mercoledì 8 settembre 2010

DANIELE BARNI, POESIE

Presento, qui, dopo un silenzio abbastaza lungo, i versi di Daniele Barni. Versi che trasmettono davvero, a mio giudizio, una "secousse nerveuse", un "frisson nouveau", come dicevano Hugo e Baudelaire: quel brivido cerebrale che può insorgere e diffondersi all'ascolto della musica e della poesia davvero intense, significative, necessarie, sempre nuove per quanto possano essere antiche.
C'è, in questo dettato, lirico e insieme narrativo, qualcosa del Montale più maturo o del Luzi di Nel magma: non dico poesia narrativa o poesia prosastica, categorie abusate e un po' vuote; ma poesia che riversa e fonde e travasa il tempo nell'oltretempo, nell'assoluto della memoria, e muta i fatti, gli eventi, le sensazioni, i nomi, i volti, in emblemi destinati a permanere anche e proprio nella loro immortale volatilità, ad essere perpetuati nella mobile compiutezza di una tramatura fonica solida, necessaria, quasi una rete di "parole sotto le parole", che nasconde, quasi con pudore, nel mezzo e nell'interno dei versi, rime ed assonanze vitali, semanticamente motivate, scandite del ritmo dell'anima e del cuore più profondi ed impregiudicati, e tali da mettere in discussione, come sempre fa la vera poesia, la convinzione (essa stessa convenzionale) della natura convenzionale ed arbitraria del segno linguistico.
Le parole dialettiali non sono richiami gratuiti, note di colore, tratti bozzettistici o macchiettistici, o indizi di un realismo crudo e scabro. Piuttosto, quasi come nel Pascoli dei poemetti, le voci popolari, gergali, perdute, le “parole di legno” del vernacolo o del lessico rusticale sono tratti realistici, punte irte ed acute di intensità e vergine e albale autenticità espressiva ma, in pari misura, anche, per così dire, gocce di quell'oltretempo come cadute da lontano, filtrate e percolate, sottilmente, nel divenire, nel flusso temporale del discorso poetico. Versi, come si accennava, “classici”, di cadenza, a volte, leopardiana o cardarelliana ‒ e insieme divenienti, mobili, discorsivi, dialoganti, aperti ad una misura più ampia e imprevedibile come le circostanze, le contingenze, gli incontri del vissuto e dell'esperienza.
"Morte, madre automatica". "Dora, implora quest’ora che muore che non muoia". "Poi ritrovo l’odore della vita presente, / quest’odore di niente". "Fino a te, sullo stradario afoso dei ricordi".
"Cimitero d’istanti / è la memoria". "A Rimini, d’inverno, ritornai: / dal romorìo nebbioso della macchina / trasparivano all’alba / gli imperterriti muri dei ristori". /T/, /R/, /M/, /O/, i fonemi della morte, della ripetizione, del ritorno ‒ della matrice, della terra, della madre ‒ dell'ossessione, dell'ansia, del timore e tremore, sembrano ricorrere con particolare frequenza, filigranando l'ipnotico, necessitato ricorrere di determinate cadenze versali inscritte forse ab aeterno nel codice genetico del poetare in italiano: tessere foniche che sono, forse, la cifra verbale, l'icona sonora di una condizione esistenziale universale.


(M. V.)




DANIELE BARNI


FINESTRE



DALLA SEZIONE “A QUINTO DI GENOVA”


I

Morte, madre automatica,
noi dalla terrestre
placenta partorisci nell’ignoto. Imbavati
in questa pioggia amniotica,
viscida alle finestre,
sono lampioni, vie, palazzi le tue viscere.
Qui attendo, nella stanza,
scrivendo finché a volte la notte trasparisce,
i giorni della tua gravidanza
volubile. Ma senza pianto sarà il mio parto,
come il parto dei morti.

II

Dora, implora quest’ora che muore che non muoia.
A questa metropolitana noia
di stelle, ora che dormi, sulle spalle il sudore ti fibrilla:
sembra quasi la brina
riottosa e irrisoria che prima di mattina
me sgambettava, salvato da mio nonno, contro le rampe della villa
dove eravamo, come dicevano, a servizio.
Stasera, è il mio piacere quel tuo vizio
di piccola infedele. Più del buio
i tuoi boccoli bui
coprono ciò che scoprono spudorate coperte;
ma poi conserte le tue mani zitte,
pure forse a preghiera, quelle adombrano
durevoli e scabrose
di mia madre che seppero educarmi.
Nella disattenta ombra,
ora addenta il tuo sonno le polpose
trapunte, con lo stesso spensierato appetito
di me, quando la nonna con amorevoli armi
vinto aveva nel buio il bobo arabbito1.
Dora, non risvegliarti,
i tuoi assecondo assibilati scarti
e le più parti lascio a te del letto:
la tua si schiude ora miopia cobalto,
la stessa di mio padre che dall’alto,
come un ambiguo firmamento, prima dava a precipitare
il rabbioso rimbombo, presto poi si riempiva di segreto solare.
Contiene il parapetto
la stracca ebollizione del lungomare stracco,
da cui fino a qui evaporano abbagli di modernità, smacco
e vittoria di bulli in salegiochi,
e da lontano rochi
resti di combustioni di ristoranti e pizzerie. Che accanto
non mi sei più lo dice della doccia
la nebula vanesia che t’imboccia
come in un sogno o in un ricordo. Sei qui ora e sono io altrove:
fra poco sarai altrove
ed io sarò qui. Intanto
che ti rivesti quest’ombroso odore mi riscuote di cuoia.
Dora, implora quest’ora che muore che non muoia.

III

Di momenti volatili
la nostalgia è questo odore rado,
che captiamo impennati
sulle narici prima del suo svelto degrado.
In questa primavera
verniciate fragranti striano l’aria,
che ora appare una tempera
colante di più varii
ricordi: Rem2 ritrovo,
che quella notte mi rubò la doccia
con tutto il poco che di te avevo;
e l’acre stampa acrilica ritrovo
del primo sussidiario; e anche ritrovo
l’incenso che si arroccia3
in riccioli sul capo d’officiante benevolo.
Poi ritrovo l’odore della vita presente,
quest’odore di niente.


DALLA SEZIONE “VIAGGI E TACCUINO”

I

Sirolo, fino a te, sullo stradario afoso dei ricordi,
fin su al ristorante La Conchiglia, ho guidato,
come scabrosa balma incastonato
dentro la balza frettolosa a mare:
una fotografia d’allora sembra
ciò che nel parabrezza rimane incorniciato
non appena risosto nel sudato piazzale.

Lo stesso cameriere, ma con alcune tacche
di più su fronte e guance,
aggiunte nel frattempo
dal tempo, attenda svelto sul tavolo il menù,
da cui ordino ricordi senza prezzo di te:
il vino freddoloso nel quale erano sciolte le parole
che per vergogna mai
avevamo azzardate;
e la chiassosa ciáccia4, plasmata da falangi mascoline
della cuoca da allora imbalsamata,
con la quale la bocca m’impedivi
se parole cosmetiche le guance ti arrossavano.
Fra i pedalò, al tramonto, tratti a secca,
mentre intorno i colori tendono lentamente ad uno solo
e più e più di bar auto salegiochi si arroventa il crogiolo,
riunimmo spaventosi i nostri corpi
come le ritrovate metà di fantasiosi talismani:
recitammo l’un l’altro misteriche promesse,
quasi fosse la formula su scritta
di quella, per noi nuova, stregoneria d’amore.

Dimenticammo, io e lei, quelle promesse;
quell’amore perciò non è dimenticato:
non ha, come il cerino sulla grana, mai sfavillato strofinando sopra
la quotidianità, per poi finire spento bruciando fra le dita.


II

Sugli intricati labbri di lei quante le volte
che impigliato lasciasti per sempre il tuo respiro!
Quante, quante le volte
che dalla tua poltrona più fonda risalirono
aerei testamenti! Quante semmai le volte
che, alla fine dell’agra
meccanica d’ufficio, timbrate sull’ennesima
riga del cartellino, due cifre ti furono la prima
e la postuma anagrafe!

Sono i nodi i ricordi
con cui un filo di tempo rifacciamo da frinzagli5 discordi.

Cimitero d’istanti
è la memoria, e poco l’uno all’altro distanti
ci trovi marmi innumeri
con la tua foto, il nome tuo e i tuoi numeri.

III

A Rimini, d’inverno, ritornai:
dal romorìo nebbioso della macchina
trasparivano all’alba
gli imperterriti muri dei ristori,
lungo la stanca statale cadenzati
che claudica da qui fino alla riviera:
attraverso le rauche finestre i ragazzi vedevo
mentre, ubriachi, allegri e stufi di esserlo,
mandata giù in discoteca la notte con la bevuta,
fra tazzine e dolciumi
ignoravano il sonno.

Sognava ancora la città, blaterando,
quando arrivai: i semafori impettiti
ammiccavano pur sempre a vetture
inesistenti; e sopra i marciapiedi,
polverosi di brina,
le peste diseguali
suggerivano volti
e ghirigori di vite che lì s’erano
incrociate.
Incontro al molo, di gomene frangiato, mi fermai
e poi fermai il fragore: sullo specchietto
retrovisore traballò un istante
il fotogramma del passante; zitto,
acquattato più in là del muricciolo,
sussultava alle prime eliche il mare.

Ai riminesi il coro dei marosi
dispare nelle orecchie
come al supermercato le musiche:
loro il paesaggio appuntano
alla parete dell’abitudine.
Per chi in acrobazia
campa, poi, nel circo serio delle vacanze,
è la bassa stagione
l’ignominiosa rete sotto al trapezio dell’estate.
Eppure a me le seggiole annoiate nei locali
mogi e come stizzito il lungomare,
le giostre intirizzite
sull’insabbiata sabbia
erano cornici che mi sfiguravano d’ammirazione.

E lei mi camminò accanto, intrampolando6
sui tacchi riottosi,
con cui lottava per sembrare donna
neppure forse a diciott’anni.
Nel cellulare bisbigli nascondeva;
poi, scanditi dal metronomo calmo dei fianchi,
ritornelli ripeteva di suoi cantanti.
Sviò, all’improvviso, nel viale
che, simile a traiettoria di fuoco d’artificio,
schioppava in pirotecniche
viuzze. La seguii. Lontano scomparve
il litorale: stracche le saracinesche al vento
mugugnavano; davanti a birrerie
le bottiglie supine
allargavano gore; ancora vigili i lampioni
addensavano intorno a sé il giorno.

L’orizzonte sembrava uno schema aguzzo
di gronde, fra le quali s’incagliava il cielo.
L’ansia ti spintonava verso qualche dove, Rosa Tathiana:
con questo nome ti sentii salutare,
mentre nell’aria frusolavano7 gli allegri
moccoli dei bottegai di Piazza Tre Martiri,
quando, appena prima di presto, il mondo invitavano
nei loro bugigattoli:
gelatai, fruttivendoli, calzolai, pizzicagnoli,
reliquie in mezzo ad agenzie per viaggi,
a vetrine di mode, a esoterici, ancora,
negozi di computers. Quell’innesco di vita
ai miei occhi tramandò lo stupore
del cerino dal Dio scriccato8
nel buio originale.

Dopo, non so dove e da dove, una palazzetta,
scucita nell’intonaco liso,
come seduta a margine in sicura attesa,
su era balzata, mi ammirava educata
dai cent’occhi quadrati. Passai in punta
di fiato. Un terremoto mnemonico
sconquassava ogni cosa: sotto i piedi
la memoria, a strapiombo, si era
divaricata e,
buttandoci lo sguardo,
ne sondavo i cerchi
fin quasi puntiformi del cono. La pensione

trovai dove, bambino,
al guinzaglio zampettavo dei nonni
che, per due o tre settimane, sotto il sole caotico
a posare accorrevano le braccia contadine,
già bruciate dal gomito in giù:
tutto l’anno scorticavano un orto indurito,
barattato con qualche assegno di pensione,
perché la terra, dopo averli invecchiati,
diventata era il vizio.
Nella facciata i vetri incasellai su cui scoperto
avevo le misteriose ragnatele dei polpastrelli,
nelle quali rimasto ero per ore intrigato;
e la stanza in cui, vibratile di febbre,
a trovarmi una volta venuta era la paura:
allora di me, così lontano dalla cruna
del possibile, riso aveva il vecchio dottore e...
Anche tu ridevi adesso, Rosa Tathiana,
e un motivetto cantilenavi inaudito:
“Sono l’amor… te vorrò… te per sempre…”
Mi voltai. Sparita eri di già.

IV

Supino in quell’abbraccio floreale
sembravi, amico mio,
la statua dormiente
di giovinezza. Il prete,
pregando violento,
l’aria come incollata graffiava, ora, d’incenso.
Dei presenti una lacrima è bastata
a spengere la stenta
fiamma d’un’esistenza.


DALLA SEZIONE “A SANSEPOLCRO”

I

Nella finestra s’incornicia il quatto campanile di esatto calcestruzzo,
da cui l’altoparlante compunti scampanii prova a imitare
per convocare al loro divino titolare
i buoni dipendenti. Di sole qualche spruzzo
sul tetto della chiesa ora si asperge,
forse a benedizione. Poi… infrenate9 frenate: ecco parcheggia
il porsche color abisso vicino alla scalea, e a un tratto ne emerge
qui il cellulare con giacca fanatica, di là, dopo il mannaggia
devoto, con stivale che inciampa la frenetica pelliccia.
Lei bacia lui. Ma lui bacia il microfono comiziando in codice
borsistico di azioni, di opa e opzioni. Riattacca. Alcuni spiccioli
spiccio conta al barbone, che di vendere aspetta almeno il suo odio.
Poi di slancio, a lei accanto, compiaciuto,
attraversa la cruna all’Assoluto.

II

Momenti s’improvvisano che tutta la tua vita
cola in una lacrima
o sfioca in un sorriso senza labbra
o come ora nel pugno si compatta
che, afasico, rinserri per non cedere:
come le gore che il respiro quasi
fisso raggruma sul profondo video di questa finestrella,
si dissolvono subito i ricordi, stanotte, e anche i propositi…
La città ancora calda appena sfrigola
di fari e di lampioni, che alle stelle radenti si confondono
fra i capannoni e le ultime ciminiere laggiù
da dove, pur alzandosi, va avanti
a ritroso lo sguardo:
due pupille non bastano per contenere tanto
mistero costellato.
E vorresti al telefono riunirti a qualcuno, lei magari,
ma nessuno potrebbe fino a questa
intima latitudine raggiungerti.


NOTE

1) Bobo arabbito: Orco arrabbiato.
2) Marca di profumo.
3) Arrocciare: ripiegarsi più volte.
4) Focaccia.
5) Frinzaglio: pezzetto di filo, scarto di cucitura.
6) Intrampolare: incespicare, inciampare, camminando in modo precario come su trampoli.
7) Frusolare: il rumore che rilascia l’aria sferzata da un oggetto teso e sottile.
8) Scriccare: strofinare, anche scricchiolare.
9) Infrenare: ingarbugliare, aggrovigliare.

martedì 18 maggio 2010

ELISABETTA BRIZIO, "ARCHISINESTESIE PROUSTIANE"



“Divanetto emerso dal sogno fra le poltrone nuove e ben reali, seggioline rivestite di seta rosa, tappeto da gioco di broccato assurto alla dignità di persona dacché, come una persona, aveva un passato, una memoria, serbando nell’ombra fredda del salotto di quei Conti la tinta del sole preso attraverso le finestre di rue Montalivet (di cui conosceva l’ora non meno della stessa Madame Verdurin) e le porte a vetri di Douville dove l’avevano portato e da dove guardava per tutto il giorno, al di là del giardino fiorito, la profonda vallata della *** in attesa dell’ora in cui Cottard e il violinista si sarebbero accinti alla loro partita; mazzo di violette e di viole del pensiero a pastello, regalo di un grande artista amico, poi defunto, unico frammento sopravvissuto d’una vita scomparsa senza lasciare tracce, riassunto d’un grande talento e d’una lunga amicizia, ricordo del suo sguardo attento e dolce, della sua bella mano grassa e triste mentre dipingeva; ingombro, gradevole disordine dei regali dei fedeli, che ha seguito ovunque la padrona di casa e ha finito col prendere l’impronta e la fissità d’un tratto di carattere, d’una linea del destino; profusione dei mazzi di fiori, delle scatole di cioccolatini, dilatatasi sistematicamente, qui come laggiù, seguendo un’identica linea di fioritura: interpolazione curiosa degli oggetti singolari e superflui che sembrano appena usciti dalla scatola in cui sono stati offerti e continuano per tutta la vita ad essere ciò che erano all’inizio, regali di capodanno; tutti quegli oggetti, insomma, che è impossibile isolare gli uni dagli altri, ma che per Brichot, assiduo frequentatore, da sempre, delle feste dei Verdurin, avevano la patina, la morbidezza delle cose cui s’aggiunge, dotandole di una sorta di profondità, il loro “doppio” spirituale: tutto questo, sparpagliato, risuonava davanti a lui come una serie di tasti che risvegliavano nel suo cuore somiglianze amate, reminiscenze confuse, e – come, in una giornata di bel tempo, una cornice di sole sezionante l’atmosfera – ritagliavano, delimitavano, per entro il salotto attuale che punteggiavano qua e là, i mobili e i tappeti, si rincorrevano da un cuscino a un portafiori, da uno sgabello al respiro d’un profumo, da un tipo d’illuminazione a una predominanza di colori, scolpivano, evocavano, spiritualizzavano, facevano vivere una forma ch’era come la figura ideale, immanente alle loro successive dimore, del salotto dei Verdurin.” (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La Prigioniera, tr. it. di Giovanni Raboni, pp. 310-312).

È, questa, una di quelle frasi oceaniche (forse la più lunga della Recherche) in cui Proust, con la sua bergsoniana mémoire involontaire (involontaria nel suo spontaneo sorgere, eppure sorvegliata e consapevolmente e razionalmente invigilata nel suo precisarsi e nel suo prendere forma letteraria sulla pagina), sembrerebbe avvicinarsi alla scrittura automatica dei surrealisti, o al flusso di coscienza della narrativa modernista - eppure resta, in senso profondo, classico, e classicamente atteggiato, addirittura con qualcosa, nel periodare, della ciceroniana concinnitas. Classico, perché il suo procedere - la cui sospensione, la cui indecisione e fluttuazione quasi limbiche avevano, per Spitzer, qualcosa di mistico - è comunque regolato da euritmie, equilibri, armonie, persino (si ha come l'impressione, poi smentita dalle parti successive) da qualcosa di simile alla "legge dei cola crescenti" che tende a essere verificata in Cicerone: le frasi, perlopiù, si allungano man mano che ci si avvicina alla fine, che solitamente è risolutiva, illuminante, come liberatoria, in linea con i dettami della retorica classica, che raccomandava di numerose concludere, di chiudere armoniosamente.

In fondo, per Proust, lo specifico dell’arte è nello stile, ma in uno stile che si configuri come “visione”, laddove l’analogismo – che si sostanzia di analogie tra loro “confluenti” in una interazione spazio-temporale complessa e significativa - assume un ruolo predominante e dignità di norma suprema. Non per nulla, la grandiosa metafora baudelairiana e mallarmeana, ma poi, in chiave di più schematica riflessione linguistica anche wittgensteiniana, del “pianoforte delle parole”, su cui rapide si muovono le dita del pensiero e della conoscenza, è sottesa alla pagina sopra riportata.

Lo stile, per Proust, è un osmotico convergere di forma e contenuto, di una forma che non sia esterna o sovrapposta, ma condensata con i contenuti, una forma semantizzata, nella fattispecie, metaforizzante; e la metafora in Proust costituisce l’analogon retorico del mondo. Lo stile metaforico fissa rapporti interrelati in absentia e sottrae, dice Proust in Le temps retrouvé, le qualità comuni scórte tra due sensazioni “alle contingenze del tempo”. L’atto locutorio, nella scrittura letteraria, e nella Recherche in particolare, si trasforma in evento piuttosto che risolversi in un comune atto denotativo. In più luoghi Proust polemizza con poetiche che si attengono unicamente a intenzionalità mimetiche o, come egli specifica, “cinematografiche”, e in generale con tutti i limiti estetici del realismo, ambito dell’infedeltà della parola fedele.

Nella proustiana endiadi tempo-memoria il nesso analogico è l’equivalente scritturale della memoria involontaria, rispetto alla quale tuttavia fruisce del carattere di eternità dell’opera d’arte. L’analogia inizialmente è la forma elettiva del sentimento del tempo e del trattamento del tempo e solo successivamente acquisirà una funzione fondante. Nondimeno, Proust si inoltra nella Recherche perlopiù metonimicamente, altrimenti il racconto stenterebbe a procedere e sconfinerebbe nel deragliamento e nell’evanescenza diegetica senza quella imprescindibile concatenazione di ricordi che conservano una relazione di contiguità logico-materiale, in assenza della quale la storia – già di per sé labirintica, corpuscolare, nebulare, disseminativa pur nella sua unità - non sarebbe codificabile.

Se in un primo tempo il protagonista della Recherche associava prevalentemente ai paesaggi (Combray, Balbec) l’idea di una persistenza che si estendeva anche alle identità individuali, nel corso del racconto alle rievocazioni paesaggistiche sottentrano delineazioni di interni mondani che emblematizzano il ritmo metamorfico delle trasmigrazioni sociali e delle variazioni delle inclinazioni sessuali. Gli interni testimoniano il confluire della vita esteriore e di quella interiore, anche nell’ambito della specifica sfera umana, nel senso che spesso rivelano la soggettività naufragata nell’oggetto, nonché il carattere di chi ne ha usufruito. E seppure nell’accumulo qualificano la spoliazione condotta dal tempo.

Uscendo dal salotto definito “il teatro”, dove aveva appena terminato di ascoltare il Settimino di Vinteuil, il Narratore, nell’attraversare altre stanze, non può fare a meno di distinguere la presenza di alcuni mobili già visti alla Raspelière (un castello vicino a Balbec, affittato ai Verdurin) e di cogliere una certa familiarità tra l’atmosfera della casa Verdurin e quella del castello (“un’identità permanente”, dice il Narratore).

L’anziano professor Brichot mostra al Narratore il salotto dismesso che dava in rue de Montalivet: il Narratore intuisce che Brichot, più che dalle seduzioni dei nostalgici referti della retrospezione, era attratto dai ben più imperiosi codici extracontestuali, vale a dire dai segni del ruolo inconsapevole che aveva interpretato in quel luogo, dall’aura elegiaca della “parte irreale” della stanza, della quale, scrive Proust, “in un salotto come in tutte le cose, la parte esterna, attuale, controllabile da chiunque, non è che il prolungamento” (e non la spiegazione). Brichot sentiva nel richiamo delle cose e delle loro esalazioni l’incremento di valore aggiunto dalla componente introiettata, interiorizzata, ora “divenuta puramente morale”, che esiste ancora solo per chi di certi ambienti e della vita che ha contribuito a dar loro espressione ha avuto esperienza, e che è entrata a far parte di lui, morta al mondo esteriore ma non alla sua anima, e che tuttavia lui non può mostrare - ma che lo autorizza comunque a dire, senza ombra di snobismo, che gli altri mai potranno avere idea di come erano quelle cose - perché egli è l’unico ad avere il privilegio di vederla. Questo lato delle cose, dice Proust, può sopravvivere unicamente solo attraverso il nostro pensiero che ancora per qualche tempo potrà far vivere una tonalità di luci e di aromi ormai sommersa e irreversibile. Per tale ragione il salotto di rue Montalivet conserva per Brichot un fascino peculiare che il Narratore non può avvertire fino in fondo. L’unica cosa che gli è dato di percepire è un intenso e quasi allucinatorio senso di irrealtà nel vedere alcuni mobili della Raspelière, ora ricontestualizzati, replicare a tratti altre scene, uno straniamento unito all’impressione di star contemplando da un altro luogo quei “frammenti d’una realtà distrutta”.

Nella orchestrazione descrittiva (e le osservazioni si svolgono qui limitatamente all’interminabile frase proustiana eletta a pretesto per questa digressione) dell’affollamento oggettuale di uno spazio interno, enclave materiale e spirituale dove nulla sembrerebbe essere accessorio, assistiamo dapprima a una visione antropomorfica delle cose (il tappeto da gioco “è assurto alla dignità di persona”, il disegno a pastello è la reliquia “d’una vita scomparsa”) nell’enfatizzazione del loro spessore, nella misura in cui anch’esse hanno recitato una parte e hanno incorporato il tempo e la vita di chi le ha possedute, e trattengono ancora tratti soggettivi e segreti della persona cui appartengono o sono appartenute: gli oggetti sono concrezioni di tranche di tempo passato, i geroglifici di intere esistenze.

Autonomia ed eteronomia dell’oggetto paiono coesistere: gli oggetti qui adunati sono letterali e autosufficienti e insieme legati all’esistenza di chi ne ha fruito o usufruito, residuati esteriori di eventi trascorsi; costituiscono i paradigmatici relitti di una vita nei quali è trasfuso il complesso della memoria di ognuno. Sono muti ed eloquenti (e si può pensare al motivo crepuscolare, già del D’Annunzio paradisiaco, dell’anima che si specchia nelle cose, e che riflette la propria intima voce nel suo colloquio monologante), accidentali e necessari. Hanno anche una loro incontestabile astanza (pur obsolescenti, sono nel presente, e alcuni di loro ancora conservano caratteristiche usufruibili), sillabata all’inizio dalla ricorsività della enumerazione.

La solitudine delle cose, seppure, come noi, deperibili e soggette a consunzione, non è adottata a evocarne il degrado, in un primo momento si traduce in una dimensione di attesa che si effonde intorno, di sospensione in una temporalità senza nome. Ma questo stato quasi reclusorio non è detto che sia irrevocabile; polvere, silenzio, in una Stimmung di ristagnante e vagamente sensuale rilassatezza, potrebbero animarsi di altra vita, o di altra morte, analogamente alle metamorfosi degli individui nel vaglio oggettivo del tempo dissolutore. C’è una dialettica tra solitudine e mondanità in cui le cose rivivono. Se gli oggetti incorporano la nostra esistenza (anche sotto il profilo della vita sociale) e ci fanno sentire rapporti che oltrepassano la sfera contingente, restano nondimeno quello che sono: sono a un tempo emozionalmente connotati e indifferenti, fanno parte della nostra anima e sono lì allo stesso posto, fisicamente presenti, figure testamentarie, quasi per ossimoro, del nostro tempo perduto. È l’inattualità sommersa delle cose in attesa di rivivere con l’episodio “fortuito e inevitabile”.

Proust stila un catalogo di oggetti attraverso una accumulazione per asindeto, che isolatamente, in assenza di attribuzioni verbali, declina in elencazione ellittica, laddove gli oggetti vengono di conseguenza oberati di valenze simboliche; con l’enumerazione viene inoltre oggettivato il senso della ambigua sedimentazione delle cose nel tempo. Tale progressione elencatoria segue un andamento intensivo (che lungo il testo vediamo cambiare di tono e di segno) fino all’anticlimax delle parole di chiusura. La scansione percussiva pare vettorizzata allo sconfinamento in una analogia omnicomprensiva: l’enumerazione dilata l’orizzonte vigente degli oggetti istituendo una evoluzione quasi gerarchica tra gli elementi della rappresentazione, fino ad attualizzarsi in una sorta di archisinestesia. Alcune sinestesie settoriali sussistono solo in relazione a una metafora sinestetica originaria, luogo di convergenza che tutte le comprende e le significa. La complessa sinestesia (per estensione, nell’interagenza analogica e correlativa della cosa materiale - ascrivibile ai differenti ambiti sensoriali, letteralmente, “percepiti insieme” - con le risonanze spirituali) tattile (“morbidezza”), auditiva (“risuonava”), visiva (l’intera descrizione), olfattiva (“cioccolatini”, “profumo”) sembra risalire alla sfera interiore delle reminiscenze, delle corrispondenze significanti che alchemicamente trascorrono da un oggetto all’altro evocando, spiritualizzando e ricomponendo gli elementi disseminati ed eccentrici, in un riannodamento al “loro ‘doppio’ spirituale”. Affiora, qui, quel latente platonismo memoriale, quella fascinazione e quella gnoseologia della anamnesis che è di Platone come di Vico, di Bergson come di Ungaretti. E si potrebbe anche azzardare il riferimento alla qualità gestaltica della rappresentazione, per l'idea delle sensazioni, delle percezioni degli oggetti che si sommano in una totalità che non è la somma delle parti, ma qualcosa di ulteriore, perché all'insieme si aggiunge la luce infusa dallo sguardo del soggetto che finanche nelle dissonanze percepisce e organizza.

Per via della affinità dei propri vincoli spirituali le cose lungo il testo perdono in materialità e in opacità trasmutando in una modulazione che soppianta la scansione della prospettiva elencatoria. Gli oggetti della stanza pervengono a intrattenere rapporti all’unisono tra loro, statuiscono un continuum teoricamente reiterabile, dice Proust, anche “in successive dimore”, un insieme sinestetico nel molteplice intreccio delle analogie di cui inverano l’evocazione; e soprattutto gli oggetti acquistano la facoltà di istituire e di perpetrare una forma: l’ideale invariante del salotto dei Verdurin. Una compagine contigua: come la durata stabilisce la continuità degli istanti, così le qualità degli oggetti trapassano le une nelle altre alla maniera in cui, nella durata, fluiscono i momenti che non più si susseguono. La strutturazione analogica che azzera ogni distanza decreta la temporalizzazione dello spazio, nella duplice prospettiva che le cose rivelano la loro intrinseca consistenza temporale e nella configurazione della durata, in cui momenti isolati e sequenze finiscono per annullarsi nell’insieme diveniente. Allora l’elencazione di cui si diceva si diluisce con il dissolvimento del dettaglio nell’insieme, sfaldandosi nell’ininterrotto fluire dei vincoli analogici delle qualità degli oggetti, un dispiegarsi che alla fine del lunghissimo periodo si risolve nella assimilazione delle oscillazioni temporali. E non casuale è il pur fugacissimo riferimento alla melodia, riflesso emblematico della recente e fondante esperienza estetica del Narratore in seguito all’ascolto del Settimino di Vinteuil, summa di analogie e adombramento profetico dell’esistenza “dell’individuale” e della necessità dell’arte, fino alle proustiane considerazioni, decisive e predestinanti: “se l’arte non era davvero che un prolungamento della vita, valeva la pena di sacrificarle qualcosa? Non era, l’arte, irreale quanto la vita stessa? Ascoltando meglio quel Settimino, non mi era possibile pensarlo”.

La musica ha che fare con il tempo e, come il tempo, non esaurisce il proprio corso e il proprio scorrimento. Differisce dalla vita per la circostanza che solo alla fine perviene a una soddisfazione, a un riconoscimento, come d’altra parte accade nella Recherche, in cui incessantemente apprendiamo a posteriori acquisizioni e rivelazioni del Narratore, nelle quali il suo passato viene sempre più deprivato del proprio carattere di estraneità. L’arte, in tal senso, è un territorio attiguo alla vita giacché solo tardivamente ci permette di rientrarvi con consapevolezza attraverso un processo di identificazione che risarcisce l’individuo oltre la lettera.

Nessun alone metafisico viene versato nel fisico nell’oggettivismo di Proust, perlomeno nella prospettiva poetica dell’oggetto-emblema; né l’oggetto è un correlato che contempla il transfert di un contenuto emozionale soggettivo, pretestuosamente adottato quale incarnazione materiale e formula di uno status interiore, in una identità nella quale soggetto e oggetto sembrano spartire lo stesso destino. E neppure gli oggetti costituiscono un rifugio dello spirito: il passato non è cristallizzato nell’oggetto – piuttosto rivive in esso dinamicamente, in epifanica attesa di decrittazione -, il quale in tal caso si configurerebbe come stigma di una difficoltà a vivere il presente. L’oggettivismo proustiano pare lontanissimo dall’essere allusivo di una desertificazione o della possibilità stessa della soggettività.

Seppure le cose siano sature di contenuto soggettivo, in Proust non prevale l’esigenza di un distanziamento dal presente ma la volontà di interrogarle in vista di una spiegazione del senso e del valore della nostra esperienza nel tempo. Ma i segni che rinviano ai loro equivalenti spirituali, dice Proust, non siamo liberi di sceglierli. La letteratura non è una professione di sconfitta, né luogo di argomentazioni assertive e definitorie quanto un tentativo di comprensione e di risalimento al vero significato – delle cose, del proprio tempo, di sé stessi. “Essa soltanto – scrive Proust in Le temps retrouvé – esprime agli altri e mostra a noi stessi la nostra propria vita, la vita che non si può ‘osservare’”. Solo attraverso l’analogismo e una disposizione associativa emergono parallelismi ed equivalenze – genetici, non formali - tra le cose e gli eventi, e l’analogia è eminentemente “costituzionale”, ha cioè la caratteristica di andare oltre la somiglianza e l’aspetto simbologico, e detiene quindi la facoltà di dare una forma, di oggettivare ciò che è qualitativamente invisibile, istituendo un’altra res. Gli elementi dell’accostamento analogico, logicamente inavvicinabili, non conservano affinità alcuna con l’ordine originario dei significati, e come tali “scolpiscono”, scrive Proust nelle righe conclusive della frase: con l’opera, l’autore traduce in realtà una presenza nuova mentre interpreta i segni della propria vita.

Proust condivide la ragionevolezza della “credenza celtica secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduto sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto a un albero o a entrare in possesso dell’oggetto che ne costituisce la prigione. Esse allora sussultano, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l’incantesimo si spezza. Liberate da noi, hanno vinto la morte e tornano a vivere con noi. (…). Quest’oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire o che non lo incontriamo.” (Du côté de chez Swann). Ma di queste cose non riusciremo a decrittare l’annuncio finché saranno alonate da quella opacità consustanziale all’abitudine che ci preclude – facendo a noi smarrire il senso dei segnali laterali - ogni autentica consapevolezza, e che, scrive Proust, “alle cose da noi viste più volte, strappa la radice di profonda impressione e intuizione che ce ne dà il significato reale” (Le temps retrouvé).

L’abitudine, diceva Beckett a proposito di Proust, è la vita stessa, vale a dire un avvicendamento di abitudini alla maniera che un individuo è un succedersi eracliteo di individui. Abitudine è incolumità, difesa e anestetico all’abisso spirituale, perché delle cose ci fa solo elusivamente esperire i tratti a noi familiari, non il loro lato d’ombra che comporterebbe l’emersione del perturbante e della vertigine come conseguenza. Ma se essa ci protegge garantendoci una certa immunità, ci costringe anche a stazionare nell’increspatura delle cose, sanzionando la nostra estraneità, dice Beckett, al “mistero di un cielo o di una stanza”. In altre parole, la non ancora aggettivabile vita - ignara e rassicurante, pre-morale e omissoria - sulla scia dell’abitudine equivale a una forma di sopravvivenza senza felicità. Solo attraverso uno scarto da essa riusciremo ad avere una cognizione delle cose, giacché ciò che ci è troppo familiare rischia paradossalmente di rivelarsi indefinibile: ogni ulteriorità dimora nella nostra esperienza, sembrerebbe dirci Proust.



Elisabetta Brizio

venerdì 7 maggio 2010

SOGNO FATTO IN PRESENZA DELLA RAGIONE (VERSI DA UN ALTRO MONDO)




Antonio Canova, monumento funebre di Vittorio Alfieri, Firenze, Santa Croce (foto di Elisabetta Brizio)



SOGNO FATTO IN PRESENZA DELLA RAGIONE (VERSI DA UN ALTRO MONDO)



a Elisabetta Brizio


Ero una bambina del Settecento e conoscevo Newton
e la postulata infinità dello spazio-tempo inerziale;
camminavo fra lontananze arcadiche,
senz'anima, nel tenero smeraldo
dell'erba, in riva al fiume antico
che orlava la città come un diadema
e ora è sepolto (ma scorre
ancora, anche non visto, ignaro
del tempo e degli sguardi).

Entravo poi nella città dei morti
dai grandi marmi - ero piccola
come una formica, potevo cadere
fra una lastra e l'altra come in un abisso;
mi insinuavo nei loculi e una blatta
era una bestia del cretaceo, un cadavere immenso
lontano oscuro era un fetido dio.

E cercavo di uscire, vanamente -
inseguivo me stessa come in un labirinto -
poi varcai per un soffio un'immensa porta vitrea.

"Di giusto voler lo suo si face"
cantava sapiente, infinita, una voce.

E tutto era di nuovo puro e limpido
come al principio.

mercoledì 28 aprile 2010

PATRIZIA GAROFALO, PAOLO RUFFILLI - DI ROSE CORONATO

La produzione in versi di Paolo Ruffilli degli ultimi decenni (da Piccola colazione a Camera oscura a La gioia e il lutto) ha di per sé, fin dall'inizio, nella sua stessa natura, un intrinseco moto, un'intima tensione, di carattere dialogico, drammatico, in senso lato teatrale, per il suo intreccio di prospettive, di angolature, di sfumature risonanze timbri voci: questo, forse, anche per la sua remota radice settecentesca, mozartiana, per la sua cantabilità chiaroscurale, per la sua miracolosa, quasi inesplicabile levità intrisa di ombra e di dolore eppure ravvivata dalla luce armoniosa di un'apertura e una speranza ulteriori e più vaste.
Questa interpretazione, rielaborazione e riscrittura teatrale di Patrizia Garofalo (rappresentata, con accompagnamento musicale, nella Cattedrale di Belforte sul Chienti l'11 aprile 2010) intreccia, come in un contrappunto, ai versi di Ruffilli il discorso poetico originale dell'autrice, proiettando, nel contempo, l'idea cristiana, ma già tragica (si pensi alle Baccanti euripidee), della Parola che si incarna per poi essere martoriata e lacerata nel sacrificio (nello sparagmòs dionisiaco così come nello scandalo della Croce, nel “disonor del Golgota”, nella “misericordiosa uccisione di Dio” di cui parlava, in anticipo su Nietzsche, la teologia luterana) sullo stesso discorso poetico, sul dire che “viene da lontano”, da sconosciute, risonanti distanze - ma che, del pari, svanisce e si dissolve al di là della storia, nell'orizzonte escatologico in cui l'uomo non può più seguirla - nel nulla, nell'assenza, nel desolato mistero di un “sepolcro vuoto” eppure, paradossalmente, vivificante, presagio – forse illusorio, ma cruciale - di pienezza e di vita. E la Madre, la mater dolorosa, Maria come Ecuba e come Medea, è materia, matrice, matrigna: scaturigine dell'esistere, sorgente del venire-alla-luce, e insieme, ipso facto, condanna a un destino di deriva verso l'ombra, benedizione e castigo e perdono, sofferenza e redenzione del vivere (M. V.).


DI ROSE CORONATO


Solo, davanti alla morte
neanche l’angelo ti recò conforto…Uomo…
Un nodoso ulivo, curvato
raccolse le tue agonie di terra.

Il corteo che seguì
ti fissò nella metopa del tempio,
piansero per primi gli Dei
e
morirono nel tuo silenzio.

La rivelazione
è parola che denuda, strazia e lacera,
suprema vergogna
preda l’inerme
senza arrestarne il volo

Inginocchiarsi
è ludibrio
ma lo sputo e le percosse
come maschere di cera
si sciolsero.
Il sole non ne raccolse l’anima.
Il mondo conobbe lo smarrimento del “senza”
Simone di Cirene fu
ombra, della pietà dispersa
“non piangete per me, ma per voi”
troppo basso il tono della voce , dal dolore
di Uomo
dalla pelle sbranata, chiamasti donna
tua madre
cantasti per lei
l’amore del suo seno vuoto
il tuo andartene
il suo permanere donna madonna dolorosa e pregna.
La strada indicata per il Golgota
confonderà
polvere e sangue
dolori e disattese.

Ineludibile l’amaro retrogusto della viltà.
Nessun marchio impedì l’infinitezza
neanche a chi rimase senza fede
ma ancora ti cerca di carne, nell’amore.

La veste tirata in sorte
firmava, per chi si contava vivo,
la maschera della morte del tutto
Pietoso Uomo
copristi, le loro carni
in luoghi che solo Tu hai benedetto e pianto

“In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”

All’eclisse del vero
atterriscono gli umani

“padre nelle tue mani consegno il mio spirito”


Scompare il sole.
Il vuoto
aprirà un abisso di
cadute, e attraversamenti
sfoceranno a delta su tutti i fiumi
per riportare a mare
il viaggio verso Itaca.

Un lenzuolo pietoso
si farà silenzio.
Attende le nostre parole
coronate di rose.





Dal mio ventre schiuma
odore acre di sangue

sudario di dolore la nostra pelle
mescola lacrime e sudore e polvere

asciugo dalla tua bocca
gocce di trascorse primavere

seminerò perle di dolore
fintanto che mi chiamerai donna

un cielo povero
apre braccia cariche di pioggia

sabbia di deserto
ci seppellisce piano

proteggo il tuo corpo
dentro il mio seno svuotato

e non so chi pregare


Al risveglio
uomini oppressi da un’opacità assillante
riverberi brucianti
inesorabili alabarde di ghiaccio
trafiggevano il tempo
nel buio degli abissi.

Soffocavano le anime meste
gettate a terra
precipitate in fosse,
baratri,
dirupi.

Anime vaganti eclissate dall’oscurità,
alla luce, piangevano sangue
sussurrando dolorosi lamenti

Alcuni suicidarono lo spettro della memoria
cercarono il cielo
divennero angeli.

Una madre
si addormentò per sempre
abbracciata al figlio
affidandogli la vita

la terra rimase sola a contenere
il pianto della pioggia
cinica e fredda.



SECONDA PARTE



Il relitto
sul lido delle dune
poggia sul fianco
inerte e gonfio.
Lo sfascio dei legni
e i ferri e delle funi
non è fuori posto
sulla costa tormentata.
Ha un che di sacro,
fermo nel tempo.
E’ un altare
su cui i gabbiani
si lanciano stridendo.
La lenta processione
non si arresta:
ognuno resta muto
per un po’
fisso nel vuoto

La ferrovia scompare
e, ad un tratto, lì
il mare forma un ampio golfo
E mare sì,
è anche la mia strada.
Io mi fermo , perché
Non so che fare.



Grava il dolore
come spazio insoluto
al mio quotidiano.
La crocifissione apre abissi di terra,
trafigge gli occhi,
li vince nello scacco del sonno
li riapre desolati al non-senso, sassi di cuore.
E’ una pietra rara, il cuore.
Cerco le ondine che piansero nelle cortecce dei pioppi
L’incendio di chi osò il volo.
Apro piano le pagine con un tagliacarte indolore,
quelle del tuo libro, intendo.
Leggo piano, piango assonnata e,
prego senza Dio.



Strappare via chi ami dal cuore della carne
È come sradicare i muri dalla terra.
Ma nessun urto mai, per quanto sia violento,
riesce ad estirpare da dentro il fondamento.
La forza che si avventa e che l’afferra
smuove la base e la dissesta dal suo centro,
spezza e squarcia fette intere, svelle
molti dei suoi bracci lasciati lì sospesi
dalle pareti aperte come l’armadio e la credenza
nella cascata livida della materia inerte
ormai disidratata di ogni vivida presenza,
senza però arrivare nell’imo del più fondo
mozzata sì la testa, ma non le sue radici
ancora più attecchite nel fianco dell’abisso
dove intanto resta, sia pure violentata,
contro ogni furto e errore la vita abbarbicata.




Avviso ai naviganti. Venti da nord-ovest
tendenti a rinforzare
fino a burrasca.
Fari d’entrata
al porto, spenti.

Con ginocchia di terra
macchiate di verde
sarò scalza
quando entrerò nel tempio.





CORO

La parola,per me,
veniva da distante.
Un a priori, quasi,
l’avvertivo, un eccitante.
In un processo in
Qualche modo inverso .
Nel darle per riscontro
una realtà che invece,
più toccata e presa, più
sfuggiva inconsistente
ai cinque sensi.
Con l’effetto di essere
lanciata contro un corpo
pronunciato e, nel suo dirlo, di colpo
riafferrato.


Intanto , dappertutto
Dio ti vede


Padre potente
arbitrio comando
signore che prende
che regge le fila
che muove e sostiene
dominio e licenza.
Padre che è assente
sole lontano
ignoto mestiere
enigma che incalza
diverso e straniero
limite termine fine.
Padre splendente
pensato sognato
tenuto soltanto per mano
guerriero tornato
per poco disposto a restare
giocare parlare una volta.


Madre matrice
guscio da cui si spoglia
il viscere
vulva oscura caverna
madreperlacea conchiglia
fodero guaina.
Madre matrigna
nodo filo di ferro
corda ritorta
capo di gomena
cavo canna filo di rame.
Madre madrina
palo a cui tiene la serie
base puntello
bacchetta che guida
remo spranga timone.
Annaspare nel filo
tendere frangere
districare l’involto.

All’improvviso, l’idea
di un vuoto, senza moto,
del nulla, dell’assenza
di un segno o di una traccia,
agghiaccia il sangue e
fa tremare mani e voce.
Nel punto estremo e,
ormai, non più lontano
alla foce del fiume,
a un passo, ad una spanna
dalla frontiera,chi c’è o cosa…che mi salvi
dal salto, dalla condanna
Eppure, intanto,
arresi all’evidenza
di andare navigando
alla deriva.

FINALE

Strage di rose tutto il giorno
petali ispessiti
da sabbia e sangue
offrono
un pietoso
impenetrabile
batik
ci sono giorni
che fanno la differenza.




Ho amato stanotte
i tuoi versi silenziosi.
Li ho recitati muta
Sono saliti in alto
come un salmo
in una chiesa vuota
di consolazione. Prima che la notte li
rapisse nel naufragio dell’immenso,
li ho bevuti a piccoli sorsi
dall’incavo delle mani.

martedì 20 aprile 2010

POESIE DI GIACOMO LERONNI


Di Giacomo Leronni, del quale ho recensito altrove la preziosa e lungamente meditata raccolta Polvere del bene, ho ora l'onore di pubblicare altri testi, che confermano l'indole essenziale della sua Musa e ne suggeriscono, forse, un ulteriore sviluppo (che non necessariamente segna, nella perpetua simultaneità, nella “contemporaneità di tutti tempi” direbbe Luzi, che è propria della vicenda poetica, una fase cronologicamente successiva, ma, piuttosto, una ulteriore, interna articolazione ipostatica, che avviene, avrebbe detto un filosofo, per autoctisi di una medesima identità creatrice).

Scavata nel silenzio, quasi dolorosamente aureolata, e insieme assediata, come in Ungaretti o in Celan, dal bianco del silenzio, del non detto e forse indicibile (del “Mistico” di Wittgenstein), è la parola del poeta: parola che sorge da profondità minerali, quasi da radici inorganiche o preorganiche, eppure oscuramente, immensamente vitali, come quelle che cela la terra ardua, grama, tormentosa, del suo Sud – e, insieme, strenuamente consce di se stesse.

Poesia notturna e, insieme, albale, aurorale: poesia della fine e dell'inizio, dell'Omega e dell'alfa, ciclicità dell'essere e dell'esistere risolta e distesa, però, nel discorso ciclico, progressivo-regressivo, nel respiro duplice e bidirezionale, del versus.

La “notte amica” di Ungaretti (ma prima ancora quella mistica e maestosa di Novalis) è, nella sua oscurità, fonte di luce: quella che pare pietra cieca è specchio, invece, colmo di stelle; se dapprima la notte è dimora dell'autentico, e il giorno mascherata di menzogna, nella polivalenza del dire poetico oscurità e luce, silenzio e voce si fondono invece in un nesso inscindibile e duplice. Il presente notturno della creazione poetica è un “presente eterno”, agostiniano e petrarchesco punctum temporis “a cui tutti li tempi son presenti”. E nelle rovine del tempio interiore possono celarsi l'acqua di vita e la nuova fioritura, ignorate, eternamente, preziosamente vive, anche se forse soltanto per se stesse (il tempio interiore di Dell'eterno in minuzie sembra alludere al Dio, senecano ed agostiniano, che abita in interiore homine; ma non è, qui, fatto oggetto di alcun culto: il Dieu caché, il Deus absconditus di Pascal invade con la sua presenza-assenza anche il sacrario dell'interiotià, e viene così ad essere manifestazione del subconscio, dell'abisso interiore, intentato e non lambito, a ben vedere, se non dalla parola poetica stessa). (M. V.).


LEZIONI DALL'OSCURITÀ


Dispongo le tempere
del giorno
poi le ripongo

il meccanismo
s’inceppa
ma io insisto
faccio forza
prevalgo

sorge l’alba

senza che alcuno
sappia
spingendo, tendendo
i muscoli
altre ore di falsità
sono pronte.

***

C’è un pozzo
una giberna per il silenzio

labbra come mensole
il tappeto delle rese:

un ricordo procura
la luce necessaria
un giuramento disorienta

spingo oltre il giudizio
a mezzo
del corridoio di tenebra

eludo l’agguato
della soddisfazione
l’approdo, il tatto:

questa la casa
il ricovero.


***

Opera incidendo
accade

essere frusto
che si aggruma
sasso
che sollecita la marea

a volte il suo specchio
rigetta il grido
a volte lo assorbe

lo descrivi
ma non è così
occulto
e colmo di stelle

potrebbe essere un seme
una spilla

è schivo
non comprende
perché caparbiamente
vuoi dargli un nome.


***


La notte
mi piega a sé
mi affida
la sua albagia:

è tardi
per mentirle
per ripagarla
con monete d’identità.

Sfolgora il pregiudizio
smania il corpo
presagendo la prova:

indosso
cellule esiliate

mi circonda
il buio presente di chi scrive
presente eterno.


***


Non sono più io
ma il male
che m’interroga

l’assurdo che impatta
grumi terrestri

il picchio del male
che indaga se stesso.

Non sono io
sono un dito di morte

lava che squadra
l’abisso

rifugio improvvido
in cui archiviano preghiere
le mie malnate
foglie verdi.


***


Dentro tace il presente
si apposta
si fa vena

scorgo un taglio
è loquace

fuori chiamano
nitidamente
sboccia ripetuto
un nome

ancora dentro
l’ora è già smalto
cellule si stirano

sono dietro l’angolo
mi vedo
oltre il gomito
caudato delle stelle

invischiato
invocato
per portare buio.


***

Risalgo l’alba

la luce che sgorga
da un nucleo minuscolo

il fiore dell’insidia.

Ad ogni approdo
inatteso sostegno

una cipria di vittime
il cui fervore dispensa
dalla visione.

Procedo
per la febbre
che s’impenna

senza l’obbligo del grido

fino all’ottusa vena
che concepisce.


***

Il ricordo è il mattino

che s’innalza
da ogni parte

è una fionda
una sberla
per le ansie

scuce il presente
lo spezzetta

si aggiudica il mare.

Il ricordo:
un’aurora salda

un guizzo di parole
tessute con cura

abbaglianti
e già sconfitte.


***


Case adulte
lance di necessità

guglie, tronchi
di pietra:

la vetrata del cielo
ricomposta

porfidi insondati
capaci di canto.

La pena è elusa
il ricordo s’incasella:

torna la città
al martirio sonoro

la sera reca l’ambra

le strade vibrano
dolci come nomi.


***

Ecco la sera

è questo il suo nome

un acero il seno
derma viscoso

ecco parla
ed io registro
arrivo da voi
piccole mosche
che trattenete il fiato

arrivo licheni
più gagliarda
dal precedente abbraccio

non posso fermarmi
scivolo
per chine taglienti
resisto gioconda

per accompagnare
tutto questo legno
di ore
ad ardere.


***

Niente può separare
la luce dal chiodo

la cattura è definitiva

la mente ne ripercorre
l’eco
e s’intorbida.

Sfrigola il fiore
della pena, lucida
le sue barricate:

niente può separare
l’ombra dalla meta
la folgore dall’orgoglio

e c’è chi con i passi
converte il buio

un bambino di prato
un adulto
che scalcia la gravità

niente può arrestare
il cuneo che avanza
una nudità dopo l’altra.


***

Quanto cercare
dopo il primo colpo

ci sono altre strade
il pruno le impara

i sassi apprendono
un codice sapiente

invece si insiste
si cerca il privilegio
inguainato nel buio

si bussa
a porte di geranio
si urtano frasi
di terra pavida

ci sono altre fronde
le percorre la luce

dritto davanti a noi
o appena indietro

un coro di spasmi
da cui semplicemente
attingere.



***

SINE DIE


Mente
che si scompone
in altra mente

resina
incisa dalla luce

o piega
di creatura assorta
nella notte indulgente

mente
china sul segreto
in ascolto
per agganciare il mistero

e formularne il nome

l’essere
in spirito e assenza

e intorno fanfaluche
esitazioni

esecuzioni.


***



DELL’ETERNO, IN MINUZIE

1.

Frasi d’ambra
giorni affogati in altri giorni
d’eccellenza o incuria

erba esiliata sul colle
oltraggiato fino al midollo
poi rappreso
per l’incontro in vista

pietre che rigano la fedeltà
gonfie di tutto il sentire
gli approdi, la futilità
dell’eterno in minuzie

parole affastellate, trascorse
il tempo di girarsi
di accostare il vuoto che fruscia

lampo su lampo
scossa dopo scossa

eccolo annotato, siglato
il luogo non-luogo
il senso imperscrutabile

di tutta questa luce che non sazia.

2.

Replicare passi sconsacrati
scarni i tratti, le tracce
arenate
del cuore che sgombra

più vivo per questo
l’ansimare della storia
più acuta l’intrusione
dei sensi

fra vite sepolte, riemerse
dove le pietre si flettono
e l’incanto recalcitrando
si spegne.

È in questa voce che attendo
i tuoi occhi, i margini d’osso
i muschi
fra l’occulto e l’esploso

nella città inerme
che mi abbraccia

nei ruderi
di templi interiori
che nessun culto ha mai sfiorato.

lunedì 29 marzo 2010

LA “FORZA GENTILE” DI UN'ERMENEUTICA “DEBOLE”. NOTA PER ELISABETTA BRIZIO

Una gentle force, ma potente e profonda, era, secondo David Hume, l'analogia, che associava immagini, percezioni e pensieri di per sé lontani. E “deboli” sono, oggi, un pensiero, un'ontologia e un'ermeneutica non dogmatici, mutevoli, “mobili”, ma proprio per questo paradossalmente più efficaci e penetranti, perché duttili, versatili, capaci – un po' come l'alchemica “gaia scienza” nietzscheana – di seguire e riflettere le intorte e sfaccettate volute della complessità.

Uno spirito siffatto è quello che pervade questo libro (L'innumerevole esistenza. Saggi e note di letteratura contemporanea, Azeta Faspress, Bologna 2010). Libro nato al di fuori dell'accademia (e dunque immune dalla forzata, utilitaristica e grigia routine dei professori impegnati, come diceva un poeta, a “fabbricare titoli per i concorsi”), sorto da una passione – nel senso più vero e più pieno, di trasporto, entusiasmo, adesione, affinità elettiva, compartecipazione, ma anche sofferenza, attesa, ansia, tormento: pathei mathos, insomma, la tragica conoscenza attraverso il dolore – e da una necessità interiore, esistenziale, oltre che intellettuale, tradottasi in letture e riletture articolate, stratificate, snodatesi e modellatesi nel corso paziente degli anni (pathos, passione, longue patience è l'interpretazione, al pari della creazione); ma libro, nondimeno, tutt'altro che privo di metodo, tutt'altro che dilettantistico nel senso deteriore del termine.

Come mostrano due degli ideali maestri, degli interlocutori esplicitamente e tacitamente evocati ed invocati dall'autrice, cioè Alvaro Valentini e Remo Pagnanelli, la passione intellettuale, l'”impegno” non ideologicamente irrigidito, l'ineliminabile, ma non feticizzata, soggettività interpretativa non escludono affatto il rigore dell'indagine, la sottigliezza dell'argomentazione, la competenza specifica, anzi le rendono ancor più delicate, decisive e necessarie, e insieme le animano e le vivificano. Nella semantica letteraria così com'era intesa da Petrucciani, da Valentini e, prima ancora, dal loro maestro Ungaretti, l'analisi retorica si fondeva con la considerazione attenta dei valori fonici, evocativi, connotativi della parola, il cui scandaglio era così sottratto ad ogni asettico tecnicismo, senza per questo perdere di correttezza e di rigore, e senza che la voce dell'interprete si sovrapponesse totalmente, fino ad oscurarla, alla natura del segno, riducendolo a puro pretesto, a mera “traccia”.

Sul piano, poi, della storiografia letteraria, questo libro configura, in certo modo – per far riferimento ad una nozione oggi molto dibattuta -, un peculiare, per molti aspetti sorprendente e destabilizzante, “canone” di autori, correnti, accostamenti, il quale rispecchia, per così dire, l'histoire d'une âme, la storia soggettiva dell'autrice, della sua sensibilità venuta volta a volta a contatto con diverse opere, epoche, figure – eppure conserva una sua intrinseca, e a tratti illuminante, coerenza. Dai crepuscolari – riletti anche, ma non solo, sulla scorta di Sanguineti, della sua visione della gozzaniana “lingua morta del tempo morto” - al nouveau roman, dalla Neoavanguardia alla poesia di Pagnanelli, il testo è sempre abbracciato e penetrato da uno sguardo fenomenologico, esistenziale, ermeneutico, che avvolge le “cose” apparentemente inerti, mute, o perse nel loro silente e mormorante soliloquio – per farne emergere, attraverso la linea, il segno, il tratto, il linguaggio (quasi la pagina critica fosse un dipinto, popolato di silenzi attese assenze, uscito dal pennello di Morandi o di De Chirico, o avesse la palpitante impassibilità, la plastica immobilità del marmo di Bistolfi o del bronzo di Gemito), l'anima segreta, l'essenza implicita, il cuore dormiente ed obliato – l'”anima de le cose” di cui parla il D'Annunzio delle Elegie romane. “Liliale” è davvero, per riprendere l'aggettivo che l'autrice riferisce a Maeterlinck, la “condizione” di questa critica: condizione meditata e riflessa nel suo porsi, eppure aurorale, pura, prossima all'origine, al rivelarsi primigenio ed autentico della realtà nel linguaggio – come nel Rilke delle Elegie duinesi, un altro dei testi di riferimento.

Eppure – per quanto aderente alle cose, al vissuto, immerso nell'essere-nel-mondo, nel fuoco vivo del dolore e della conoscenza – questo discorso saggistico è anche, parimenti, in certo modo, aperto alla trascendenza, all'estasi - nel senso fenomenologico ed esistenziale dell'ek-stasis, dell'”uscire da sé” proiettandosi verso il mondo, facendosi incontro alle cose o, viceversa, lasciando che le parole-cose, le parole-idee, le parole-concetti che compongono il testo si facciano incontro e vicine al soggetto interpretante che se ne lascia avvolgere, sfiorare, penetrare, attraversare, ricevendone, per rispecchiamento, forma e contorni, e in pari tempo investendole, impregnandole, della propria sfuggente sostanza, come in un prisma, direbbe Mallarmé, di reflets réciproques; ma uscire da sé, anche, per trascendere la contingenza, per aprirsi ad una sfera superiore, altra, che può al limite coincidere con il vuoto, il mistero, il confine oltre il quale si spalanca l'abisso del tutto o del nulla.

In quest'ultimo senso può spiegarsi l'interesse per La gioia e il lutto di Ruffilli: un libro che splendidamente fonde narrazione e lirismo e dunque, specularmente, realtà ed assoluto, esperienza lacerante della pena, della caducità, della finitezza della morte e luce più alta della luce, “luminosissima tenebra” e noche oscura del alma che si stagliano in una sfera perenne, oltre ogni luce e ogni buio. L'ermeneutica testuale è anche ermeneutica esistenziale, vòlta al mondo che si specchia nel testo, e, in pari tempo, all'io che si fa incontro al mondo attraverso il linguaggio, e in quest'ultimo conosce, o riconosce, se stesso.

L'io che si specchia nel testo – nel testo altrui così come nel proprio, che dall'altrui trae del resto occasione e alimento, dando così radici e sostanza alla natura creativa, e in certo modo biografica, forse anche catartica e terapeutica, del gesto critico-interpretativo – è anche, inevitabilmente, figura narcisisitica, emblema – direbbe Melanie Klein – della “posizione depressiva”, propria di una soggettività lacerata e franta che nella forma dell'opera d'arte cerca la propria ricomposizione, alla quale può essere finalizzato, come teso sforzo di razionalizzazione della sensibilità, anche il vivido, non freddo e disanimato, rigore metodologico – donde l'abbondanza, quasi latineggiante o grecizzante, di nomi astratti, forme verbali sostantivate, termini specialistici.

E narcisistico è certo, da parte mia, questo mio scrivere una postfazione ad un libro in cui si parla anche di me – del resto in modo non casuale, vista la sintonia che mi lega all'autrice in fatto di visioni della letteratura e dell'interpretazione.

D'altro canto, ogni testo, ogni opera che leggiamo, nostri o altrui – ma anche le nostre pagine, affidate all'alterità molteplice delle future interpretazioni possibili, non sono, in fondo, più nostre, divengono oggettivazioni o rispecchiamenti di noi, ma resi quasi, in questo modo, altri da noi -, si fanno, per via di affinità, compartecipazione o identificazione, immagini riflesse di noi stessi
È verificata, anche qui, la dialettica ricoeuriana di ipse e idem, mutamento e identità, stabilità del fondo coscienziale e assiduo susseguirsi di esperienze, immagini, pensieri. Il soggetto, nell'atto della creazione, così come della ricezione, del fatto d'arte, ricompone – come dice Petrarca – gli sparsa fragmenta animae – pur se conservandone, finanche nella compiutezza della forma, l'inquieta ed episodica eterogeneità di occasioni, sollecitazioni, ferite – qualcosa di simile al molteplice splendore dei simbolisti, radunato e rifratto dal prisma o dalla gemma dell'io e della parola.

Può darsi che quel centro, quella ghianda di luce sia, come in Mallarmé, “le transparent glacier des vols qui n'ont pas fui”, il traslucido gelo dei voli soffocati, la stasi e la tomba di ogni progetto esistenziale inaridito in sillabe sterili e nude. O, forse, lo specchio infranto di Sereni, la fioritura, l'apertura e la diffrazione di un rosario di possibilità, sia pure nello smembramento, nella lacerazione, nel sacrificio: “Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli”.

“La realtà”, scriveva Remo Pagnanelli nella sua monografia sereniana La ripetizione dell'esistere, “rotta l'antica copertura degli antichi recinti elegiaci, si presenta nella sua veste ora drammatica ora deserta e silenziosa, senza compiacimenti”. Ma la realtà stessa (come confermano l'idea o il mito stessi di un'ermeneutica come autobiografia, monologo interiore, diario esistenziale) è testo, sistema di segni, incrocio o mosaico di tracce, incontri, eventi, memorie.

Come nelle “rovine circolari” di Borges – emblema pietroso dell'eterno ritorno, tormentato e franto paesaggio dell'autocoscienza, e insieme della stasi, esistenziali, curve e ripiegate su se stesse in un gorgo infinito -, dalla parola e dalla scrittura – a un tempo delizia e tormento, morbo e medicina animi – si evade andando incontro al mondo per poi, fatalmente, ad esse ritornare, nel moto assiduo, nel perpetuum mobile di una coazione a ripetere che si attesta e si rinsalda proprio nel momento in cui cerca di esorcizzarsi e fuggire da se stessa.

Ed è, a ben vedere, il piccolo mito cosmogonico narrato da Borges, metafora o allegoria della creazione interpretativa, per come viene concepita e attuata dall'autrice e per com'è forse in se stessa, nella sua essenza più vera. L'uomo che, perso nel cuore indefinito di uno spiraliforme labirinto di frammenti, tenta di dar corpo ad una creatura sognandola si accorge infine di essere, egli stesso, un sogno, una parvenza, una fantàsima concepiti o intravisti da un essere ulteriore. Così chi interpreta un testo ne è, di riflesso, a sua volta interpretato, chi lo illumina ne viene illuminato – si specchia nell'opera nella stessa misura, fluida ed oscillante, in cui la rispecchia e le fa eco in se stesso.

Anche in questa fluidità, in questa impermanenza risiede la “condizione liliale” in cui si muove questo discorso critico, così come parte dei testi che ne sono oggetto ed occasione. “Une grâce étrange et navrante / Est dans le blanc trépas des lys”. Nella metamorfosi, nella trasfigurazione, nella decomposizione e ricomposizione dei testi attraverso l'atto dell'interpretazione e della scrittura, sta la grazia aliena ed inebriante - fra straniamento e coscienza, alterità e identità – della letteratura, male incurabile come la vita stessa, destino che danna e che redime.


Matteo Veronesi

sabato 27 marzo 2010

PAOLO DIODATI E LA MUSICA DELLA MATERIA

Antico, antichissimo è (dal Timeo di Platone fino, con ben diverso e più moderno spessore scientifico, agli Harmonices mundi libri di Keplero) il sogno di poter cogliere, fermare e riprodurre, traducendola in segni umani e comprensibili, l'ineffabile armonia dell'universo. Armonia che, invero, oggi (in un universo, o forse in un multiverso, che alla cosmologia contemporanea appare, nelle parole di Frank Wilczek, sempre più "a strange place", popolato di dimensioni parallele, materie ed energie oscure, enigmatici vuoti, catastrofi improvvise ma necessarie, miracolosamente sospeso sulla china di una deriva entropica che, sempre indefinitamente ed impercettibilmente scongiurata, sembra volerlo, invano, ricondurre al nulla primigenio, e trascinato da un'espansione che pare accelerare costantemente, lasciando solo le scie, inafferrabili ed evanescenti, del redshift – traccia, in realtà, quest'ultimo, quasi per così dire ottico fossile, di lumi già estintisi da miliardi di anni) può offrirsi come disarmonia, distorsione, perturbanza, oscillazione quantica, probabilistica indecidibilità, più che come disegno compiuto ed euritmico: specchio, dunque, non più tanto della divina proportio postulata dal Pacioli e da Leonardo, della mensura e dell'ordo insiti nella mente divina, ma piuttosto ombra del Dio nascosto, enigmatico o assente, del Deus absconditus o del Nihil aeternum, del Dio come possest, come infinita possibilità che fonde gli opposti, e che abbraccia anche l'evenienza dell'assoluto nulla, della definitiva insensatezza. Il gioco, allora, il lusus musicale, verbale, logico, fosse pure il più dannunziano melodioso decorativismo, non sono segni di un edonismo nichilistico, ma strumenti di un'intelligente e sapiente resistenza ad un nuovo, postmoderno horror vacui, proprio della nostra era neobarocca. (M. V.).

Scrivo poesia e quello da me recensito è un gioco che insieme a Paolo Diodati ho messo insieme bilanciando il suo scherzare su quelle che chiama le sue evasioni e il mio essere seriosa, ulteriore ipotesi delle infinite possibilità della poesia di poter essere coagulo di esperimenti. È stata una bella prova, che suggerisce la connotazione della parola tra due personalità diverse, il cui incontro ha dato luce allo scritto.

La mediazione culturale in paolo Diodati

Il gluone sta al segno come la parola alla voce. Con questa proporzione intendo parola come sostrato, nucleo generatore, genotipo, fondo oscuro e indistinto dell’espressione prima che venga alla luce, e insieme l’aleatorietà e l’infinita possibilità delle scelte espressive che questo attimo concede all’artista.

Paolo Diodati li chiama esperimenti (nel senso pieno di experior), quelli di cui parlerò, ci ride su, spesso li offre con autoironia e provocazioni ludiche. Basti ricordare i due giudizi, antitetici, che ha scelto come premessa alla sua “pazzia” (parola sua) di musicare la Pioggia nel pineto.

D'Annunzio: Dal più bel verso scaturisce la più bella musica.
Satie: Il musicista è forse il più modesto degli animali, ma anche il più fiero. È lui che ha inventato l'arte sublime di sciupare la poesia.

Vi è anche, in Diodati, la consapevolezza dei rischi connessi al tentativo di dire qualche cosa di nuovo nella rappresentazione di uno dei più inflazionati temi di sempre: il contrasto notte-giorno e le sensazioni che accompagnano la visione del sorgere del Sole. Consapevole del rischio, ha scritto e musicato un pezzo, Il Gran Fuoco, dal crescendo davvero coinvolgente (finito nella versione inglese, non a caso, su una tesi in astrofisica).

In realtà la sua trasposizione pianistica della Pioggia nel pineto è un trasferimento dalla parola al suono riuscito e molto interessante per chi, nel corso dell’insegnamento, abbia provato quel disagio profondo che nasce ogni volta che si avverte l’insufficienza di una parola esplicativa del testo dannunziano, sempre inadatta a cogliere una musica di silenzi evocanti ed evocati dal miracolo delle note suggerite dalla pioggia. Il pianoforte distilla le gocce e connota i verbi di percezione che articolano l’originale scritto, distinguono i battiti del silenzio e rimandano suggestioni di fisicità miste alla sacralità della favola bella che tornerà a forma di poesia in altri “esperimenti” di Diodati. Inoltre nella novità della trasposizione musicale non dimentica la tradizione del testo letterario che è fedelmente riprodotto al pianoforte, anzi si sottolinea ancora di più “la voce dei nostri” che accompagna la mediazione culturale necessaria per continuare ad essere interpreti dell’oggi con la memoria di ieri.

E’ nel linguaggio che Paolo Diodati cerca appartenza, sin dall’incipit di quell'intensa La voce dei nostri (definizione letta nelle considerazioni sul Giorno Internazionale della Lingua materna), col voluto e forte richiamo a Ignazio Buttitta, disperato difensore della sicilianità. “Potete pur privarmi del mio letto/ sedia, denti e tetto. / È niente. / ché tutto è riposto in tanti dolci suoni. / Lingua che sei straniera, / io sì lo so, vorrei sempre distinguerti dalla mia, / perché la mia non muoia".

Il poeta è spinto dal desiderio di cura e protezione, di memorie infantili, di rinascita, di prima conoscenza del mondo e conquista, ormai indelebile, di commozione; la voce dei suoi, sono cantilene e dolcissime nenie di cui solo apparentemente ci disfiamo da grandi, ma “affiora il remo lasciando gocce sulla sua immagine sull’onda/ che si smorza avvicinandoci e spingendoci sempre più a riva/ emergono volti cotti dal sole, il vociare alla vendita del pesce", tutti elementi memoriali che si identificano quasi in una pre-esistenza riafferrata che dona pace e familiarità.

"In quella pace vengo a ritrovare/ casalingo e familiare, l’antico focolare". Proprio nella koinè tanto cercata dalla globalizzazione, l’autore si augura che la torre di Babele resti ferma alla sua dannazione, dono di identità e non perdita.

Riporto i versi sicuramente più incisivi di una spiegazione: "Perché non svaniscan le cime / le vette dei romanzieri, dei poeti / globalizzando il linguaggio, vive il vincitore e stende / un velo, un sudario, sul perdente". Lui spadroneggia, e intanto muore "quell'universo che ha cantato Dante a Dio / muore pure l’Infinito, ché tradotto, non vive / non è Infinito appunto".

Vicina all’uomo si rivela la natura in Il Gran Fuoco, altro bel “pezzo” di Diodati. "Notte nella notte / con pensieri amari": l’intensivo di incipit corrisponde al vuoto dei pensieri che nella notte, partorita dal buio, sembra ancor più inabissare l’esistenza. “Atomi di vita, briciole di tempo”, seguirà subito dopo, evidenziando la piccolezza dell’uomo davanti all’infinito spazio-tempo, ma anche la sua presa di coscienza e grandezza. Nello Zibaldone Leopardi, nella “lingua dei nostri”, ravvisava la grandezza dell’uomo proprio nel momento in cui egli diventa conscio della sua finitezza (che questo concetto abbia informato il mio tema di lontana maturità nel '68, mentre scrivo, mi torna grato).

"E ritrovo infine voi, stelle dell’Orsa/ ferme a ricordare un’eterna corsa". L’attribuzione ossimorica alla costellazione (“ferme…eterna corsa”) la rende compagna di viaggio, non indifferente al viandante ma custode di una missione sacra quale quella di attraversare la vita insieme, senza dimenticare l’inarrestabile fluire del tempo, ma anzi rimandandolo al cuore come archetipo del “prima di noi”. Non casuale appare l’uso della parola “tempio” posta alla fine della successiva quartina come implicita richiesta di accoglienza sacrale della vita e del tempo che di notte si sgrana in miliardi di atomi, di ammaraggi e di nuovi approdi verso un’isola paradigma del molteplice significante del vivere nel sorgere della coscienza che termina solo con la morte: "Dai nostri grandi radiotelescopi, / protesi ad ascoltare l’infinito, non giungon che rumori che raccontano / di nebulose… / di universi isole /.. io cerco ancora chi ascolti la mia voce / guarda quella luce ad est sbianca il cobalto /…l’aria si allarga / là, dal mare che tremola / lame rosse".

Nel momento in cui risulta vano il tentativo di cogliere segnali intelligenti dal cosmo, l’intensa solitudine si squarcia in un illuminante enjambement che a grand’angolo dilata spazio e tempo e, fin dove arriva lo sguardo, coglie attimi di colori che sbiancano il cobalto a luce rosa che sale fino alle lame rosse, folgoranti bagliori respiranti passioni che salgono dal mare al cielo. La luce ha inghiottito le tenebre e il Gran Fuoco suona di speranza. Ne ascolto la musica che l’autore mi ha inviato e di cui ho goduto insieme ad un pubblico attento quando l’ho scelta come sottofondo ad una presentazione di poesia.

Diodati continuerà a parlare di esperimenti, io continuerò a scriverne e i “prossimi appunti” canteranno il mare.

Patrizia Garofalo


Nota

1)Il gluone (dall’inglese glue, incollare) è una particella che tiene uniti i quark. È responsabile di “un incollaggio”, una forza, molto intensa. I quark sono particelle difficilissime da concepire e impossibili da vedere isolate.


IDDU

Antico Padre, grazie ancora, O ancient father, thank you again
per aver scelto quella terra a tua dimora, for having chosen this our land for you to live in,
quando gettasti l'àncora, when you threw down the anchor there,
in quella nera isola nel sole... on that black island down there in the sunshine…
...là...dove fioriscon capperi e limoni … there… where we see flowring caper plants and lemons
e amor per l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco... and love for air and fire… and land… and water….

Perché Iddu è aria, è acqua e terra For Iddu is air, is earth and water
perché Iddu è fuoco, for Iddu is fire,
perché Iddu è un faro nella notte... for Iddu is light among the darkness…
Iddu ti parla, Iddu lo senti Iddu can speak, Iddu you feel it,
Iddu che freme Iddu is moving,
Iddu che tutto trema... Iddu, the whole is shaking…
e la sua voce e tutta la sua luce and Iddu’s voice and its illumination
vivono in noi, alive in us,
difficili a spiegarsi so difficult to explain it,
ed a scordarsi... and to forget it….

Là, nelle strade strette ai lati There in the alleys bordered on the sides
da vecchi muri fatti a lava e sgretolati, by ancient walls made of lava old and crumbling
dove correndo, strisciano where mini’s scrape along
le api e al buio sprizzano scintille... and in the dark, their sparks illuminating….
là... dove ritrovi aranci e bouganville, … there…where you will find
the orange and bouganville,
in quella Perla Nera, vorrei tornare... to that black pearl returning, it is my homeland…
Ma quanti ulivi, nei bei declivi, How many olives, now you can find there
adesso trovi the groves descending,
imprigionati in mezzo ai rovi... caught, as in prison among the thorn trees,
e quante viti aggrovigliate, so many grapevines, so old and twisted
stremate a terra, thrown on the mountain
là muoiono assetate sold and twisted
là muoiono assetate... there dying from lack of water...
Iddu da tanto e tanti è abbandonato Iddu by many men has been abandoned..
dimenticato, Iddu forgotten
Iddu che ha sempre il fuoco vivo nelle vene, Iddu has always fire alive inside him,
noi lo scordiamo... we all forget him...

Vorrei che il tempo ritornasse I wish I could go back in time now
a quando io cercavo Iddu ogni sera, the time when I went up to Iddu every evening,
quando guardavo in alto... when I looked above me,
e tra le nubi udivo la sua voce... and in the clouds...I heard the voice of Iddu...
là, dov'è pescoso il mar di cavagnole... there... the sea is blue and full of cavagnole,
in quella amata isola nel sole... on that beloved island... of sunshine
...vorrei infine riposare. to rest in peace now... I'm returning...


Iddu

In questa bellissima poesia, su circa 200 parole trovo 10 aggettivi.
E gli aggettivi, così dosati, hanno una capacità evocativa molto più forte di quanto non avrebbero se fossero impiegati con maggiore frequenza. L’aggettivo è la formulazione di un giudizio e il giudizio in casi come questo, in cui gli aggettivi pesano come pietre, si impone direttamente al lettore: Iddu è antico (padre), nera (isola); lì il poeta dipinge strette (strade), vecchi (muri), bei (declivi), (viti) aggrovigliate, stremate, assetate, (fuoco) vivo.
Se gli aggettivi sono i veicoli delle sensazioni del poeta, i sostantivi sono gli strumenti con cui egli costruisce l’ambiente. In Iddu, una parte dei sostantivi serve a costruire un ambiente dalle radici primordiali, immerse in un tempo mitico: padre, terra (due volte), isola, aria, acqua, fuoco (due volte), sole, lava, scintille, voce (del vulcano), luce (del vulcano); una parte invece serve al poeta
per disegnare l’ambiente mediterraneo in cui la natura e l’uomo hanno trovato un equilibrio magico: capperi e limoni, aranci, bouganville, ulivi, rovi, viti; pochi altri servono a proiettare in filigrana la presenza discreta dell’uomo: faro, strade, muri. Ecco, quello che il linguista in casi come questo ammira è il fatto che il poeta controlli, credo istintivamente, con tanta sapienza gli strumenti a sua disposizione al fine di ottenere l’immersione del lettore nella scena e nel mondo
di emozioni che egli vive.

Augusto Ancillotti,
Ordinario di Glottologia e Linguistica
Università di Perugia



I L G R A N F U O C O


Notte nella notte con pensieri amari
guardo tante luci in cielo, lontani fari…
e ritrovo infine voi, stelle dell'Orsa,
ferme a ricordare una eterna corsa...

Notte nella notte, col pensiero volo
e rivedo tutto in un istante solo...
atomi di vita, polvere di tempo,
isole vaganti e perse in questo tempio

Ah,
dai nostri grandi radiotelescopi,
protesi ad ascoltare l'infinito,
non giungon che rumori che raccontano
di nebulose...
e di universi isole...

Ah,
io cerco ormai non so nemmen da quando
chi ascolti ancora un poco la mia voce,
ti amavo un milione di anni fa...
oppure ieri…
non lo ricordo più...

Guarda quella luce ad est sbianca il cobalto
e un chiarore rosa sale, sempre più in alto…
l'aria si allarga e, rossa in lontananza,
cresce l'aurora e cresce la speranza...


là, dal mare che tremola
lame rosse, poi più bianche che saettano
nell'infinita vastità...
e… col “sia la luce” riappare
il GRAN FUOCO…
ti esalta e t’invita a volare
il GRAN FUOCO…

e sale sale sale a poco a poco
il GRAN FUOCO…

E sale, sale, sale
e s'infiammano i colori in ogni luogo,
col GRAN FUOCO!



T h e G R E A T B L A Z E


Night in the deep night, and sadly thinking
I see many stars above, far off shining.
And I meet you yet again, stars of the Plough
There to remind us of the land to bend and bow.

Night in the deep night, with thoughts awinging,
And I see it all again, in just a twinkling.
Particles of life, particles of time,
Wandering and lost are islands, in this a shrine.

Ah,
from our enormous radio telescopes,
Outstretched to listen to the everlasting,
We only get vibrations so to tell us of
The hazy,
cloudy oh, so distant islands…

Ah,
I have been searching, hardly know since when,
Who listens still a little to my voice.
I loved you many, many years ago,
Or yesterday,
I can’t remember when...

See that easternlight that shines, deep blue and paling
and a gleam of pink is rising and ever rising.
The air is ever spreading red, quite far away,
Dawn is waking and hope, on its way…


From the sea that is flickering
Long, red blades, then more faded now are darting
to the endless vastness
and… with “Let there be light”, it appears
the Great Blaze…
it elates you and invites you to fly
the Great Blaze…

And up and up and up, up to amaze:
the GREAT BLAZE…

And up and up and up
and the colourings aflame where’er you gaze
with the GREAT BLAZE...


LA VOCE DEI NOSTRI

Potete pur privarmi del mio letto, sedia, denti e tetto.
È niente.
Ché il tutto è riposto in tanti dolci suoni.
Lingua che sei straniera,
io sì lo so, vorrei distinguerti sempre dalla mia,
perché la mia non muoia.
Lingua dove il “sì” suona, con dolci gamme per ogni sfumatura
dei sentimenti umani.
Lingua che mi sei cara da quando,
appena schiusi gli occhi, ascoltavo i miei.
La tua dolcezza è un persuadendo gli infiniti suoni,
nostre bell’espressioni,
a non scordare, a non abbandonare.
La nostra lingua è tutto
e nel momento in cui me la strappate,
la nostra immagine muore allora
e tutto macera, fino alla sparizione.
Affiora il remo lasciando gocce sulla sua immagine sull’onda
che si smorza avvicinandoci e spingendoci più a riva.
Portiamo il pesce,
ch’è di questo mare, cioè del Mare Nostrum.
Comprate il nostro pesce, al gusto del sapore antico,
da un viso consumato al sole, al sale, alla sofferenza.
Bevete il nostro vino, comprate il nostro pane,
perché è un tramandare
al mondo questo e quello.
E’ in quel vociare chiaro, che ascolto al porto,
l’identità isolana.
In quella pace vengo a ritrovare,
casalingo e familiare, l’antico focolare.
Non voglio luci.
Quest’isola superstite ha il suo ritmo che si manifesta
e rispetta l’ordine della natura.
E, come tutti i perdenti,
tende a scomparire…
cerchiamo di tenerla intatta, rifiutiamo
di globalizzarla, rifiutiamo!
E la voce dei nostri, ragazzi,
facciamo ricorso ai miracoli,
non facciamo svanire, non uccidiamo
i bei vocaboli,
ché dà vita quella voce ai vostri volti
ed al passato.
Parlami, la nostra lingua, dei nostri avi parla.
Perché non svaniscan le cime,
le vette dei romanzieri, dei poeti.
Private un povero del suo letto e tetto, sempre vive…
Globalizzando il linguaggio, vive il vincitore e stende
un velo, il sudario, sul perdente.
Lui spadroneggia e muore quell’universo che ha cantato
il nostro Dante a Dio.
Muore pure L’Infinito, ché, tradotto, non vive,
non è Infinito, appunto.
La morte canto io perché, globalizzando,
la morte è il suo riassunto.
Et in mercatum animus non potest,
non habuit imperium…
Il cuore sul mercato non ha imperio,
non ha nessun comando.
The heart has no control on market,
no rule of heart exists…


OUR VOICE

You even can carry away my bed, my chair, my teeth and
That’s nothing. home.
Since everything is hidden in many mellow sounds.
Language you are a foreigner
Yes I know well, I’d like to distinguish yours from mine,
so mine may live, for ever.
Language in which the “sì” plays, with mellow ranges for
those human sentiments. every little nuance
Language you’ve been so dear to me since when
I’d scarcely opened my eyes, I heeded my parents.
Your great softness always persuades us to remember
yes never to abandon, very well
fine expressions and lovely mellow sounds.
Our language is everything
And when I have it torn,
then our image is lost
and our world wastes away, slowly disappearing.
The oars emerge and drops fall on their image on waves
which fade out while we push towards the seashore.
We bring the fishes,
just from this our sea, that is from Mare Nostrum.
Purchase please our fish, with it’s ancient savour,
They have been caught by men worm out by sun, by salt
and please drink our wine, purchase too our bread
because it’s handing on to suffering
the world both this and that.
The island identity is that clear shouting
I hear so oft at the seaport.
In that peace, I come to find again,
nice and homely and warm and cosy, the pleasures of home
I don’t want lights. life.
This surviving island has the ancient rhythm which goes on
it respects the natural order.
But it, as all the losers,
tends to disappear…
try to maintain it intact, refuse now and forever
to homogenize it, refuse, refuse!
Our father’s voice, my friends,
resort just to true great miracles,
let not our wonderful words vanish,
they must not be killed,
since our words give life and soul to your faces
and to our past.
Tell me, speak our language, that’s that of our grandfathers.
So the cream of our poets and novelists
can live and not be forgotten.
Deprive a poor man of his bed and roof, he still can live…
With global language, the winner lives and lays
a veil, like a shroud, on the loser.
He domineers and that old universe that our Dante
sang to love and God
dies as well as L’infinito, since, translated, does’nt live
it isn’t Infinito, precisely.
I am singing of death, because the homogenising
is summarised by death.
Et in mercatum animus non potest,
non habuit imperium…
Il cuore sul mercato non ha imperio,
non ha nessun comando.
The heart has no control on market,
no rule of heart exists…


S T R O M B O L I


Lungo le tue spiagge nere, assolate e ferrose
vedi lapilli e lave da onde e vento corrose,
grande balena, obice dei mari,
il più antico sei di tutti i fari
e nel Tirreno riversi ancora il tuo terreno.

Da uno stradello a monte, fatto a sassi e sabbioso
appari un asteroide in un azzurro radioso,
perché d'intorno, dove il guardo arriva,
sembra che il cielo arrivi fino a riva,
o vaporiera, sale il tuo fuoco alla ciminiera.

E andando in su, più in su, in lunga fila indiana,
verso i misteri della vetta, che sensazione strana!
Ed ogni casa, in fondo, un sasso apparirà
ed il paese come ghiaia, lungo il mare, si distenderà...

E andando in su, più in su che vita bella e dura,
sarà per tutti quanti noi una splendida avventura
e nel far fronte a grandi e piccole avversità,
riscopriremo il gusto antico della vera solidarietà.

Lì, tra lunari dune e una natura fiabesca,
cresce d'intorno un'atmosfera acre, dantesca,
senti la terra fremere ai tuoi piedi,
scosti la sabbia ed il vapore vedi,
ecco il crogiolo bolle ed erutta lapilli in fuoco.

E andando in su, più in su tra un fischio e un'esplosione
Stromboli illumina la notte e aumenta l'emozione
noi come tante lucciole, un po’ ammutoliremo
ed ai misteri del Creato, sommessamente, ripenseremo.



S T R O M B O L I


All along your black shores, rich in iron, full of sun
see the lapilli and lava worn by wind and waves that run
whale, oh whale cannon of the blue,
the oldest beacon, yes that's you
in the Tirrenean you still pour your rich amalgam.

From way up high looking down we can see
there's a small black spot in a radiant blue sea,
'cause all around, where the eye can reach
sensations that the sky runs to meet the beach
oh steamer, up goes your fire to the beamer.

And going up, so high, like a file of Indians,
t'wards the mystery of the summit, oh what strange sensations!
And every home below, will just look like a stone
and the village like pebbles along the shore alone...

And going up, so high, what hardship yet what pleasure
would be for everyone of us, a marvellous adventure
and by confronting dangers, be they great or small
we'll rediscover the hidden zest of all for one and one for all.

There among moonlike dunes and a faery aroma
sweeps around a Dantean feeling and such tremor
feel the earth that quakes at your feet
move the sand and the vapour you meet
the cauldron boils and erupts burning embers...

And going up, so high with hissing and explosion
Stromboli lights the sky and works up our emotion
like fireflies in their thousands, 'tis difficult to explain
and the misteries of Creation, we can humbly dwell on again.