domenica 7 agosto 2011

VERSI DI MASSIMO SANNELLI SULL'ESSENZA DEL DIVINO E DEL NULLA

Sono lieto di presentare questi versi di Massimo Sannelli, ispirati dal Corpus Aeropagiticum, ma nei quali confluiscono, in una scrittura poetica che può ricordare quella dell’estremo Luzi (dilatata, oscillante, tesa fra la misura del tempo e dell’umano e quella dell’eterno, fra la terra e il cielo), motivi ricorrenti nelle tradizioni mistiche più diverse, da Plotino a Bonaventura fino al Bruno del De la causa, principio et uno. La finale nientificazione è l'approdo della mistica negativa, che sfiora l'indicibile e infine vi naufraga, riemergendone con una parola, con un dire che nominano il nulla, infondendovi consistenza ontologica.
Ma viene in mente, a conferma della modernità di questa scrittura (peraltro ora riplasmata dall'autore a distanza di anni) una possibile affinità con uno dei massimi poeti rumeni del ventesimo secolo, Nichita Stanescu, e in particolare con la prima delle sue Undici elegie: “Inizia con se stesso / e con se stesso finisce. / Non aura lo annuncia, né lo segue / coda di cometa”. E, quasi a far eco dalle profondità dell’essenza e dell’esperienza, il Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini:

È, l'essere. È
intero,
inconsumato,
pari a sé.
Come è
diviene.
Senza fine,
infinitamente è
e diviene,
diviene
se stesso
altro da sé.

M. V.


1.

C’è UNA radice, non urla nei sensi.
Non ha figura e forma
e qualità, né quantità né peso,
non è in un luogo. Ai sensi
sfugge; non si sente
e non sente; non soffre
la carne passionale
del corpo: non la illude
la vita della mente.
Non è mai senza luce,
non vede mutazione, distruzione
e contrasto, miseria o privazione
e rinuncia. Adesso
l’inizio alto appare:
la nudità completa
senza gioco e contrasto.

2.

La causa non ha anima e giudizio,
non ha immaginazione né opinione,
né numero né ordine e statura.
La causa non si muove
mai. Non fa. Non è fragile.
Non vive e non è vita
e non è tempo. L’anima
non la tocca; non è
nessuna scienza vera,
né dominio di re,
né sapienza né uno:
né unità né Dio.

[2005-2011]

venerdì 29 luglio 2011

Giselda Pontesilli, "LA COMPETENZA DEI POETI"

Il ruolo dei poeti, diceva Pound, se ve n'è uno, consiste non già nel celebrare le magnifiche sorti del progresso, del potere, della rivoluzione o viceversa dell'ordine costituito, bensì nel "tenere in efficienza il linguaggio" - dare, diceva Mallarmé prima di lui, e ripeteva Eliot nei Four Quartets, "un senso più puro alle parole della tribù", rendere più trasparente e preciso il linguaggio, nato in origine dall'uso quotidiano e dall'ordinaria necessità, e che potrebbe o dovrebbe essere indirettamente restituito dalla letteratura (pensiamo a Dante e a Manzoni) all'uso vivo.

Il poeta può agire, agisce, sul linguaggio (in primo luogo, ovviamente, quello quasi fatalmente elitario della poesia, ma mediatamente, forse, anche quello di tutti, della società, della vita civile, dell'agorà - come il ghennàios poietés, il poeta "potente" e "fecondo", auspicato da Aristofane) e attraverso di esso, forse più presso la posterità che nell'immediato, sulla collettività, ritrovando il suo ruolo civile, politico nel senso più alto, senza uscire dal linguaggio stesso, che è e resta il suo regno specifico, vitale e autonomo.

In questa direzione vanno le pagine di Giselda Pontesilli che qui pubblico, e nelle quali si sentono ancora palpitare lo spirito, il respiro, l'appassionato fervore intellettuale, di "Braci", la celebre rivista romana. (M. V.)


LA COMPETENZA DEI POETI


La società, oggi {dico -“società”:

per indicare (con Tönnies) il materiale, fisico coesistere di uomini separati, estraniati dai propri simili, per i quali i rapporti con gli altri sono in effetti moralmente vuoti e psicologicamente imbarazzanti, per i quali non esiste alcun impegno reale, vitale con gli altri, alcuna comunicazione o volontà comune, se non in virtù della finzione dello scambio;

poi dico, -“oggi”:

per indicare la fase in cui questo modo di essere, di convivere totalitariamente appare, mentre, in altre fasi, appare, non ancora del tutto inghiottita dallo Stato (e poi annientata dal Mercato), la “comunità”, cioè la coesione tra gli uomini basata su rapporti personali vitali, costanti, concreti (che danno significato e stabilità all'esistenza), su legami sentimentali e valori profondi quanto inconsapevoli (vicinanza, pietà, amicizia, parentela, rispetto, autorità, lealtà...).


Il nome “società” indica contratti: società di profitti, di servizi, di viaggi, di capitali, del benessere, dell'informazione, della comunicazione, dei consumi....


Il nome “comunità”, invece, indica consonanze:

comunità di lingua, di costume, di fede, di sentire, di idee, di intenti, di valori, di vita....


Non si può dire, al posto di “comunità di vita”, “società di vita” (stona, suona male);

né, al posto di “cattiva società”, “cattiva comunità”;

né “comunità per azioni” invece che: “società per azioni”;

né “società di intenti” al posto di: “comunità di intenti”;

infatti, fare ciò è contrario al senso della lingua, è una contraddizione in termini.

Ecco perché io dico qui: “la società, oggi” e non posso dire: “la comunità, oggi”}.


Dunque, riprendendo:


La società, oggi, esige -chi non lo sa!- divisione del lavoro, utile scambio, o mercato, di specializzazioni, competenze;

vorrei illustrare perciò una precisa -preziosa- specializzazione, una insostituibile competenza: quella dei poeti.

I poeti sono coloro che compongono opere in cui la lingua è insieme sostanza e mezzo;

essi, dunque, sono i conoscitori, i professionisti della lingua e con questa loro competenza sono indispensabili, oggi, alla società.

La società, infatti, coerentemente col suo modo di essere (cioè, come s'è detto, aggregato di individui isolati, astratti, concepiti a immagine del moderno “uomo economico”, ammassati da vincoli di natura utilitaria) usa la lingua, come tutto il resto, in modo illimitatamente manipolatorio, strumentale, per scambiare (cioè, in effetti, vendere e comprare) informazioni.

L'informazione è fondamentale per la società, è il surrogato di ogni reale rapporto tra gli uomini, è ciò che, sebbene siano passivi e distanti, li fa sentire, in qualche modo, partecipi, attivi.

Come una volta ci si riuniva realmente in piazza, o in chiesa, o in casa, per fare insieme varie cose concrete, necessarie alla vita, reali, così oggi ci si riunisce -chi non lo fa!- virtualmente davanti al televisore, o ai vari mezzi di comunicazione -informazione- di massa.


Il problema è che queste informazioni non informano affatto, anzi confondono, e isolano -se possibile- ancora di più, perché sono contrarie, come subito sanno i poeti, al senso della lingua, sono contraddizioni in termini.

Per esempio ne cito tre, analoghe, dello stesso tipo:

1ª) “Sul corpo sono state rilevate tracce di due diversi DNA, uno maschile, l'altro femminile; prende corpo perciò un'ipotesi suggestiva, che può portare le indagini a una svolta”.

I poeti dicono: “NO, non si può dire, in questo caso, “suggestivo”!

Suggestivo” è un paesaggio, un quadro, una melodia!

Suggestivo” vuol dire affascinante, emozionante, incantevole!

L'ipotesi che i criminali, gli assassini siano due, e uno dei due sia donna, non si può certo dire incantevole, affascinante.

Sarà piuttosto tremenda, estremamente grave, raccapriciante”.


2ª) “E' una figura eminente della mafia, a lui si deve il salto di qualità dell'organizzazione.

I poeti dicono: “NO, “eminente” vuol dire eccelso, eccellente, elevato.

Vuol dire che si distingue, che è superiore per meriti, dignità, virtù;

ma un mafioso non può dirsi virtuoso, elevato, e con lui la mafia non può fare un “salto di qualità”, perché “qualità” riferito a uomini, persone, vuol dire attributo o proprietà morale o spirituale, che caratterizza e definisce una persona e permette di darne un giudizio o una valutazione.

Perciò, “salto di qualità” vuol dire: miglioramento, risultato (di uno sforzo, di un impegno) bello, evidente, che, per così dire, risplende a un tratto come per un salto, uno slancio.

Ma tutto questo non si confà alla criminalità, alla mafia.

Sarà invece ovvio parlare, in tal caso, di peggioramento, imbarbarimento, efferatezza.

3ª) “L'omicida è stato immortalato da una telecamera nascosta”.

I poeti dicono: “NO, “immortalare” vuol dire “rendere eterna la memoria di qualcosa di degno”, oppure “di chi è degno”, non si “immortala” un omicida, casomai lo si inchioda alle proprie responsabilità, lo si condanna incontestabilmente.


Oltre a questi -per così dire- singoli nomi – gravemente fuorvianti, inappropriati (“suggestivo” al posto di “raccapricciante”, “eminente” al posto di “efferato”, “immortalato” al posto di “condannato” ecc...ecc...), ci sono intere proposizioni dell'informazione televisiva altrettanto fuorvianti e sbagliate (riguardanti spesso le cause dei vari avvenimenti).

Oltre alle intere proposizioni, ci sono i contesti -sbagliati, disorientanti- in cui le proposizioni sono inserite.

Oltre ai contesti sbagliati, ci sono i rapporti arbitrari, contraddittori tra nomi, frasi, discorsi e immagini, per cui, ad esempio, ciò che, sia pure ambiguamente, maldestramente le frasi e le parole parrebbero denunciare o sostenere, le immagini di fatto, in vario modo, rinnegano, smentiscono.


Solo i poeti sanno alla perfezione tutto questo, tutto ciò che nella lingua è giusto o sbagliato, e dunque devono -loro per primi- rendersi conto di essere necessari, indispensabili alla società, di essere obbligati a lavorare, fiduciosi, uniti, per studiare e spiegare a tutti la questione odierna della lingua, cioè la questione della lingua come essa oggi ci impone di fare: per correggere, per cambiare.

Come Petrarca, sollevando -solo con pochi amici- tempi disumanizzanti e disumani, varò un rinnovato, ontologico, umanesimo, così anche i poeti, oggi, devono fare.

Questo, devono fare.


Ma, appunto, questo nuovo, ontologico umanesimo, non si può fare abbandonando gli uomini alla “lingua” dell'informazione di massa, alla “società di massa”, (società che -scrive Asor Rosa su Repubblica il 19 luglio- “divora e consuma il linguaggio, lo appiattisce e omogeneizza, da un certo momento in poi addirittura lo pianifica”); infatti, che umanesimo è, se abbandona gli uomini, se li considera materia informe, massa?

Eppure, è proprio questo abbandono, questo distacco tra poesia e “società di massa” che Asor Rosa sembra propugnare nel suddetto suo scritto del 19 luglio scorso: perché -egli dice- “la poesia non è cosa da società di massa”; “la società di massa non ama, non può amare la poesia”.

E dunque -conclude- se ne stiano lontani, i poeti, da tale barbarie e pensino, umanisticamente, a “coltivare, approfondire, penetrare anche nei suoi lati più oscuri e perciò conservare il linguaggio”.

Certamente, Asor Rosa parte da un presupposto ovvio, scontato, e cioè che i poeti

siano inermi, ininfluenti di fronte alla Forza, all'Autocrazia economico-mediatica, all' “Amministrazione ideologica e tecnologica dell'Apparato” -come la definisce il filosofo Emanuele Severino.

Ma invece a mio modesto avviso, proprio in questo momento, i poeti, tutti gli uomini possono pensare, capire, cambiare.


La televisione non è il nostro destino ineluttabile, fatale, così come non lo sono l'illimitata, apocalittica manipolazione della natura e dell'uomo, il macchinismo, la bomba nucleare.


E ci sono, di questa coscienza, svariati esempi, comportamenti da imitare.

Uno dei quali, che sorprende e conforta, è l'articolo di Giorgio Ruffolo su “La pubblicità che in TV dilaga dappertutto” (Repubblica, 29 maggio scorso).

E' l'impostazione di questo scritto, che suona innovativa, essenziale: perché Ruffolo dice in sostanza, molto semplicemente che, poiché “la pubblicità televisiva è diventata intollerabile”, si può concretamente intervenire, cambiare; e offre, per realizzare ciò, indicazioni di marcia chiare e precise (le cito qui di seguito, numerandole), tra le quali mi sembrano particolarmente risolutive e geniali le ultime due, ( e ):


1ª) [La pubblicità] può essere distribuita nel tempo con maggiore discrezione e intelligenza.

2ª) Per esempio, legandola a certi programmi e salvandone altri, non diffondendola pervasivamente in un bagno della scemenza.

3ª) E anche esercitando qualche forma di revisione: non si tratta ovviamente di censura, ma di salvaguardia del buon gusto e della decenza.

4ª) Penso anche che il costo di questa limitazione possa e debba essere sopportato dal cittadino utente. Chi non lo sopporterebbe, in cambio di una liberazione di spazi del tutto indenni dalla comunicazione commerciale? La pubblicità deve essere un servizio e non un'imposta sulla stupidità.

Quel servizio, saremmo pronti a pagarlo se ci fosse risparmiato il costo obbligatorio delle “scenette”.

5ª) Saremmo pronti a pagare qualche minuto di distensione, magari allietato da un minuetto di Mozart, come si faceva una volta, in un'epoca della quale sentiamo la nostalgia, in riposanti visioni di pecorelle: o persino, al limite, da un silenzio amico, complice della riflessione, dio sa se ce n'è bisogno”.

Ecco, anche i poeti possono dare indicazioni chiare e precise per cambiare, concretamente, l'informazione televisiva.

Certo, innanzitutto, devono, come ho già detto, rendersi conto del proprio dovere, devono capire che –come ha scritto Giancarlo Pontiggia- “se la poesia non ha lettori, non è solo per colpa di un’editoria miope o vile, ma perché i poeti hanno dimenticato di essere una guida morale e intellettuale per tutti gli uomini”, devono studiare:


  1. ) studiare, secondo me, la riduzione naturalistica, positivistica, sottesa alla “lingua” della nostra società, della televisione;

  2. ) studiare la filosofia che più strenuamente e inconfutabilmente si è opposta a questa riduzione: la fenomenologia husserliana;

  3. ) studiare Jan Patočka;

  4. ) studiare insieme, solidali (la “solidarietà degli scossi” -come insegna Patočka);

  5. ) studiare insieme un nuovo modo, un metodo di informazione televisiva.


E infine spiegare a tutti, convincere, far ragionare, e realizzare, concretamente, un modo umano, umanistico, ontologico, di informare.


giovedì 28 luglio 2011

UN'INTERVISTA A JEAN SOLDINI

E' per me un onore poter ripubblicare questa intervista a Jean Soldini, poeta e filosofo svizzero formatosi all'all'Université de Paris-VIII: poeta-filosofo, poeta pensatore, poeta pensante e pensatore poetante, nel senso più pieno, heideggeriano della parola: uomo che abita la casa dell'Essere, che "poeticamente abita" il mondo.
Talora i poeti, fuori dai versi, non dicono nulla, le loro filosofie (ovvero le loro visioni del mondo, dunque in definitiva le loro poetiche, giacché Poesia, e coscienza della poesia nel suo essere poesia, è Mondo e Pensiero riflessi nella Parola, nel Logos) sono pretestuose, fumose, inconsistenti.
Invece, Soldini dice (ad esempio sullo spazio che torna allo spazio, non nel senso autoreferenziale e illusorio del non-luogo, e nemmeno in quello, pur fondamentale per la modernità letteraria, del mallarmaeno "Rien n'aura eu lieu que le Lieu", lo Spazio assoluto del Testo, ma al contrario nella direzione di uno scambio e di un dialogo - e sulla fictio non come astrazione, evasione, narcosi, ma come concreto ed operativo dar-forma-all'informe, significato al caos) cose essenziali, originali, da vero poeta-pensatore.
E si ha, infine, la malinconica sensazione che la stampa elvetica dia alla cultura uno spazio che in Italia le è da decenni precluso. (M. V.)


Dallo spazio allo spazio

A colloquio con Jean Soldini, autore del libro di poesie Bivacchi (intervista di Paola Pettinati in “La Regione Ticino”, 23 marzo 2010).

Uno sguardo alle vittime della guerra, ai dimenticati, agli oppressi, ai diseredati. È quello che Jean Soldini rivolge nel suo ultimo libro di poesie Bivacchi pubblicato recentemente dalle Edizioni Ulivo di Balerna. Il volume contiene anche alcune illustrazioni realizzate da studenti del CSIA: Enea Arienti, Yanica Gisler, Tanja Jovanovitch, Rachele Monti, Bianca Sassi, Amanda Stöckli, Valentina Vitali. Come mai un pensiero alla guerra? «Bivacchi – spiega Jean Soldini – è un libro, almeno in parte, influenzato dall’invasione dell’Iraq e dal secondo mandato di George W. Bush a partire dal 2004. È stato un periodo che ha provocato in me una tristezza sorda e persistente. È ciò che si esprime per esempio con Imperi, La vedi ora, Fuori dell’accampamento, Ombrellone, Neppure un merlo».

Che visione della storia emerge? «Mi riconosco molto in questa affermazione di Elisabeth Costello, la scrittrice uscita dalla penna di J. M. Coetzee e protagonista dell’omonimo romanzo. Lei afferma a un certo punto che il futuro è solo nella mente e non ha una sua realtà. Lo stesso rimprovero potrebbe essere mosso al passato, ma aggiunge che “c’è qualcosa di miracoloso che il passato ha e che manca al futuro. Quello che è miracoloso del passato è che siamo riusciti – Dio sa come – a far sì che migliaia e milioni di finzioni personali, finzioni create dai singoli esseri umani, si incastrassero l’una nell’altra fino a darci quello che sembra un passato comune, una storia condivisa”. Finzioni. Il verbo latino fingere indica ‘modellare’, ‘dare forma’. Penso che positive siano le storie, vale a dire quanto formiamo con l’esistente. Poi c’è la Storia che è la moltitudine di storie assorbite dalla violenza del più forte, dalla prepotenza che precipita subito ogni cosa nella più radicale insensatezza. Ho però fiducia nel singolo uomo e anche nelle cose. Fiducia, speranza «senza incauti incantamenti» come nella poesia che parla del monumento di Peter Eisenman alla memoria delle vittime della Shoah. Ho fiducia nel fatto che siamo tutti meticci (Dallo spazio allo spazio). In alcuni lo si vede di più. Sono i sopravvissuti alla violenza e al razzismo, hanno imparato quello che può servire per vivere, per sopravvivere. Lo hanno imparato con una sapienza immediata. Meticci, perseguitati, profughi umiliati infinite volte in un giorno tornano dallo spazio allo spazio, si spostano, sono costretti a farlo. Dallo spazio tornano allo spazio perché c’è un solo spazio. Tanti luoghi, ma un solo spazio. Lo spazio accarezza la ferocia, non la placa. Non contiene, ma accarezza. A contenere sono le nazioni, i luoghi resi inospitali, che sono generati da chi dice: più di questo non può essere contenuto. Gli altri sono troppi».

Quali altri temi e scenari sono presenti in Bivacchi? «In questa raccolta c’è anche la follia improvvisa, quella che è sempre in agguato alle spalle di ognuno di noi (Un angelo), la marginalità (Un quarto d’ora fa), la spiritualità ipocrita col suo mito dell’interiorità (Non distrarsi, Sarebbe stato meglio). C’è pure un’altra America come in Tronchi dedicata a Ansel Adams, un fotografo di paesaggi statunitense, come in Casa nel Queens o in quella poesia che parla di un artigiano di Bowery che è una via e un distretto di New York».

Diceva del mito dell’interiorità. «Sì. Trovo deprimente l’interesse per il nostro piccolo “mondo interiore”, mentre ciò che è altro da noi è molto più affascinante e arricchente perché ci obbliga continuamente a esporci. L’altro ci offre un orizzonte che può essere pura apertura, libertà e non «meta al pensiero che si accinge a pensare» (sono gli ultimi versi della poesia Orizzonte). È quanto si esprime anche ne La riga gialla che ha come sfondo una fila alla cassa di un supermercato».

Come si pone la parola in rapporto alla poesia? «La parola è tentata dal possesso implicito nel nominare. Le parole danno un nome e nel contempo chiamano; e se è vero che chiamano, allora qualcosa in esse deve rispondere. Noi nella parola dobbiamo cercare di ascoltare ciò che in essa risponde. Nel De Magistro di Sant’Agostino c’è un dialogo sulla preghiera. Nella preghiera parliamo e nello stesso tempo questo parlare è ascoltare Dio, ricordarsi di lui. La parola, se badiamo a questa indicazione, dovrebbe essere preghiera in senso laico, dovrebbe portarci ad ascoltare la risposta dell’esistente, a ricordarci di quest’ultimo. La parola la vedo come una cosa che dice cose e che vive sempre in un’oscillazione tra incantamento positivo e incantamento negativo. Nella poesia questo diventa fortissimo. La poesia è sempre sul crinale tra mitezza e arroganza della parola. Crea apparizioni di realtà attraverso il miracolo di una parola che s’impone col suo fascino, ma si deve anche ritirare».

La parola si ritira? «La poesia desidera dire, ma desidera anche quella fodera del dire che è il tacere perché solo quest’ultimo può lasciar posto al farsi vivo dell’esistente nella parola stessa. Tacere per sentire una voce che non sia solo la nostra. E per questo è importante che ci sia sempre la singolarità col suo corpo nel corpo della parola. Non so se la mia poesia ha una qualche universalità. Sta di fatto che non può esserci universalità se non affondando nella singolarità. Il vetro rotto di cui parlo in Nel foro lucente è quel singolo vetro. Come dice il drammaturgo e regista Marco Baliani, “La parola albero è una forma che contiene tutti gli alberi del mondo. Il lavoro in tutti questi anni è stato cercare sempre quell’albero lì, particolare e unico, quello di cui fare l’esperienza in un bosco, su un marciapiede, dentro un giardino”. Forse è per questo che, come diceva Vladimir Nabokov (era anche stato esperto di lepidotteri e ricercatore al Museo di Zoologia comparata dell’Università di Harvard), in un’opera d’arte avviene “una fusione tra la precisione della poesia e l’ebbrezza della scienza”. Affermava anche il contrario. Erano affermazioni ambivalenti per lui. Penso si possa dire che ci vogliono precisione ed ebbrezza insieme. Ci vuole la precisione che onori la singolarità contro la genericità e ci vuole l’ebbrezza che la salvi dalla noia della genericità. Ebbrezza e precisione per raggiungere quell’albero o quel vetro in mezzo al pullulare di ciò che esiste».


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L'ESSERE E LA MASCHERA. DIALOGO INTORNO A UN VIDEO DI PASOLINI







MATTEO VERONESI

Qui Pasolini sembra professare una forma di esistenzialismo con venature addiritture mistiche, metastoriche; lui che più volte si pronunciò contro l'esistenzialismo. Nel contempo, si avvicina all'assurdismo dell'esistenzialismo ateo (ma anche al
credo quia absurdum della mistica eterodossa, non canonica).

In due minuti di oralità, nella banalità effimera ed episodica di un'intervista televisiva, si può trovare, senza eccessivo sforzo, tutto questo, condensato in poche
parole-luce, come le chiamava Ungaretti.

Non è forse possibile che proprio l'oralità televisiva, pur da lui tanto aborrita, fosse in realtà, per Pasolini, il luogo desolato e nudo e disincantato e indifeso della sincerità, della verità, dell'autotrasparenza - mentre la scrittura, più meditata, era invece artificio e stilizzazione, consapevoli (il suo "alessandrinismo", la sua "estetica passione")? Quello che vediamo e ascoltiamo è spesso un Pasolini grigio, spento, vuoto - quasi un doppio, un simulacro, un
àgalma, un revenant.

O forse, al contrario, in televisione Pasolini dice che essere scrittore non ha alcun senso proprio perché la televisione, il mezzo (che è il messaggio), sono per lui privi di senso - mentre non direbbe, e non potrebbe dire, la stessa cosa scrivendo, perché proprio e solamente sulla pagina la letteratura trova la sua sostanzialità, il suo senso? E non potrebbe valere, con le debite distinzioni, un discorso analogo per Carmelo Bene - anche e soprattutto scrittore?

Il poeta sullo schermo: argomento interessante. "Schermo" come rivelazione, trasparenza, epifania - ma anche, letteralmente, come barriera, nascondimento, finzione, depistaggio - "la donna dello schermo", "poi come su uno schermo s'accamperanno di gitto alberi case colli per l'inganno consueto......".

NEIL NOVELLO

Non è lo scrittore a non aver senso, è lo scrivere. Chi ha affidato la propria vita alla scrittura sa cosa voglia dire l'insensatezza dello scrivere. E si continua a scrivere non per lo scrivere in sé, ma appunto perché si è scrittori: l'
a-chi dello scrivere vale meno del chi dello scrittore. Se leggi La meglio gioventù e poi La nuova gioventù comprendi cos'è scrivere ed al contempo cancellare, o meglio scrivere cancellando: ma in questo paradosso, ciò che non si cancella è proprio lui, lo scrittore, che pur scrivendo-cancellando crea.


ELISABETTA BRIZIO

Anche nel web ci si scherma con pseudonimi vari, ed è forse nel rendersi irriconoscibili che riveliamo veramente noi stessi. Al contrario, spesso si finge proprio quando ci si firma, nel gesto deliberatamente enunciativo, ora glissando ora oscillando tra menzogna e omissis. Del resto, anche nelle arti figurative il tema della maschera altro non è stato che un tragico o giocoso intrattenersi con l'io. In latino maschera è persona, forse dall'etrusco Phersu. Le persone della Trinità sono, in greco, pròsopa, dunque, anche maschera, le maschere di Dio. E la liturgia è paragonata dai Padri a una rappresentazione teatrale (in origine il teatro era rito sacro, e tale è ancora nelle culture animistiche e sciamaniche).

Oscar Wilde diceva che gli uomini perlopiù mentono, ma se assumono una maschera emerge tutta la loro verità. Quella maschera che nell'arte degli antichi talora era paradigma di nascondimento in alcuni contemporanei diverrà deformazione grottesca che mima l'inautenticità, l'ipocrisia. Ovvero, ossimoricamente, la coesistenza di ipocrisia e verità, di distanza e prossimità a una così detta condizione autentica. In fondo, anche i versi di Gozzano sono costellati di mascheramenti, anche da donna se vogliamo, ma nel travestimento finiva per enfatizzarsi la sua verità, o la sua cattiva coscienza ("Vile", gli disse la pattinatrice, per fare un esempio). O in Pascoli, là dove a ben vedere tutto il debordare dell'analogismo, della ambivalenza, dell'emblematismo sottesi a una così tanto proclamata e altrettanto praticata poetica della determinazione o della determinatezza non fanno che veicolare ulteriori supplementi di verità, serie di inferenze e rivelazioni non più delegate all’io, il quale si para con gli strumenti di quella che è stata definita "retorica dell’allusione", nonché nelle strutture del silenzio. Ma non era Clawdia Chauchat la sola a non indossare la maschera nella festa di carnevale, in quella stessa la notte della dichiarazione di Hans? Evidentemente, siamo di fronte a un'altra prospettiva.

Sul fatto di scrivere non ti so rispondere. Ma sono convinta del fatto che, perlomeno sotto innumerevoli aspetti, si scriva solo per sé stessi. Per soddisfare quale esigenza ognuno lo sa.



MASSIMO SANNELLI

grigio - chissà, forse no. ha il giubbotto di pelle, si è (voluto e) rappresentato non professionale, non vecchio - pensa alle interviste orribili e davvero 'svantaggiate' a Calvino o a Sciascia, con il completo da impiegato, con l'orrenda sigaretta accesa davanti alla telecamera...

Lo schermo è spietato con chi non ha/è una singolarità furiosa. foto di Avedon a Pound

e PPP: chissà se è sincero quando appare, cioè *sempre*. è il trionfo della sineciosi, parola orribile che a lui piaceva. e PPP appare perché - finché - c'è la mamma. io non *so*, ma sono certo, che morta la mamma si sarebbe isolato: anzi lo dice in Coccodrillo o Poeta delle Ceneri, isolarsi per fare musica - arte non verbale, appunto. [e stava ritornando alla pittura, anche]

e sarebbe stato sincero nel momento del ritiro - il suo tacere. ma la magia della parola uccide, se è usata perfettamente: impeccabile come il Don Juan di Castaneda. impeccabile: quasi 'imperdonabile di CC.

bisogna stare molto attenti a ciò che si scrive: si avvera (e lo ricordò Pasternak al giovane Entusenko: "non presagisca mai una morte tragica in versi, perché si avvererà, io sono vissuto solo perché non l'ho fatto..."). *quindi* è morto, non poteva non morire, l'abbandono della parola era tardivo. e lui era Pietro II, il papa apocalittico di Malachia - autoproclamato già in Poesia in forma di rosa.

è questo che mi ha sempre colpito in lui: il suo arcaismo *praticato*

E l'andare in macchina sportiva e al Piper e in vacanza con la Callas - la ricerca di soldi soldi soldi (anche per far piacere alla mamma, e per starne lontano, col motivo del lavoro) e la sua mentalità segreta da mago e monaco

non ho mai creduto alla differenza tra essere e apparire. soprattutto quando si tratta di questi spiriti magni... tanto meno nella magia

martedì 21 giugno 2011

L'identità letteraria della Svizzera italiana. Un dialogo con Fabiano Alborghetti

Pubblico questo breve dialogo con Fabiano Alborghetti (una delle più significative e riconoscibili voci della poesia svizzera contemporanea: poeta di confini e passaggi, di esodi ed agnizioni, di transizioni e aperture di senso).

Non ho la pretesa di mettere in discussione uno sguardo così partecipe, informato, acceso dal di dentro della realtà che contempla e in cui si specchia, e capace di dar forma a giudizi e definizioni di una meravigliosa concisione e di una straordinaria incisività, che fanno pensare quasi, senza esagerazioni, al Serra delle Lettere.

Eppure, io mi ostino a credere che anche un'identità letteraria e culturale come quella elvetica, unica al mondo proprio per il suo carattere multiforme, plurilinguistico, polifonico, possa essere in qualche modo definita (per ora sul versante italiano, peraltro aperto, come le annotazioni stesse di Alborghetti evidenziano, al dialogo con le identità germanica e francese).

Il fatto che la scuola filologica di Pavia abbia rappresentato (unitamente al magistero friburghese di Contini) un saldo punto di riferimento in termini di italianità e di rigore filologico, non stempera, mi pare, l'identità letteraria svizzero-italiana, ma semmai ne sottolinea un aspetto saliente, ovvero quello del legame tra poesia e filologia, tra creazione poetica e coscienza critica, da Orelli a Fasani a Pusterla, da De Marchi alla Berra (due autori, questi ultimi, che non mi pare sarebbero immaginabili al di fuori di un paesaggio come quello svizzero, punteggiato di confini, limiti, conche, avvallamenti, barriere, e insieme di aperture, spiragli, illuminazioni, fughe); e la Jurissevich, splendida poetessa che ho scoperto in questa occasione, dimostra come la matrice cristiana, nella fattispecie calvinista (ma uno degli autori a cui la poetessa guarda è certamente Agostino, mentre il suo paesaggio esistenziale e visivo, immoto e niveo, è chiaramente alpino), resti sorprendentemente, miracolosamente viva a distanza di secoli: leggendo i suoi versi ("Da questo ghiaccio liberami, o Signore...") ci si ricorda di Théodore de Bèze, delle sue tragiche psicomachie. (M. V.)


Che rapporto c'è fra gli scrittori svizzeri di oggi e la tradizione della letteratura svizzero-italiana del passato, ad esempio Francesco Chiesa? Di solito si dice che Orelli segni una cesura netta: ma il paesaggio letterario, nel duplice senso di scenario in cui i testi vengono collocati e di contesto culturale, mi pare aver mantenuto inalterate certe costanti, certe invarianti.

Attualmente – ma è un punto di vista personale non c’è grande legame. Resiste certo la tradizione svizzera, ma è lì, parcheggiata. Più memoria o spazio sullo scaffale che non vero e proprio punto di partenza o reinvenzione.

Pusterla, ad esempio, è post-Montaliano. Giorgio Orelli si rifà più al Pascoli che non ad altri. Giovanni Orelli è stato influenzato molto più da Fritsch e Durrenmatt che non da scrittori di lingua italiana.

Direi che ora come ora ci si rivolge – parlando di poesia - più all’Italia che non alla tradizione ticinese (o svizzera di lingua italiana, come è più corretto dire)


Esiste un
esprit helvétique, quale quello teorizzato da Gonzague de Reynold e anche, alla vigilia della prima guerra mondiale, dal grande ed inesplicabilmente dimenticato Carl Spitteler, che pure sdegnava la definizione di svizzero, e si considerava araldo di una sorta di germanicità trascendentale? Per la loro vicinanza linguistica, geografica, culturale, all'Italia (Milano centro di attrazione per i ticinesi, come Parigi per i romandi), in che modo gli svizzero-italiani interpretano l'esprit helvétique? Spitteler mostra una svizzera che osserva, immota ed apprentemente impassibile, le tragedie della storia restando chiusa nelle sue frontiere, e partecipandone silenziosamente. Mi pare che questo accada emblematicamente in certi tuoi testi.

Posso citare una frase di Ramuz: «L’unica cosa che unisce gli svizzeri è l’uniforme dei postini».

Esiste un'identità culturale lombardo-ticinese? E' giusto, com'è stato fatto, additarne uno dei tratti distintivi nella "reticenza", nell'ellissi, nel sottinteso, nel rifiuto di ogni barocco eccesso e nella ricerca di una pulizia, una nettezza, un'esattezza della parola? Eppure, mi sembra che nella poesia svizzero-italiana, già a partire da Chiesa, vi sia anche una concomitante, e apparentemente antitetica, linea di ascendenza simbolista ed ermetica, fatta di analogie, evocazioni, sinestesie, che non escludono ma integrano l'esattezza "oggettiva" della rappresentazione. Questo mi pare evidente anche nel modo di rapportarsi al testo da tradurre e da ricreare, ad esempio nel caso di Pusterla traduttore di Jaccottet: difficile e cangiante equilibrio tra fedeltà ed invenzione, adesione e ricreazione. L'identificazione tout court, senza ulteriori distinzioni, della "linea lombarda" con la cosiddetta "poetica dell'oggetto" pare riduttiva, almeno se quest'ultima viene intesa nel senso di una riproduzione impersonale, mimetica, neutra.

Molti poeti – Pusterla in testa, ma prima anche Giovanni Orelli - vengono “associati” alla linea lombarda. Nulla di più sbagliato o fuorviante.

Alberto Nessi rappresenta sin dagli esordi, forse, quello più vicino alla linea lombarda.

Pusterla, ad esempio, ha studiato a Pavia con Maria Corti e si è confrontato da subito con la massima italianità possibile, non con una parte, la Lombardia, né col Ticino. Erano aree di appartenza vivendole, ma certo non linee guida. Erano appartenenza più geografica che non stilistica.

E così anche per i poeti successivi: Gilberto Isella si rifà ai francesi; Pietro De Marchi a Giorgio Orelli; Aurelio Buletti è quasi una cosa a sé stante, forse influenzato (anche lui, come Giovanni Orelli) da Durrenmatt o Walser (e quindi in parte proiettati verso la germanicità, non come geografismo ma come corrente di pensiero: acume e critica e la capacità di usarne, più che stile da copiare o dal quale prendere esempio). Donata Berra (italiana ma da sempre in Svizzera) addirittura si rifà, da musicologa, più alla musica che a poeti o letterati. Federico Hindermann è forse il più vicino al Chiesa, anche se vivendo ad Andermatt da decenni è ormai tutt’altro, indefinibile: forse l’ultimo dei poeti romantici.

Altro discorso, ma non dissimile, per le nuove leve: Vanni Bianconi è vicino a Walcott ed alla poesia di Shelley, Eliott, io alla poesia di Pagliarani ma soprattutto di qualche decina di poeti americani, tedeschi, o dell’australiana Dorothy Porter. Tommaso Soldini è vicino anch’egli ad una lirica americana contemporanea. Flavio Stroppini proviene dal teatro e dalla drammaturgia, accostata al racconto (è prosatore, drammaturgo, regista…). Elena Jurissevich è prossima ad una poesia ermetica francese con echi religiosi; Pierre Lepori è indefinibile ma certamente “soffre” in positivo il bilinguismo (vive da decenni a Ginevra ed è traduttore, oltre che narratore e poeta). Prisca Agustoni è ermetica ma al contempo è immersa nella lirica sudamericana (vive in Brasile).

Credo che, dal secondo Novecento in poi, la linee guida si siano dissolte.

Un caso a sé stante sono forse i poeti dei grigioni: schiacciati tra l'identità locale (dialetto), l'italianità (per vicinanza di confine) e il peso di una germanicità che li opprime.

Onestamente, non credo esista una identità letteraria della Svizzera italiana. Ma l’interrogativo resta aperto e irrisolto.


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venerdì 10 giugno 2011

Elisabetta Brizio - “E non è ancora finita…”. Giovanni Lindo Ferretti, A Cuor Contento Tour







affiora al mio sguardo una volta ancora... l'aurora


È tra il tragico e la meraviglia
che muove l’esistenza degli uomini

FLG

Sono sorprendentemente diverse le generazioni che si ritrovano ad assistere a “A Cuor Contento Tour”, l’ultima performance che Giovanni Lindo Ferretti sta portando sui palcoscenici italiani. In varie città il cantore si è esibito e si sta esibendo insieme agli ex Üstmamò Ezio Bonicelli (al violino e alla chitarra acustica), e Luca Alfonso Rossi (alla chitarra elettrica e al basso), diluendo la propria vocalità con una sonorità accuratamente minimale e rifinita con il ricorso all’elettronica. Sull’austera sobrietas di uno sfondo spoglio, in vesti che vagamente evocano l’aria del montanaro, mani rigorosamente in tasca, in veste “a cuor contento” Ferretti sceglie di non proferir verbo fuori contesto, solo nei brevissimi interludi tra un brano e l’altro dispensa agli astanti un sorriso sereno.
Ferretti Lindo Giovanni torna dunque in pianura – ma non più come negli ultimi anni in qualità di voce pressoché esclusivamente narrante–recitante in spazi defilati – e si volge a un pubblico più vasto, riportando sulla scena la rivisitazione di un repertorio quasi trentennale e alternativamente trascorrente dal punk ortodosso ai suoni e ai testi occasionati dall’esperienza della conversione–ritorno alla fede e dalla sua riflessione sul tempo: sul passato, sull’ora e sul futuro che nel presente si percepisce; sul tempo proprio, liturgico, storico. Così avveniva in Reduce, la lirica autobiografia di Ferretti uscita nel 2006.
Nell’alchemica combinazione verbale di propri arcaismi e di designazioni più recenti Ferretti si riappropria dello spessore delle proprie parole sentite e pronunciate nel tempo (“campo di parole”, ha più volte dichiarato, e sappiamo di che pregnanza le sue parole siano fatte, e la musica stessa sembra talora volerle integrare, enfatizzare il loro senso e la loro scansione, rendendole più luminose) e ne pondera oggi la fondatezza referenziale. Scartate quelle non più nominabili e che ormai da anni si astiene dal pronunciare, egli sottopone trent’anni di risonanze verbali al vaglio del tempo attraverso un anacronico e ondivago attingere a testi dell’intera sua produzione, apportandovi minimi ma necessari emendamenti. E il riscontro risulta positivo: le ferrettiane espressioni delle origini paiono ancora assolvere alla loro funzione, seppure in una configurazione interiore, e magari anche estrinseca, profondamente mutata. Assumono nuova legittimità perché “diverso è il modo di intenderle”, precisava Ferretti nella nota intervista di Giorgio Tonelli. Dove tra le altre cose Tonelli ricordava come fatto non casuale che in questi ultimi tempi fossero uscite diverse biografie sull’artista (tra le quali: Matteo Remitti–Stefano Fiz Bottura, Giovanni Lindo Ferretti. Canzoni preghiere parole opere omissioni, Arcana Edizioni, Roma 2010; Luca Negri, Giovanni Lindo Ferretti. Partigiano dell’infinito da Togliatti a Benedetto XVI, Vallecchi, Firenze 2010).
Questi alcuni dei brani che sfilano nell’esemplare florilegio che Ferretti sta proponendo sui vari palcoscenici (ma la scaletta è variabile), brani la cui esecuzione vanifica lo iato inerente alla lontananza dei tempi della loro composizione: Depressione caspica (“la libertà una forma di disciplina / assomiglia all’ingenuità la saggezza”), Annarella (scritto per il padre che Ferretti mai conobbe, poi per una serie di circostanze il testo venne dedicato alla Annarella dei CCCP: un eterno ritorno dei medesimi suoni in riverberante costruzione verbale, una elegia circulata di perpetuazione malinconicamente e nostalgicamente introflessiva, Lebenspathos attenuato e tuttavia confidente in un avvenire di parche essenzialità, quasi incertamente prefigurate seppure emozionalmente reiterate), Narko’$ (superbamente rivisitata con il preponderare di logorate nomenclature e formazioni aggettivali per enumerazione intensiva, le quali per la scarsità di forme verbali non coinvolgono il tempo, dunque paradossalmente alludenti a un contesto non di perennità quanto di decadimento, di stagnazione: in scansione rapsodica si accumulano il disarmonico, l’immorale, l’inestetico “stupefacente” esistere), Radio Kabul, A tratti, Del mondo, Paxo de Jerusalem, Occidente, le spiritualissime e mai esibite live Cronaca d’inverno e Cronaca filiale tratte dal lavoro terminale dei PRG, Polvere, Barbaro (forse, il vero climax della performance, se si tiene conto della testamentaria postilla alla versione di Co.dex, con il quale Ferretti uscì da solista, preludio o terminus ad quem dei giorni del suo fertile isolamento), Unità di Produzione, Per me lo so. Ben lungi da ogni conformità filologica, questi e altri brani sono stati preliminarmente escoriati e indotti all’essenziale, e la voce di Ferretti nella sua elegiaca deriva oscilla tra l’evocazione e quel suo peculiarissimo ipnotico salmodiare in cadenza uniforme quale icona del persistere delle cose (vocalità che tende ad alzarsi di tono solo verso la fine delle varie performance). Come per Dante, sulla scorta della medioevale simbiosi di poesia, retorica e musica, il dire poetico è “fictio retorica musicaque poita”, così, analogamente Ferretti, indugia sulla durata reale e coscienziale del suo eloquio, facendone misura e respiro e nervatura profonda della sostanza musicale. “Non sono un poeta, non sono un musico ma per contingenze fortuite ed accadimenti privati campo di musica assemblando parole in forma di canzone. Necessitano di una musica che le stimoli, che le sostenga, le preveda, che sia limite riconosciuto ed apprezzato. Solo in questo limite possono esistere e, a volte, fiorire rigogliose. Non basta, sgorgate dal cuore e scampate al giudizio della mente devono fuoriuscire dalla mia gabbia toracica, riempirmi la bocca, impastate ai sedimenti fisici dei miei anni, traversandone malattie e cicatrici cumulate”, scrive Ferretti in Bella gente d’Appennino, edito nel 2009, inclusivo di significativi stralci già anticipati nel reading omonimo con Bonicelli al violino, e dove il racconto che affabula sulla trama della propria esperienza, rispetto alla indifferibilità di Reduce, sembrerebbe esser maggiormente prorogabile, e conseguentemente tende a farsi più disteso e meno ermetico il periodare.
In tempi paleoferrettiani, quando molti dei presenti all’ultimo tour (come del resto al penultimo, al terzultimo, al quartultimo) non erano neppure nati, i talora dissoni accordi delle ortodossie, vale a dire del punk filosovietico (ma non filorusso) del Ferretti dei CCCP, poi CSI, intenzionavano e interpretavano non tanto una questione privata, bensì l’autentico sperdimento giovanile per tramite di una mimesi musicale autoctona esplicativa del fatto motivazionale, di una reale visione del mondo che veniva altramente significata, non più ispirandosi agli allora in auge canoni anglo–americani. In controcorrente, i conflitti identitari della provincia emiliana venivano eletti a vestigio dell’accordo tra la provincia italiana e le avanguardie europee. L’individualità della realtà emiliana e il radicamento in essa già nei CCCP costituivano un nesso emblematico, poi in Ferretti chiarificatosi nel corso degli anni come divinazione dell’indissolubile legame con il proprio etimo. Ora, constatata un’invarianza ideale nel succedersi delle cose, “generazione su generazione”, e interiorizzati i percorsi, sedimentati e non estinti, di pulsioni, elevazioni, cedimenti e decondizionamenti (“tutto passa e tutto lascia traccia”), oltrepassata la fase della darkness, non resta che seguitare – ovvero, educarsi – a fruire “a cuor contento” della vita e delle sue acquisizioni progressive: “niente di eclatante a parte l’esistere”, leggevamo in Bella gente d’Appennino.
La risonanza dei tempi lenti, l’assoggettarsi al fluire delle stagioni, nonché l’insegnamento tratto dalla “bella gente d’Appennino”, sembrerebbero assumibili come prologo di “A Cuor contento Tour”. Contento di che? Del miracolo quotidiano non predefinibile né codificabile della vita soggiacente al mistero, del suo consistere nell’unicità di un “dono”, grazia e bellezza non ripetibili. Del fare esperienza dell’armonia delle cose senza tentarne una spiegazione razionale che tutto banalizzerebbe, assunto che la complessità del creato e le sue finalità non possano che superarci. In fin dei conti, anche a voler essere pervicaci o sottili, le circostanze quasi mai sono favorevoli, come ricorsivamente enunciato in Cronaca montana: allora, “bisogna quello che è. Bisogna il presente”. Affermazione la quale, se non implica alcuna svalutazione dell’umano, non esime comunque la vita dal canonizzare, con sole invocazione e lode, la propria veritas peremnis.

(E. B.)


mercoledì 8 giugno 2011

Ludovico Parenti, STRIPSODIA PER UN’OPERA POETICA DI NEIL NOVELLO



Se paradisi esistono mia madre ne avrà (tutto per sé) uno.

E.E.Cummings


Studioso non solo di Pier Paolo Pasolini, cui ha dedicato tra molti scritti un ponderoso volume (Il sangue del re), ma anche di Jean Genet, sul quale è di prossima pubblicazione un rilevante studio (Epopea di bassavita), di Machiavelli, Gadda etc., nonché curatore di diversi volumi sulla letteratura, le arti e il cinema, il quarantaduenne Neil Novello, origini calabresi, residente a Bologna, da tempo ormai si profila come uno dei più appartati, originali e geniali giovani studiosi che si calano nel proprio lavoro come in un mare inesplorato per riemergere con impreveduti tesori grazie a una capacità di prospezione che ha fatto dell’implacabilità linguistica e del rigore della conoscenza la sua regola.

Che fosse poi anche poeta, considerando l’appena edito Falò de’ rosarî, nella elegante collana poetica di Nino Aragno, non stupisce se si ha presente la precedente raccolta, Rosa meridiana (2004), in dialetto calabrese. A dettar legge poetica è un lutto incancellabile, la scomparsa della Madre, da Neil Novello immensamente amata, disperatamente cercata e omaggiata con un trittico dal momento che, tra Rosa meridiana e Falò de’ rosarî , si colloca Mutterland (2006), mediometraggio di poetica suggestione, memore del “cinema di poesia” pasoliniano.

Falò de’ rosarî (titolo bellissimo che sembra orecchiare la pur diversissima opera poetica di Carmelo Bene, ‘l mal de’ fiori) si articola in novantasei composizioni distribuite in nove sequenze che strutturano il tutto (fra le quali “Lager rosario”, “Celù”, “Parallaxis”, che a loro volta affondano e riaffiorano nell’architettura del libro), con l’eccezione di una poesia (“Stasimo in petalo verde giallo”) dalla palese ascendenza ‘sperimentale’, in evidente dissonanza, se non scarto violentemente radicale, dal rimanente corpus poetico; ed è opera, Falò de’ rosarî, che, per entrare nel Mistero, per misteri (come nel rosario) si esprime, agglutinandosi in una scrittura sapienziale misterica e allucinata: pagine e versi da toccare con devozione, sapendo quanto rischioso e arduo sia il tema affrontato/patito: la morte della Madre. Ed è, l’opera, una discesa insieme nella morte della Madre (del poeta) e nella morte delle Madri. Perché, quando muore una madre, è come se morisse ogni madre.

In Falò de’ rosarî l’immagine si fa incandescente nella sua distaccata freddezza. Sodezza, volumetria e scabrezza espressiva riflettono dolorose piaghe dell’animo. Il verso, dal lessico sovente prezioso e insueto, ha sapore di iscrizione sepolcrale, Nessuna linea a guidare, ad alludere a una sia pur approssimativa mappa di un cimitero che divenga emblema di tutti i cimiteri: dove le “urne confortate di pianto” svettino nella loro scenografia lamentevolmente petrarchesca: qui c’è una parola minerale, un’immagine insieme nota e misteriosa strappata alla cenere delle esistenze per farla rilucere nel suo timbro e nella sua forma.

Il sambuco non sa / il croco è già fiore / nostri occhi volati / in violati ossarî di madri // Col tempo tu albore, / sta a te ancora, a nessuno.” La cadenza, spesso monotona, scopre l’insistere e il persistere di un sentimento in sostanza ascensionale, benché spesso stornato, nel crepitìo del “falò” delle metafore, da un pudore che non riesce sempre a prevalere, tanto intuitivo e condivisibilmente afflitto è il groviglio dei sentimenti e dei sensi che, sia pure nella sostanziale ossificazione della tessitura poematica, del ductus oracolare ed evocativo, deflagrano in quasi lussureggianti sequenze, in paradossalmente barocchi prosciugamenti, taglienti e implacabili come certe fioriture figurali negli ‘impronunciabili’ versi di Celan.

Qui non c’è il barthesiano “piacere del testo”, ma il dolore del testo. Limpidamente oscuro (“Il sole rotola su me/ e io bevo luce,/ a testa in giù/ segreto pulviscolo.// Non da così lontano, da così”): bubbone nell’iter ossessivo del poeta – che sembra volercisi sempre più sprofondare per assaporarne l’intimo incomunicabile e straziante dolore, privatissimo e ‘sacro’ – e che spetterà al lettore far scoppiare a sua volta per verificare la vertiginosa fossa, la verticalità della morte della madre del poeta e di tutte le madri. A sua, e a loro gloria.


Ludovico Parenti


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