sabato 16 aprile 2011

ELISABETTA BRIZIO, "GUIDO GOZZANO - UNA NUOVA INTERPRETAZIONE"




Scriveva Marzio Pieri che non sarebbe cosa conveniente arrestare Gozzano alla fase dell’antidannunzianesimo: non lo è, e in particolar modo per quel che riguarda il suo rapporto con l’arte e, nello specifico, con la letteratura. Per Gozzano la fusione, o meglio la dialettica e variegata interazione di vita e letteratura, di esistenza e parola, di esperienza e mise en page, si palesano e si snodano sul terreno concreto e operativo della versificazione, del labor limae, del “gioco di sillaba e di rima”, dell’“accordo di sillabe”, in una parola, degli artificia che scandiscono e ristrutturano il tempo vissuto nel succedersi di eventi accentuativi e di epifanie immaginifiche, i quali racchiudono, essenzializzano, eternizzano, e in certa misura essi stessi sono, oltre a evocare, a un tempo l’esperienza stessa e la sua cristallizzazione, l’oggetto e l’immagine riflessa, l’emblema e la sua sparsa disseminazione. E talmente complessa è la sua visione della letteratura che a stento riesce di definirla in uno schema univocamente configurante. Innegabilmente, egli è al di là di ogni visione della poesia come fondazione di un luogo superiore rispetto a quello della comune esperienza. Semmai, falsificando nel suo tempo primo ogni sua ragione avantestuale, ci rende un’immagine della poesia come evasione, migrazione dalla storia, osservazione di un soggetto che sembra partecipare del mito di Narciso e che descrive il diagramma dell’inseguimento dell’istante favorevole e infattibile nel quale l’io coglie totalmente sé stesso. Altrettanto infattibile, e in rapporto di mutua esclusione, è il miracolo poetico, sicché la poesia dovrà limitarsi, e con il ricorso all’artificio, alla proiezione verbale dei vari statuti dell’io.

In posizione diadica, la polarità schermo-fuga – condizioni che di fatto vanno incontro alla loro elisione, giacché anche l’evasione rientra nella modalità del rifugio – assegna alla letteratura il carattere di un sogno “non immune d’artifizio” e la cognizione dei pretesti estetici finisce per enfatizzare quell’artefatta artificialità di un’esistenza spesa a in sillabe e in rime (e la rima stessa è stata a lungo considerata un artificio, una forzatura che limita e pone delle condizioni alla sincerità dell’ispirazione) che Gozzano finirà per censurare lungo tutti I colloqui. Più corretta e accettabile – in prospettiva ironizzante o meno – appare la posizione del “commesso farmacista” nel testo omonimo, il quale riconosce apertamente: “faccio versi… non me ne vergogno”. E malgrado le sue “rime rozze” e le sue “nefandità da melodramma”, Gozzano invita a non irridere all’estemporaneo verseggiatore: oltre ad avere la sua voluptas dolendi un referente vitale, egli non inscena alcuna narcissica spettacolarizzazione dei propri versi, tentando, come Gozzano stesso ammette di fare, “il sogno per piacere agli altri”.

Non si rida alla pena solitaria
di quel poeta; non si rida, poi
ch’egli vale ben più di me, di voi
corrosi dalla tabe letteraria.

Letteratura è desiderio di inconsapevolezza, una imperfezione dell’esistenza, un limite etico da superare. In quanto tale, l’esercizio poetico è da disapprovare, come dichiarato nel terzo dei Sonetti del ritorno:

O Nonno! E tu non mi perdoneresti
ozi vani di sillabe sublimi,
tu che amasti la scienza dei concimi
dell’api delle viti degli innesti!

E siamo al momento cruciale, decisivo: l’espressione “sillabe sublimi”, di per sé intrinsecamente ironica, è fatalmente rimante con “concimi”, per irriverente analogia (“Troppo m’illuse il sogno di Sperelli, / troppo mi piacque nostra vita ambigua”, A Massimo Bontempelli). La letteratura così versificata viene sconsacrata e auraticamente pregiudicata. Perseverare nell’intrattenersi con essa sarebbe pertanto una consuetudine deprecabile. Ma anche per contrasto: meglio il nonno, dedito a una vita operosa anziché ad “ozi vani”, o meglio il “buon mercante inteso alla moneta (…) ma vivere di vita”. Per cui al poeta non resterà che convenire: “Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!” (Felicita). Pur essendo egli consapevolissimo di esserlo, ma per non rischiare di esser preso sul serio. Inoltre, se la letteratura così detta “sublime” aveva come referente la declinazione dannunziana – vale a dire un vistoso travisamento sia dell’arte che della vita – può legittimamente essere designata una tabes, e come tale essere assimilata alla compagna di rima, il “concime” (un caso esemplare di come una sola rima possa significare un’intera strofe e una visione del mondo insieme). Ovvero, come accade in Nemesi, “divino” potrà rimare con “intestino”. La corrosione e il dissolvimento del dannunzianesimo – eletto a pretesto quale orizzonte poetico illustre, nonché quale segno, avrebbe detto Sanguineti con Foscolo, della “qualità dei tempi” – avviene dunque segnicamente, ricorsivamente ed eufonicamente: per tramite di rimandi criptati, di messaggi subliminali, di isotopie sonore e di citazioni diluite in prospettività lungo versi anche non immediatamente contigui.

Con Gozzano si verifica una irriguardosa inosservanza delle attribuzioni finora accordate alla letteratura e una sua relativizzazione (“accordavo le sillabe dei versi / sul ritmo eguale dell’acciotolio”, Felicita), come negli ormai proverbiali versi appartenenti a L’altro, che rimandano alla diversa poetica crepuscolare che più o meno esplicitamente, e non senza settarietà, postula enunciati prosaicizzanti e in dimessità di accento, alla stregua di pronunciamenti di un vate minore:

Buon Dio, e puro conserva
questo mio stile che pare
lo stile d’uno scolare
corretto un po’ da una serva.

Al di là di funzionali dichiarazioni di poetica (ed è davvero singolare come in pochissimi versi vengano insieme demitizzati l’identità di Dio, le sue finalità sovrane e l’essenza della poesia, la quale poi in tono tra l’ironico e il blasfemo riacquisirebbe la dignità di una richiesta da inoltrare a Dio), Gozzano è il primo a non prender troppo sul serio la letteratura. Esperire di essa come esistenza parallela alla vita reale equivarrebbe a confondere la vita con l’arte e all’assegnazione di una presenza a una realtà fittizia, circostanze che rischiano di ingenerare una patologica inclinazione verso l’astrazione dalla vita, e, peggio ancora, di promuovere l’emulazione di gesti e di visioni del mondo. L’essere coscienti della divaricazione tra vita e letteratura ci immunizza dal contagio della degenerazione del sublime letterario: la dimensione della tabes è oltrepassabile, ma solo in un’ottica in cui la vita e l’arte vengano concepite come due sfere incomunicanti delle quali si riesca ad avvertire lo scarto. “Sappiamo anche troppo bene chi sono i poeti, e ne sorridiamo, come di amabili giocolieri” scrive Gozzano nel noto articolo giornalistico del 1911, Intossicazione, dove commenta il volgare delitto di cui il giovane Stefano Ala, in seguito a una “intossicazione letteraria”, si era reso colpevole per aver presi alla lettera certi infingimenti poetici non criticamente assimilati. Un’opera letteraria in particolare, Postuma di Lorenzo Stecchetti (uno degli pseudonimi di Olindo Guerrini), ha sortito degli effetti su di lui, quasi fosse stato un essere vivente a persuaderlo fino al segno di riuscire, dice Gozzano, “ad armare sul serio la mano di un montanaro adolescente”. Se si afferma che padroneggiare il fatto estetico distolga da quel pericoloso attaccamento a una realtà illusoria la cui qualità astrattiva finirebbe per soppiantare e vincolare la vita vera, non è un controsenso che Gozzano seguiti a intrattenersi con la letteratura praticata come controcanto alla propria esistenza o come suo visibilizzarsi? In cosa consisterebbe allora la sua “fede letteraria”? Intanto, in un consapevolissimo esotismo spirituale tra vie antérieure e invitation au voyage, ma nell’altrettanto persuasa cognizione di star bluffando anche con la vita. Poi, e soprattutto – scriveva Sanguineti nelle sue fondamentali indagini e letture gozzaniane – nella scoperta dell’autonomia dell’estetica: nel disingannato orizzonte della modernità, la vita è un fatto e versificare è sogno; ne conseguono la nostalgia per quel tempo in cui la vita possedeva l’autorità di attingere, con mimesi vera e non fraudolenta, allo splendore dell’arte e la coscienza dell’insanabile secessione tra la vita e l’arte, “l’impossibilità per la vita di raggiungere il sublime dell’arte, l’impossibilità per l’arte di istituire un sublime autentico”.

Il rapporto vita-letteratura è vissuto da Gozzano antiteticamente, perlomeno assume una configurazione oltremodo diffratta. Ora, se anche egli è egualmente convinto, sulla scorta di Oscar Wilde, che fosse la vita ad imitare l’arte e non viceversa (“Non la vita foggia la letteratura: la letteratura foggia la vita. Di questo mimetismo siamo un po’ vittima tutti”, scrive Gozzano in Intossicazione; e in Torino d’altri tempi: “le cose non esistono se prima non le rivelano gli artisti”), non esita ad attraversare l’antinomia dell’inversione dei valori insita nella gradazione dell’esteticità dell’esistenza. E in una delle prose indiane (La Torre del silenzio), dopo aver puntualizzato che non si sta argomentando del “titolo di un volume di versi decadenti”, Gozzano racconta che le Torri esistono da tempo immemorabile, “intatte” come il resto di quell’India britannica che appariva proprio “come nei libri e nelle oleografie”. La questione fondamentale, posta in termini anche non strettamente estetici, è allora misurarsi con questa realtà ormai letteraturizzata, di fronte al cui assetto, egli dice, “il letterato è esposto di continuo al rammarico acuto, al dispetto indefinibile che si prova quando la realtà imita la letteratura”. Forse perché, in ultima istanza, l’arte anziché la vita imiterebbe la morte? “Non c’è altra salvezza – continua Gozzano nel racconto indiano – che uscire dall’albergo senza guida e senza amici, perdersi nella vasta metropoli luminosa” incontro alla vita e alle novità della strada.

L’India, per l’ultimo, estremo Gozzano (quasi come per Forster e per Pasolini), fu arte e morte, evasione e dissoluzione, aspettativa di ritrovare la propria vita, di rinnovarla dal profondo tornando alle origini della civiltà e, insieme, avversione, estraneità e straniamento rispetto a un mondo così remoto, vividissimo eppure congelato dal tempo e dalla memoria storica, e ormai stilizzato e cristallizzato da un immaginario culturale (Marco Polo come Pierre Loti) che inevitabilmente precede e condiziona ogni diretta esperienza. Esperienza fortemente persuasa, come sempre, dalla letteratura, se Gozzano stesso asserisce, circa l’isola di Goa: “Mi spinge verso di lei un sonetto di De Heredia”. Taj Mahal, il grandioso monumento alla morte e all’immortalità, al disfacimento illusoriamente scongiurato, o pietosamente celato in tenebre devote, e all’amore che si voleva eterno, alla passione terrena e insieme all’elevazione mistica, è ancora e sempre arte, artificio, simulazione. E la danza della devadasi, la prostituta sacra, divina, sacredotale, rito pervaso anch’esso, insieme, di sensualità e misticismo, appare tuttavia contemporaneamente, agli occhi dell’occidentale, alonata da un’aureola di estraneità, di lontananza, di alterità incolmabile. L’arte compie e invera la vita, e, insieme, la morte, emendandole e colmandole di significato; ma proprio per questo le rende lontane da noi, dal nostro vivo e vero sentire: in un certo senso, le reifica, le aliena, le strania. Da questa ambiguità Gozzano non seppe o non volle mai liberarsi del tutto. E forse proprio in questa perpetua indecidibile e ipnotica oscillazione sta l’opaca e polverosa vitalità ed esemplarità del suo dire. L’arte è, e al contempo non è, persona viva: vita sì, ma conversa in non-vita, e come tale avvertita, respinta e insieme vagheggiata e presentificata. Nella prospettiva gozzaniana, il velo della nostalgia e dell’ironia scongiura ed esorcizza, almeno esteriormente e fino a un certo segno, questo intimo conflitto dal divenire angoscia e tragedia.

“L’effetto delle opere è spesso quello delle persone morte” – leggiamo al paragrafo “evocazione” in un fondamentale e fondante lavoro di Maurizio Ferraris sull’ontologia dell’arte, La fidanzata automatica. Dove di seguito si afferma che “avere a che fare con la morte” significa “avere a che fare con l’arte, e viceversa”. In particolare, l’opera – sebbene entità fittizia – è vocata a suscitare delle emozioni e dei sentimenti autentici, contiene e proemana qualcosa di magico tanto da assomigliare a una persona, è un produttore di segni e comportamenti che si pone quasi come un essere dotato di volontà e natura proprie e fattive: in altre parole, dice Ferraris, l’opera d’arte finge di essere un soggetto che emette propri messaggi e veicola emozioni, ma solo nella prospettiva del fruitore, perché essa non reclama né corrisponde i sentimenti che è atta a generare. Opere e citazioni che fittamente trascorrono nei versi di Gozzano – versi che emblematicamente Giuseppe Villaroel (poeta obliato, ma sensibilissimo, classico-moderno) definiva a mosaico – sono molto prossime a questa vista: il loro linguaggio evoca trame quintessenziali e suscita in lui delle emozioni alla stregua di autentiche interlocutrici. Ma a differenza del giovane e ingenuo Stefano Ala, Gozzano, a suo dire, è un “cittadino evoluto e raffinato”, nonché immunizzato dal suo stesso ambiente, e in grado di dominare il paradigma dell’assimilazione opera-soggetto, che si ridimensiona nell’avvertimento della finzione e della, ovvia, indifferenza dell’opera verso di lui. D’altro canto, anche i grandi ritratti gozzaniani producono su di noi un analogo effetto: Felicita, Carlotta, Totò Merúmeni, la cocotte sono tipi memorabili da farsi passare per persone, benché non opere, ma parti di opere, figure attanziali del discorso letterario.

Quando non hanno statuto parodico, gli inserti o mosaici riferiscono nella lavorazione dei versi un peculiare linguaggio che Gozzano sente come rivolto a lui: le opere letterarie sembrano esprimersi a lui, che reagisce come fruitore con la complice contestualizzazione di una risposta intimamente implicata con la propria esperienza. Non siamo dunque di fronte a dei plagi o a un citazionismo parossistico, oppure a parassitismo letterario, né, in fondo, la pratica del cesellare versi mirerebbe a uno sterile recupero di forme archeologiche. La memoria dà luogo a madeleines letterarie, e anche attraverso la ricezione delle rivelazioni delle opere può avvenire la decifrazione del tempo e di frazioni dell’esperienza, insieme al propedeutico rinvenimento dell’io profondo – quell’io che fa astrazione sia dal soggetto sociale che da quello biologico – non solo dell’arte. Tanto che Gozzano avrebbe potuto dire, con il Proust del Tempo ritrovato, che “la vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta, è la letteratura”. Nel rapporto arte-vita egli mostra infatti di essere – se la cosa fosse stata possibile – molto più proustiano che wildiano. Cos’erano il tempo anteriore e l’esperienza, per Gozzano, prima di ritrovare la pattinatrice di Invernale o la cocotte?

La poesia di Petrarca è quella che in Gozzano più incide la sua autentica ispirazione: Petrarca è l’emblema dell’artifex che si sente soverchiato dalle istanze strumentali della contemporaneità (“il suo Petrarca!”, quello di Totò Merúmeni, la cui vita “si ritolse tutte le sue promesse”, dove il “ritogliere” è un mot-clef del Canzoniere: “Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro”, “Dio, che sì tosto al mondo ti ritolse”, per fare qualche esempio). Statisticamente preponderanti, gli inserti danteschi vengono ricontestualizzati a libito dello scriba in un dettato che oscilla tra adesione, blasfemia e transfunzionamento. Ma Dante risuona nelle Farfalle trattenendo i suoi significati originari che concorrono a definire la gozzaniana posizione nei confronti del mistero della metamorfosi, alla cui delineazione cooperano Pascoli, D’Annunzio e, eminentemente, Maeterlinck.
Parla appassionatamente a Gozzano la storia di Paolo e Virginia (rifusa in versi che non piacquero alla Guglielminetti per il loro freddo “virtuosismo”, o forse perché tramitanti l’ennesima ammissione, da parte del poeta, della propria interdizione sentimentale) del romanzo popolare di Bernardin di Saint-Pierre: quest’opera sembra davvero rivolgersi a lui. Indipendentemente dalla intonazione alcyonia, e comunque dannunziana, l’attacco “Io fui Paolo già” ci introduce in una dimensione in cui l’opera d’arte si atteggia a persona fino a promuovere un’empatia nel contemplante “chino su quelle pagine remote”, una sua intima partecipazione che sconfina nell’immedesimazione, nel destinarsi in Paolo:

Splende nel sogno chiaro
l’isola dove nacqui e dove amai;
rivedo gli orizzonti immaginari
e favolosi come gli scenari,
la rada calma dove i marinai
trafficavano spezie e legni rari…
Virginia ride al limite del bosco
e trepida saluta…
Risorge chiara del passato fosco
la patria perduta
che non conobbi mai, che riconosco…

Ma con l’intervento del successivo, adulto e consapevolissimo, riconoscimento della distanza, che nella strofe conclusiva del testo si qualifica anche come relegamento nel déjà vu vetrificato di una irripetibile possibilità di amare. Interdizione inoltre allusa dalla disposizione seconda, letteraria, con cui viene evocata la tempesta che travolge la nave di Virginia: “una tempesta bella e artificiosa / come il Diluvio nelle vecchie tele”. E l’elenco delle esemplificazioni in tale direzione potrebbe continuare.

L’arte si accorda con la morte anche perché, nella visione gozzaniana, della vita non potrebbe indicare che orientamenti via negationis. Allora, l’arte stessa, oltre che vera vita, è vera morte, forse vera vita-morte, vera vita in quanto vera morte: epifania essenziale di quella mortalità, di quella condizione mortale che è, con tragico paradosso, essenza dell’essere nel mondo. Con la sua immutabilità, la sua compiutezza, la sua staticità non modificabile che dal materiale, cosale disfacimento, dalla disgregazione, dalla corrosione del tempo (quella da cui sono avvolte, segnate e minacciate anche le “buone cose di pessimo gusto”), con il suo pirandelliano, fisso e quasi inebetito, per quanto possa a volte essere sublime, “silenzio di cosa”, l’arte rappresenta, per usare un’espressione montaliana, “la vita quale essenza”, la vita al suo grado più alto di essenzialità emblematica, anzi quasi una più che vita, mehr als Leben diceva Simmel, proprio in quanto cristallizzazione estrema e postrema della mortalità e della fine. L’oraziano monumentum è anche sepolcro, e il ritratto consentirebbe al poeta di restare “sempre ventenne” proprio in quanto inerte, inorganico, nato-morto e nato dalla morte, dalla medusea vampirizzazione del soggetto, e perciò non sottoposto al divenire e al disperdersi.



(Elisabetta Brizio, da I Am Waiting: “yacht: cocottes”, alterità e discronia nei versi di Guido Gozzano, in Gozzano dopo cent’anni. Antologia delle opere per l’anniversario dei Colloqui, Nuova Provincia, Imola 2011)


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