mercoledì 30 dicembre 2009

Elisabetta Brizio, "Karl Michelstädter e l’utopia del 'libero mare'"

Il tema della fugacità, dell'inafferrabilità del tempo, e dell'inesorabilità del suo consumarsi e decadere verso l'orizzonte oscuro della fine e dell'enigma, è, paradossalmente, un tema che vince il tempo stesso, che lo trascende ripresentandosi nelle epoche e nelle culture più diverse ("Non c'è cosa bella e gloriosa che non abbia d'un tratto reciso il respiro, e non precipiti nella tomba. Orrida tomba è anche la culla del sole, e lumi d'astri le ombre funeree", scriveva Nezahualcoyotl senza nulla sapere della Bibbia, della sapienza egizia o della tragedia greca, e in modo cupamente profetico, solo pochi decenni prima che il suo grande regno fosse cancellato, divorato dalla bramosia dei conquistadores).
Poeta-filosofo, e filosofo-poeta, mitteleuropeo e italiano, lieve di reminiscenze di una cantabilità petrarchesca e leopardiana, moderno e nel contempo classico nei temi e nello spirito (basti qui ricordare i celebri versi in cui Orazio raccomanda, letteralmente, di "recidere dal breve tempo una lunga speranza", o prima ancora le meditazioni pre-shakespeariane e pre-heideggeriane di Pindaro e di Sofocle intorno all'uomo skias onar, "sogno di un'ombra"), Michelstaedter cercò, come Faust, di afferrare l'istante, di coglierlo e di assaporarlo rendendolo puro ed assoluto eppure lasciandogli, nondimeno, la sua natura di istante, la sua consustanziale transitorietà, la sua ossimorica essenza fatta di caducità, di impermanenza, di evanescenza. L'istante, la temporalità si depurano e assolutizzano proprio nel riconoscimento, lucido e femo più che rassegnato, della loro irredimibile transitorietà.
L'imagérie dei versi citati nel testo che segue (testo ragguardevole anche per la ricerca formale, densa di neologismi, e spasmodicamente tesa a rendere comunicabile una materia concettuale così sottile e sfuggente, come appunto il tempo medesimo a cui si riferisce) è comunque, nonostante queste risonanze universali ed archetipiche, schiettamente primonovecentesca. Penso al mare in Montale (il mare "vasto e diverso / e insieme fisso"), in Valéry ("la mer toujours recommencée"), e prima ancora, e soprattutto, in Corazzini, librato "verso un cielo più novo e più lontano / sovra il pianto degli uomini e del mare", o fisso nella contemplazione di "una vela / piccola che s'incela / a l'estremo del mare" (ma si può vedere lo studio di Virginia Di Martino).
Il tempo della vita si eterna, si sublima, diviene celeste, proprio nell'orizzonte, appena varcato, della sua finitudine. Il tempo infinito, l'infinità del tempo di cui parla Michelstaedter non sono nell'infinitamente grande, nell'indefinita e sterminata distesa dell'aion, ma piuttosto nel'infinitamente piccolo, nello sdipanarsi e sfilare degli istanti, minimi "atomi di tempo", inanellati nella collana bergsoniana e montaliana:
Ahimè, non mai due volte configura
il tempo in egual modo i grani! E scampo
n'è, ché, se accada, insieme alla natura
la nostra fiaba brucerà in un lampo.
(M. V. )
Forse è questo il peccato originale, essere incapaci
di amare e di essere felici, di vivere a fondo il
il tempo, l’istante, senza smania di bruciarlo, di
farlo finire presto. Incapacità di persuasione, diceva
Michelstaedter. Il peccato originale introduce la
morte, che prende possesso della vita, la fa sentire
insopportabile in ogni ora che essa arreca nel suo
trascorrere, e costringe a distruggere il tempo
della vita, a farlo passare presto, come una
malattia: ammazzare il tempo, una forma educata
di suicidio.

Claudio Magris, Microcosmi

Nella poesia di Karl Michelstädter la metafora assoluta del mare esprime l’aspirazione a varcare il deserto della vita (“lasciami andare oltre il deserto, al mare”), e della dimensione della “rettorica”, della “inadeguata affermazione d’individualità”, come egli in La persuasione e la rettorica definisce l’inautentica forma di esistenza, poliforme incarnazione del vuoto.
La metafora del mare nondimeno si complica nella michelstädteriana distinzione tra un “libero mare senza sponde”, pelagus substantiae infinitum, lontano da coste e da scogliere, un “mare dove l’onda non arriva”, luogo infinibile e irraggiungibile, oggetto di una tensione mai appagata, sostanziale e autosufficiente (“da sé genera il vento, / manda la luce e in seno la riprende”), e quello di cui facciamo esperienza, colmo esso stesso di deserto e difettivo di vita, oppresso da un vento che lo accomuna alla terra, quel mare “che non è mare s’anche è mare”, le cui onde si accavallano alla stessa maniera dei nostri desideri.
Il “libero mare” si oppone sia al vivere obsolescendo del non persuaso che all’amour du mensonge della “rettorica”:

Onda per onda batte sullo scoglio
- passan le vele bianche all’orizzonte;
monta rimonta, or dolce or tempestosa
l’agitata marea senza riposo.
Ma onda e sole e vento e vele e scogli,
questa è la terra, quello l’orizzonte
del mar lontano, il mar senza confini.
Non è il libero mare senza sponde,
il mare dove l’onda non arriva,
il mare che da sé genera il vento,
manda la luce e in seno la riprende,
il mar che di sua vita mille vite
suscita e cresce in una sola vita.

(Onda per onda)


Il mare è simbolo di una persuasione umanamente inaccessibile, è filosofia della libertà, sottrazione di sé alla condizione “rettorica” dell’esperienza, al destino di parole che mimano una comunicazione assente e che sostanziano la noia, parole assunte come necessari narcotici e “ornamenti dell’oscurità”. Con l’elemento di mistificazione introdotto dalla “rettorica” l’uomo attinge al sapere, all’essere per qualcosa, non già all’essere. “Libero mare” è emblema di annullamento di passioni e di desideri che inducono alla omissione di un presente vòlto in continua progressione verso il futuro e che precludono la possessione della vita. Esso è sovrana indifferenza, è tempo a cui l’evento contingente non attiene, pur contenendolo.
Scrive esemplarmente Claudio Magris (profondo conoscitore del poeta e filosofo goriziano, sul quale diffusamente si sofferma) nel bellissimo romanzo Un altro mare, in cui la figura di Carlo ispirerà le vicende del protagonista, designato a un’esistenza persuasa, ideale vanamente perseguito da Enrico:

In quelle pagine c’è la parola definitiva, la diagnosi della malattia
che rode la civiltà. La persuasione, dice Carlo, è il possesso presente
della propria vita e della propria persona, la capacità di vivere
pienamente l’istante, senza sacrificarlo a qualcosa che ha da venire
o che si spera arrivi quanto prima, distruggendo così la vita nell’attesa
che passi più presto possibile. Ma la civiltà è la storia degli uomini
incapaci di vivere persuasi, che costruiscono l’enorme muraglia della
rettorica, l’organizzazione sociale del sapere e dell’agire, per nascondere
a sé stessi la vista e la coscienza del loro vuoto.

Per esemplificare l’automatismo della impersuasione Michelstädter introduce la metafora del peso e della sua insoddisfazione che lo induce a scendere sempre più in basso: esso è spinto costantemente dalla volontà di scendere. È la mancanza di possesso a conferirgli il suo statuto di peso. La destinazione del peso, alla maniera di quella umana, è l’esito della vacanza del e dal presente. La volontà di possesso soppianta il possedere, la possibilità di consistere, la persuasione. Dice Michelstädter: “Per possedere sé stessa - per giungere all’essere attuale essa corre nel tempo: e il tempo è infinito poiché nel momento ch’essa riuscisse a possedersi, a consistere, cesserebbe d’essere volontà di vita (…). La vita sarebbe se il tempo non le allontanasse l’essere costantemente nel prossimo istante”. È ciò che Michelstädter definisce “l’illusione della persuasione”. L’inappagamento della volontà vanifica ogni cosa che intanto è già passata, consacrando il tempo alla morte. In questa prospettiva dell’essere come voler essere o aver da essere il tempo sottrae alla vita l’autentica dimensione del presente. L’esistenza è un incessante spostamento in avanti che esclude l’idea della possessione, e della vita non resta che la sensazione di averla già vissuta.
Il “lontano mare” si configura come tensione a impossessarsi del puro presente delle cose avvertite nell’appagamento della loro astanza, un anelito alla persuasione, è rifiuto della maschera della retorica, è autosufficienza estranea al volere e al desiderare. Vivere inseguendo la vita equivale a morire, a sancisce la dicotomia tra l’essere e il divenire e a patire un’esistenza agonica e immemoriale:

e con l’occhio all’orizzonte
dove il ciel si fondeva col mare
si sentiva vacillare
Senia, e disse: “Vorrei morire”.
Ma più forte sullo scoglio
l’onda lontana s’infranse
e nel fondo una nota pianse
pei perduti figli del mare.
“No, la morte non è abbandono”
disse Itti con voce più forte
“ma è il coraggio della morte
onde la luce sorgerà.
Il coraggio di sopportare
tutto il peso del dolore,
il coraggio di navigare
verso il nostro libero mare,
il coraggio di non sostare
nella cura dell’avvenire,
il coraggio di non languire
per godere le cose care”.


In questi versi del poemetto I figli del mare i protagonisti rifiutano la propria adiacenza alla terra, la propria mancanza, e subiscono una sorta di trasfigurazione in entità marine. In Michelstädter la terra è sempre negativamente connotata come regno della “rettorica” e dell’impersuasione.
Il mare, ma “un altro mare”, delinea la teleologia michelstädteriana dell’essere. Che è essere-per-la-morte, della zarathustriana “libera morte”: “Io vi insegno la morte che compie l’incompiuto, e diviene per i vivi stimolo e promessa”, si legge nello Zarathustra. Esiste forse un nesso tra la metafora del mare e il nietzschiano amor fati, l’amare la necessità anche a rischio di naufragare, e l’itinerarium verso la riconquista della persuasione, la risoluzione a dare patria a sé stessi.
I figli del mare sembrano anelare ad infinitarsi, e ciò è reso anche attraverso l’impiego frequente del verbo all’infinito che rima con “mare” (una profonda e circostanziata esegesi di questi versi è stata condotta da Sergio Campailla nella sua interessantissima introduzione all’edizione 1987 dell’Adelphi delle Poesie di Michelstädter), un “mare aperto senza rive e senza navi” (Magris) quale prefigurazione di consistenza ma insieme di annullamento: nel mare dell’essere, dell’essere-per-la-morte che assiste alla ricomposizione della totalità diveniente, una morte da saper affrontare, “che congiunge e non divide”, avvolta in un’aura escatologica, più che una forma di nullificazione .

“Libero mare” è vaticinio di quiete, di arghia, sulla scorta delle michelstädteriane meditazioni filosofiche dell’esistenza, secondo cui filosofia, quale “amore della sapienza indivisa, vuol dire vedere le cose lontane come fossero vicine, abolire la brama di afferrarle, perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere” (Magris).

Consistere è uscire dalla desertificazione, attraversare la “retorica” decodificandone ogni ingannevole dialettica, “farsi fiamma” affrancandosi dalla mutevolezza, condizione che nondimeno è consustanziale e coessenziale all’uomo e all’esistenza.

Al mio sole, al mio mar per queste strade
dalla terra o dal mar mi volgo invano,
vana è la pena e vana la speranza,
tutta è la vita arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di sé stessa in un punto faccia fiamma.

(Onda per onda)

E al mar l’annuncio porta della lotta
che nebbia e vento nel ciel combattono,
al mar l’annuncio porta del tumulto
che in cor m’infuria quando la nausea,
quando il torpore, il dubbio, l’abbandono
per la tua vista, Argia, più fervido
l’ardir combatte e sogna il mare libero.

(All’Isonzo)

Elisabetta Brizio, dicembre 2009

domenica 27 dicembre 2009

Patrizia Garofalo, "I 'Quaderni dell'impostura' di Alessandro Assiri"

Ha scritto Alessandro Assiri: "Credo che ogni parola oggi sia principalmente parola contaminata e che compito del dire poetico sia il ricondurre al tentativo di accasarsi in un senso". La scrittura letteraria assolve allora la sua funzione nell'opporsi alla deriva, alla deiezione, alla corsa vana e furiosa che espelle ed evacua ogni vissuto e ogni espressione come superflue zavorre, come materia occasionale da ardere e disperdere. Così, la sua scrittura recupera una dimensione memoriale, proustiana di richiamo, resurrezione, riappropriazione, redenzione del passato - ma, nel contempo, quella di un nietzscheano esorcismo che, attraverso la scrittura, strappa l'istante eterno dall'angoscia del suo perenne, indefinito ripetersi, nel momento stesso in cui lo eterna nella forma affidata al futuro delle interpretazioni (pregnante, in tal senso, il riferimento, proposto dalla Garofalo, ad Ulisse: un Ulisse che è forse più quello di Saba, sospinto al largo dal "doloroso amore" della vita, che quello di Ulisse, intento e fisso alla sua eroica meta).
Si leggeva in una raccolta precedente:

Mi percuote e mi assilla
questa assenza di voce
una scena muta
un istante della terra.

Il nitido silenzio
socchiude la porta
a un'altra scomparsa.

A preservare il vissuto, a rendere cristalini e traslucidi il suo fluire e il suo trascolorare pur serbandone la mutevolezza, è un pirandelliano "limpido silenzio" - il silenzio che avvolge, come una cortina di nubi sacre, la sfera della meditazione, della creazione e dell'espressione. (M. V.)



“Converso con ogni solitudine che non abbia una destinazione e cerco l’umiltà per dire ogni cosa che sfioro”

A.Assiri

“Chi passa nel mio giardino?
Il giardiniere. Eppure non è lui.
La vita si stacca da sé, ne rimane l’illusione
Di cui si parla in treno tra viaggiatori sudati”

P.P.Pasolini


“Poesia in forma di rosa”, scriveva Pasolini senza soffocanti omologazioni. “Poesia in forma di diario” è quella che si legge nel testo di Alessandro Assiri, attraversamento cosciente e congetturato in rimandi continui di pensiero, immaginazioni e silenzi, perplessità e dolore che accompagnano la sostanzialità della vita come continuo preparativo per un viaggio.

Al centro dell’indagine, lo scandaglio della parola che diventa ricerca del sé e attesa di una possibile alterità: “la controversia solita per parole troppo scarne, alla fine è un presente da confidare e un passato che rimorde”; “e penso ad ogni madre che ha imbellettato un fiocco, che ha stretto al cuore un amore e che separandosi dall’orgoglio ha accennato una carezza, così lieve perché non sembrasse un saluto”.

Una scrittura “dolosa” si significherebbe con linguaggio e modalità di un vero scoperto ma non rivelato, vestito di letterarietà e poco di vita. Ma essa tracima fin dai versi sopra citati in brandelli che si ricuciono e fanno emergere la fragilità di una vita appuntata su quaderni della vera impostura che è quella della perdita dell’innocenza , del linguaggio e della comunicazione interiorizzate nel viaggio dove turista e nomade confondono solitudini e parole.

Il deserto propone pagine sole e tele da imbrattare dove “la finzione” scaturisce, a mio avviso, in quell’attimo necessario che passa dal pensiero al prendere una penna o un pennello e segnare un passaggio, appuntare una nota.

“Nessun incanto potrà mai essere sincronia, non c’è da meravigliarsi se non nel distacco. (...) E quel piccolo disagio che ogni volta m’inquieta se solo ti allontani, confonde le sirene con soavi armonie”, per poi dire: “Quando le cose si allontanano c’è una strana grazia nel loro sbiadire, una sorta di morbidezza della dimenticanza, come lo spalancarsi dell’infinito prima dell’oblio”. “Verrà un frammento e avrà il suo passo, il suo reclamo da fare, le sue parole da dire”.

Non certo reale oggettivo ma immaginato è quello che si sfoglia nel testo e forse nel vivere, dove ogni attimo ne prefigura un altro nei preparativi per la partenza che non sono inizio di un viaggio ma coscienza di una progettualità già conclusa nell’attendere. Nell’immaginare il significato del contenuto si snodano senza respiro gli scritti dei quaderni, alla velocità della parola si oppone la necessità di un vuoto “come se l’assenza di dinamicità rallentasse il mutamento”. E a quest’ultimo che invece mi sembra ci si opponga con la forza del poeta che ha conosciuto la fine della meraviglia, il sapore della noia e la perdita di un paradiso a cui aspira mentre veleggia su “vele nere” di omerica memoria, rievocando la tessitura di Penelope.

E nell’apparire e sparire in simultaneità dell’immagine-parola-significato, Assiri connota il dolore dei vivi: “E' l’urlo dei vivi che mi dà turbamento, l’incapacità di trattenere un orrore per l’impossibilità di poterlo spiegare”; dove tutto è silenzio, vuotezza, “dignità calpestata dove è solo vergogna essere uomini” e "la dissolvenza è atto privato o qualcosa da consumare in solitudine”.

Lo scavo della parola, la sua rinascenza la restituirà vergine nello scambio di un dialogo che forse avviene. E riporto, allora, la voce intensissima di un ricerca che affanna e logora ma non si arrende: “E’ la piccola storia del crollo di una letteratura allusiva, dove ormai trovo poco diletto, dove forse eccedo in un eccesso di sconfitta. Un piccolo scandalo di borgata che non fa più notizia, che sfuma nella piccolezza dei protagonisti. Tu ed io per favore restiamone fuori, e misuriamo ancora il tempo della parola con quello del respiro”. Con il convincimento e la commozione della lezione poetica autentica e sofferta che Alessandro Assiri ci ha donato.


Patrizia Garofalo

mercoledì 23 dicembre 2009

PATRIZIA GAROFALO, "MONOLOGO DELL'ANIMA"



Diceva Emily Dickinson che le parole non muoiono, come crede qualcuno, appena vengono pronunciate, ma semmai proprio allora cominciano a vivere. Eppure, la loro vita è morte, una “morta vita” e una “viva morte”, come dicevano i neoplatonici – la parola divisa per sempre dal corpo, dal respiro e dal sentire di chi la proferì, affidata alla carta o alla memoria o all'aria, separata dalla sua origine come l'anima dal corpo, e nondimeno volta, oltre ogni logica, a ritornarvi per oscure vie.

Parole all'apparenza vuote, diafane, incorporee, senza forme né sangue - “cavi nulla risonanti” diceva un poeta - maschere che hanno aderito ai volti fino ad assorbirli in sé, a fagocitarli, prima di travolgerli nel loro stesso estremo svanire e dissolversi. Eppure anche e proprio da questa distanza, da questa inappartenenza - da questo, direbbero i pensatori francesi, “déssaissement”, dalla voragine di questa lacerata “béance” - sorge, limpido filo di cristallo, il monologo dell'anima, la fragile e limpida monodia dello spirito orfano, il canto dell'”animula vagula blandula” dell'imperatore Adriano, cara agli esteti dell'Ottocento:

Animula vagula blandula,
Hospes comesque corporis
Qua nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos

Piccola dolce anima che vaga,
Ospite e compagna della carne -
In quali oscure terre migrerai
Pallida intirizzita ignuda
Privata ormai dei tuoi diletti giochi

Eppure, in questa prosa di Patrizia Garofalo l'anima sembra voler restare legata al suo "mortale incarco", alla sua dimora divenutale cara come una casa a lungo abitata. La parola letteraria opera, o surroga, il miracolo e il mistero della risurrezione della carne: oltre il testo, nell'eco che perdura dentro la mente del lettore, splende "la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara".

M. V.



per Meredith



Cammino sentendo l’anima vuota. La porto sulle spalle dentro un sacco di iuta, non pesa niente e nemmeno i ricordi hanno più il sapore dolciastro del sangue e della nostalgia.

Non mi chiedo chi mi abbia resa così orfana di tutto e non cerco neanche di rimandare al cuore la canzone della vita con cui ero partita. Sapevo che le favole muoiono fin da quando mettevo ad essiccare nelle pagine del mio diario i fiori che mi regalavano. Li ritrovavo belli, distesi, un po’ più pallidi, insomma erano morti per emorragia di reato compiuto dolosamente da parte di chi me li aveva confezionati per una ricorrenza e per la mia stupidità di pensare che si sarebbero meglio mantenuti.

Erano senza vita invece proprio nell’attimo in cui volevo avessero il nome di chi li aveva donati, avevano dato tutta la linfa che possedevano ed erano finiti dolorosamente estenuati da un’agonia non prevista.
Perché nessuno aveva previsto quella morte, ma adesso ricordo bene come ogni volta che li rivedevo immaginavo un cimitero di farfalle.
Appoggio sul muretto la sacca vuota e anche questo pensiero scompare. Mi piacciono da sempre
le mura screpolate dei vicoli vecchi di anni, pensieri, impronte e bisbigli. Le parole tornano, innamorate e segrete, complici e impaurite, sbigottite e censurate. Le mie mani bianche avvertono nelle rughe della pietra le stagioni dell’amore e dell’odio, non le percepisco come sentimenti ma ombre di una vita che non mi appartiene più e che sto restituendo piano piano all’indifferenza, forse la vera responsabile dell’orrida vuotezza dell’anima mia sdraiata nella sacca e dimentica del pur minimo accenno di presenza.
Il corpo invece lo sento, tutto proprio tutto, nessuno lo vede ma è come se lo avessi ingoiato e mi stesse scoppiando dentro. Riesco solo a carezzare i capelli e prendermi la testa, la stringo e l’abbraccio, la riabbraccio come per una ninna nanna ma sente troppo dolore, la cura delle parole non arriva, sento che esse graffiano i muri di una casa di pietra dove ho deposto l’anima e faticano a raggiungermi. Quando arrivano sono esauste, macchiate, inzuppate d’acqua e di sangue.
Scompaiono ogni volta che tentano di parlare, si esauriscono in dolenti suoni come di chitarre scordate, sono abusate, stuprate, violentate e hanno occhi enormi, le parole … tanti occhi e senza accorgermene stringo più forte la mia testa perché non le veda e sciolgo i capelli in modo che coprano il viso. Mi sento più leggera ora e vedo la sacca dell’anima piangere, il corpo mi fa meno male. Infilo le lacrime a guisa di collana e ne faccio una corda più resistente per sollevarmi e riprendere il fagotto del mio corpo che grava come quando un dolore insiste sul petto, anzi più in alto come se mi soffocasse o tagliasse la gola. E mi appare ancora il camposanto di fiori e farfalle dove anch’io riposo.

Patrizia Garofalo

domenica 20 dicembre 2009

JACK FOLEY, LA COSCIENZA DI UN POETA

Presento qui, credo per la prima volta per il lettore italiano, il lavoro di Jack Foley, poeta californiano vicino, dapprima, alla Beat Generation e ai movimenti d'avanguardia, eppure forte di una salda formazione accademica, e di una lucida e dotta coscienza letteraria: poeta e critico che, con la sua assidua attività, ha il merito, come osservò Lawrence Ferlinghetti, di tener viva e desta, “articolandola”, la “coscienza poetica di San Francisco”.

Accanto a quattro testi poetici, di cui ho tentato una versione italiana certo segnata da una spessa patina di classicità (del resto, uno dei numi tutelari, dei maestri invocati, come baudelairiani phares, da Foley, è Hoelderlin), e che mostrano l'evoluzione da una maniera lirica e sognante, segnata dall'eredità surrealista e imagista, ad una forse più matura consapevolezza – attraverso la meditata sperimentazione- della materia poetica (che culmina forse in Lemon Balm, dove la sfrenata deriva associativa e l'immaginosa autonomia dei significanti sono comunque sorrette dall'antichissimo topos dello scrivere versi come scegliere ed intrecciare "fior da fiore"), riporto un testo teorico, il quale mostra come anche una coscienza poetica quanto mai moderna e d'avanguardia non possa ignorare, per fondarsi e chiarirsi a se stessa e ai lettori, la consapevolezza dell'antico, il quale, rappresenta, per così dire, lo specchio dell'autocoscienza, il termine di parziale identificazione e di dialettico confronto attraverso cui il soggetto può tornare a se stesso e alla propria originale creazione con un accresciuto grado di consapevolezza critica e di spessore culturale.

La poesia e la poetica di Jack Foley sono illuminate, fra l'altro, da un prezioso ed imponente volume non ancora tradotto in Italia, O Powerful Western Star, Pantograph Press, Oakland 2000, nel quale l'importanza essenziale della performance, della lettura, dell'esecuzione del testo (a cui spesso il poeta si dedica) non va scissa, sulle orme del Mallarmé del Coup de dès, dall'analoga coscienza del rilievo centrale che la parola scritta, il testo, nella sua autonomia, nella sua specificità, nella sua aseità, nel suo assoluto valore, anche visivo e grafico, riveste – pur nel suo essere, per antonomasia, Libro dei morti, segno di per sé muto ed inerte.
Come Sant'Ambrogio immortalato da Agostino, nel sesto libro delle Confessiones, mentre è intento a leggere senza muovere le labbra, facendo risuonare le parole solo nel cavo silenzio dell'anima – o come Mallarmé che esita, teso ed angosciato, di fronte alla pagina bianca -, così il poeta contemporaneo scruta ed indaga il bianco, il vuoto, il silenzio, al pari dello scultore di fronte al blocco di marmo, per trarne le segrete risonanze, le virtualità celate nel profondo ed affidarle alla parola, al segno (forse destinati a giacere obliati per un tempo indefinito), o all'ascolto e alla memoria, per quanto sempre fallaci, all'aria e alle onde sonore che le inghiottono, le sfibrano e infine le disperdono nel vento, nell'attesa vaga di una possibile rinascita.

Ma, come dimostra, agli occhi di Foley (allievo di Paul De Man, e dunque incline ad una sottile ed intelligente decostruzione), il Keats di Ode sopra un'urna greca, a volte il silenzio-parola, la forma-vuoto, il segno-assenza possono condurre il poeta lungo strade imprevedibili, fare emergere significati nascosti e paure rimosse (prime fra tutte, il sesso e la morte). Nella poesia, a volte, può essere (in un modo che si direbbe lacaniano) il linguaggio a prendere coscienza di se stesso e dei propri universali, ma proprio per questo segreti e latenti, valori, anche oltre l'individualità cosciente del poeta. Ed è, questo, un paradosso inquietante, soprattutto agli occhi di un poeta che fa della coscienza critico-teorica uno dei suoi punti essenziali, ma nel contempo ne evidenzia i sempre labili limiti (M. V.)



UPON LEAVING ATLANTIC CITY
(romantic Atlantic City)


The mother-sea exploded with a roar
before we put the lights out and it vanished.
Not even the ladies marching on the boardwalk
were storm enough to pull us down;
we rode out the daylight, dreaming
of drowsy islands where the water's calm.
Night was our harbor, when the midwife, love,
folded us in with its impossibilities,
fished out our pieces till the game made sense.
Sweetheart, forgive the liars and the fools
who shipped us to this place: they thought it best.
Sleep will bear you into gentler water
where painted characters of kings and castles
glitter like islands, and I will close your ears
to the disarranged palaver of pawns and landlubbers


LASCIANDO ATLANTIC CITY

La madremare esplose con un rombo
prima che noi spegnessimo le luci
e svanì. Nemmeno le signore
che camminavano sul lungomare
furono tempesta che potesse abbatterci;
superammo la luce del giorno, sognando
le sonnolente isole dove l'acqua è quieta.
La notte era il nostro porto, quando la levatrice, amore,
ci piegò su noi stessi con le sue impossibilità,
ripescò i nostri frammenti finché il gioco ebbe un senso.
Tesoro, perdona i mentitori e i folli
che ci spedirono in questo luogo: credevano fosse il meglio.
Il sonno ti deporrà su più docili acque
dove figure di re e di castelli
brillano come isole, e io chiuderò le tue orecchie
alla stonata storia di marinai e pedine.


*******



those masters of language whom we emulate
but cannot hope to equal
those masters who summon wor(l)ds in words
we listen
but can only
there are those
who think by opposition
who are awakened only by the circumstance of contra-
diction
we are not
those masters of language
summon wor(l)ds
which
resonate
resound
so that experience is
alive with random fragments seeking others
fragments summoning
not unity but constant interaction

peace
is the reward of oppressive systems which hold imagination by the throat
and murder wor(l)ds


Quei maestri del linguaggio che emuliamo
senza poter sperare di eguagliarli
quei maestri che ammassano mondiparole in parole
noi li ascoltiamo
senza poter far altro che ascoltarli -
ci sono quelli
che pensano per opposizioni
che si scuotono solo allo scoppio di un conflitto -
noi non siamo fra loro -
quei maestri del linguaggio
ammassano mondiparole
che
risuonano
echeggiano
così che vive l'esperienza
con frammenti casuali che cercano i loro fratelli -
frammenti che invocano
non unità ma costante interazione

pacificazione
è la ricompensa di sistemi oppressivi che tengono l'immaginazione per la gola
e consumano l'assassinio dei mondiparole


*******************************

FOR MARY-MARCIA CASOLY

those silent birds I gave you
have you listened?
those silent, metal birds
catch sunlight like sound
and flash it to your ears
which nonetheless hear nothing
silence
is a complex entity
which these birds sing in deafening profusion
silence is the—
sings
from their unmoving
wings


PER MARY-MARCIA CASOLY

quei silenziosi uccelli che ti ho donato
li hai ascoltati?
quei silenziosi, metallici uccelli
ghermiscono la luce del sole come il suono
e la riverberano fino alle tue orecchie
che non odono nulla
nondimeno
il silenzio
è un'entità complessa
che questi uccelli cantano in profusione assordante
il silenzio è il -
canta
dalle loro ali
immote

(from Fragments)


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Mein Eigentum
(after Hölderlin)

the great gleams of Hölderlin's
lines (love the gods and think kindly of mortals)
move through my mind
as I walk
east oakland's streets
in the glorious
california light
shining from the buildings
along MacArthur Boulevard
my wife at my side
my son laboring to complete
his book
("my" in this sense
does not imply
possession
any more than
"my god my god why have you forsaken me?"
implies possession:
this is the wife
this is the son
that pertains to me: mein eigentum, my concerns)
the spring day rests now in fullness
cherry blossoms fall
like snow
light from the heavens softly filters
insinuates itself
in everything we see
beglükt, wer, ruhig liebend ein frommes Weib
a pious man with
a pious wife
to what god do I owe my piety?
it is enough to love the sun
(those who've thought most deeply love what's most alive)
and yet:
the mortal soul that has never experienced darkness
barely exists
"a soul will fade away
if it wanders only in daylight
a pauper on holy Earth"
MacArthur Boulevard
full of history
and the history of war
seems innocent
in the sunlight
even "fromme," pious .
in the joy with which
we walk
mornings
before the disasters
of any day
before any god
can seize us
and lift us
into the fierce heights of holiness
O Golden One
let my soul not long
for more than this life contains



Mein Eigentum
(dopo una lettura di Hölderlin)


I vasti bagliori dei versi di Hölderlin
(ama gli dei ed abbi
gentili pensieri sui mortali)
mi attraversano la mente
mentre cammino
per le strade di East Oakland
nella luce gloriosa della California
che stilla dai palazzi
lungo il MacArthur Boulevard
mia moglie al fianco, mio figlio
che lavora per finire il suo libro
(mio in questo senso
non implica possesso
più di quanto mio dio mio dio
perché mi hai abbandonato
non implichi possesso:
questa è la moglie,
questo è il figlio
che mi appartengono:
mein eigentum, ciò
che mi è proprio)
il giorno di primavera giace ora in pienezza
cadono i fiori di ciliegio
come neve
dagli alti Eldoradi filtra
la luce lieve, penetra
in tutto ciò che vediamo
beglükt, wer, ruhig liebend ein frommes Weib
un uomo devoto con una
devota moglie
a quale dio devo la mia devozione?
basta amare il sole
(per coloro che hanno pensato più profondamente l'amore
ciò che più d'ogni altra cosa è vivo)
e ancora l'anima mortale
che non ha mai avuto conoscenza delle tenebre
a malapena esiste
“un'anima svanirà
se si aggira soltanto nella luce del giorno
mendìca sulla Terra sacra”
Mac Arthur Boulevard
pieno di storia
e storia di guerra
sembra innocente
nella luce del sole
e addirittura “fromme”, devoto
nella gioia con cui camminiamo
le mattine prima dei disastri
di ogni giorno
prima che un dio
possa impadronirsi di noi
e sollevarci fino alle altezze fiere del Sacro -
O Aurea Creatura
fa' che non brami la mia anima
più di ciò che questa vita contiene


******

LEMON BALM
for L.Z.

conscious longing joint weed polygonaceous
jonquil fragrant yellow or white flowers
showing up in our yard as if by magic
joy stick juba lectionary
pasqueflower
musaceous murther murre myrrh
Muss-o-lini (the plumber named “Muss-o-lini Miles”:
“Just call me ‘Moose’”)
(O Princess Flower, most beautiful of)
Glory Bush
“I love your cock” absolute magnitude
Magnitogorsk desoxyribonucleic acid
desoxyribose Deo gratias coral Mayweed
jigger mortmain Morocco
otalgia O tempora! Papilionaceous
(O Princess Flower, most beautiful of)
press-room prest
And the golden Calif. Poppy
(anthology: a gathering of flowers)
papyrus hemidemisemiquaver
lemon balm


ERBA CEDRINA

per L. Z.

cosciente desiderio stretto a poligonacea erbaccia
fulva fragrante giunchiglia o fiori candidi
svettante nel nostro giardino come da un magico
gioia gambo cecchino lezionario
pulsatilla
musacea madremartire finocchiella
Muss-o-lini (l'idraulico soprannominato Mus-o-lini Miles:
"chiamatemi Moose, già che ci siete")
(Fiore-Principessa, di tutti il più bello)
Cespuglio Glorioso
"adoro la tua nerchia ritta come cresta"
magnificenza suprema
magnitogorchico acido desossiribonucleico
desossiribosio Deo Gratias erbadiprimavera
damerino manomorta Marocco
otite O tempora! Papilionaceo
(Fiore-Principessa, di tutti il più bello)
addetto stampa fatto con lo stampo
E Califfo Aureo. Papavero
(florilegio: corona di fiori)
papiro emidemisemitremito
erba cedrina


*****



From HAMLET, KEATS, AND LA CONSCIENCE DE SOI: A FEW CONSIDERATIONS OF A VAST TOPIC

During the nineteenth century, the figure of Hamlet underwent a shift from being the central character in one of Shakespeare’s most ambitious and exciting plays to being, far more than any of Shakespeare’s explicitlypoetcharacters, an emblem of the poet—“lisant,” as Mallarmé put it, “dans le Livre de lui-même” (reading in the Book of himself). What Hamlet represented to Mallarmé was man confronting hisinner life.” He burns with what Wordsworth calledthat inward eye / Which is the bliss of solitude.”
I think the central issue of Romanticism is the issue Rousseau callsconscience de soi”: self consciousness. The poetry reaches far back into Christian modes ofconfession,” as in Saint Augustine, and attempts to find ways in whichconsciousness,” “inwardnesscan be brought to light. This poetry includes both the intense desire for self-consciousness (as in Wordsworth) and the fear of it (as in Keats’ “Lamia”). What does selfhood taste like? How can one describe “soul”? There is also of course the demonic aspect of selfhoodits manifestation as a powerful “underground,” as in Baudelaire or even Jack Kerouac (“the subterraneans”). One thinks of Coleridge’s Ancient Mariner, whose terrifying self-awareness brings him to the anguished point of admitting his primal crime: “With my crossbow / I shot the albatross.”
I agree with Paul de Man (a mentor of mine at Cornell) thatWhat sets out as a claim to overcome Romanticism often turns out to be merely an expansion of our understanding of the movementand that Modernismdespite its frequent explicit rejection of Romanticismis in fact a thorough-going example of it. In general Romanticism marks the shift from thinking of poetry as a “craft” (and of the poet asmaker”) to thinking of it as a provoker of consciousness, even a creator of consciousness.
The fact is that Hamlet seems real not because he is a coherent character or “self” or because there is some discoverableessenceto him but because he actively and amazingly inhabits so many diverse, interconnecting, potentially contradictory contexts. Implicitly promising to tell us all about the interestingindividualHamlet, the play Hamlet ends by expressing the possibility thatindividualityis in fact multiplicity. It is the plenitude of contexts in which Hamlet functions—i.e., his multiplicitythat gives him density.

(...)

[In Keat's Ode to a Grecian urn], we are in some sort of vague version of idealism—some sort of conception in which the “idealis to be preferred to the “real.” And the urn seems to express that idealism. Nothing is ever consummatedwe are still in the realm of the “unravished bride”—but, on the other hand, desire is never quenched. Such a state, Keats argues lightly, is better than a situation in which consummation occurs.

(...)

Death,” says Hamlet, “is “the undiscovered country from whose bourn / No traveler returns.” Death has suddenly entered Keatspoem: “not a soul to tell / Why thou art desolate, can e’er return.” The artificiality of the paradise Keats was trying to describe protects us against death. Yet that paradise utterly shatters against the actual presence of death in the poem—a presence which both we and Keats know to the bone and which is linked to sexual frustration, itself a kind of death.
To paraphrase Keats’ “Ode to a Nightingale,” the word “desolate” “is like a bell / To toll me back from thee to my sole self”—to the very mortality the poet has been trying to escape by writing the poem. “The fancy,” he complains in the Nightingale Ode, “cannot cheat so well / As she is famed to do.” What began as simple descriptionthis is what is on the urn, it’s only a descriptionhas suddenly turned upon him and revealed the very sources which the poem existed to evade. Keats didn’t know why he was writing the poem, and the poem’s language is now telling him something about his own consciousnessmanifesting conscience de soi.

(…)

The idea ofsilenceis important in the poem. The urn is the “foster child of silence”; Keats writes ofunheard melodies”—silent ones; the streets of the townfor evermore / Will silent be”; there isnot a soul to tell / Why thou art desolate.” In the last stanza the urn itself is called a “silent form,” though in the concluding lines itspeaks”: “thou sayst.” Perhaps the most telling phrase of the stanza isCold Pastoral!” At this point the urn is almost a tombstone, something which extends beyond the life of the humans who constructed it and extends as well into the midst ofother woe / Than ours.” If it is “a friend to man,” it is also cold, like stone, lacking human warmth.

(…)


Da AMLETO, KEATS E LA CONSCIENCE DE SOI: BREVI CONSIDERAZIONI SU UN VASTO ARGOMENTO


Nel corso del diciannovesimo secolo, la figura di Amleto passò dall'essere il personaggio principale di una delle più ambiziose e più entusiasmanti opere di Shakespeare all'essere, ben più di qualsiasi personaggio di Shakespeare espressamente “poeta”, un emblema del poeta stesso - “lisant”, come affermava Mallarmé, “dans le livre de lui-même” (intento a leggere nel libro di se stesso”).Ciò che Amleto rappresentava agli occhi di Mallarmé era l'uomo che si confrontava con la propria “vita interiore”. Egli arde di ciò che Wordsworth chiamava “l'intimo sguardo / che è la delizia della solitudine”.
Credo che la questione centrale del romanticismo sia quella che Rousseau chiama “conscience de soi”: autocoscienza. La poesia recupera, a ritroso, i modi cristiani della “confessione”, come in Sant'Agostino, e cerca le strade per riportare alla luce l'”interiorità” e la “coscienza”. Questa poesia racchiude sia l'intenso desiderio di autocoscienza (come in Wordsworth), sia la paura di essa (come in Lamia di Keats).
Qual è il sentore dell'individualità? Come si può descrivere l'”anima”? C'è, ovviamente, anche l'aspetto demonico dell'individualità – la sua manifestazione come un possente “sottosuolo“, come in Baudelaire o anche in Jack Kerouac (“i sotterranei”). Si pensa al Vecchio Marinaio di Coleridge, spinto dalla propria terrificante autoconsapevolezza fino al punto angoscioso di dover confessare il suo crimine capitale: “Con la mia balestra / Colpii l'albatro”.
Concordo con Paul De Man (uno de miei maestri alla Cornell University) che “ciò che si pone come un'intenzione di oltrepassare il Romanticismo si risolve spesso in un semplice ampliamento della nostra comprensione del movimento” - e che il Modernismo, nonostante il suo frequente, esplicito rifiuto del Romanticismo, è di fatto un perfetto esempio di esso. In generale, il Romanticismo segna il passaggio dal concepire la poesia come un'”arte” (e il poeta come “creatore”) al vedere nel poeta un sollecitatore di coscienza, o addirittura un creatore di coscienza.
Il fatto è che Amleto sembra reale non perché sia un personaggio o un “sé” coerente, o perché vi sia, in lui, una riconoscibile “essenza”, ma perché egli attivamente e meravigliosamente abita tanti diversi, comunicanti, potenzialmente conflittuali, contesti. Pur promettendo, implicitamente, di parlarci dell'”individuo” Amleto, il dramma Amleto finisce per esprimere la possibilità che l'individualità sia, di fatto, molteplicità. È l'abbondanza di contesti in cui Amleto opera – ovvero la sua molteplicità – a conferirgli spessore.

(...)

[Nell'Ode sopra un'urna greca], ci troviamo in una sorta di vaga forma di idealismo – una sorta di concezione in cui l'”ideale” è preferito al “reale”. E l'urna sembra esprimere quell'idealismo. Nulla è ancora consumato - siamo ancora nel reame della “sposa intatta” - ma, nel contempo, il desiderio non è mai quietato. Tale stato, Keats sottilmente suggerisce, è migliore di una situazione in cui la consumazione avvenga.

(…)

“La morte”, dice Amleto, è “l'inesplorata terra dal cui confine / Nessun viaggiatore torna indietro”. La morte ha improvvisamente fatto irruzione nella poesia di Keats: “Nemmeno un'anima potrà tornare per dire / Perché, o paese, così desolato tu sia”. L'artificialità del paradiso che Keats stava cercando di descrivere ci protegge dalla morte. Ancora, quel paradiso improvvisamente irrompe contro la presenza della morte nella poesia – una presenza che sia noi che Keats conosciamo a fondo, e che è collegata alla frustrazione sessuale, essa stessa una forma di morte.
Per parafrasare l'Ode ad un usignolo di Keats, la parola “desolato” “è come una campana / che lugubre risuona e mi richiama / da te alla mia chiusa solitudine” - esattamente a quella stessa mortalità a cui il poeta ha cercato di sottrarsi scrivendo la poesia. “La fantasia”, egli lamenta nell'Ode a un usignolo, “non può ingannare così come / vuole la fama”. Ciò che è iniziato come semplice descrizione – questo è ciò che è sull'urna, una mera descrizione – si è improvvisamente rivoltato contro il poeta e ha rivelato le vere fonti che la poesia era finalizzata ad eludere. Keats non sapeva perché stesse scrivendo la poesia, e la lingua della poesia sta ora dicendo qualcosa sulla sua propria coscienza – manifestando conscience de soi”.

(...)


L'idea di “silenzio” è importante nella poesia. L'urna è “figlia adottiva del silenzio”; Keats scrive di “melodie non udite” - quelle silenziose; le strade della città “per sempre / nel silenzio immerse resteranno”; non c'è “una sola anima che potrà dire / Perché tu sei, paese, desolato”. Nell'ultima strofa l'urna stessa è chiamata “una forma silente”, sebbene nei versi conclusivi essa “parli”: “Tu dici”. Forse la frase più significativa della strofa è “Fredda Pastorale!” A questo punto, l'urna è quasi una pietra tombale, una cosa che si estende oltre la vita degli uomini che la costruirono e si estende, allo stesso, modo, nel mezzo di “lamenti altri / Dai nostri”. Se da un lato essa è “un'amica dell'uomo”, dall'altro è anche fredda, come pietra, priva di calore umano.