domenica 21 ottobre 2012

Postludio ad "Hexapla"



Hexapla furono dette, a partire dalla tarda antichità, le Bibbie che riportavano il testo in sei diverse versioni, in diverse lingue. Su una di queste Bibbie che mostravano, quasi visualizzavano, la vitalità molteplice, magari contraddittoria, di un testo, anzi del Testo per eccellenza, nel prisma delle diverse interpretazioni, trasposizioni, metamorfosi – Giacomo Leopardi apprenderà, nella solitudine della biblioteca paterna, il greco e l'ebraico a partire dal latino. 
 
La Sizigia è, invece, una diade inscindibile, una coppia di elementi che si esplicano e si illuminano e si integrano e si intersecano vicendevolmente, una duplicità scaturente da un'unità, che in quella duplicità non si annulla, ma si compie e si conferma.

Dualità, e dunque germe ed etimo ed accenno della molteplicità, nell'unità – nell'eguale e nel diverso, nel regolare e nell'anomalo, nel pari e nel dispari, tanto più che l'hexaplum sottende la disparità del tre, primo gnomone, numero perfetto che in esso è racchiuso attraverso la mediazione della diade, ed invoca l'esito dell'Heptaplus, del settimo giorno in cui la creazione giunge a compimento, e l'interpretazione della Parola originaria nella materia e nel vivente si fa nuovo testo da interpretare, nuovo fenomeno da scrutare – è ciò che questo libro (il quale riunisce studi di Elisabetta Brizio e di Matteo Veronesi) vorrebbe racchiudere.

Libro in cui, su di un comune fondo ontologico, su di un comune substratum materiato di Essere, o Nullla, e Linguaggio, tra Fenomenologia, Esistenzialismo e Decostruzione, si alternano traduzioni, commenti, recensioni, osservazioni sull'attualità culturale e indagini erudite su aspetti meno noti, apparentemente marginali, della tradizione letteraria occidentale, fin dai suoi archetipi in senso lato classico-cristiani, sacri e profani, o addirittura decisamente pagani – e dunque fin dal principio duali, e insieme identitari. 
 
Ma, a ben vedere, fra l'atto della traduzione, quello dell'interpretazione, e quello della scrittura, del passaggio dal silenzio musicale del pensiero al muto suono del segno lasciato sulla pagina, vi è una distinzione più esteriore che sostanziale, più di tempi o di gradi che di natura ed essenza. 
 
Tutto è traduzione, tutto è transizione e metamorfosi, poiché sia l'interpretazione del proprio pensiero prima di metterlo in carta, sia del testo altrui per interpretarlo, commentarlo o trasporlo in altra lingua, sia, infine, la rilettura del proprio pensiero sulla propria pagina – e dunque del sé come altro, quasi del proprio viso su uno specchio ricoperto di neri segni, fino al ritorno del pensiero in sé e su di sé dopo essere uscito, ek-staticamente, da se stesso –, e la trasmutazione della percezione in concetto, del pensiero primario in pensiero riflesso, della coscienza in autocoscienza – tutto ciò, dicevamo, comporta un passaggio, una trasmigrazione, una traslazione di codici, forme, situazioni, attitudini. 
 
Traduzione, o, come si usa dire in certi gerghi odierni, “riverbalizzazione” del pensiero e della parola altrui, è, a ben vedere, anche l'intervista, genere letterario (vero e proprio “genere”, rimontante forse al dialogo platonico, e poi al con-filosofare dei Romantici tedeschi – per arrivare fino alle inchieste letterarie tardo-ottocentesche di Huret in Francia e di Ojetti in Italia, alle interviste ai poeti di Ferdinando Camon, o a piccoli gioielli di autoesegesi come l'Intervista immaginaria di Montale, o, ancora, ai libri-intervista di Luzi) che in casi come questo, quando cioè non sia effimera e superficiale registrazione, o addirittura non travisi tendenziosamente il pensiero dell'interlocutore, diviene preziosissima testimonianza culturale – pur restando, anzi pur continuando a danzare, proprio perché tale, sempre sul crinale del possibile, fecondissimo travisamento che apre, fra le pieghe del dialogo stesso, nei silenzi fra domanda e risposta, nelle illuminazioni e nelle reticenze della risposta stessa, voragini oscure e risonanti di significati. 
 
Tutto è traduzione. E perciò tutto, forse, è tradimento. E tutto disfacimento e tramonto. “Traslare” il senso come “traslare” le spoglie: spolia, prede tolte al nemico, e dunque “vittoria”, ma anche “oggetto di spoliazione”, e dunque segno di una sconfitta: ultima meta, ultimo orizzonte e porto, sempre, l'Essere-Nulla da cui tutto proviene, pur nel tripudio versicolore delle forme – le quali nondimeno hanno, devono avere e ricevere, un senso, fosse pure quello stesso, disperato e disperante, del loro assiduo in ogni istante venir meno, nel fuoco vivo ed effimero dell'attuale, della Moda amica e sorella, gaia e irridente, della Morte, così come nella nebulosa, nella luminosa tenebra, dell'originario Nihil Aeternum


                                                           (M. V.) 








 

martedì 11 settembre 2012

«La cosa del nome ». Breve nota a «Parabola d’amore» di Nina Nasilli



Il tema di questo singolarissimo libro è il desiderio, peculiarmente la fenditura di desiderio tra il sogno e la sua realizzazione, quel «non-luogo-nel-non-tempo» dove vive la parte migliore di noi e da dove ha origine il resto, afferma Nina Nasilli nell’originalissimo prologo a Parabola d’amore, «Racconti in versi per il teatro pensando a Marina C. e a Rainer Maria R. nell’anno del fato 1926» (Book Editore 2012). La perentoria originalità delle pagine introduttive si irradia su tutta la struttura del libro, scandita dall’avvicendarsi delle diverse parabole dell’esistenza. Drammatica ma fattiva è la condizione dei due soggetti-oggetti del desiderio inappagato («questi sguardi cupidi di carpire un segreto»… «non sanno che il segreto è nei loro occhi che stanno a guardare?»), la loro spasmodica tensione in una lontananza concepita e vissuta quale scarto dall’ordinarietà in vista della significazione letteraria, della soddisfazione dell’esigenza del dire. La rinuncia al possesso del desideratum ha dunque un nesso con l’accesso allo spazio dell’arte («in questo modo / mi aprirai anche le gambe / della fantasia»): proprio in virtù di questo spiraglio tra desiderio e atto, tra ideazione ed espressione (paragonabile, scrive la Nasilli, a «quel momento di respiro profondo che precede un’immersione»), del senso del limen-limes, della soglia-confine – soglia del dire e soglia della dimora, della parola «corposa senza corpo» sede dell’essere – intesa come scampo alla desertificazione, del margine come limite e insieme implicita possibilità di un fluire scambievole, di un passaggio, di una fusione. Solo qualora il desiderio si consumi in una configurazione di attesa, e in particolare nella valorizzazione del difettare, cioè di quella mancanza da cui lo stesso desiderio trae origine:

sparsa l’attesa che nutre
il suo desiderio vaga nell’aria
da un tempo ad un altro
da un trascorso che se è lontano pare remoto
e se è vicino pare lontano
fino a un avvento che è bello
perché è sempre incerto
ed è remoto lo stesso…

Composta per integrare idealmente l’epistolario di Rilke e la Cvetaeva, quest’opera afferma la lucida constatazione che solo nella dimensione dell’imposseduto sarà possibile una testualizzazione del condizionale, il nominare tanto l’amore (che vediamo qui progredire in «amore poetico») che tutto ciò che non si è mai stati nella sfera illimitata dell’immaginario – in quella bi-sfera, quella sfera che eccede e paradossalmente avvolge se stessa, di cui si è parlato a proposito della spazialità del Paradiso dantesco. Non altrettanto, nella prospettiva della Nasilli, si verificherebbe nella declinazione dell’«amore coniugato», che finirebbe per annullare soggetto e oggetto in una fusione consumata fino in fondo, in una fiamma che potrebbe non lasciare altro la cenere amara del deludersi per l’infinito lambito soltanto. «Transformase o amador na cousa amada» («si trasmuta l’amante in ciò che ama»), dice un sonetto del platonico e ficiniano Luis de Camoens. Questa trasformazione – che consente al soggetto amante e desiderante di divenire altro da sé senza svanire, di entrare e di essere nell’altro e per l’altro senza venirne incorporato ed eliso – è mediata e resa possibile dalla distanza, sia dell’amante dall’amato che del soggetto da se stesso – la «fessura intra-coscienziale» degli esistenzialisti – al momento dell’assunzione di autocoscienza:

tu sai:
è il pensiero di te che mi forma il contorno
dell’ombra
sulle strade del mondo
che vado ogni giorno
attraversando

Più che la prospettiva (quella canonizzata) dell’«agogno» gozzaniano, che traduce un desiderare non intenzionalizzato, o comunque intenzionalizzato verso qualcosa che già in partenza si sapeva precluso al soggetto desiderante (di qui la rima ricorrente «agogno:sogno», l’identificazione del desiderare con l’inconsapevolezza), nei versi della Nasilli si percepisce una vaghissima eco di La morte di Tantalo di Sergio Corazzini. «O dolce mio amore, / confessa al viandante / che non abbiamo saputo morire / negandoci il frutto saporoso / e l’acqua d’oro, come la luna». «Non moriremo mai del tutto / noi che tanto abbiamo amato» (benché in absentia, e nell’ottica di una intrinseca compiutezza del desiderio), dà l’impressione di replicare la Nasilli. Nel crepuscolare romano l’inconsumato era l’aspirazione fatalmente trasgredita, pena la condanna a un accesso insostanziale alla nozione della cosa: «andremo per la vita / errando per sempre». E la distanza era quella essenziale e immedicabile dell’estinzione imminente, o meglio di una morte forse sognata e mai attinta come liberazione ultima dalla desolazione dell’esistere. Ma forse – nello sfalsamento delle parti recitanti di Parabola d’amore – il nesso amore-morte («Hai mai provato / nel tempo dei giochi senza malizia / a pensare alla morte?») si spiega anche con la distanza necessaria all’amore, con quel deserto minimo e infinito che deve pur aprirsi e sussistere tra due anime e due corpi perché possano, attraverso di esso, in quella trasparenza abbacinante, riconoscersi, desiderarsi e muovere l’uno verso l’altro.
Ma l’altro, amato e desiderato in quanto altro, è figura o riflesso dell’altro sostanziale, dell’alterità assoluta: quella del divino come della morte, di un delirio che può essere quello dell’estasi e della passione o quello dell’agonia, di una smemoratezza come orgasmo o come annullamento. La possibilità smaterializzata, non sperperata e sognata dell’amore è la stessa possibilità essenziale della morte. E l’attuazione è sempre dissoluzione («sublime / in terra / non esiste»), concretizzazione della possibilità ma, contemporaneamente, anche suo svanimento in quanto possibilità. Tuttavia, attraverso la diffusa simbologia naturalistica già inscritta nella tradizione letteraria, la Nasilli esibisce gli emblemi della introversione del desiderio, i quali, mentre si accordano con il moto ascendente e con quello discendente della vita, designano e configurano le icone della metamorfosi, illuminando e scandendo la transizione perenne di ciò che si estingue e risorge. Perché – è scritto nel risvolto di copertina – «anche l’amore vive in natura».


Elisabetta Brizio

martedì 10 luglio 2012

Ut pictura poesis. Giselda Pontesilli per Lorenzo Lotto, attraverso Berenson (pittura, etica e idealità nel Rinascimento)




 

In genere, l'aforisma oraziano dell'”ut pictura poesis” viene interpretato in senso estensivo, e dunque un poco generico. Nei versi di Giselda Pontesilli che ho il piacere di pubblicare esso ritrova, invece, la sua valenza originaria e precisa. Gli elementi della figurazione artistica, linee colori chiaroscuri, si dispongono e si intrecciano sulla tela come le parole del poeta sulla pagina, e in questo contesto, in questa mise en place trovano il loro vero valore semantico e semiotico.

E le immagini del dipinto, fermate per l'eterno, paiono essere eternamente e dall'eternità preesistite, predestinate, fermatesi in forma sensibile attraverso la mediazione (pur consapevole e tecnicamente meditata) dell'artista. Le cose, che l'arte rivela, invera, porta alla luce, sono universali ante rem mutati in entità percettibili. Come diceva Leonardo (pur così fenomenico e vicino alla natura, eppure, anzi per ciò stesso, accesamente visionario, quasi esoterico) nel Trattato della pittura, ciò che il pittore raffigura risiede prima nella mente che nelle mani; la pittura è «cosa mentale», «discorso mentale», al pari (e anzi, per Leonardo, addirittura più) della poesia

Ma l'arte ha anche un valore umano, sociale, civile quasi, tanto perenne da riverberarsi, puro, d'eco in eco, fino a noi. Come scriveva Berenson proprio di Lotto: «In realtà , le persone che egli ritrae sembrano condividere molti dei nostri modi di sentire, molti dei nostri ideali etici e sociali, e certamente erano offese e addolorate dai crimini che venivano perpetrati allora, non meno di quanto lo siamo oggi dagli scandali e dagli orrori che si verificano spesso in mezzo a noi. In esse avvertiamo una spontanea e genuina gentilezza d'animo e quel bisogno di vincoli affettivi e di umana solidarietà , che noi stessi proviamo. Così lo spirito caritatevole del Lotto ci dà del Cinquecento italiano un concetto più sano e certamente più valido di quello diffuso dai romanzieri alla moda, i quali, a partire da Stendhal, si sono dedicati esclusivamente al suo lato tenebroso. Era, senza dubbio, il lato più appariscente; ma un dubbio generoso ci faceva sospettare l'esistenza anche di altri aspetti, e Lotto ci aiuta a ristabilire quell'equilibrio di valori umani, senza il quale l'Italia cinquecentesca risulterebbe un vero sabba infernale".

L'empireo prenatale delle idee-valori lampeggia anche fra le spesse, e talora sanguinose, cortine del tempo, della materialità e della storia (e mi piace ora ricordare, fra quei romanzi alla moda citati da Berenson, uno che non è forse, oggi, fra i più noti, Then and now, ambientato in una fosca e deformata, scenografica e grottesca Imola rinascimentale e sforzesca, in cui gli sfarzi del carnevale si mescolano alle bambocciate dolorose e contratte, ai ghigni spasmodici e sinistri e sadicamente rimirati, dei patiboli).

All'autoritratto di Lotto e alla poesia di Giselda segue un breve documentario che si riferisce alla recente, persuasiva identificazione di un altro autoritratto del pittore. Quest'ultimo dipinto può essere visto, a sua volta, come una sorta di allegoria dell'atto poetico e della sua autocoscienza, di raffigurazione del creatore allo specchio, che si vede, quasi narcisisticamente, nell'atto di creare e di crearsi. Ma non può rappresentare, e anzi nasconde, la mano che dipinge.

Come a dire che l'essenza, la cima, il tramite sostanziale, intimo, apicale della creazione non possono rappresentarsi, non possono essere rappresentati, dalla creazione stessa. Anche la metapoesia, l'arte che parla di se stessa, continua a celare un istante di transizione dall'inesistente all'esistente, dall'indicibile al detto; una eterea paratia, un imene esilissimo, quasi impalpabile ("un hymen [...] entre le désir et l'accomplissement", dice Mallarmé), fra il mondo del pensiero e quello della manifestazione, fra l'alone del noumeno e quello, più denso ed impuro, del fenomeno.

E quel sottile ineffabile limbo, di cui non si può parlare, su cui si deve tacere, è forse il limite invalicabile, e forse lo sconfinato, ma invisibile e precario, sublime ed infero, fondamento, di ogni creazione, di ogni autocoscienza creatrice.

Neppure quando nomina e ritrae e rispecchia se stessa nell'atto del suo farsi l'arte può davvero parlare di se stessa, dire con altre parole e altre forme il processo e il divenire del proprio prender corpo. Per farlo dovrebbe uscire da sé, divenire altra, altro, alienarsi, sdoppiarsi, o dissolversi.

E lo stesso può forse dirsi della stessa umanità lacerata, divisa fra essere e dover essere, fra l'autenticità dell'esistenza e i rispecchiamenti spesso deformanti della sua autocoscienza.

Come il passe-partout, i marges de la peinture di cui parla Derrida: l'immagine, i riverberi e le reincarnazioni dell'immagine, non sono che continuo spiazzamento, fantasma diveniente che rinvia sempre ad altro, proprio quando si cerchi di fissarne il fondamento e l'essenza.

(Matteo Veronesi)


GISELDA PONTESILLI




Con Bernard Berenson e Guerrino Lovato


- Mi trovo simile anch'io

 a Lorenzo Lotto:

perché ne amo con voi

il pensiero: la vita

e perché, sopra a tutto,

imitarlo vorrei

fare soltanto -ora- come lui,

quadri sacri e ritratti




e poi il ritratto che è qui a Venezia

che guardo:

l'Autoritratto, penso, con al fianco

questa perfetta, dritta lucertolina

questi dolenti petali di rosa.

- Ma dovrei fare, prima,

un'altra cosa:

subito, ora,

non da sola! qualcosa.

Qualcosa: forse, all'Abbazia di Farfa?


Perché a Farfa c'è ora un abate

come secoli fa, concretamente


e un monaco

che mi ha mostrato un sarcofago

romano, mi invita ancora lì

per studiare.



- Sì, quest'estate

ci vorrei proprio andare

così, ogni mattina d' ogni giorno

all'aperto

o nell'orto o nel chiostro

noi parleremmo degli universali

quelli “ante rem”,

platonici, reali,

che oggi servono molto urgentemente

che c'è urgenza

di redintegrare.





Dopo, da quest’ intesa,

rinasceranno, a un tratto,

lucertola,

rosa.










mercoledì 27 giugno 2012

PER IDOLO HOXHVOGLI, SCRITTORE AL DI LÀ DELLE PATRIE



 

Gilles Deleuze parlava, a proposito di Kafka, di “letteratura minore”: non già, ovviamente, nel senso di una letteratura di rilievo e valore trascurabili, né di una letteratura che si esprimesse in una lingua minoritaria; ma, al contrario, nel senso di una letteratura che esprimeva, all'interno e dall'interno di una grande lingua nazionale, maggioritaria, solenne, consacrata, legata al “grande stile” di una tradizione secolare, un punto di vista particolare, defilato, straniero, allotrio, ma proprio per questo libero e rivelatore.
È il caso di Idolo Hoxvogli (Introduzione al mondo, Scepsi e Mattana, Cagliari 2011), nato in Albania ma da sempre italiano, per cultura e formazione, eppure connotato, nella sua esperienza e nella sua visione, dallo sguardo errante, dalla gamma cangiante di percezioni e di significati, dal wandering meaning direbbe Harold Bloom, dello straniero, anche se straniero nella sua stessa patria, d'adozione eppure essenzialmente, quasi archetipicamente originaria.
Come in Kafka, e come nella “letteratura minore”, l'autore adotta una prosa limpida, nitida, esatta, e nel contempo, a tratti, evocativa, baluginante, epifanica, segnata da una pregnanza che la stessa esattezza della scrittura fa maggiormente risaltare, come risonanza segreta che salga dall'abissale profondeur de la surface.
Del resto, «le radici sono nel futuro». La tradizione e l'identità, invertendo, anzi accelerando, il corso del tempo, sono collocate non in un passato mitico, o in un elusivo e forse mistificante eterno ritorno, ma in un oltre, un'ulteriorità, un dover essere (o dover-divenire). «Civiltà e barbarie», creazione e distruzione, nell'ambiguo e spesso cruento crogiolo della storia, possono coesistere (si pensa alle riflessioni di Thomas Mann sulla Kultur, spietatamente istintuale, opposta alla freddamente razionalistica civilizzazione). «Agli sconfitti rimarrà il proprio cadavere violato, ai vincitori un arco di trionfo che tramanderà la memoria».
«Tutti apparteniamo a un'altra riva, e questo ci unisce». L'identità è alterità; il noi si precisa e si definisce in rapporto all'altro, e viceversa.
«Ora che si conosce il prezzo di tutto e il valore di nulla, proprio ora questa vita in equilibrio fra nulla e nulla, proprio questa vita sembra essere nulla».
«Il nulla nulleggia», si direbbe con Heidegger.
L'essenzialità della scrittura qui, però, fitta di bisticci e di paronomasie ‒ riflette la reificazione del mondo, e nel contempo la notomizza e la strania. Una frenetica e vacua ed ebete «Allegria», un insensato entusiasmo (come l'autore rivela in diagrammi a tutta pagina che fanno pensare alle parolibere futuriste ‒ e proprio il Futurismo, è stato osservato, con la sua ossessione della materia e della macchina, prelude alla logica del postmoderno) alimentano la multicolore, sterile ed insensata parata del consumismo.
Ogni redenzione sembra impossibile. Come scrive l'autore echeggiando Benjamin, «Macero è il legno della croce. L'anima del Messia non è arroventata dalla fiamma divina».
Introduzione al mondo, è il titolo del libro. Ciò parrebbe suggerire ‒ pur se, chiaramente, in un'ottica ironica, distopica, antifrastica ‒ la presenza di una delle cosiddette “opere-mondo”, ormai tramontate ed impossibili; di uno di quei vasti ed organici, per quanto polifonici o dissonanti, sguardi gettati sull'immenso ed entropico regno dell'umano e dell'esistente.
Ma la stessa interpretazione, la stessa visione di quel mondo è tremula, cangiante e sfaccettata come la superficie del mare; non è uno specchio uniforme e piano, ma piuttosto un prisma labirintico e cangiante. «L'indeciso spicchio di mare da che parte deve volgere le onde? (...) Lo spicchio di mare ‒ l'interpretazione ‒ deve essere fatto proprio». «La barca deve essere buttata a riva, o naufragata, affinché possa essere ammirata interamente».
Lo spicchio di mare che rappresenta lo specchio, traslucido e insieme diffratto, dell'interpretazione è quell'esile lembo d'Adriatico che divide l'Italia dall'Albania (e, per l'autore, la sua vera patria culturale dall'origine prima, remota, dalla quasi prenatale Arché donde sgorga il suo indelebile nome che è essenza e destino, quasi nomen omen) ‒ quel millenario immateriale ponte di venti e d'acque attraverso cui, forse, in un passato fra storia e mito, i Pelasgi recarono con sé le radici della civiltà italica.
Ma, come detto, le radici sono nel futuro. E nel futuro soltanto potrà forse ricomporsi e ridefinirsi un'identità polifonica, nel dialogo, rivelatore e insieme straniante, definitorio e insieme alienante, del Sé e dell'Altro. 
 

Matteo Veronesi 


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http://www.ibs.it/code/9788890237188/hoxhvogli-idolo/introduzione-mondo-notizie.html

 

lunedì 21 maggio 2012

Giselda Pontesilli, "Su 'La valle delle visioni' di Sauro Albisani"


E’ un poema della vita familiare, questo nuovo lavoro di Sauro Albisani (che appare, per Passigli, dieci anni dopo “Terra e cenere”, la raccolta di poesia precedente).
Anzi: è un poema della vita familiare odierna, quella vita cioè, mai come ora, privata: privata di ogni sostegno comunitario; di ogni visione stabile, socialmente condivisa; di ogni riposo rituale, parentale, amicale.
Dei parenti sì, di sfuggita, vi vengono nominati: un nonno, una nonna, una zia; ma senza attribuire loro alcun ruolo affettivo specifico, o di aiuto, di guida.
La famiglia di Sauro, cioè, è non idealistica, è “mononucleare”; e si arrabatta, si adatta, facendo tutto da sé, resistendo come può, ma comunque -sempre- indefessamente: senza cedere mai, senza neppur un attimo pensare di allentare i propri obblighi, di sciogliersi dai legami.
Vi sembra escluso infatti a priori il benché minimo risvolto psicologico individualistico, escluse, anzi del tutto impensate le consumate, consumistiche risposte attuali allo sconforto familiare epocale: incompatibilità, diversità, aspirazioni, diritti, opposte idealità…
No, proprio no, qui il legame è -“naturalmente”- per sempre: questa, infatti, è la famiglia del poeta!
di colui, cioè, che col suo strenuo studio e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente ( ovvero: per sua naturale inazione / e diacona effigie di maestro) ritrova, (antimodernamente), il sentimento “ingenuo” dell’obbligo incondizionato, di qualcosa, qualcuno, che non si può manipolare, che permane; e che stupisce, fa meditare.
Ma mai un simile, intoccabile fondamento viene esibito, cantato, impugnato: senza retorica, senza parere, di continuo -invece- si riconquista, si ripete e silenziosamente contiene il disorientamento, le spossatezze più forti, le pene.
Così, parole estreme, come:


Ciò che dà senso a questa giornata insensata
che non hai bisogno di ricapitolare
perché te la ricordi benissimo, povero idiota,
è la sua totale insensatezza.

oppure, come:

Quello che mi dispiace è non capire
perché abbia dovuto essere questa
la mia vita. Mi rincresce, lo so,
non è generoso, anzi è un discorso di merda il mio,
ma non vogliamo mai, proprio mai, essere sinceri?

oppure come:

Sono esistito, non è stato bello.
Sono esistito, non è stato un piacere.
Sono esistito, non lo rifarei.
Un armadio pieno di compiti
corretti mille volte, e la sensazione
che tutte quelle cose non siano mai successe.
Provo ogni tanto a perdere la chiave,
ma la ritrovo sempre. Almeno sapessi
perché.
Tutti quegli anni a scuola
senza imparare nulla,
senza riuscire a insegnare nulla.



sì, parole estreme come queste, sono collocate, figurate in un fido, figurale:
non tradire, non lasciare, non cedere.
In un umanesimo, direi; un umanesimo privato, oggi, di ogni riscontro, ogni conforto, e quindi non più “civile”: privato, appunto, relegato al suo ultimo, decisivo confine: la famiglia.
Ma come soffre questa famiglia, senza polis, senza comunità, senza niente!
Eccola qui:


Domattina. Lei ti aiuterà
a farti la doccia, puoi esserne certo.
Almeno questo, sì; poi chi vivrà vedrà.
Per guadagnare tempo
ti porgerà gli indumenti
scaldati un po’ con la stufa elettrica;
devi farti coraggio,
è proprio il caso di dirlo. Perché,
se ti guardi indietro, vedi
un beffardo calendario di ritardi,
appuntamenti mancati.
Ma domattina sarai puntuale:
nel perimetro delle mura domestiche,
in questa gabbietta,
non può entrare il lupo
e neanche il gatto, se è per questo. Ma lui
fa le fusa anche agli imprevisti.
Chiudigli la porta in faccia, tu.
Agli imprevisti, dico, agli imprevisti.
Chi comanda in casa tua?
Poi, all’alba, tutto il programma cambia
e lei deve correre in banca
ma ti mette la sveglia, già stanca
prima di tuffarsi nel rebus del nuovo giorno.
Dove siamo caduti?
Dove ci hanno precipitato?
Cosa vogliono da noi?
E se glielo chiedo, loro mi sentono?”


Loro” no, non sentono, anzi, in definitiva, non esistono.
Esiste questa famiglia: l’ultima polis -nascosta- del poeta, del popolo, sempre più sofferente, “perdente” e infine, quando troppa è l’offesa, artefice -come sempre- di rinascita, di ripresa.
Infatti, c’è anche una poesia civile, in questo “privato” poema;
una si intitola: “Giovane Italia”, e inizia così:

“…
patria è tenere lontani i bambini
dalla televisione, pensò la maestrina.

E ancora ci sono slanci, esultanze, epifanie dell’agire - di dopo, di prima:

Quel senso d’immortalità
sotto il sole di luglio
dopo l’esame di maturità.

E ancora:

Ma quel sogno, quel sogno ostinato.
Il rumore lieve degli zoccoli
che con un rapido tocco
fanno scaturire l’acqua dalla roccia.

E ancora:

e se io potessi parlare, se in quel luogo
continuasse a esistere una lingua,
voglio dire una lingua condivisa;


Del resto, non era una famiglia, quella di San Francesco? E la famiglia di Francesco Petrarca? E quella sacra, la Sacra Famiglia?

Al che, Sauro, tu puoi rispondere: “Sì, va bene, ma Petrarca, da quella famiglia, uscì fuori poeta” (non santo, non profeta).
Poeta, senza dubbio: il Poeta che scrive all’imperatore, al papa, a Cola di Rienzo, al Doge, ai Colonna, al popolo di Roma; che si fa ambasciatore, latore di suppliche, mediatore, oratore, paciere; che è: “l’uomo più grande del suo tempo; ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi”- scrive Wilkins- e, straordinariamente, conclude: “grande, soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie”*.

Del resto, non ci sono forse circostanze d’emergenza? Situazioni strane?
In cui si ha l’obbligo di rifare, diversamente, stranamente, ma in fondo in fondo proprio analogamente, un rinnovato “De vulgari eloquentia”?
Coraggio, amici. All’opera.

*







* da Ernest Hatch Wilkins, Vita del Petrarca, Feltrinelli, Milano, 1985, pref. pag. 9. L’intera prefazione dice così:

“ Francesco Petrarca fu l’uomo l’uomo, non il poeta più grande del suo tempo; ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi.
Fu ed è grande per la consapevolezza con cui partecipò, sullo sfondo ampio di tutto un continente, al dramma della vita europea allora in atto; per la consapevolezza che ebbe dei tempi passati e dei tempi a venire; per l’ampiezza e la varietà dei suoi interessi (egli fu, fra le molte altre cose, giardiniere, pescatore e liutista); per la elevata perfezione dei suoi scritti; per la fede che ebbe costantemente in Roma come capitale legittima d’un mondo unificato, governato politicamente dall’imperatore e spiritualmente dal papa; per la precocità della sua attività di filologo e la coraggiosa operosità dei suoi ultimi anni; per gli onori che ricevette e gli antagonismi che suscitò; per la fedeltà agli studi e all’attività letteraria, che furono la sua più importante occupazione; e soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie.
Egli è anche grande (grazie soprattutto alle centinaia di lettere e alle note scritte sui margini delle pagine dei suoi libri, che sono state con tanta devozione studiate) per il fatto che noi conosciamo le sue esperienze di vita con molta maggiore profondità che non quelle di qualsiasi altro essere umano vissuto prima di lui”.




mercoledì 18 aprile 2012

LA VOCE DELLA POESIA, FRA SUONO E SENSO. D'ANNUNZIO, CARMELO BENE, DE ROBERTIS

Ripubblico qui una riflessione suggeritami da un intervento di Massimo Sannelli ( http://www.poesia2punto0.com/2012/04/18/massimo-sannelli-appunti-asino/#.T44AhsUZdB4 ).

Si deve, forse, tornare, fosse pure criticamente o ironicamente, dopo tanta "vita in versi", tanta "prosa del mondo", alla lezione simbolista e poi ermetica del puro suono (la poesia come "esitazione prolungata fra il suono e il senso" di cui parlava Valéry); o, fosse pure, al paroliberismo dell'avanguardia, riletto attraverso il neo-avanguardismo tragico, la devastante "sperimentazione come assoluto", di uno Spatola.

E' ciò che differenzia la poesia dalla prosa, in fondo; e che può rendere, in certi casi, la prosa stessa (dal "petit poème en prose" alla prosa d'arte al romanzo lirico, forme un poco dimenticate) vicina alla poesia (la "Prose pour Des Esseintes" di Mallarmé, e prima ancora le "prosae" mediolatine, legate alla sillabazione, viscerale e sprituale insieme, alla fisica e sublime "ruminazione", del testo sacro - come nel D'Annunzio-Debussy de "Martyre de Saint Sébastien", sontuosamente e splendidamente monotono e tedioso, freddamente cruento, lucidamente sacrificale ed ascetico - Vita immolata alla Musica, grido e lamento e pianto e piaghe fatti musica - "Ognuno uccide la cosa che ama").

La stessa "poesia performativa", la stessa poesia scritta con la "voce dell'inchiostro" deve avere già in sé la musica, essere musica; non aspettarla dalla rituale "messinscena", dalla prostitutiva ostentazione del proscenio e dell'evento.

Carmelo Bene faceva cantare il testo, anche quando lo decostruiva; lo "eseguiva" usando la voce come strumento, le parole scritte-dette come note di uno spartito. Ma la musica preesisteva nei segni - "musica ficta", "musicale silenzio", "musique du silence".

La scuola non può nulla. La poesia non si insegna. Un discorso sulla poesia che non sia esso stesso poesia non ha ragion d'essere. La poesia non si commenta; il commento è esso stesso poesia, o è vaniloquio, glossolalia vuota, che non ha neppure un sovrasenso profetico.

Assurdità, disumanità totale della "valutazione" scolastica, che vorrebbe (testualmente, orrendamente) "misurare la performance dell'alunno", come fosse un toro da monta, o un motore; numeri vuoti; non si misura il piacere, poetico o d'altro genere (anche se è questo che l'età contemporanea, in cui non a caso nasce quell'aberrazione scientistica che è la sessuologia, vorrebbe fare); non si può tradurre la fruizione poetica (che è essa stessa poesia, ri-creazione, risonanza riverbero prosecuzione, del discorso poetico) in un linguaggio altro ed estraneo; non ci sono "finalità" ed "obiettivi didattici" a cui la lettura di un testo poetico possa essere subordinata, poiché il testo poetico è di per sé, per antonomasia, "autonomo" e fine a se stesso.

Tornare ai vociani. "E' necessaria una critica schietta, pronta, esperta, aderente. Senza commento. Il commento spiega la parola. E la parola, in arte, è viva di per sé. Con impeto interpretativo. L’interpretazione realizza le pause. Le pause, in arte, sono sospese tra sillaba e sillaba. Rifare il cammino dall’espressione ultima creativa verso la ragione prima che la determinò: il fondo detto germinale; come sembra faccia la musica".

Così Giuseppe De Robertis. E non c'è da stupirsi se la critica accademica, con i suoi "metodi" e si suoi "protocolli sperimentali" (e con essa quella prassi didattica ed antologica che altro non è se non la sua degradazione applicativa e praticistica, con il ritardo medio di un cinquantennio), in lui non ha visto, spesso, che un bellettrista datato.

sabato 7 aprile 2012

Una poesia di Giselda Pontesilli

Ho il piacere di presentare questa poesia di Giselda Pontesilli: un testo la cui naturalezza, la cui fluidità, la cui oraziana difficillima facilitas derivano da “lungo studio e grande amore”, sono l'esito rastremato, levigato, rifinito di un lungo lavorio correttorio, che coincide con i ripensamenti, le oscillazioni, le vibrazioni di un'esperienza di vita e di pensiero sempre mutevole, eppure sempre tesa su di una stessa, costante corda intonata ed improntata sempre alla ricerca di un'immersione dell'io lirico entro «la calda vita di tutti gli uomini di tutti giorni», di una pulsazione in accordo con l'”essere insieme”, l'”andare insieme”, per citare Serra lettore di Claudel e di Péguy, o con la betocchiana “opera comune”, con la luziana “opera del mondo”.

Il poeta entra nel mondo senza uscire dalla poesia; esce da se stesso senza uscirne, perché nell'altro-da-sé, nel confronto con l'altro-da-sé e nel ritorno a se stesso, trova un se stesso più vero e più puro, una parola più limpida proprio perché passata, come nel Dante del De vulgari eloquio, attraverso il lavacro purificatore dello studio, il magistero dei poetae regulati che parlavano una lingua pura ed eletta proprio perché ne avevano, per metamorfosi alchemica, lavato via ogni scoria, e avevano così ritrovato un volgare illustre, cioè una lingua comune, condivisa, eppure luminosa, tersa, limpida.

Ma vi è anche, in questi versi, l'idea, il motivo fonosimbolico del ritorno (esemplificato dall'ideofono /OR/, dintorni-ritorni-stormi-borghi, più volte reiterato: Horus, Horae, oros, il dio della sapienza e del tempo, l'occhio che tutto vede, e le dee che del tempo incarnavano partizioni, pulsazioni, battiti, divisioni, scansioni, e infine il limite, il margine, il confine, il cerchio sacro dell'oikos, della domus, il giro che apre e chiude, che definisce e circoscrive, lo spazio proprio dell'io e il suo relazionarsi con l'Aperto ‒ ma anche oros come monte, come limite delle possibilità umane, come linea oltre la quale lo sguardo naufraga nell'azzurro); e quello del volo, e insieme della fluidità, della corrente, e della luce (illegali-vitali).

Questo riaffiorare, questo tornare alla luce dei valori primigeni, prelogici e prelessicali, della lingua è forse, insieme, voluto e non voluto o non voluto proprio perché voluto, inscritto in una naturalezza originaria ritrovata per via di studio, di ricerca, di riscrittura, di lavorio di lima.

Lenti-tempi-redenti: la redenzione passa attraverso l'idea dell'antea, dell'antico, di ciò che è prima ma anche contro ‒ non nel senso avanguardistico di una distruzione, di un'opposizione dialettica al passato, ma piuttosto in quello di un recupero delle radici trasfigurate, riplasmate, e perciò rendente: eterno ritorno dell'uguale, ma insieme variazione nella ripetizione, ripetizione di forme e di motivi: come nella musica, nella poesia, nell'arte, nella storia, sotto il segno e la guida di quella métrique absolue, come la chiamava Mallarmé, che non è, in fondo, se non la rilettura moderna della

storia ideal eterna di cui parlava il massimo dei filosofi italiani.


(M. V.)



RITORNERANNO


Devo descrivere ora -come posso- qualcosa

che sta accadendo qui, nei dintorni:

sono ritorni,

ma non di stagioni, nuvole, stormi...

uomini vivi, tornano! case: non

sparse:

sperse, isolate

ma case che formano borghi,

abusivi a volte, illegali

ma vivi, vitali.



E' dall'impresa, l'iniziativa

dei padri -io vedo- che prendono vita:

la casa per il figlio, per la figlia

che giovanissima ha già famiglia

se la fanno da sé, senza pari

attaccata alla propria, o,

un po' nascosta

nel loro stesso lotto,

nell'orto, in giardino.


Così staranno vicino, padri e zii

parenti, amici.

Vicini, ma nello stesso tempo

-questo è l'intento-

ognuno a casa sua” “indipendenti”:

i lunghi inverni passeranno prima

se a pochi passi c'è la tua casa di prima.


I lunghi inverni: ritorneranno:

liberi, lenti

e a poco a poco

torneranno tempi

popolati,

redenti.