sulle rupi»...), ma anche queste atmosfere sembrano sempre rinviare, pur se senza risposta, ad una sfera superiore, o forse ad un'interiorità ulteriore e più profonda.

Vita d'arte, il libro autobiografico, descrive quasi sempre il gesto della creazione come preceduto e covato da un'attenta osservazione (protrattasi addirittura, nel caso del ritratto della madre, per decenni), ma realizzato e risolto come sotto la spinta di un fervore e di un entusiasmo repentini, quasi divini, che fissano e fermano per sempre l'istante nella mobile immobilità dell'eterno.

«Eternare ciò che vi è di così portentosamente poetico nella fugacità» era per lui il fine dell'arte. In un'epoca fugace come la nostra, anche e proprio quell'eternità trovata nella natura, nel lavoro, nell'epifania di un bagliore, di una penombra, di uno sguardo, può trovare esistenza ed ascolto rinnovati. «Si può ancora e sempre attingere alle fonti della provincia per alimentare energie innovatrici», scriveva l'artista accompagnando la donazione alla città delle sue opere.



M. V. 

sabato 13 luglio 2013

Giselda Pontesilli, "Madrigali"




 
Ho il piacere e il privilegio di pubblicare i Madrigali di Giselda Pontesilli. Testi che riconciliano con il passato e con il presente, con la totalità diacronica e onnipresente, onniavvolgente della vita; e, sul piano stilistico, di conseguenza, fondono la musicalità dei madrigali antichi con un respiro metrico insieme breve, rapido, conciso, eppure disteso, melodioso, armonico, specie se considerato a posteriori nella totalità rimeditata della rilettura che ricalca, o ricorda un poco, quello di certo Luzi («Nelle stanze la voce materna / senza origine, senza profondità s'alterna / col silenzio della terra, è bella / e tutto par nato da quella»), o di Betocchi («quel che scrisse il reciproco amore / del fare insieme, senza chieder conto / di nulla che a quell'opera maggiore / ch'era, non si sa come, amore insieme / operante, che gode del suo vivere, / e noi siam nulla, l'abolito seme... / E' l'opera comune che ha valore»). Qualcosa, insomma, di antico e nuovo insieme, nello stile come nei temi.
Il genere stesso del madrigale ritrova la sua vera origine, anzi due delle sue possibili, molteplici origini: materiale e matricale, parola legata alla materia, alla matrice, insomma alla sostanza vitale vera e sentita, e insieme alla madre, alla terra madre, unica e condivisa, origine e fine, sorgente e foce, patria-matria da cui partire e a cui tornare.
Ed è importante, poi, il paesaggio, il senso del paesaggio, che visualizza e quasi cristallizza, matericamente appunto, questo abbraccio e questo nodo del materiale e dell'umano, della natura e del tempo storico, fusi nell'immagine della scuola diroccata, luogo emblematico dell'infanzia, del prendersi-cura, e della scoperta del mondo.
La semplicità, la trasparenza, conquistate, dei versi si intuiscono essere il frutto di "lungo studio" e "grande amore", di un'opera di perfezionamento e pulizia condotta "per via di levare", come negli antichi scultori. Così come l'architettura si riappropria, attraverso l'arte, della natura, grazie alla razionale “naturalezza” degli “ordini” (viene da pensare, leggendo i versi della Pontesilli sugli ordini architettonici che assomigliano alla natura, e che forse proprio per questo sono oggi banditi dallo strapotere, in tutti i campi, della modernità e della Tecnica, alla pagina squisita ed elegiaca di Vitruvio sulla genesi del capitello corinzio, nato dalla natura e dalla morte, dallo spontaneo germinare di un acanto nel vaso deposto come offerta sulla tomba di una fanciulla: simbolo, quasi, della memoria che perdura, che germina e si propaga dal silenzio e dalla quiete di chi non è più, di ciò che non è più, ma che proprio in virtù della sua essenza si fa presente nel ricordo condiviso, come un filo esile che trapassa il muro della morte).
Attraverso l'arte riaffiora la vita, attraverso l'artificio la natura, come nei madrigali della tradizione, nei quali il verso è spesso attraversato dallo stesso brividio di vita, di germinazione, dallo stesso naturale sussurro e vibrio di energie latenti e di potenzialità proiettate verso il compimento, verso l'inveramento dell'incontro e del frutto: «Ecco mormorar l'onde / e tremolar le fronde /
e l'aura mattutina e gli arboscelli, /
e sopra i verdi rami i vaghi augelli /
cantar soavemente / e rider l'orïente». Ma prima ancora, alle origini stesse del madrigale italiano, c'è l'idea ricorsiva della morte e della rinascita, dello sgomento e del respiro, del tempo che, come nella tessitura e nel giro del verso, torna su se stesso e nel contempo si apre a nuove risonanze e a nuove illuminazioni: «tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo, / tutto tremar d’un amoroso gielo». (M. V.)



MADRIGALI



I
Ero così sicura! Solamente
c'era la sicurezza
di me, del presente
del mio posto centrale, il più reale.
Come una piazza ha il centro
e un faro il mare
come la terra ha il cielo e la bellezza
è assoluta, perfetta
come con noncuranza
ci si sente sicuri in una stanza
così ero io
e qualche amico mio.



II
E' ancora una cosa bella
per me quando sto in treno
vedere, poter vedere ancora
che ora, proprio ora
aveva, avrà un popolo l'Italia
parlò la lingua nostra,
di paese, con tanti accenti
con tanta sicurezza
e i toni erano tanti
tutti eleganti
c'erano sentimenti
in quelle sfumature differenti
come un abito di tanti colori
come i fiori dei campi
come gli allori
dei nostri bei poeti.

III
Ho pensato ai miei studi, questa notte
studi che non ho fatto
un disastro
a cui vorrei rimediare.
E pensavo che ero lì a rifare
il mio dottorato alla Sorbona
e non era com'era stato allora
che non stimavo, affatto, la scuola.

E già c'era il senso, tremendo
del perso
dell'accaduto:
non sapevo più il greco!
e cercavo di apprenderlo da sola.

Era come
è anche ora
ma ancora
io potevo io potrò
rimediare.


IV
Qui fuori al sole
col casale di fianco
io guardo, mentre parlo,
orto e giardino.
Non mi preoccupa niente
quando sto qui -presente-
nel campo del vicino.
Presente?
Sì, perché parlo con lui
veramente
non penso ad altro.

Ma assente, anche, assente
come sempre
perché, veramente,
non è questo! il mio campo
-e arriverà la grazia
di coltivarlo?

V
I cinque ordini
in architettura
sono leggi -armoniche
di Idea
di natura.
Servono a fare
scuole case ospedali
molto semplici,
arieggiati,
cordiali.
Per l'architetto sono
fondamenta, base
(com'è -per il musicista- la base
tonale);
ma oggi lui
non li può onorare,
non glielo fanno fare.

E' per questo
che le scuole,
le case gli ospedali
sembrano deprimenti
micidiali.



VI
Non so, io non contemplo
la natura
forse ho paura del ritmo sempre uguale
che fa il mare, la terra, le stagioni
forse la mia natura è contemplare
qualcosa! nella natura:
un casale, una tomba, la scuola
Felice Trossi”, diroccata,
che è qui vicino e che vorrei salvare.





VII
Ma come siete belli!
voi che fate
le piazze di Grottaferrata,
di Frascati,
di Marino.
Le fate? Sì!
con la vostra presenza:
ora che vi sostate
e passate
tornando a casa
a scuola al mercato.
Poi certo sarà
-super-estrema-super-segreta
-super-indicibile
la vostra sofferenza:
come sempre, come per tutti
oggi, in privato.
Ma intanto qui
coi camini e i balconi
del Seicento
vi riposate
per grazia
di uomini passati
che ve li hanno dati.


VIII
Come se fosse aprile,
o giugno, o maggio,
-e invece è inverno
inverno dello scrivere nemico”-
io mi incammino, oggi,
io penso,
e approvo un sentimento
chiaro, intenso:
è primavera, anche se c'è vento
è primavera! questo brutto tempo

l'assolutissima bellezza della natura
è sicura.

venerdì 5 luglio 2013

ALLA RICERCA DELL'ANTICA MADRE. MONOGENESI, DIASPORA E CONTAMINAZIONE DELLE LINGUE

(articolo apparso su "Trickster", 2010, n. 8, rivista elettronica dell'Università di Padova momentaneamente non più in linea)




(La dea Hathor, o Hethert, sormontata da una figurazione solare già presente nella pittura rupestre sahariana d'età preistorica)


La disperazione dell'etimologista

In una pagina finissima ed ariosa dello Zibaldone, Leopardi si soffermava parlando, certo, anche per esperienza personale, lui assiduo indagatore di catene etimologiche e arcane risonanze ‒ sulla "disperazione dell'etimologista", teso alla ricerca, spesso vana, degli archetipi comuni ed essenziali ‒ dei prima nomina, dei simplicissima signa, come li chiamava il pensiero medievale ‒ sottesi, più o meno in profondità, a tutti i diversi idiomi, eppure frantumati e dispersi, spesso, in mille intorti indistricabili rivoli.
Questo vale, per certi aspetti, ancor oggi, sebbene, a distanza di quasi un secolo dalle pionieristiche ed eruditissime teorie di un Alfredo Trombetti o di un Graziadio Isaia Ascoli (che davano, in qualche modo, consistenza storica, filologica, etimologica, alla lingua naturale di Leibniz o alla innere Sprachform, alla interiore, sovraindividuale, e dunque tendenziamente intersoggettiva forma a priori di ogni espressione linguistica, teorizzata da Humboldt), i lavori, pur controversi, di un Greenberg o di un Ruhlen, di un Semerano o di un Bernal, di un Bomhard o di un Alinei, abbiano conferito all'ipotesi, in senso lato, di una possibile monogenesi, di una possibile comune matrice ancestrale di tutti i ceppi, di tutti i phyla linguistici, una maggior fondatezza e una più solida verosimiglianza.
Stando alle teorie genetiche di Cavalli-Sforza recepite da Alinei (1996: 417), l'homo loquens sarebbe emerso per la prima volta in Africa, circa centomila anni fa; e quasi subito avrebbe iniziato a manifestarsi la "diaspora africana" delle lingue, la differenziazione degli idiomi a partire da comuni archetipi, Ur-Simboli, universali linguistici.
È stato uno psichiatra italiano attento alla linguistica e alla filosofia del linguaggio, Tullio Rizzini (1999), a mettere in luce, in un suo prezioso lavoro, molti di questi primordiali ed universali valori fonosimbolici (che hanno però, preciserei io, un carattere non solo onomatopeico e mimetico, ma anche conoscitivo, essenziale, onto-gnoseologico, ancorato al pensiero astratto e all'intuizione della trascendenza): i quali sembrano affiorare, nela loro intensità originaria, nella loro forza aurorale e unigenita, proprio dalle frenetiche ed abrupte associazioni verbali degli alienati psichici, dalla alienatio mentis che è propria del mistico e dello sciamano come dell'esaltato e del folle, per poi riapparire, in forma filtrata, formalmente sorvegliata, storicamente e culturalmente consapevole, nella lingua del poeta ‒ che è essa stessa, insegnava Petrarca, alieniloquium, lingua altra, distinta e libera e più pura di quella, reificata, standardizzata, appiattita, del linguaggio comune, come dei gerghi tecnici. Alieniloquium, alienatio, discorso dell'Altro: Ça parle, direbbe Lacan, l'alterità si rivela nel linguaggio, in forma ora inconsapevole, ora filtrata e illuminata. Il fondo comune, la comune matrice della lingua è proprio questa alterità, questo Autre, quasi mistico totaliter Aliud. È, forse, proprio nel linguaggio degli alienati che parla o riaffiora, senza più i freni della civilizzazione, il linguaggio universale, e in parte prerazionale, delle origini.
E siffatta alterità, a cui tutte le lingue paiono risalire per fondersi in una come le tre religioni del Libro lungo il "sentiero di Isaia", verso il tempio di Abramo, è precisamente spazio dell'alterità, della differenza (o della différance, direbbe Derrida), dentro il quale il Sé può percepire se stesso come altro, e l'altro come altro se stesso, proprio nella lingua, a partire dalla lingua e tornando ad essa, risalendo alle radici, agli archetipi ‒ alle Idee-Madri, aux sources du poème, per usare, ancora una volta, le immagini e le parole dei poeti.
Vaste e talora aspre reazioni (su tutte quella, autorevole ma un poco anacronistica, ancora legata ai presupposti sostanzialmente eurocentrici dell'umanesimo tradizionale, del Kristeller) ha suscitato la tesi (tacciata di afrocentrismo) di Martin Bernal, il quale, nel suo Black Athena (Bernal: 1996), sostiene e documenta la derivazione egizia, e dunque afroasiatica, di molte delle parole chiave della civiltà greca: così psyché, nel senso etimologico di "soffio vitale", verrebbe da radici egizie (sw, swyk) connesse variamente ai campi semantici della luce e del vuoto, dell'ombra e del vento (anima come fluido vitale, ma anche come luce interiore e vuoto risonante); nymphai da nfr, nefer, "bello"; hýbris, "colpa", "tracotanza" ("peccato originale" nel greco cristiano) da una radice egizia di analogo significato; mŷthos da mwdw ntr, "parole sacre", "discorso divino"; la stessa dea Atena deriverebbe il suo nome da quello di Neit (Nt Ht, "altare di Neit"), corrispondente alla dea Sais, a cui del resto già Platone faceva rimontare il culto di Atena. L'elenco delle evidenze suggerite da Bernal (che non cita Semerano, ma giunge autonomamente, e significativamente, a conclusioni affini) potrebbe allungarsi.
Ma, paradossalmente, il presunto e controverso afrocentrismo di Bernal sarebbe potuto essere ancora più deciso e radicale. La dea Neit era, infatti, affine alla divinità libico-berbera Tanit, venerata a Cartagine, il cui culto fu ripreso, in età romana, nella forma della Dea Caelestis (non per nulla Apuleio, fiero di essere africano, e conscio delle radici africane della civiltà classica, evocherà, nei Florida, la «Africae Musa Caelestis»). L'etrusco Tages, il fanciullo sorto dalle zolle per portare la sua rivelazione, e il mesopotamico Tammuz possono rimontare ad un'origine non diversa.
Ed è qui che iniziano ad emergere le proto-radici euro-afro-asiatiche (proto-mande, proto-bantu e proto-indoeuropee) che stanno alla base del mondo classico, e dunque della nostra stessa identità europea.
Ank era, in egizio, l'essenza della vita e dell'umano; e ant è, nel sostrato proto-africano (l'oscillazione labio-velare k/t è plausibile nella fonetica indoeuropea), ciò che è umano; Muntu è, nell'ontologia bantu, cardine del pensiero africano, la forza vitale che permea il creato, che avvolge e congiunge gli esseri (Tempels, 1971; Kagame, 1976). Da queste radici discende, forse, Anthropos; e la medesima radice ank/ant troviamo forse, senza aspirazione, in Anteo e in Atlante, Antâios ed Atlas, le cui figure rinviano proprio alla matrice oscura e primordiale di una forza vitale che sorgeva e ascendeva dal sud del Mediterraneo, dal mondo ancora indistintamente percepito dei Libii e degli Etiopi.
Tanit/Neit è dea celeste, eppure incarnazione della Magna Mater, della Antiqua Mater, di Tellus, della Madre Terra venerata negli antichi culti matriarcali. E Anthropos, l'Uomo primigenio, l'Ur-Mensch, è precisamente copula mundi, crocevia di Cielo e Terra, di eternità e storia, attraversato da quella axis mundi (si pensi al mito dei Gigantes che danno la scalata al cielo, ma anche al mito babelico, riconducibile proprio all'origine della diaspora delle lingue) che egli stesso incarna e realizza.
L'archetipo fonosimbolico della dentale (si pensi anche alla radice egizia jta, che troverà forse eco nell'ebraico 'adamah) sembra rinviare all'idea di stabilità, sostegno, resistenza, durezza, fondamento ‒ mentre la liquida l è principio di fluidità vitale, fecondo umore, liquidità amniotica. Attraverso l'axis mundi, e intorno ad esso, Cielo e Terra, maschile e femminile, vita e morte, sembrano intrecciarsi e fondersi.

Archetipi ideofonici e fonosimbolici

Quanto vasta ed universale sia la portata di questi valori e significati ancestrali è confermato dal fatto che essi paiono riaffiorare addirittura nei culti precolombiani: Tlaloc è il dio della pioggia, Omoteotl, il dio supremo, che pare unire, nel divino (teo), duplicità e unità (omo), Mictlan il mondo sotterrenaeo, infero, la dimora delle ombre. Tornando ad Ank, la radice si trova, forse, pure in Anánke, destino, condizione umana. La dentale (esito o meno della labio-velare), segno archetipico del fondamento, si fonde con la m, emblema della permanenza, della durata, dell'invarianza essenziale, del principio spirituale perenne (il manitu amerindio come il mana australasico, suggeriva Giovanni Semerano, come, forse, i Manes latini, antenati con la loro imperitura eredità, ma anche il sanscrito manas e il greco menos, "mente", "intelletto", capaci di afferrare i modelli eterni, le idee primordiali che dimorano in un cielo superiore, il menok dello zoroastrismo), nella radice dell'egizio Ma'at, personificazione divina dell'armonia e dell'ordinie cosmici e del fondamento primo del tutto: donde una lunga serie di figliazioni e di consonanze, dall'archetipo indoeuropeo matar/metér/mater (ove sembra affiorare anche il tema ama, legato all'idea dell'abbraccio, del vincolo avvolgente, del nesso vitale, dell'essere-insieme, della Cura) al concetto della misura, métron/metior, a quello di materia e matrice.
Quando Virgilio (Eneide, III, vv. 94 sgg.) scrive: «Quae vos a stirpe parentum / prima tulit tellus, eadem (...) accipiet reduces. Antiquam exquirite matrem», evocando grandiosamente l'idea del ciclico ritorno all'origine, nel contempo richiama (attraverso i mots sous les mots, le parole celate "sotto le parole", sondati da Saussure e da Starobinski) gli archetipi e gli Ur-Simboli che siamo venuti rivelando.
Una simile atmosfera, un non diverso, per così dire, clima fonosimbolico si incontrano nei versi del quarto libro dell'Eneide (vv. 480-483) che ruotano intorno all'Africa, crocevia dell'axis mundi, culla del primordiale vincolo cosmico: «Ultimus Aethiopum locus est, ubi maximus Atlas / axem umero torquet stellis ardentibus aptus». Aethiopes rinvia del resto, di per sé, ancora a Neit/Tanit, ma forse anche ad Hathor/Hethert, la Venere egizia, dea dell'amore, della fecondità e della vita: divinità forse etimologizzabile (attraverso il greco) identificandola con una ipotetica latina Aedes Aetheris ‒ altare della sostanza celeste, fucina ultima e suprema dell'universonon senza un richiamo ad âithos, calore, il fuoco del desiderio e della vita. All'idea di Muntu/Ank/Maat come ordine cosmico possono rinviare anche le divinità etrusche Munth (forse alla base del latino mundus, "universo ordinato" come sostantivo, "puro" o "perfetto" come aggettivo) e Vanth, misteriosa ed inquietante dea infera, tramite tra il regno dei vivi e quello dei defunti, fra il mondo superiore e le profondità della terra. Anche l'Etrusco, d'altro canto, affiorò forse da un comune sostrato nostratico, esteso anche all'Africa.
Maat, del resto, è Madre-Morte (egizio mwt, forme affini in ebraico ed arabo). Ma, come un'antica etimologia di Ánthropos suggerisce, l'uomo incarnando in qualche modo la columna universi è il solo essere vivente in grado di alzare lo sguardo dalla terra al cielo. E, appunto, ancora dall'Africa sembrano essere giunti al mondo indoeuropeo la giustapposizione, e il primigenio connubio, di Terra e Cielo, Gaia e Ouranos: nella mitologia degli Yoruba, la coppia Orun-Aja abbina il Tutto (Olun), il Signore celeste (indicato anche come Olodumare) e Aja, principio femminile, spirito dell'aria, aura fecondatrice (-Aja è, nelle proto-etimologie universali, l'indicatore del principio femminile, intriso di apertura, di abbraccio e di luce). Aithér sembra celare un richiamo alle radici proto-africane -he, da cui lo swahili hewa, e tej, "porre", "luogo" (cfr. il greco títhemi). Gaia è Ge (altra radice egizia indicante la Terra) più Aja, durezza labiovelare del fondamento e apertura alata del femminile; Orun è forse l'egizio Horus, dio dell'origine, del cielo, del sole, dell'eterno ritorno (si pensi all'archetipo dell'ouroboros ma anche alle horae, Horai, che si susseguono e tornano ciclicamente su se stesse, come pure alla radice stessa di origo, orior, dell'originarsi e del sorgere); Orisha sono, nel sistema della teologia Yoruba, gli spiriti intermedi attraverso cui Olodumare/Olorun interagisce con il mondo inferiore. La coppia archetipo, lo sposalizio primigenio, cosmogonico, di Ouranós e Gâia, trova in Geb-Aja e Olorun il suo verosimile ascendente. A chi obiettasse che questi ed altri raffronti da me addotti ignorano, spesso, la distinzione fra vocale lunga e breve, e la presenza o meno di aspirazione, si potrebbe controbattere che gli archetipi linguistico-ontologici emergono a livello di strutture profonde, e dunque non di suono, ma di fonema, di realtà psicologica ed ontologica appunto, non di concreta estrinsecazione articolatoria e fonatoria.
Dio, in tutte le culture, è luce: luce, dice il Corano, che «non è d'Oriente o d'Occidente». E la luce è un altro archetipo (etimologico, semantico, fonosimbolico) verso il quale paiono convergere le lingue del mondo. El e Ra (l'alternanza fra le semivocali l ed r, fra rotacismo e labdacismo, è fenomeno fonetico assai diffuso) paiono connotare l'apparire primo della luce e della vita: vedico Sunya, greco Helios, da una forma *saewel che ha da un lato antecedenti afroasiatici (Matasovic, 2009), dall'altro risonanze vastissime, fino alla dea celeste del pantheon giapponese, Amaterasu, che con la giustapposizione di radici monosillabiche evoca, ad un tempo, sulla scorta degli archetipi che abbiamo individuato, la maternità, l'armonia cosmica, la luce che vivifica. L/r, El e Ra: il fonosimbolo o fonosemema della luce, della vibrazione luminosa e vitale che pulsa e trema all'unisono con l'occhio della visione intellettuale e spirituale. Ma ruah è, in aramaico, spirito, anima, soffio vitale; rhêin, in greco, è scorrere, fluire (rhythmós, rhysmós, ipotizzava il Benveniste, ritmo vitale e flusso universale, è il flusso stesso della vita, del pensiero, della parola, che torna ciclicamente e ricorsivamente, con eterna vicissitudine, su se stesso).
Ra, ma anche Horus, spirito onniveggente, onniavvolgente fluire della vita, sembrano incarnare in sé, a loro volta, questa primordiale potenza. R e T, fluidità circolare della vita che scorre e torna su se stessa e durezza e profondità del fondamento, sembrano unirsi nel sanscrito, e avestico, rta/asa/arta (da confrontare forse con l'idea greco-latina di ars e Armonía, intese come equilibrio, limpidezza, dominio della forma sulla materia), principio ontologico e spirituale che si declina e si sdoppia in Luce e Tenebre, in Ushas (Eos, Aurora, Ausosa) e Ratri (ma, al fondo di tutto, risuona ancora l'eco universale di Ma'at che è anche máthos, conoscenza dell'essere che trova nella parola la sua luce).
Giovanni Semerano ha mostrato i sottili, arcani, ma proprio per questo fondanti, nessi che associano come divinità della vita, del sole, della luce, del nettare immortale Elohim, JHWH, Zeus e Dioniso (riconducibili, gli ultimi due, e l'ultimo, in particolare, nella forma micenea Diwonusojo) a dios, luminoso. Semerano elucidò brillantemente il vincolo che unisce JHWH ed Allah (forse a partire dal mesopotamico Ilu, e passando attraverso una forma babilonese Ya(h)wi-ila) e l'egiziano jahw-, splendore (Semerano, 2000: 138 sgg.).
Che il Divino sia una sostanza inconoscibile la quale, nei secoli e nelle culture, ha assunto maschere ed ipostasi diverse, mantenendo immutato però il suo nucleo semantico fondamentale, la sua ratio seminalis variamente effusasi, inizia ad apparire non solo una verità teologica e un'intuizione filosofica, ma un dato storico e linguistico.

I segni ardenti dell'essere

Ma, com'è noto, Dio è ehjeh aser ehjeh, "Sono colui che sono" o "che è" (eimì tò ón traduce la Bibbia dei Settanta). Nella realtà, come nel pensiero e nel linguaggio, ai fenomeni sembra essere sotteso il substratum dell'Essere che tutto precede, e rende possibile e conoscibile. È difficile stabilire se il linguaggio e la conoscenza nascano dall'essenza o dall'esistenza, dai fenomeni o dal sostrato ontologico (e dall'innata idea di quel sostrato) che li fa essere e li fa "venire alla luce" del mondo e del pensiero.
Come intuì il Trombetti, una forma pronominale es pare tendere a rappresentare, nelle più diverse famiglie linguistiche, la radice etimologica dell'Essere (Romaniello, 2004: 12-13). Essa affiora addirittura nel cinese zhen, "essere" e "verità" (Chang, 1988: 24). Da Parmenide a Gadamer sappiamo, del resto, che l'essere e il pensiero proprio nel linguaggio si rivelano, e trovano luce e respiro. Ma s è la consonante (invero lievissima, come un esile soffio) del silenzio ‒ sighé, siopé, silentium fino al giapponese Chinmoku.
Ebraico Shem, arabo ism, forse da una comune radice egizia jmn (Amon, jmn-m, è il dio dal nome celato, dal volto nascosto: cfr. forse il greco mystés, mystérion, che Semerano associa invece alla radice semitica indicante la Notte), è il Nome Divino; e l'egizio sga, sgr è il Silenzio, di cui Osiride è signore (arabo sukotu, ebraico Shabat, il silenzio contemplativo). La forma sino-nipponica per indicare il Divino, shen (da un più antico *djen o *zdjiien, che parrebbe coincidere ancora con l'archetipo proto-indoeuropeo dell'Essere e della Divinità, *es e *dj) suona, nella sua «voce di silenzio sottile», come dice la Bibbia nel Libro dei Re, sorprendentemente affine. Il nome di Dio e la voce dell'Essere sembrano di per sé avvolti dalla più alta quiete, dal silenzio e dalla pace del mistero.
Chen, o zhen, in sino-giapponese, è sia pensiero e meditazione che essere e verità (sanscrito dhyana, catena progressiva e ascendente di stati coscienziali e meditativi, a cui ricondurre forse il greco theáomai, vedere, e forse anche semêion, segno): la verità, l'essere come segni cui venire incontro con l'appercezione contemplativa e, insieme, lo scavo etimologico.
Ka è, in egizio come in sanscrito, anima, essenza spirituale, principio vitale; nelle proto-radici della lingua primordiale indagata da Merrit Ruhlen, come nella proto-lingua paleolitica, tale radice labio-velare k/t indica il pronome interrogativo-indefinito (mentre il tóde tí è, nel linguaggio filosofico greco, l'essenza e il concetto).
Ma ka è anche, in egizio e in proto-bantu (ovvero in una lingua prossima a quella dell'homo loquens originario), il fuoco (greco káio, ardo), lo spirito e la forza vitali intesi come principio igneo (Somo, 2008) il "fuoco artefice", se si vuole, l'ignis artifex, delle cosmologie stoiche. Essenza vitale celata in se stessa, dunque, fuoco che compie e nasconde il proprio stesso alimento (come il roveto ardente dell'Esodo, che brucia senza consumarsi).
Nel pensiero cinese (nelle radici monosillabiche che ne costituiscono le essenze ideografiche, eidetiche, e fonosimboliche), la condizione umana, ren, è, anche ideograficamente, nella sua sostanza fluida e diveniente di levità e di luce, crocevia di terra (di de, ma anche ma, madre, come la Mater Tellus mediterranaea) e cielo, tien, già accostato all'indoeuropeo dyaus, il cui duplice e concorde equilibrio, emerso dall'hundun, dal caos primordiale (si pensi al Caos-Vuoto, al kainón-Cháos, dei Greci), è garantito dal compimento, dall'autenticità (ch'eng, affine allo Schem-Sighé, al Nome-Silenzio del pensiero afroasiatico e indoeuropeo), dal ming (comprensione del "mandato celeste": mana, mathos, mens), culmine del ts'an, triade di uomo, terra e cielo (Confucio, Il giusto mezzo, XXII). «Se non si conoscono i decreti del cielo, non si è signore. Se non si conosce la parola, non si conosce l'uomo» (Confucio, Dialoghi, XX).
Lingue che parrebbero, e in parte sono, remotissime a livello di fenotesto, si rivelano invece prossime, nei loro elementi essenziali, se guardate in profondità, risalendo (o discendendo) verso il genotesto originario. La struttura superficiale dissimula spesso quella profonda; la verità ama nascondersi. Analogamente, le razze (o per meglio dire i tipi umani) differiscono più nel fenotipo (ovvero in caratteri accidentali, condizionati da fattori esterni, contingenti, ambientali) che nel genotipo, prossimo e riconducibile ad una comune origine, ad una common ancestry.
L'affinità fra il linguaggio del DNA e quello verbale merita di essere guardata più da vicino. In entrambi i linguaggi, ai legami covalenti (quelli fra le lettere e le sillabe che si uniscono a formare le parole) si affiancano, più duttili e cangianti, quelli non covalenti, che uniscono le parole a formare le proposizioni. Ma, nel linguaggio verbale, il margine di non covalenza, di possibile fluttuazione e intercambiabilità, sembra poter essere più vasto, estendendosi a minime radici, a lessemi essenziali, al limite monosillabici o anche monogrammatici, eppure portatori di significati e valori universali e fondanti agli stoichêia, come li chiamava Aristotele nella Poetica, o ai fonemi, intesi come realtà mentali, psicologiche, intellettuali, interiori, al limite ontologico-metafisiche, distinti dai suoni intesi come realtà fisiche allo sphota, invariante e puro, dicevano i grammatici indiani, distinto dal dhvani, sua manifestazione esteriore (Uguzzoni, 1978: 1-2). Come nei nucleotidi del DNA, poi, così nei fonemi, nei lessemi e nei semantemi del linguaggio verbale il silenzio, il vuoto, l'approssimazione e la distinzione per oscuramento e dileguo, per presenza/assenza, paiono essere altrettanto importanti, e portatori di significato, quanto i messaggi espliciti (Sungchul, 1999).
Anche a livello cosmologico, l'universo sembra espandersi consumando energia per produrre informazione, contrastando così la deriva entropica: ed entropia è, nella fisica come nella teoria dell'informazione, ridondanza, dispersione, deriva verso il nulla, che la vita, per poter durare, deve contrastare.
Alcune delle teorie più recenti (Bogdanov, 2008) paiono essersi spinte oltre il "muro di Planck", prima della soglia del t=0, del principio del tempo prima del quale (come intuiva già Agostino) non esisteva universo, né tempo prima dell'universo, e aver gettato uno sguardo nella "schiuma quantica", sull'indistinto, e al limite "immaginario", "caos di possibili" che precedette la singolarità iniziale, il primo, ma già programmato, e gravido di progettualità e di sviluppi futuri, emergere di un tutto ordinato, teso all'espansione e al futuro.
E, certo, un amplissimo margine di oscillazione quantica, di probabilistica indeterminatezza, è presente nel linguaggio (basti pensare agli accidenti, alle oscillazioni e alle incertezze dei mutamenti fonetici, o a fenomeni come quello dello schwa, del suono laringale etimologicamente un "nulla", un "soffio", un "silenzio" che può restare latente e muto oppure generare un "grado zero a vocale breve" che distingue e determina una funzione morfo-sintattica).
Eppure, proprio da quella schiuma quantica, da quell'indistinto caos di singolarità originarie e di possibili cronotopi emerse muovendo dall'informe alla forma, o meglio alla molteplicità, virtualmente infinita, delle forme l'Altro che si rivela nella Parola, e che si declina e riflette nel risonante e dialogante dedalo delle identità, e delle alterità, possibili.

Le radici oscure dell'Europa

Le Supplici di Eschilo tragedia, si potrebbe dire, del rovesciamento del matriarcato arcaico, del trionfo del principio maschile tanto nella figura del persecutore, quanto in quella del salvatore mostrano, come nota già Bernal, la coscienza, talora confusa ed inquietante, ma radicata e profonda, che la grecità ebbe delle sue radici afro-egiziane. Le Supplici, nigrae sed formosae come la Sposa del Cantico dei Cantici, per legge tragica, torneranno alla terra, al fondo materno, indistinto e accogliente, del principio, siano essi quelli della loro origine Argiva perdurante oltre il colore della pelle, brunita dal sole dell'Egitto o quelli, sotterranei, del mondo dei morti, da raggiungere offrendo se stesse in olocausto. L'elióktypon ghénos, la stirpe segnata dal sole, raggiungerà tòn gáion Zéna, il sotterraneo Zeus e l'associazione dei suoni, ghénos-gáion, evoca ancora una volta Geb-Tjo, la Terra Madre. «Sull'orma antica della madre», le Supplici tornano, in quanto figlie del Dio, alla terra che, seppur lontana, è anche la loro. « Gá má Gá, / (...) O pá, Gás pâi, Zêu»: «O Madre Terra, Madre Terra, / O padre, figlio della Terra, Dio».
Come l'uomo torna all'origine, così il linguaggio torna al suo originario, quasi infantile, monosillabico ed ecolalico, balbettio, alle universali proto-radici (come pu, denotante la cavità uterina, la scaturigine profonda della vita, e insieme la potenza che ne sgorga). È in nome di un disarmato linguaggio parlato dall'Altro, abbandonato e riprecipitato nella sua schiuma primordiale, che l'alterità chiede di essere riconosciuta ed accolta come tale, ma nel contempo come identità.
Dall'età arcaica a quella classica, dalla Teogonia di Esiodo alle Fenicie di Euripide, la grecità si misurò con il suo fondo arcaico primordiale, con le sue remote e quasi arcane radici afrosemitiche. Alle "radici della Terra", intorno a cui si raccolgono i Titani, troneggia sulle acque Stige, "spirito delle correnti" secondo l'etimo semitico, figlia di Oceano apsórroos, «che in sé rifluisce», e che, anch'essa ipostasi dell'axis mundi, tocca il cielo ergendosi su colonne d'argento. E la Timé, il supremo principio che scandisce l'ordine del cosmo esiodeo, deriva anch'essa, secondo Bernal, da Ma'at.
Nelle Fenicie, il Sole, Helios, si avvolge nelle spire del suo stesso moto, «solcando la via fra gli astri del cielo», en ástrois ouranoû témnon odón (dove l'archetipo mediterraneo di Astarte Grande Madre si congiunge, fonicamente, con la ricorsività universale di Horus/Orun, la ripartizione di Ma'at/Timé e il fonosimbolo di phlóga, flamma, fulgor, parvenza cangiante della luce vitale, bagliore e insieme flusso, calore, florida tumescenza, dantesco «lume in forma di rivera / fluvido di fulgore»). Il coro delle Fenicie invoca anche la pótnia Ekáte, dea semitica della maternità: pot è radice indoeuropea per possibilità, potenza, regalità, mentre po Tolo è, nella cosmologia Dogon, l'atomo primordiale, il costituente primo della vita e dell'energia, e Ptah, pth, è per gli Egizi il dio creatore.
Insomma le comuni, remotissime origini del cosmo e della vita sembrano avvolgersi (come Oceano nei suoi gorghi e Astarte nelle sue orbite) entro i velami di un'alterità insondabile, intorno a cui si stende un sacro silenzio. Ma proprio quell'apertura, quel vuoto, quella radura (Cháos nel senso etimologico) può essere, oggi, spazio per un dialogo, nella luce oscura dell'Altro.
Le "radici dell'Europa", classico-cristiane più da vicino, remotamente afroasiatiche, universali infine, sono, qualora si spinga lo sguardo il più possibile lontano, fino alle soglie dell'ultimo orizzonte, letteralmente "oscure". Europa (punto, questo, su cui concordano, l'uno indipendententemente dall'altro, Bernal e Semerano) da Érebos, e quest'ultimo da un semitico erebu, tenebre, oscurità, terra del tramonto (eres è, del resto, il termine pansemitico per "terra"). Ed hermenêia, interpretazione, deriverebbe dalla radice indicante la penetrazione, la profondità, lo scavo che valica la superficie dei fenomeni. Oscura, avvolta dalle tenebre, è l'Ur-Heimat, la patria originaria e primordiale. In quel fondo ancora indistinto possono riconoscersi, e smarrirsi, specchiate nella loro identità/alterità, le tradizioni e le culture, ricondotte all'umiltà di fronte al mistero, accomunate dallo stupore silenzioso di un miracolo umano.
«Basta ascoltare la poesia (...) perché si faccia sentire una polifonia, e ogni discorso si mostri allineato sui diversi righi di una partitura. (...) Ecco il lampo che fa sorgere da una notte innumerabile questa lenta mutazione dell'essere nell'En panta del linguaggio» (Lacan, 2007: 498-499).


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