lunedì 25 aprile 2011

Elisabetta Brizio, "'L’isola e il sogno' di Paolo Ruffilli"




L’isola e il sogno di Paolo Ruffilli


L’immaginazione del sogno, la falsariga del ricordo, la trazione della memoria, il “galleggiamento” come sola condizione che ci è data, il riflettersi nel mutevole specchio di acque, l’eros come definizione di sé: alcuni titoli possibili per una lettura, inevitabilmente parzialissima, del recente romanzo di Paolo Ruffilli, L’isola e il sogno (Fazi 2011). Un’opera altamente complessa che eccede sia dal canone del romanzo storico che da quello della biografia (quest’ultimo, peraltro, già visitato dall’autore in Vita di Ippolito Nievo, del 1991) e che ci dà un problematico resoconto (scandito in tre lunghissimi capitoli: «In mare, sulla nave in rotta verso l’isola», «Tra le braccia della città felice», «Di nuovo in mare, verso l’ignoto») del viaggio estremo di Ippolito Nievo, un resoconto che si snoda tra le frequentissime escursioni temporali di una narrazione in cui, scrive l’autore nella nota editoriale, «tutto è rigorosamente autentico, tutto è rigorosamente immaginato».
Fermiamoci un attimo qui, sulla reciproca implicazione dei termini “vero” e “immaginato” e sulle facoltà e le funzioni dell’immaginazione: asserire che qualcosa è autentico in quanto immaginato non è antinomico se ci rimettiamo alla nozione ruffilliana di immaginazione, la quale, come è stato detto e riaffermato dalla critica, è al servizio di un pensiero che superi la sembianza ingannatrice della realtà. Ora, per Ruffilli la vera realtà è quella immaginata, quella al di là del visibile – dal quale si faccia preliminarmente astrazione per cogliere e restituire, osservava Pier Vincenzo Mengaldo, «le essenze e i destini dei fenomeni» –, perché ciò che chiamiamo “realtà” non è che un equivoco dei sensi, una nostra alterazione, essendo essa intrinsecamente opaca e inscrutabile nella sua ermeticità alla ragione. Reali, e come tali abilitate a partecipare dell’arte, sono le connessioni del pensiero. In questa misura anche scrivere equivale ad attraversare ogni presunta evidenza per tramite dell’immaginazione, un allontanarsi dalla realtà pur restando realistiche le ragioni di ogni espressione scritturale. Ruffilli, poeta (penso soprattutto a La gioia e il lutto e a Le stanze del cielo) o romanziere che sia, arriva – notava Alfredo Giuliani – «a calarsi nella soggettività degli altri», ed è esattamente quello che avviene in L’isola e il sogno, dove l’immaginazione, per usare una lontana formulazione ruffilliana, è «l’unica via per saperne di più».
La facoltà ruffilliana di imaginatio è metafisicamente fondata e nondimeno immersa nella corposità delle sensazioni e delle percezioni. Essa è attitudine a immaginare alla stessa stregua di Einstein, in tendenza dunque tutt’altro che campata in aria e priva di fondamenti e di appigli nel mondo reale, avendo il coefficiente fantastico che restituisce all’evidenza intimamente a che fare con il fondale dalle insospettabili stratificazioni e sovrammissioni nel quale egli sta fattivamente scandagliando. Attraverso la relatività einsteiniana e l’indeterminazione di Heisenberg, Ruffilli immagina in una intersezione, in un equilibrio attimale tra inconscio e stato cosciente. Le parole, e con esse le sensazioni e le reminiscenze da esse veicolate, si muovono, fluttuano, reagiscono le une con le altre, si attraggono e si respingono come elettroni nello spazio probabilistico dell’orbitale. Ma al caos avanguardistico, al colpo vitale di una sfrenata e azzardosa sperimentazione, si sostituiscono, insieme a priori e a posteriori, fin dal momento della concezione e insieme in quello della resa e della rielaborazione sulla pagina, una razionalità cristallina e mai cristallizzata, quasi settecentesca, una musica lievissima e calcolata senza essere leziosa. Niente di più lontano dalla fantasticheria e dalla immaginosità gratuite e svincolate.
Se la poetica dell’immaginazione vale per la poesia, è altrettanto pertinente se riferita al romanzo, perché per Ruffilli la forma narrativa non differisce da quella poetica se non per una disposizione addizionante verso una più espansa diffusione spaziale. In L’isola e il sogno l’immaginazione opera lungo due versanti che tendono a incrociarsi: quello dell’autore, il quale immagina la vita interiore di Ippolito, quella che non è documentata, e quello del protagonista che si fa sismografo delle proprie emozioni alla ricerca di un nesso tra sogno e passato.
L’assunzione della forma del romanzo storico e di una estetica del vero come vesti esterne costituisce il tratto più vistoso del libro, novel dunque più che romance, eminentemente romanzo psicologico, pur nella consistenza della fabula, in virtù della incessante analisi che insegue l’ondivagare del protagonista verso l’autocoscienza, là dove anima e destino paiono situarsi in rapporto paritario. Se infatti l’autore indugia prevalentemente sulla definizione – rapsodica, e con acrobatici scarti temporali, nondimeno diluiti nella interazione tra presente e presentificazioni, ovvero tra il fluire della narrazione e le incarnazioni simboliche che la popolano – della scissura dell’anima di Ippolito, è la fatalità che nell’epilogo svolge la sua funzione inappellabile. Quasi manzonianamente, perlomeno con riferimento a un Manzoni anteriore al Discorso del romanzo storico, la trama oscilla in una connivenza di storia e di invenzione, attraverso la combinazione dell’obiettività dei fatti e del coefficiente di umanità che dal di dentro ne illumina le determinazioni.
Ruffilli opera una mise en abîme del livello psicologico, una integrazione delle omissioni della storia senza separarsi dal vero. Sotto questo profilo, ancora manzonianamente, Ruffilli raggiunge il suo intento di riabilitare la parte dispersa della storia. Ma lo fa a prescindere da intenzioni valutative, evitando di prevaricare i moti del protagonista: semmai, non esita a oggettivarsi, immaginando, nelle descrizioni paesaggistiche, che non di rado costituiscono drastiche spezzature del racconto, sezioni contrappuntistiche dello sguardo e del rimemorare – nelle loro vibrazioni cromatiche e luministiche, là dove la luce come onda, e inoltre come campo di energia corpuscolare che favorisce la rêverie del pensiero e della visione, diviene vibrazione luminosa del pensiero – di condizioni vaghe, di incerte caratterizzazioni sentimentali, o discriminanti il passaggio dal fatto esterno e periferico a quello intermittente, profondo e inconfessato, della coscienza di Ippolito, l’unica figura alla quale Ruffilli sembrerebbe estendere, se così è possibile dire, il metodo manzoniano del riempimento psicologico dei fatti. Un paesaggismo, tra geografia e geroglifico, massimamente evocativo e dislocato nei tratti dei luoghi dell’odissea nieviana, assunto sì, come equivalente interiore, ma soprattutto quale fondale che emette segni da decriptare ed evoca lineamenti e screziature di un passato distrattamente vissuto, che l’io ignora benché a lui intimamente familiari. Ippolito si interroga sui paesaggi fin dalle pagine d’esordio: «Perché mai gli piaceva vegliare le ore cristalline dell’alba?». Forse, si domanda ancora, «per il sorriso che gli sembrava aleggiasse come un resto di gioia perduta o solo scordata nella notte del tempo?».
Il rientro di Ippolito Nievo in Sicilia per una missione speciale da svolgere presso l’Intendenza di Palermo viene differito, rallentato attraverso una analessi che misconosce vincoli temporali, in una cronologia tuttavia mai abolita nel procedimento narrativo dove l’accaduto è comunque temporalizzabile e non compromesso in una configurazione incantatoria. Il ritorno a Palermo è ritmato dal libero scorrimento della memoria di esperienze sedimentate, di considerazioni retrospettive del protagonista appoggiato alla balaustra della nave in un interludio dove le tonalità del paesaggio e il trascorrere sull’elemento liquido – superficie speculare e variabile che promuove il diffrangersi dei punti di vista – inducono una risemantizzazione di rimemorazioni disparate. Per rimanere in area ruffilliana, lo specchio, già protagonista di una foto in versi di Camera oscura, sembra talora possedere facoltà disvelatrici, mentre, per contro, se lascia balenare una traccia, una scia vagamente rivelatoria, essa è solo segno di quello che resta a certificare una condizione estinta, o che permane dell’esistenza comunque trascorsa. E perlopiù è indizio di qualcosa di asintotico come il senso della vita, in una poesia, quella di Ruffilli, tutt’altro che dell’assenza. Allora, ciò che lo specchio riflette non può che configurare solo sé stesso, vale a dire ciò che è anteriore a ogni prospettiva illusoria o allegorica, congetturante o valutativa. Come dire: così è il presente, così stanno le cose.
Lo status del protagonista di questa storia è, come detto dall’autore, «un galleggiamento», una fluttuazione, una emersione, un lasciarsi andare al trascinamento del ricordo. Trascorrono e si perdono nella mente di Nievo evocazioni del suo primo soggiorno palermitano, vengono annoverati gli amori compiacenti e prevedibili nella irremissibile condizione inerziale della realtà isolana e nella sua tangibile e indolente voluttà, si commisurano al vivido ricordo della bellezza sensualmente pallida e quieta, quasi verginale, della lontana, malinconica (anche perché minata dalla tisi) e ombrosa Bice, con la quale condivide una intensa – peraltro non segretissima – affinità spirituale che si traduce in congiungimento platonico, e nella localizzazione del flash-back scopre nella donna una somiglianza con sua madre: forse, dice Ippolito, è questa la ragione profonda che lo ha spinto verso di lei. Del resto, confermerà qualche tempo dopo a Palmira, «è un modo di prolungare la nostra infanzia quello che chiamiamo amore». Ed è la stessa ragione che da Bice tiene prudentemente lontane pulsioni che risulterebbero incestuose. Ma Bice aveva un’altra vita. Ora egli è un eroe garibaldino costretto ad assistere alla ambigua doppiezza delle manovre dei politicanti di una città che ha appena assistito alla successione del governo sabaudo all’amministrazione rivoluzionaria: questa è l’inquadratura storica di una Palermo che tuttavia non è solo la città dell’inganno e della corruzione. Essa – scriveva Alexandre Dumas nelle sue Impressions de Voyage, una delle fonti di Ruffilli – è la città del mondo più in grado di adunare e alchemicamente coniugare le proprietà e gli attributi della felicità. Città incantata, intrisa di Zauber, di magia, e con forte tendenza a sciroccare.
La chiave di lettura del libro è sintetizzata nella saldatura delle parole del titolo – in parte irrelate con l’immagine di copertina, che raffigura un giovane garibaldino in divisa: l’“isola” e il “sogno”, giacché il sogno sembrerebbe inverarsi (in tutta la precarietà, come si vedrà, del suo inveramento) nell’isola, realtà vacillante e labile per definizione. Tuttavia, il sogno si declina variamente in Ruffilli. Non ha più di tanto a che fare con le rappresentazioni inconsce espresse in termini non razionali, con una materia sognata, pregnante e simbolica, da interpretare, né con l’idea di una evasione verso universi fittizi. Sogno è condizione appagante da sembrare infattibile (tale sarà il rapporto con Palmira), è inoltre qualcosa cui propendiamo, qualcosa che fortemente si persegue. In particolare, è l’accesso privilegiato al farsi altro dell’apparenza. Ippolito soprammette ricordi, sogna il proprio passato, esibisce il decorso dello stream della propria coscienza perché sa che ciò che è passato è esperienza stratificata, concrezione di frazioni incancellabili di noi.
Seppure nel diffuso intrattenimento sulla ricognizione anche geografica delle varie fasi della vita del protagonista, la tecnica narrativa di Ruffilli appare una progressione volta alla eliminazione del superfluo, nel senso che i grandi ideali risorgimentali e il loro scadimento nel declassamento morale dei politicanti e dei malavitosi sembrano alla fine sfumare alla stregua di diversioni e farsi vaghi rispetto al preponderare del tema, centrale, percettivamente più invadente, del fatto passionale, il quale, per riduzione, si riversa e si circoscrive alle due figure, antitetiche e complementari, di Bice e di Palmira, entrambe altrimenti inafferrabili. Degnissimi di attenzione e ben documentati, gli inserti dietro le quinte delle manovre politiche preunitarie paiono assumere minore rilevanza soprattutto nei confronti della delineazione della scissura che mina l’esistenza del protagonista – e l’illuminante colloquio con la madre ne sottolinea la natura profonda piuttosto che le inadempienze e l’irrealizzazione: «Non ci si può impedire già in partenza una continuazione. Le tue speranze sono simili a rimpianti», dice al figlio.
Con la magnetica Palmira l’educazione sentimentale di Ippolito progredisce promuovendo l’affrancamento dal dilettantismo erotico e da quel senso di estraneità che ineriva la dimensione che egli aveva definito – in termini di una indefinibile ossessione – «fisiologica» del fatto sentimentale, condizione deficitaria che in lui aveva finora ostacolato ogni possibilità di trasformazione interiore. L’eros ci dice ciò che siamo, ciò che è a noi connaturato, e in quanto tale condiziona il nostro agire. Ippolito è succube di una sfasatura che lo ossessiona. Viceversa, Palmira è dispensatrice di sicurezza, di pienezza, è figura solare, esige da lui l’amore nella seduttività diurna del mattino, nel «trionfo del risveglio» preferibile all’«anticamera del sonno». Finora lo stato amoroso era stato vissuto da Ippolito ogni volta unilateralmente, nello slegamento dell’energia pulsionale dalla sfera spirituale, due elementi che mai aveva esperito riunificati in un unico essere. Intravede nell’incondizionato rapporto con Palmira, e nell’affastellato contesto dell’isola, questa eventualità: esiste dunque la possibilità del sogno, della felicità della compiutezza, vale a dire di una agglutinazione dei due ambiti, sembrerebbe chiedersi l’autore?
Rispetto a Un’altra vita, L’isola e il sogno è un romanzo e non una successione di racconti, benché geometricamente inquadrati entro una cornice e argomentanti sullo stesso tema dell’insoddisfazione e della ricerca d’altro, strutturati come una polifonia che nebularmente si effonde e al contempo ripiega nella rigorosa veste strutturale del libro – la forma chiusa cara a Ruffilli. In Un’altra vita veniva lasciato un margine di possibilità al mutamento, a un nuovo orientamento da destinare alle esperienze sentimentali dei protagonisti delle sue storie. Qui Ruffilli immaginava l’indole dei tanti lui e delle tante lei attraverso il loro modo di commisurarsi all’eros in un lirico inventario di gradazioni dell’amore, intrinsecamente ineguale in ciascuno e ogni volta occasione della riemersione e della riconsiderazione del rimosso. Mai oggetto di piena felicità, benché talora essa fosse momentaneamente adombrata, ovvero, montalianamente, cioè a dire labilissimamente, raggiunta nella dialettica intimità-estraneità che si istituisce con l’altro. Ma una vita senza amore è asfittica e schiava, seppure l’amore possa diventare ragione di infelicità. La prosa a tratti ritmata, allitterata, assonanzata e poetica dei racconti, che molto ricalca le cadenze della versificazione ruffilliana, diviene estremamente fluida nel romanzo. E nel romanzo non sembra darsi la possibilità di un’altra vita per l’acquisita cognizione dell’insussistenza di una alterità ideale, che risponda alle nostre aspirazioni, circostanza che finisce per dar luogo a uno sdoppiamento: le caratteristiche dell’altro, assunto come idealizzata icona mentale, vengono riversate, e separatamente sperimentate, su due figure totalmente differenti. Ippolito mostra di patire l’inattitudine a «stringere il sogno dentro il cerchio della perfezione. Ecco il punto. Perché tutto, calato dentro la realtà, diventava fragile e veniva insidiato dal precario». Un difetto di immaginazione, nel senso ruffilliano del termine.
Alla precarietà in amore (nella prospettiva della diade isola-sogno) si connette trasversalmente la condizione così detta insulare: una realtà che posa sulla volubilità, a parte dal mondo, con le sue contaminazioni e stratificazioni di razze, fedi, tradizioni e abitudini incorporate nel corso dei secoli, crocevia infinito di segni o segnali di cose accadute, benché l’instabilità estrema della dimensione insulare non avesse impedito la formazione di una realtà autonoma con le sue altrove irripetibili peculiarità, affermava anche Dumas. Isola è vaticinio e prossimità alla sparizione, e inoltre allegorizzazione dell’instabilità come emblema di pertinenza umana. La permanenza nella straniante realtà isolana è una condizione essa stessa provvisoria, si illudeva il protagonista, come non potrebbe che esserlo il rapporto assoluto con Palmira; una caducità, quella così delineata, che tuttavia innesca un desiderio di totalità e di perfezione, la cui realizzazione alla fine disorienta, perturba: «il potere destabilizzante dell’amore è pari solo a quello della fantasia», pensa tra sé Ippolito. Corrispettivo di questa dimensione è l’elemento immobilizzante proprio dell’isola, lo scirocco. Esso avvia la legittimazione dell’astensione dal fare, ingenera l’ottundimento della ragione e l’esaltazione dei sensi, l’impaludamento in una ambiguità in cui la vita cessa di scorrere. Un po’ alla maniera del sole di Arles di Van Gogh, trasferito con opulenza coloristica oltremodo straniante su tele arse dal sole e spezzate dal vento. Scirocco è atmosfera pesante e vischiosa che in forma di allegoria fa da controcanto al depensamento del protagonista, anch’egli altamente sciroccato. Nietzsche stesso per metafora invocava la tempesta come accentuazione delle differenze e come ingiunzione a un aut aut rispetto allo stagnare nell’indecidibilità dei venti del Sud.
Anche il libro di Nievo soggiace al destino di rimanere in sospeso. Ma l’arte, le enunciazioni estetiche, ovvero il romanzo incompiuto di Ippolito, nonché il suo tormento di intellettuale, sono aspetti non prioritari nel periodo che immediatamente precede l’unificazione dell’Italia, tempo in cui egli avverte un vincolo con la storia, una predestinazione verso obiettivi maggiormente incombenti rispetto al fatto estetico. Rifiutate dagli editori (i quali peraltro avevano catalogato il romanzo tra le memorie dei combattenti e reduci) nella misura in cui la mescolanza dei generi veniva recepita come un’effrazione, una opzione trasgressiva (mentre per Ruffilli la contaminazione dei generi costituisce il canone ideale), quello delle Confessioni da portare a termine è un pensiero che assilla l’autore, ma non al punto di vivere drammaticamente questa incompiutezza. Tanto più che nelle intenzioni nieviane l’opera avrebbe dovuto essere la trascrizione di un’esperienza più vasta, redatta non dall’artista da giovane, ma giunto alle soglie del compimento della vita, da «un uomo che prende coscienza di essere quello che è in virtù di quello che è già stato e anche di quello che sono stati altri prima di lui». Circostanza che sarà interdetta a Nievo dall’imprevedibilità di un destino che ha inciso tanto sul raggiungimento di una meta pulsionale assoluta, e non scissa nella bipolarità dei due ambiti della sessualità e della spiritualità, che sulla realizzazione della sua opera, fatalmente affidata alla condizione postuma. Opera che peraltro – come si ricava dall’incipit di Anna Karenina – ispirò Tolstoj, ugualmente incline a una narrazione che si sciolga e si snodi, nel suo divenire, con lo stesso ritmo fluido e naturale, quasi di stagioni e respiri, che scandisce e contrassegna l’esistenza di ciascuno nelle sue – direbbe Svevo – crisi e lisi, nelle sue gioie e nei suoi desideri, nei suoi incontri illuminanti e nei suoi abbandoni.
Come non si dà la possibilità di un’altra vita, così non si dà una seconda occasione per sfuggire alla morte per acqua di eliotiana memoria. Ippolito (e Ruffilli stesso, scampato a una morte per acqua e uscito da una esperienza pre-morte con la sensazione di qualcosa di beatificante, senza desiderare il ritorno alla vita), in uno stato tra l’ipnotico e il cosciente, aveva sperimentato «un senso pieno di qualcosa che lo stava riportando a se stesso». Una morte, quella del trentenne Nievo, che sembra essere indissolubilmente legata alla recente esperienza amorosa con Palmira, alla vaghezza di un annullamento, come nell’amore lasciato qualche ora prima nell’isola.
L’inabissamento dell’Ercole è un fatto storico, ma veicola qualcosa di paradigmatico. L’Ippolito ritornante nella penisola (cioè una quasi-isola, dunque di una stabilità relativissima, anch’essa prospettiva incerta) sceglie l’Ercole anziché il più affidabile Elettrico spinto dalla deliberata volontà di lasciare l’isola il prima possibile. Volere di volere, o desiderare di volere, comunque una autoimposizione, alla maniera in cui Ulisse induce i suoi compagni a farsi legare all’albero maestro della nave per non consentire alla seduzione del canto delle sirene. Perché a questa realtà magica e incoerente egli ha vincolato e fissato l’agnizione per lui più insospettata e inquietante, che aveva avuto a Verona (città rievocata in una delle più significative ricordanze del libro): quella «della natura contraddittoria dell’affettività… del suo risolversi nella duplicità di istinto e di ansia di purezza». Mentre si allontana dall’isola vive una dissociazione tra desideri e visioni incongruenti, ormai consapevole della difficoltà a comporre la sfasatura tra le ragioni profonde delle proprie pulsioni e la realizzazione delle stesse. La figura di Palmira – inafferrabile come lo è il suo passato – costituisce l’immagine della irrealizzabilità del sogno della transazione, ovvero, del segreto timore per la sua realizzabilità.
Nell’imminenza del naufragio (emblematicamente, Ippolito naufraga alla vigilia dell’unificazione), proletticamente alluso da considerazioni sul senso di sospensione della vita nell’elemento liquido solcato dalla nave del ritorno, il protagonista trapassa dolcemente dopo aver fatta esperienza dell’amore pieno – assoluto e insieme destabilizzante –, qualcosa di ulteriore rispetto alla a lungo esperita debolezza dell’invaghimento proprio della gradazione fisiologica, una totalità di voluttà, sofferenza e pensiero, impensabile oltreché impraticabile con la spiritualissima Bice. Il racconto dell’inabissamento dell’Ercole chiude il cerchio – come ha sottolineato lo stesso Ruffilli – e ci riporta all’inizio, nel punto in cui aveva avuto luogo quel differimento dell’evento nel lungo esordio del libro, al «galleggiamento» nel mobile specchio di acque e nei ricordi dove il protagonista, anch’egli immaginando, cercava di saldare l’evocazione all’esperienza. Perché se la struttura del racconto per certi aspetti è dualistica, attraverso il suo dinamismo espansivo, insieme al puntuale, ritmico, interagire di storia e di immaginazione, esso tende a riallinearsi per rientare nella categoria della concordia oppositorum (qui allusa dal nesso indissolubile della diade amore-morte).
Perché si percepisce quasi un presagio di beatitudine, una sensazione di qualcosa oltre la vita nelle righe conclusive del libro? Nella dilatazione dell’istante Ippolito vede scorrere la propria vita e ne avverte il senso compiuto. «Tutto parte già di un’altra vita tenuta e superata senza averla persa. (…). Non avvertiva più il suo corpo, come se fosse ormai solo coscienza. C’era qualcosa che intravedeva: figure e forme note, eppure un mondo sconosciuto che lo attirava facendo concorrenza a tutto quello che si lasciava dietro. E vi si abbandonò, tranquillo». Mondo, sopravvivenza, o «un’altra vita» (nell’essenza ambivalente della formula ruffilliana), o ancora, come detto nel titolo dell’ultimo capitolo, «verso l’ignoto»: indicazioni che paiono conservare tutto il senso dell’aldiqua piuttosto che risolversi in un intenzionare verso il perdurare oltre l’esistenza terrena. Semmai, lo scarto dalla finitudine è possibile in virtù dell’arte, in chi, come in questo caso Ruffilli, si mostra nuovamente atto a riceverne il gesto di significazione, senza per questo delegare all’esperienza estetica il ruolo risolutore della questione esistenziale, ruolo che per lui resta di pertinenza dell’esperienza vissuta, le cui acquisizioni nel tempo hanno indotto a ribaltare quasi le sue priorità tanto di scrittore che di uomo, fino al segno, come ha recentemente dichiarato, di trascendere ogni tentativo di orizzontarsi, e «accettare di vivere senza la pretesa di capire».
Senza forzare eccessivamente i termini, sembra legittimo inquadrare questo romanzo nel “canone” del postmoderno nella accezione che in una illuminante Bustina del 1999 ne dava Umberto Eco relativamente all’arte e alla letteratura, reattive entrambe all’estremizzarsi di una modernità disseminativa e talora distruttiva nei confronti del passato. Questo in virtù della misura in cui la narrativa di Ruffilli si distende nella logica delle idee, coniugando, in una sintesi impervia, storia e mito, referenza e invenzione, e rivisitando il passato, per dirla con Eco, «con gusto e passione, con ironia certo, ma anche con gioia e grande affetto».


Elisabetta Brizio

sabato 16 aprile 2011

ELISABETTA BRIZIO, "GUIDO GOZZANO - UNA NUOVA INTERPRETAZIONE"




Scriveva Marzio Pieri che non sarebbe cosa conveniente arrestare Gozzano alla fase dell’antidannunzianesimo: non lo è, e in particolar modo per quel che riguarda il suo rapporto con l’arte e, nello specifico, con la letteratura. Per Gozzano la fusione, o meglio la dialettica e variegata interazione di vita e letteratura, di esistenza e parola, di esperienza e mise en page, si palesano e si snodano sul terreno concreto e operativo della versificazione, del labor limae, del “gioco di sillaba e di rima”, dell’“accordo di sillabe”, in una parola, degli artificia che scandiscono e ristrutturano il tempo vissuto nel succedersi di eventi accentuativi e di epifanie immaginifiche, i quali racchiudono, essenzializzano, eternizzano, e in certa misura essi stessi sono, oltre a evocare, a un tempo l’esperienza stessa e la sua cristallizzazione, l’oggetto e l’immagine riflessa, l’emblema e la sua sparsa disseminazione. E talmente complessa è la sua visione della letteratura che a stento riesce di definirla in uno schema univocamente configurante. Innegabilmente, egli è al di là di ogni visione della poesia come fondazione di un luogo superiore rispetto a quello della comune esperienza. Semmai, falsificando nel suo tempo primo ogni sua ragione avantestuale, ci rende un’immagine della poesia come evasione, migrazione dalla storia, osservazione di un soggetto che sembra partecipare del mito di Narciso e che descrive il diagramma dell’inseguimento dell’istante favorevole e infattibile nel quale l’io coglie totalmente sé stesso. Altrettanto infattibile, e in rapporto di mutua esclusione, è il miracolo poetico, sicché la poesia dovrà limitarsi, e con il ricorso all’artificio, alla proiezione verbale dei vari statuti dell’io.

In posizione diadica, la polarità schermo-fuga – condizioni che di fatto vanno incontro alla loro elisione, giacché anche l’evasione rientra nella modalità del rifugio – assegna alla letteratura il carattere di un sogno “non immune d’artifizio” e la cognizione dei pretesti estetici finisce per enfatizzare quell’artefatta artificialità di un’esistenza spesa a in sillabe e in rime (e la rima stessa è stata a lungo considerata un artificio, una forzatura che limita e pone delle condizioni alla sincerità dell’ispirazione) che Gozzano finirà per censurare lungo tutti I colloqui. Più corretta e accettabile – in prospettiva ironizzante o meno – appare la posizione del “commesso farmacista” nel testo omonimo, il quale riconosce apertamente: “faccio versi… non me ne vergogno”. E malgrado le sue “rime rozze” e le sue “nefandità da melodramma”, Gozzano invita a non irridere all’estemporaneo verseggiatore: oltre ad avere la sua voluptas dolendi un referente vitale, egli non inscena alcuna narcissica spettacolarizzazione dei propri versi, tentando, come Gozzano stesso ammette di fare, “il sogno per piacere agli altri”.

Non si rida alla pena solitaria
di quel poeta; non si rida, poi
ch’egli vale ben più di me, di voi
corrosi dalla tabe letteraria.

Letteratura è desiderio di inconsapevolezza, una imperfezione dell’esistenza, un limite etico da superare. In quanto tale, l’esercizio poetico è da disapprovare, come dichiarato nel terzo dei Sonetti del ritorno:

O Nonno! E tu non mi perdoneresti
ozi vani di sillabe sublimi,
tu che amasti la scienza dei concimi
dell’api delle viti degli innesti!

E siamo al momento cruciale, decisivo: l’espressione “sillabe sublimi”, di per sé intrinsecamente ironica, è fatalmente rimante con “concimi”, per irriverente analogia (“Troppo m’illuse il sogno di Sperelli, / troppo mi piacque nostra vita ambigua”, A Massimo Bontempelli). La letteratura così versificata viene sconsacrata e auraticamente pregiudicata. Perseverare nell’intrattenersi con essa sarebbe pertanto una consuetudine deprecabile. Ma anche per contrasto: meglio il nonno, dedito a una vita operosa anziché ad “ozi vani”, o meglio il “buon mercante inteso alla moneta (…) ma vivere di vita”. Per cui al poeta non resterà che convenire: “Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!” (Felicita). Pur essendo egli consapevolissimo di esserlo, ma per non rischiare di esser preso sul serio. Inoltre, se la letteratura così detta “sublime” aveva come referente la declinazione dannunziana – vale a dire un vistoso travisamento sia dell’arte che della vita – può legittimamente essere designata una tabes, e come tale essere assimilata alla compagna di rima, il “concime” (un caso esemplare di come una sola rima possa significare un’intera strofe e una visione del mondo insieme). Ovvero, come accade in Nemesi, “divino” potrà rimare con “intestino”. La corrosione e il dissolvimento del dannunzianesimo – eletto a pretesto quale orizzonte poetico illustre, nonché quale segno, avrebbe detto Sanguineti con Foscolo, della “qualità dei tempi” – avviene dunque segnicamente, ricorsivamente ed eufonicamente: per tramite di rimandi criptati, di messaggi subliminali, di isotopie sonore e di citazioni diluite in prospettività lungo versi anche non immediatamente contigui.

Con Gozzano si verifica una irriguardosa inosservanza delle attribuzioni finora accordate alla letteratura e una sua relativizzazione (“accordavo le sillabe dei versi / sul ritmo eguale dell’acciotolio”, Felicita), come negli ormai proverbiali versi appartenenti a L’altro, che rimandano alla diversa poetica crepuscolare che più o meno esplicitamente, e non senza settarietà, postula enunciati prosaicizzanti e in dimessità di accento, alla stregua di pronunciamenti di un vate minore:

Buon Dio, e puro conserva
questo mio stile che pare
lo stile d’uno scolare
corretto un po’ da una serva.

Al di là di funzionali dichiarazioni di poetica (ed è davvero singolare come in pochissimi versi vengano insieme demitizzati l’identità di Dio, le sue finalità sovrane e l’essenza della poesia, la quale poi in tono tra l’ironico e il blasfemo riacquisirebbe la dignità di una richiesta da inoltrare a Dio), Gozzano è il primo a non prender troppo sul serio la letteratura. Esperire di essa come esistenza parallela alla vita reale equivarrebbe a confondere la vita con l’arte e all’assegnazione di una presenza a una realtà fittizia, circostanze che rischiano di ingenerare una patologica inclinazione verso l’astrazione dalla vita, e, peggio ancora, di promuovere l’emulazione di gesti e di visioni del mondo. L’essere coscienti della divaricazione tra vita e letteratura ci immunizza dal contagio della degenerazione del sublime letterario: la dimensione della tabes è oltrepassabile, ma solo in un’ottica in cui la vita e l’arte vengano concepite come due sfere incomunicanti delle quali si riesca ad avvertire lo scarto. “Sappiamo anche troppo bene chi sono i poeti, e ne sorridiamo, come di amabili giocolieri” scrive Gozzano nel noto articolo giornalistico del 1911, Intossicazione, dove commenta il volgare delitto di cui il giovane Stefano Ala, in seguito a una “intossicazione letteraria”, si era reso colpevole per aver presi alla lettera certi infingimenti poetici non criticamente assimilati. Un’opera letteraria in particolare, Postuma di Lorenzo Stecchetti (uno degli pseudonimi di Olindo Guerrini), ha sortito degli effetti su di lui, quasi fosse stato un essere vivente a persuaderlo fino al segno di riuscire, dice Gozzano, “ad armare sul serio la mano di un montanaro adolescente”. Se si afferma che padroneggiare il fatto estetico distolga da quel pericoloso attaccamento a una realtà illusoria la cui qualità astrattiva finirebbe per soppiantare e vincolare la vita vera, non è un controsenso che Gozzano seguiti a intrattenersi con la letteratura praticata come controcanto alla propria esistenza o come suo visibilizzarsi? In cosa consisterebbe allora la sua “fede letteraria”? Intanto, in un consapevolissimo esotismo spirituale tra vie antérieure e invitation au voyage, ma nell’altrettanto persuasa cognizione di star bluffando anche con la vita. Poi, e soprattutto – scriveva Sanguineti nelle sue fondamentali indagini e letture gozzaniane – nella scoperta dell’autonomia dell’estetica: nel disingannato orizzonte della modernità, la vita è un fatto e versificare è sogno; ne conseguono la nostalgia per quel tempo in cui la vita possedeva l’autorità di attingere, con mimesi vera e non fraudolenta, allo splendore dell’arte e la coscienza dell’insanabile secessione tra la vita e l’arte, “l’impossibilità per la vita di raggiungere il sublime dell’arte, l’impossibilità per l’arte di istituire un sublime autentico”.

Il rapporto vita-letteratura è vissuto da Gozzano antiteticamente, perlomeno assume una configurazione oltremodo diffratta. Ora, se anche egli è egualmente convinto, sulla scorta di Oscar Wilde, che fosse la vita ad imitare l’arte e non viceversa (“Non la vita foggia la letteratura: la letteratura foggia la vita. Di questo mimetismo siamo un po’ vittima tutti”, scrive Gozzano in Intossicazione; e in Torino d’altri tempi: “le cose non esistono se prima non le rivelano gli artisti”), non esita ad attraversare l’antinomia dell’inversione dei valori insita nella gradazione dell’esteticità dell’esistenza. E in una delle prose indiane (La Torre del silenzio), dopo aver puntualizzato che non si sta argomentando del “titolo di un volume di versi decadenti”, Gozzano racconta che le Torri esistono da tempo immemorabile, “intatte” come il resto di quell’India britannica che appariva proprio “come nei libri e nelle oleografie”. La questione fondamentale, posta in termini anche non strettamente estetici, è allora misurarsi con questa realtà ormai letteraturizzata, di fronte al cui assetto, egli dice, “il letterato è esposto di continuo al rammarico acuto, al dispetto indefinibile che si prova quando la realtà imita la letteratura”. Forse perché, in ultima istanza, l’arte anziché la vita imiterebbe la morte? “Non c’è altra salvezza – continua Gozzano nel racconto indiano – che uscire dall’albergo senza guida e senza amici, perdersi nella vasta metropoli luminosa” incontro alla vita e alle novità della strada.

L’India, per l’ultimo, estremo Gozzano (quasi come per Forster e per Pasolini), fu arte e morte, evasione e dissoluzione, aspettativa di ritrovare la propria vita, di rinnovarla dal profondo tornando alle origini della civiltà e, insieme, avversione, estraneità e straniamento rispetto a un mondo così remoto, vividissimo eppure congelato dal tempo e dalla memoria storica, e ormai stilizzato e cristallizzato da un immaginario culturale (Marco Polo come Pierre Loti) che inevitabilmente precede e condiziona ogni diretta esperienza. Esperienza fortemente persuasa, come sempre, dalla letteratura, se Gozzano stesso asserisce, circa l’isola di Goa: “Mi spinge verso di lei un sonetto di De Heredia”. Taj Mahal, il grandioso monumento alla morte e all’immortalità, al disfacimento illusoriamente scongiurato, o pietosamente celato in tenebre devote, e all’amore che si voleva eterno, alla passione terrena e insieme all’elevazione mistica, è ancora e sempre arte, artificio, simulazione. E la danza della devadasi, la prostituta sacra, divina, sacredotale, rito pervaso anch’esso, insieme, di sensualità e misticismo, appare tuttavia contemporaneamente, agli occhi dell’occidentale, alonata da un’aureola di estraneità, di lontananza, di alterità incolmabile. L’arte compie e invera la vita, e, insieme, la morte, emendandole e colmandole di significato; ma proprio per questo le rende lontane da noi, dal nostro vivo e vero sentire: in un certo senso, le reifica, le aliena, le strania. Da questa ambiguità Gozzano non seppe o non volle mai liberarsi del tutto. E forse proprio in questa perpetua indecidibile e ipnotica oscillazione sta l’opaca e polverosa vitalità ed esemplarità del suo dire. L’arte è, e al contempo non è, persona viva: vita sì, ma conversa in non-vita, e come tale avvertita, respinta e insieme vagheggiata e presentificata. Nella prospettiva gozzaniana, il velo della nostalgia e dell’ironia scongiura ed esorcizza, almeno esteriormente e fino a un certo segno, questo intimo conflitto dal divenire angoscia e tragedia.

“L’effetto delle opere è spesso quello delle persone morte” – leggiamo al paragrafo “evocazione” in un fondamentale e fondante lavoro di Maurizio Ferraris sull’ontologia dell’arte, La fidanzata automatica. Dove di seguito si afferma che “avere a che fare con la morte” significa “avere a che fare con l’arte, e viceversa”. In particolare, l’opera – sebbene entità fittizia – è vocata a suscitare delle emozioni e dei sentimenti autentici, contiene e proemana qualcosa di magico tanto da assomigliare a una persona, è un produttore di segni e comportamenti che si pone quasi come un essere dotato di volontà e natura proprie e fattive: in altre parole, dice Ferraris, l’opera d’arte finge di essere un soggetto che emette propri messaggi e veicola emozioni, ma solo nella prospettiva del fruitore, perché essa non reclama né corrisponde i sentimenti che è atta a generare. Opere e citazioni che fittamente trascorrono nei versi di Gozzano – versi che emblematicamente Giuseppe Villaroel (poeta obliato, ma sensibilissimo, classico-moderno) definiva a mosaico – sono molto prossime a questa vista: il loro linguaggio evoca trame quintessenziali e suscita in lui delle emozioni alla stregua di autentiche interlocutrici. Ma a differenza del giovane e ingenuo Stefano Ala, Gozzano, a suo dire, è un “cittadino evoluto e raffinato”, nonché immunizzato dal suo stesso ambiente, e in grado di dominare il paradigma dell’assimilazione opera-soggetto, che si ridimensiona nell’avvertimento della finzione e della, ovvia, indifferenza dell’opera verso di lui. D’altro canto, anche i grandi ritratti gozzaniani producono su di noi un analogo effetto: Felicita, Carlotta, Totò Merúmeni, la cocotte sono tipi memorabili da farsi passare per persone, benché non opere, ma parti di opere, figure attanziali del discorso letterario.

Quando non hanno statuto parodico, gli inserti o mosaici riferiscono nella lavorazione dei versi un peculiare linguaggio che Gozzano sente come rivolto a lui: le opere letterarie sembrano esprimersi a lui, che reagisce come fruitore con la complice contestualizzazione di una risposta intimamente implicata con la propria esperienza. Non siamo dunque di fronte a dei plagi o a un citazionismo parossistico, oppure a parassitismo letterario, né, in fondo, la pratica del cesellare versi mirerebbe a uno sterile recupero di forme archeologiche. La memoria dà luogo a madeleines letterarie, e anche attraverso la ricezione delle rivelazioni delle opere può avvenire la decifrazione del tempo e di frazioni dell’esperienza, insieme al propedeutico rinvenimento dell’io profondo – quell’io che fa astrazione sia dal soggetto sociale che da quello biologico – non solo dell’arte. Tanto che Gozzano avrebbe potuto dire, con il Proust del Tempo ritrovato, che “la vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta, è la letteratura”. Nel rapporto arte-vita egli mostra infatti di essere – se la cosa fosse stata possibile – molto più proustiano che wildiano. Cos’erano il tempo anteriore e l’esperienza, per Gozzano, prima di ritrovare la pattinatrice di Invernale o la cocotte?

La poesia di Petrarca è quella che in Gozzano più incide la sua autentica ispirazione: Petrarca è l’emblema dell’artifex che si sente soverchiato dalle istanze strumentali della contemporaneità (“il suo Petrarca!”, quello di Totò Merúmeni, la cui vita “si ritolse tutte le sue promesse”, dove il “ritogliere” è un mot-clef del Canzoniere: “Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro”, “Dio, che sì tosto al mondo ti ritolse”, per fare qualche esempio). Statisticamente preponderanti, gli inserti danteschi vengono ricontestualizzati a libito dello scriba in un dettato che oscilla tra adesione, blasfemia e transfunzionamento. Ma Dante risuona nelle Farfalle trattenendo i suoi significati originari che concorrono a definire la gozzaniana posizione nei confronti del mistero della metamorfosi, alla cui delineazione cooperano Pascoli, D’Annunzio e, eminentemente, Maeterlinck.
Parla appassionatamente a Gozzano la storia di Paolo e Virginia (rifusa in versi che non piacquero alla Guglielminetti per il loro freddo “virtuosismo”, o forse perché tramitanti l’ennesima ammissione, da parte del poeta, della propria interdizione sentimentale) del romanzo popolare di Bernardin di Saint-Pierre: quest’opera sembra davvero rivolgersi a lui. Indipendentemente dalla intonazione alcyonia, e comunque dannunziana, l’attacco “Io fui Paolo già” ci introduce in una dimensione in cui l’opera d’arte si atteggia a persona fino a promuovere un’empatia nel contemplante “chino su quelle pagine remote”, una sua intima partecipazione che sconfina nell’immedesimazione, nel destinarsi in Paolo:

Splende nel sogno chiaro
l’isola dove nacqui e dove amai;
rivedo gli orizzonti immaginari
e favolosi come gli scenari,
la rada calma dove i marinai
trafficavano spezie e legni rari…
Virginia ride al limite del bosco
e trepida saluta…
Risorge chiara del passato fosco
la patria perduta
che non conobbi mai, che riconosco…

Ma con l’intervento del successivo, adulto e consapevolissimo, riconoscimento della distanza, che nella strofe conclusiva del testo si qualifica anche come relegamento nel déjà vu vetrificato di una irripetibile possibilità di amare. Interdizione inoltre allusa dalla disposizione seconda, letteraria, con cui viene evocata la tempesta che travolge la nave di Virginia: “una tempesta bella e artificiosa / come il Diluvio nelle vecchie tele”. E l’elenco delle esemplificazioni in tale direzione potrebbe continuare.

L’arte si accorda con la morte anche perché, nella visione gozzaniana, della vita non potrebbe indicare che orientamenti via negationis. Allora, l’arte stessa, oltre che vera vita, è vera morte, forse vera vita-morte, vera vita in quanto vera morte: epifania essenziale di quella mortalità, di quella condizione mortale che è, con tragico paradosso, essenza dell’essere nel mondo. Con la sua immutabilità, la sua compiutezza, la sua staticità non modificabile che dal materiale, cosale disfacimento, dalla disgregazione, dalla corrosione del tempo (quella da cui sono avvolte, segnate e minacciate anche le “buone cose di pessimo gusto”), con il suo pirandelliano, fisso e quasi inebetito, per quanto possa a volte essere sublime, “silenzio di cosa”, l’arte rappresenta, per usare un’espressione montaliana, “la vita quale essenza”, la vita al suo grado più alto di essenzialità emblematica, anzi quasi una più che vita, mehr als Leben diceva Simmel, proprio in quanto cristallizzazione estrema e postrema della mortalità e della fine. L’oraziano monumentum è anche sepolcro, e il ritratto consentirebbe al poeta di restare “sempre ventenne” proprio in quanto inerte, inorganico, nato-morto e nato dalla morte, dalla medusea vampirizzazione del soggetto, e perciò non sottoposto al divenire e al disperdersi.



(Elisabetta Brizio, da I Am Waiting: “yacht: cocottes”, alterità e discronia nei versi di Guido Gozzano, in Gozzano dopo cent’anni. Antologia delle opere per l’anniversario dei Colloqui, Nuova Provincia, Imola 2011)


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domenica 20 marzo 2011

Versi di Giselda Pontesilli per un nuovo umanesimo



Ho il piacere di presentare alcuni versi di Giselda Pontesilli, i quali, con uno stile melodioso e insieme colloquiale, profondamente triestino, e in un'ottica memore del grande umanesimo italiano di matrice petrarchesca, tratteggiano l'utopia, in questi tempi un poco grigi, di un possibile nuovo umanesimo, di una humanitas intesa come spazio cordiale e civile di dialogo e di pacato confronto, di tiepida, serena e rinfrancante dimestichezza.
Questo sentimento fondamentale e unificante accomuna e fonde le tre sezioni, apparentemente eterogenee, del testo: una dimensione di identità e di appartenenza che può essere rinvenuta nel dialetto triestino (lingua d'adozione, eppure lingua del cuore, dell'umanità e del comune sentire) o nei luoghi ancora vivi dell'infanzia così come, con eguale intensità, ma su scala più vasta e remota, nell'eredità culturale petrarchesca: humanitas, dunque, nelle sue sfaccettature e sfumature più diverse, dalla soggettività esistenziale fino alla più nobile e impegnativa matrice culturale.


I


Ci si ricrea ancora qui in Italia

grazie a conforti minimi, ma umani

non si può stare senza stare ora

qualche volta

come una volta

era naturale:

in modo, come dire! colloquiale

ma lo possono fare

solo persone rare, ora,

provate, eredi delicate

delle tante ricchezze

del passato: di chi è stato

cioè umanamente risplendente

e ora è,

e è ricordato.


Ho constatato questo

anche recentemente,

a Roma, giorni fa,

dove anni fa c’era sempre un conforto

normale, naturale nel negozio

mio di mio padre, che è chiuso ora,

e invece c’è ancora

perché qualche persona

che veniva allora al negozio

ci viene, come dire! anche ora:

qualche signora ora viene a stare

a casa, da mia madre,

dopo pranzo, o prima, o la mattina

prima di andare al forno, o in chiesa,

o al mercato.


E se io torno qui qualche giorno

è bello per me, è essenziale

trovare queste signore

a parlare, sentirmi

riconoscere, salutare,

chiamare, umanamente,

per nome.


II


Dice Petrarca: “Questo nostro tempo

mi è sempre dispiaciuto”.

“Giovani” –dico- “giovani

intelligenti d’Italia:

non dispiace anche a noi, il nostro tempo?


- dunque in questo, siamo come Petrarca,

senza ancora saperlo?


E sappiamolo! ora, prendiamo esempio

dal suo cercare amici tra gli antichi:

amici vivi, antichi

di due tipi: classici e medievali,

ma è un solo tipo, in fondo,

ce ne rendiamo conto con Petrarca

che li ha uniti,

come prima di lui li unì Agostino,

come li uniamo noi, oggi,

ci uniamo!


E solleviamo! questo nostro tempo

che ci dispiace tanto!


perché è capace! un giovane, di stare:

- come è stato Petrarca, come Agostino -

se ha un amico vicino:

e un solo amico! con lui –pochi


ma che pensino ora, fiduciosi


a Valchiusa, in Brianza, ad Arquà

si rifà in pochi, in due, l’unità:

noi

con Petrarca –e Agostino

-e gli antichi”.


E quando è, una cosa

non c’è cosa che le resista

quando è una ad Arquà

vola in Europa

e solleva riposa.


III


Oggi ho parlato, per la prima volta,

dialetto triestino:

come lo parlano tra loro i professori,

al liceo dove insegno

e la preside anche, familiarmente,

come lo parla la gente nei negozi

o per strada, e proprio adesso –li sento-

operai

sul tetto di questa casa,

e anche Elisa lo parla, la mia vicina

con l’architetto Cervi al quarto piano,

così anch’io l’ho parlato, finalmente:

spontaneamente, senza farci caso

ma guarda caso

con nessuno di loro mi è riuscito

solo con uno, solo, con uno solo

d’un tratto, ho parlato:

con un uomo all’antica, molto anziano


che sta seduto muto, smemorato

in un suo negozietto

piccolissimo, spoglio,

dove nessun cliente ho mai trovato

io l’ho trovato

perché devo e amo

camminare in salita

è necessario è salutare andare

per me, oggi e ogni giorno,

in questa strada ripida verso San Giusto

dove c’è il suo negozio

e correre, quando arrivo in cima,

lungo viale della Rimembranza,

ogni giorno di più, più facilmente,

per poi fermarmi a lungo a guardare

una lapide bianca, speciale

in cui tra tanti nomi io distinguo

tutti


con quello di Scipio Slataper.

mercoledì 2 marzo 2011

UN AMORE NELLO SPECCHIO DELLA LETTERATURA: GUIDO GOZZANO E AMALIA GUGLIELMINETTI



(ritratto di Marco Reviglione)



Riproduco, per iniziativa e con la collaborazione di
Elisabetta Brizio, una lettera
di Guido Gozzano ad Amalia Guglielminetti,
che del poeta dei Colloqui fu amante
sfuggente, confidente finissima, in certa
misura (malgrado l'estetismo dannunziano
da cui ella, a differenza dell'amico, non
seppe mai svincolarsi del tutto) compartecipe
di un destino letterario.

Destino non solo intriso di letteratura, ma
addirittura in essa quasi integralmente
risolto, compiuto, dissolto, riflesso anche
dalle missive (esse stesse squisitamente
letterarie ed estetizzanti, ricolme di
reticenze, allusioni, ammiccamenti,
incompiuti e tronchi aneliti, tracce
vibranti eppure opache di un desiderio
affidato alla parola e alla carta nella
misura in cui, quasi lucrezianamente, non
poteva trovare pieno appagamento
nell'intreccio delle membra, nell'unione
dei respiri), le quali, quasi come in un
carteggio umanistico, non sanno mai scindere
l'autenticità (se mai vi fu) del sentimento
dalla finzione, dalla stilizzazione,
dall'infingimento, dalla posa artistica.

Si coglie l'occasione per riportare alcune
liriche della Guglielminetti, alla quale
non ha certo giovato l'etichetta di dannunziana
estetizzante, e che si rivela invece,
ad una lettura attenta e immune da preconcetti,
voce di rilievo nel panorama dell'estetismo
e del simbolismo italiani, capace
di concettualizzare e stilizzare
con notevole lucidità, nella lirica
omonima, il “silenzio”, la reticenza,
l'indicibile, il muto e raffinatissimo
velo della censura psichica, che
fascinosamente e torbidamente avvolgevano
pulsioni irrisolte, e per l'epoca
inconfessabili a chiare lettere.

In pari tempo, la fantasmagoria di gemme,
gigli, perle, veli e guanti filigranati,
il mormorio ombroso di mute armonie,
preghiere sussurrate, segreti auspici,
l'intrico ingegnoso e quasi mai goffo
delle analogie e delle metafore, gli audaci
desideri non detti, ma ancor più intensi,
amplificati, nell'indiretta e remota
evocazione, rivelano una frequentazione
non banale, e abilmente dissimulata nel
gioco allusivo, della moderna
poesia francese, da Baudelaire a Mallarmé.
(M. V.)





GUIDO GOZZANO AD AMALIA GUGLIELMINETTI


Vi siete mai domandata ciò che succederebbe se io non
dovessi esiliarmi? Io sì. Succederebbe più o meno questo.

Un giorno, un bel giorno, io sarei a casa vostra,
nel vostro salotto, con Voi.
Sarebbe un crepuscolo, un crepuscolo
della prima primavera, in febbraio, mettiamo.
Da molte ore io sarei con Voi; avremmo
parlato molto, avremmo esaurito ogni
pretesto non volgare di conversazione. Da qualche
istante si tacerebbe. L'ombra si
farebbe più densa. Voi vi alzereste per
accendere il lume. Io vi pregherei di no,
vi tratterrei seduta col gesto. Si farebbe
notte, più notte, nel quadrato della
finestra, rabescato dalle cortine, il
vostro profilo apparirebbe appena.
Solo a tratti, l'asta scintillante
d'un carrozzone elettrico illuminerebbe la
penombra per un secondo. E in quel
secondo il vostro volto apparirebbe e
scomparirebbe come una visione non sostenibile.
Allora io, che avrei le vostre mani
nelle mie mani, crederei di sognare, e
inconscio irresponsabile come in un
sogno, mi chinerei sulle vostre dita,
salirei lungo le falangi con le labbra, fino
a mordervi le vene del polso. Voi mi
sollevereste la fronte, dicendomi con rampogna
indulgente: Siamo savi!
Ma, per un evento sciagurato, il mio
volto sollevandosi si troverebbe all'altezza
della vostra spalla; io, nell'ombra,
non me ne accorgerei: e credendo di
abbandonare la guancia contro la
spalliera del divano, incontrerei
invece la mollezza d'una trina o il gelo
d'una catenella. Istintivamente, sempre come
in sogno, la mia bocca si troverebbe
dietro il vostro orecchio, alla radice dei
capelli fini, e vi morderei alla nuca
(il morso è il mio vizio preferito).
Allora voi vi alzereste di scatto, accendereste
il lume: e due cose potrebbero
accadere. O mi fareste accomiatare dalla
vostra donna, come nelle commedie,
col tradizionale “accompagna il Signore”.
E resterei male.
O mi perdonereste dopo lunghe condizioni.
E resterei male, ugualmente.


(12 novembre 1907)



POESIE DI AMALIA


L'ANTICO PIANTO

Quindi prosegua per cammini ombrosi,
a fior di labbro modulando un canto
che per me l'altra notte mi composi.

Poiché talor non piango io il mio pianto,
lo canto, e qualche mia triste canzone
fu come il sangue del mio cuore infranto.

Tempo fu che le mie forze più buone
stremai in canti a' piedi d'un Signore
che m'arse di ben vana passione.

Io piangevo così note d'amore,
come la cieca in sul quadrivio, volta
al sole, canta il suo buio dolore

e non s'avvede che nessun l'ascolta.


AL MARE

Al mare getta un dì sogni ed amori
come l'altra sua amante solitaria
gli getta fra due nubi fiori ed ori.

E ride con la sua anima varia,
mentre le spume in favolosi aprili
fioriscon gigli fatti d'acqua e d'aria.

Ella getta nel mar tutti i monili
dei quali, per piacere a sé, si para
la stoltezza dei cuori giovanili.

E ride ancora, ma con bocca amara.
Sul bene ch'ella non possiede più -
sembran le spume i fiori d'una bara

e un poco di sé stessa è ormai laggiù.


UN ADDIO

Folle è lasciarci, tutti accesi ancora
di desiderio, ancor pronti a godere
di tutto ciò che l'un dell'altro ignora.

La volontà che tiene prigioniere
le nostre giovinezze le flagella,
per farle in solitudine tacere.

Ma più le volge incitatrice a quella
gioia non mai gioita, che la morte
pur ci farebbe nel suo riso bella.

Più dolce sorte è la comune sorte :
darsi con umiltà l'un l'altro, ciechi.
Abbandonarsi al vortice più forte

e dirsi dopo un breve addio, senz'echi.


SILENZIO

Ogni pensosa vergine si cinge
del suo silenzio, come d'un velario,
e d'ombre un ondeggiar tenue e vario
con fantasia sottile vi dipinge.

O vi s'impietra, irrigidita sfinge
in muto enigma. O al suo cuor solitario
ne tesse inviolabile sudario,
fra aromati d'oblio ve lo costringe.

Grave è il sudario del silenzio, e il cuore
che vi si avvolge desiosamente
più non si desta da quel suo sopore.

Pur, se a scoprirlo, con ben caute dita,
ella s'attenti, ancor vede il dormente
gemere sangue dalla sua ferita.

mercoledì 9 febbraio 2011

Intergruppo-Singlossie, "Ultimi tattili ai margini della memoria" - audiovisivo di Vira Fabra






Presento, per gentile concessione, il film Ultimi tattili ai margini della memoria, della compianta Vira Fabra, valente pensatrice, teorica del Movimento "Singlossie" (noto anche come Antigruppo, e/o Intergruppo, Siciliano), che, nel contesto variegato e convulso delle avanguardie degli anni Sessanta e Settanta, si proponeva, a di là delle etichette e degli schieramenti, e sulla scia del Libro assoluto e totalizzante sognato da Mallarmé, di abbracciare e far interagire immagine e parola, esteriorità e significato, facendo propri, con mediazione critica e disgregante, ma insieme con lucida volontà costruttiva, modalità e linguaggi della comunicazione di massa, traslati però, e piegati, a nuove, stranianti significazioni.

All'avanguardia si è spesso rimproverato di non aver prodotto opere all'altezza degli intenti, delle teorie, dei proclami-programmi. Nel caso dell'Antigruppo Siciliano, questa dicotomia perde significato. Non c'è più distinzione fra teoria e pratica, fra riflessione estetica e lavoro artistico. Anzi, il discorso sull'arte è esso stesso arte, o addirittura più-che-arte, arte contemplata, e insieme doppiata e sovrastata, dalla più alta autocoscienza; la prosa in cui si esprime la concezione teorica è essa stessa genere della letteratura (la scrittura di Vira Fabra era, ed è, prosa splendida, iperdotta, fittamente citazionistica e insieme altamente suggestiva ed evocativa). Semmai, il gesto artistico è occasione, o pretesto nel senso più nobile e fattivo, per il discorso teorico, in cui l'arte stessa trova compimento e culmine.

Di tutto ciò è dimostrazione proprio il film che presento. Immagini immobili (ma spesso pervase da un'interna dinamicità cromatica, da un'implicita tensione vitale e creativa), accompagnate dalla voce fuori campo, pacata e ferma, che, interagendo a tratti con un sottofondo di free jazz - musica indeterminata, contaminata e fluttuante come la scrittura e l'immagine dell'avanguardia -, conferisce alle immagini stesse, impercettibilmente, palpito, pulsazione, vibrazione. Un modo di fare cinema (e insieme di decostruire, di ripensare, di rimettere in discussione dall'interno, il discorso filmico) che può riallacciarsi, mi pare, a certe tecniche del cinema situazionista di Guy Debord e dell'underground italiano (ad esempio Clodia-Fragmenta di Franco Bròcani), facendo interagire parola, suono, immagine, rifiutando le logiche della spettacolarità superficiale e sollecitando, al contrario, brechtianamente, le facoltà critiche dello spettatore.


Matteo Veronesi

mercoledì 29 dicembre 2010

MARIA GRAZIA LENISA, "ALTRA ANNUNCIAZIONE"

Maria Grazia Lenisa, una delle esponenti di primo piano, negli Anni Cinquanta, del Realismo Lirico, movimento fondato da Aldo Capasso con l'intento di recuperare una meditata e armoniosa naturalezza classica, lontana sia da certi eccessi di cerebealismo ermetico, sia dal realismo più crudo, corposo, materico, sviluppò poi, nel corso degli anni, una sua vicenda critica e poetica che non si esita ad annoverare fra le più vive e complesse del secondo Novecento italiano, segnata da un'assidua volontà di ricerca espressiva e dal ripensamento di una variegata serie di modelli, da Rimbaud a Luzi a Zanzotto - per un discorso che fondesse riflessione, narrazione, lirismo, epica, frammento, per un verbo poetico che fosse davvero, come voleva Rimbaud, "accessible à tous les sens", a tutte le sfumature percettive, così come aperto a tutte le possibili risonanze di significato.
La poesia che riprendo qui pare riassumere tutta una costellazione di temi e motivi, altissima e limpida: l'impregiudicata, assoluta identità, umana ed intellettuale, di donna libera in sé, fiera e viva della propria libertà, eppure immersa, per ciò stesso, nell'archetipo della Grande Madre (qui rivisitato in una chiave sia cristiana che pagana, fra la maternità verginale ed universale, la seduzione impalpabile e sorvrumana, di Maria e l'evocazione, remota, delle Ninfe delle fonti, datrici di purezza e di vita); e, in parallelo, i suoi due numi tutelari, Capasso e Bàrberi Squarotti, pronti e vigili il primo nel cogliere l'ispirazione idillica, naturalistica, più schiettamente classica e lirica, della prima stagione, il secondo nel sottolineare l'evoluzione in senso narrativo, sperimentale, anche iconoclastico, delle opere più mature e più vaste (cui i versi sotto riportati appartengono), in cui, un po' come in Luzi o, diversamente, in Zanzotto, due suoi punti di riferimento, il nucleo lirico originario, pur non rinnegato, si complica e si dispiega in misure poematiche, eppure frammentarie (totalità nel frammento, e viceversa).




ALTRA ANNUNCIAZIONE

Calda di gioco,
piedi nudi al sole,
ebano d'occhi lucidi nell'olio
di lampada innocente, t'arde
dentro un fuoco vivo.

Fremito
e fermento, ordinato in preghiera
per la luna, per il sole che avviva
la tua bruna pelle di cotto, anche
per la polvere ch'è cipria
dei tuoi piedi avventurosi.
Dio tra i cespugli si fa uomo,
ha l'occhio di un ragazzo rapito
a contemplarti, già studia un modo
nuovo d'accostarti.

Perchè tanto
frastuono, accatastare ali pesanti
d'uccello immortale?

Smette le ali
l'angelo dell'uomo, Maria sorride,
è voce dell'infanzia la familiare
loquela del gioco. Poi s'assicura
d'essere cercata dal dio nascosto
che la vuole intoccata.

Giuseppe è antico, stanco, senza corpo,
Maria beata la pianta da frutto.

Al primo mese il seme è goccia d'acqua
poi pesciolino palpita nell'acqua
del ventre. Mette i capelli al quinto mese
e brucia la bocca dello stomaco di luce.
Il ventre avanza, erompono le acque
ridenti della roccia. Porta del cielo
si è fatta donna...



…La prodigiosa Fanciulla di Udine è tante volte assorbita dalla sua personale angoscia (la inimicizia verso il tempo, la prescienza così precoce di tutta la potenza distruttiva del Tempo), e tante volte assorbita dalla sua consolazione principale, il contatto con la Natura, amata con una sana fresca innocente sensualità (che talora mette in moto nelle sue vene presagi e desideri d'amore, vissuti con non minore sanità e naturalezza).


[A. Capasso, Prefazione a Il tempo muore con noi]

Il discorso poetico lenisiano continua a stupire con l’emergere a poco a poco di valenze religiose, seppure al di fuori degli schemi, ne “L’Acquario ardente” e ancor più marcatamente con “L’agguato immortale”. Si parte dal “…tentativo supremo … d’incarnare davvero il nome di Dio nel mondo dei sensi…” per approdare allo “…spostamento dell’orfismo … verso le più ardue sorgenti, cioè come ricapitolazione della storia umana … dalla creazione alla tentazione … fino al nodo decisivo del riscatto in Cristo, cioè nella sofferenza, nel sacrificio, nella morte, ma vista nella luce di un amore che, come in tutte le esperienze di poesia mistica, ha forti impronte di carnalità.” Emerge un’idea della morte che ritornerà anche nei testi successivi, più dichiaratamente collegabili all’esperienza ambivalente, d’immersione totale eppure di distacco artistico, vissuta dalla poetessa in lotta contro il tumore al seno. Si tratta, appunto, di uno “sdoppiarsi della persona in chi scrive e vede e descrive la morte, e chi è nella morte, sì, inerte ormai, ma con dentro ancora il lievito immortalmente creatore della poesia…”. Segnala oltretutto il critico “ …alcuni testi dedicati a Maria che sono fra i più alti, nella loro estrema difficoltà e nella loro perigliosa audacia, di tutta la poesia alla Vergine, scritta fino ad oggi…”

(da Verso Bisanzio; passi delle prefazioni di Giorgio Bàrberi Squarotti)

sabato 25 dicembre 2010

UN NUOVO LIBRO DI SAGGI, DA GIOVANNI LINDO FERRETTI A MASSIMO SCRIGNOLI, DA D'ANNUNZIO A LUZI, FRA DECADENTISMO, ESISTENZIALISMO, DOCUMENTALITA'



Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio

Heptaplus. Quattordici esercizi di bibliomanzia, Gruppo L'Espresso, Roma 2010.

Quattordici saggi, disposti a dittico, su letteratura e filosofia, dall'antichità al postmoderno, fra semiologia, esistenzialismo, ontologia, ermeneutica.

Il titolo e il sottotitolo, in apparenza arcani, di questo libro alludono, da un lato, all'idea rinascimentale della coscienza culturale come settimo giorno della creazione, dell'autocoscienza o coscienza riflessa come compimento ideale dell'universo, come vasto silenzio in cui la realtà e il pensiero vedono ed inverano se stessi nello specchio della riflessione; dall'altro, all'antica (ma anche moderna: D'Annunzio «estremo de' bibliomanti») arte della bibliomanzia, della conoscenza profonda, in certo modo profetica, che si ricava, o che ci si illude (ma quanto vitale e salutifera illusione) di ricavare, dallo scrutare e dall'auscultare, senza schemi preconcetti (e anzi concedendo al mistero, all'engima, all'imponderabile, ciò che a sé rivendicano nel percorso della vita, della conoscenza e della creazione), la selva di segni della scrittura e del testo.

La cultura in questa società mediatica e frenetica, che venera la superficie e l'effimero, e che sembra andare serenamente, con un sorriso ebete, verso il niente che già vive senza rendersene conto, e anzi idolatrandolo come assoluto e come cosa salda, nell'insensatezza della politica, della burocrazia, della famiglia, dei riti, dei rapporti, di tutto non può che essere religione della Parola e del Libro, anche se ormai demistificata, senza approdi metafisici, o sfociante in un Essere-Nulla, in un'insensatezza che si ostina ad essere illusione del senso (fosse pure, quest'ultimo, luminosa e numinosa, e a suo modo preziosamente sapienziale, rivelazione di quella stessa insensatezza, di quello stesso vuoto sottostante, sub-stanziale).

Ideale eptacordio o flauto silvestre, erma bifronte e diffratta di un pensiero duplice ed unitario, discorde e concorde, divergente eppure ancorato ad un comune sentire, ad un verbo preverbale, ad un etimo ipofenomenico, noumenico (intreccio ordito tessuto di testi e di intertesti ove le parole «s’allument de reflets réciproques comme une virtuelle traînée de feux sur des pierreries»), questo esile libro, nato con discrezione, a margine di letture antiche e moderne, quasi “pensando ad altro” (ma anche e proprio questo è il senso del dire letterario come alieniloquium, della pronuncia poetica e filosofica come discorso altro, lontano, straniato, perduto e risonante dalla e nella provincia dell'essere), si pone, se si vuole, come sorta di arido e sterile atto di fede, come attestazione di una sfiduciata, eppure in certo modo segretamente, quasi disperatamente sentita, religio litterarum, come, infine, laico culto della parola, di un verbo non incarnato se si vuole, qualcosa di simile al discorso del Cristo morto e risorto che dubitava, in una delle allucinatorie prose di Johann Paul Richter, dell'esistenza di Dio.


M. V.


Il viaggio - come lo intende Ferretti - si delinea come metafora della vita: per definizione è un attraversamento contemplativo, le cui acquisizioni avvengono negli intervalli, nel lento soffermarsi, nell’indugiare, nel riflettere sulle presunte ovvietà, nel “perder tempo per trovare altro”, e non nel procedere direttamente e con lo sguardo distratto verso la destinazione. Anche gli esseri che incontriamo lungo la nostra esistenza, alla stessa maniera dei paesaggi (arcaici e talora quasi giotteschi, quelli ferrettiani, nella loro essenzialità archetipale), suscitano intimità o estraneità, anch’essi sono oggetto di un continuo rinvenimento, visto che “non tutti i viaggi si misurano in chilometri”. Reduce è anche (come effigiato nella circolarità disegnata dal cavallante nel manifesto di cui si diceva all’inizio) un resoconto spirituale dei viaggi che hanno incrementato l’esperienza di Ferretti: in Algeria, in Iugoslavia, in Russia, in Terra Santa. Ma soprattutto in Mongolia. Il viaggio in Mongolia costituisce la demarcazione, e ne colma il divario, tra l’esperienza punk e il ritorno al cattolicesimo. Il paesaggio mongolo è ora meridiana della consapevolezza e spazio germinale della decisione, per ciò che esso svela e per quel che di non effabile continua a nascondere:


La Mongolia somma il mio luogo più lontano e più intimo. Taglio profondo tra il prima e il dopo, non ferita ma punto di sutura tra tutto ciò in cui sono venuto al mondo e ciò che, nascosto, invece di seccare è germogliato. Da lì ho reimparato quello che ero sotto ogni incrostazione cumulata.

Mongolia è madeleine del fertile fondale dell’infanzia - età che trattiene tutta la ricchezza della vita: “infanzia, colta semina / germoglia disgelandosi” - e icona destinale della spettralità di un paesaggio dell’anima, solo in parte, e unicamente sotto il profilo materiale, perduto. Ora, se il tempo è irreversibile, c’è in noi qualcosa di perdurante che ci lega all’origine: “tutto passa e tutto lascia traccia”, dirà lo stesso Ferretti. Lì i ritmi di vita differiscono da quelli del nostro Occidente attuale e si rivelano retrospettivanti: lì risovvengono a Ferretti la nostalgeia, la pulsione non più differibile a tornare alla propria patria, auraticamente qualificata da tempi lenti e dal contatto con lo spessore della spazialità. Ma chi l’aveva creata, la Mongolia? Qui Ferretti esperisce di un tempo arrestato, quasi immobile, e di un iperpaesaggio emblema o paradigma, come fosse stato appena creato: e non può evitare di interrogarsi suo creatore. Evidentemente, decontestualizzando, “così vanno le cose, così devono andare” (Fuochi nella notte).

Ricordate quell’intervista del lontano 1984 - riportata da Pier Vittorio Tondelli in Un weekend postmoderno - ai CCCP-Fedeli alla linea in cui viene chiesta la ragione del loro schieramento a Est? La risposta era questa: “Scegliamo l’Est non tanto per ragioni politiche quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale preferiamo il duraturo; alla plastica, l’acciaio; alle discoteche preferiamo i mausolei, alla break dance il cambio della guardia.” Quindi una questione morale - già allora si ricercava una opzione possibile rispetto al tramonto dell’Occidente - oltreché di stile. Allora Ferretti parlava di “duraturo” da contrapporre a “effimero”, poi sarà la cultura asiatica a essere assunta a alternativa. In Mongolia steppe e paesaggi - arcaiche distese di perpetuità più che di desolazione - divengono luoghi assoluti dove anelare ad andare a finire la propria esistenza. La Mongolia viene esperita come plaga paradisiaca, per la vastità dei suoi spazi e per la presenza consustanziale degli animali, quello spazio ideale e non più precario che Ferretti reduce ha infine ritrovato nella propria terra di origine e nei valori perenni di un “natio borgo” eletto a ipostasi di uno status. In Reduce ritorna dunque anche la ferrettiana invariabile coerenza interiore: quel suo “campare” di parole, riflessioni su sé stesso e sui propri cambiamenti, la fiducia accordata alla matrilinearità come percorso di redenzione, il suo profondo sentirsi partecipe dell’esperienza dell’essere umano. La convinzione, inoltre di aver vissuto la propria infanzia in una età tardo medioevale alla quale è succeduta la devastante età moderna, nella quale già si insinua una arrogante e fatiscente post modernità. Rispetto agli anni Ottanta si delinea qui l’immagine di una esperienza individuale che si semplifica e si circoscrive, funzionalmente progredisce regredendo, e si fissa entro i confini di acquisizioni essenziali.


(da Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio, Heptaplus, Gruppo L'Espresso, Roma 2010)

Per ordinare il libro:

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