domenica 20 dicembre 2009

JACK FOLEY, LA COSCIENZA DI UN POETA

Presento qui, credo per la prima volta per il lettore italiano, il lavoro di Jack Foley, poeta californiano vicino, dapprima, alla Beat Generation e ai movimenti d'avanguardia, eppure forte di una salda formazione accademica, e di una lucida e dotta coscienza letteraria: poeta e critico che, con la sua assidua attività, ha il merito, come osservò Lawrence Ferlinghetti, di tener viva e desta, “articolandola”, la “coscienza poetica di San Francisco”.

Accanto a quattro testi poetici, di cui ho tentato una versione italiana certo segnata da una spessa patina di classicità (del resto, uno dei numi tutelari, dei maestri invocati, come baudelairiani phares, da Foley, è Hoelderlin), e che mostrano l'evoluzione da una maniera lirica e sognante, segnata dall'eredità surrealista e imagista, ad una forse più matura consapevolezza – attraverso la meditata sperimentazione- della materia poetica (che culmina forse in Lemon Balm, dove la sfrenata deriva associativa e l'immaginosa autonomia dei significanti sono comunque sorrette dall'antichissimo topos dello scrivere versi come scegliere ed intrecciare "fior da fiore"), riporto un testo teorico, il quale mostra come anche una coscienza poetica quanto mai moderna e d'avanguardia non possa ignorare, per fondarsi e chiarirsi a se stessa e ai lettori, la consapevolezza dell'antico, il quale, rappresenta, per così dire, lo specchio dell'autocoscienza, il termine di parziale identificazione e di dialettico confronto attraverso cui il soggetto può tornare a se stesso e alla propria originale creazione con un accresciuto grado di consapevolezza critica e di spessore culturale.

La poesia e la poetica di Jack Foley sono illuminate, fra l'altro, da un prezioso ed imponente volume non ancora tradotto in Italia, O Powerful Western Star, Pantograph Press, Oakland 2000, nel quale l'importanza essenziale della performance, della lettura, dell'esecuzione del testo (a cui spesso il poeta si dedica) non va scissa, sulle orme del Mallarmé del Coup de dès, dall'analoga coscienza del rilievo centrale che la parola scritta, il testo, nella sua autonomia, nella sua specificità, nella sua aseità, nel suo assoluto valore, anche visivo e grafico, riveste – pur nel suo essere, per antonomasia, Libro dei morti, segno di per sé muto ed inerte.
Come Sant'Ambrogio immortalato da Agostino, nel sesto libro delle Confessiones, mentre è intento a leggere senza muovere le labbra, facendo risuonare le parole solo nel cavo silenzio dell'anima – o come Mallarmé che esita, teso ed angosciato, di fronte alla pagina bianca -, così il poeta contemporaneo scruta ed indaga il bianco, il vuoto, il silenzio, al pari dello scultore di fronte al blocco di marmo, per trarne le segrete risonanze, le virtualità celate nel profondo ed affidarle alla parola, al segno (forse destinati a giacere obliati per un tempo indefinito), o all'ascolto e alla memoria, per quanto sempre fallaci, all'aria e alle onde sonore che le inghiottono, le sfibrano e infine le disperdono nel vento, nell'attesa vaga di una possibile rinascita.

Ma, come dimostra, agli occhi di Foley (allievo di Paul De Man, e dunque incline ad una sottile ed intelligente decostruzione), il Keats di Ode sopra un'urna greca, a volte il silenzio-parola, la forma-vuoto, il segno-assenza possono condurre il poeta lungo strade imprevedibili, fare emergere significati nascosti e paure rimosse (prime fra tutte, il sesso e la morte). Nella poesia, a volte, può essere (in un modo che si direbbe lacaniano) il linguaggio a prendere coscienza di se stesso e dei propri universali, ma proprio per questo segreti e latenti, valori, anche oltre l'individualità cosciente del poeta. Ed è, questo, un paradosso inquietante, soprattutto agli occhi di un poeta che fa della coscienza critico-teorica uno dei suoi punti essenziali, ma nel contempo ne evidenzia i sempre labili limiti (M. V.)



UPON LEAVING ATLANTIC CITY
(romantic Atlantic City)


The mother-sea exploded with a roar
before we put the lights out and it vanished.
Not even the ladies marching on the boardwalk
were storm enough to pull us down;
we rode out the daylight, dreaming
of drowsy islands where the water's calm.
Night was our harbor, when the midwife, love,
folded us in with its impossibilities,
fished out our pieces till the game made sense.
Sweetheart, forgive the liars and the fools
who shipped us to this place: they thought it best.
Sleep will bear you into gentler water
where painted characters of kings and castles
glitter like islands, and I will close your ears
to the disarranged palaver of pawns and landlubbers


LASCIANDO ATLANTIC CITY

La madremare esplose con un rombo
prima che noi spegnessimo le luci
e svanì. Nemmeno le signore
che camminavano sul lungomare
furono tempesta che potesse abbatterci;
superammo la luce del giorno, sognando
le sonnolente isole dove l'acqua è quieta.
La notte era il nostro porto, quando la levatrice, amore,
ci piegò su noi stessi con le sue impossibilità,
ripescò i nostri frammenti finché il gioco ebbe un senso.
Tesoro, perdona i mentitori e i folli
che ci spedirono in questo luogo: credevano fosse il meglio.
Il sonno ti deporrà su più docili acque
dove figure di re e di castelli
brillano come isole, e io chiuderò le tue orecchie
alla stonata storia di marinai e pedine.


*******



those masters of language whom we emulate
but cannot hope to equal
those masters who summon wor(l)ds in words
we listen
but can only
there are those
who think by opposition
who are awakened only by the circumstance of contra-
diction
we are not
those masters of language
summon wor(l)ds
which
resonate
resound
so that experience is
alive with random fragments seeking others
fragments summoning
not unity but constant interaction

peace
is the reward of oppressive systems which hold imagination by the throat
and murder wor(l)ds


Quei maestri del linguaggio che emuliamo
senza poter sperare di eguagliarli
quei maestri che ammassano mondiparole in parole
noi li ascoltiamo
senza poter far altro che ascoltarli -
ci sono quelli
che pensano per opposizioni
che si scuotono solo allo scoppio di un conflitto -
noi non siamo fra loro -
quei maestri del linguaggio
ammassano mondiparole
che
risuonano
echeggiano
così che vive l'esperienza
con frammenti casuali che cercano i loro fratelli -
frammenti che invocano
non unità ma costante interazione

pacificazione
è la ricompensa di sistemi oppressivi che tengono l'immaginazione per la gola
e consumano l'assassinio dei mondiparole


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FOR MARY-MARCIA CASOLY

those silent birds I gave you
have you listened?
those silent, metal birds
catch sunlight like sound
and flash it to your ears
which nonetheless hear nothing
silence
is a complex entity
which these birds sing in deafening profusion
silence is the—
sings
from their unmoving
wings


PER MARY-MARCIA CASOLY

quei silenziosi uccelli che ti ho donato
li hai ascoltati?
quei silenziosi, metallici uccelli
ghermiscono la luce del sole come il suono
e la riverberano fino alle tue orecchie
che non odono nulla
nondimeno
il silenzio
è un'entità complessa
che questi uccelli cantano in profusione assordante
il silenzio è il -
canta
dalle loro ali
immote

(from Fragments)


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Mein Eigentum
(after Hölderlin)

the great gleams of Hölderlin's
lines (love the gods and think kindly of mortals)
move through my mind
as I walk
east oakland's streets
in the glorious
california light
shining from the buildings
along MacArthur Boulevard
my wife at my side
my son laboring to complete
his book
("my" in this sense
does not imply
possession
any more than
"my god my god why have you forsaken me?"
implies possession:
this is the wife
this is the son
that pertains to me: mein eigentum, my concerns)
the spring day rests now in fullness
cherry blossoms fall
like snow
light from the heavens softly filters
insinuates itself
in everything we see
beglükt, wer, ruhig liebend ein frommes Weib
a pious man with
a pious wife
to what god do I owe my piety?
it is enough to love the sun
(those who've thought most deeply love what's most alive)
and yet:
the mortal soul that has never experienced darkness
barely exists
"a soul will fade away
if it wanders only in daylight
a pauper on holy Earth"
MacArthur Boulevard
full of history
and the history of war
seems innocent
in the sunlight
even "fromme," pious .
in the joy with which
we walk
mornings
before the disasters
of any day
before any god
can seize us
and lift us
into the fierce heights of holiness
O Golden One
let my soul not long
for more than this life contains



Mein Eigentum
(dopo una lettura di Hölderlin)


I vasti bagliori dei versi di Hölderlin
(ama gli dei ed abbi
gentili pensieri sui mortali)
mi attraversano la mente
mentre cammino
per le strade di East Oakland
nella luce gloriosa della California
che stilla dai palazzi
lungo il MacArthur Boulevard
mia moglie al fianco, mio figlio
che lavora per finire il suo libro
(mio in questo senso
non implica possesso
più di quanto mio dio mio dio
perché mi hai abbandonato
non implichi possesso:
questa è la moglie,
questo è il figlio
che mi appartengono:
mein eigentum, ciò
che mi è proprio)
il giorno di primavera giace ora in pienezza
cadono i fiori di ciliegio
come neve
dagli alti Eldoradi filtra
la luce lieve, penetra
in tutto ciò che vediamo
beglükt, wer, ruhig liebend ein frommes Weib
un uomo devoto con una
devota moglie
a quale dio devo la mia devozione?
basta amare il sole
(per coloro che hanno pensato più profondamente l'amore
ciò che più d'ogni altra cosa è vivo)
e ancora l'anima mortale
che non ha mai avuto conoscenza delle tenebre
a malapena esiste
“un'anima svanirà
se si aggira soltanto nella luce del giorno
mendìca sulla Terra sacra”
Mac Arthur Boulevard
pieno di storia
e storia di guerra
sembra innocente
nella luce del sole
e addirittura “fromme”, devoto
nella gioia con cui camminiamo
le mattine prima dei disastri
di ogni giorno
prima che un dio
possa impadronirsi di noi
e sollevarci fino alle altezze fiere del Sacro -
O Aurea Creatura
fa' che non brami la mia anima
più di ciò che questa vita contiene


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LEMON BALM
for L.Z.

conscious longing joint weed polygonaceous
jonquil fragrant yellow or white flowers
showing up in our yard as if by magic
joy stick juba lectionary
pasqueflower
musaceous murther murre myrrh
Muss-o-lini (the plumber named “Muss-o-lini Miles”:
“Just call me ‘Moose’”)
(O Princess Flower, most beautiful of)
Glory Bush
“I love your cock” absolute magnitude
Magnitogorsk desoxyribonucleic acid
desoxyribose Deo gratias coral Mayweed
jigger mortmain Morocco
otalgia O tempora! Papilionaceous
(O Princess Flower, most beautiful of)
press-room prest
And the golden Calif. Poppy
(anthology: a gathering of flowers)
papyrus hemidemisemiquaver
lemon balm


ERBA CEDRINA

per L. Z.

cosciente desiderio stretto a poligonacea erbaccia
fulva fragrante giunchiglia o fiori candidi
svettante nel nostro giardino come da un magico
gioia gambo cecchino lezionario
pulsatilla
musacea madremartire finocchiella
Muss-o-lini (l'idraulico soprannominato Mus-o-lini Miles:
"chiamatemi Moose, già che ci siete")
(Fiore-Principessa, di tutti il più bello)
Cespuglio Glorioso
"adoro la tua nerchia ritta come cresta"
magnificenza suprema
magnitogorchico acido desossiribonucleico
desossiribosio Deo Gratias erbadiprimavera
damerino manomorta Marocco
otite O tempora! Papilionaceo
(Fiore-Principessa, di tutti il più bello)
addetto stampa fatto con lo stampo
E Califfo Aureo. Papavero
(florilegio: corona di fiori)
papiro emidemisemitremito
erba cedrina


*****



From HAMLET, KEATS, AND LA CONSCIENCE DE SOI: A FEW CONSIDERATIONS OF A VAST TOPIC

During the nineteenth century, the figure of Hamlet underwent a shift from being the central character in one of Shakespeare’s most ambitious and exciting plays to being, far more than any of Shakespeare’s explicitlypoetcharacters, an emblem of the poet—“lisant,” as Mallarmé put it, “dans le Livre de lui-même” (reading in the Book of himself). What Hamlet represented to Mallarmé was man confronting hisinner life.” He burns with what Wordsworth calledthat inward eye / Which is the bliss of solitude.”
I think the central issue of Romanticism is the issue Rousseau callsconscience de soi”: self consciousness. The poetry reaches far back into Christian modes ofconfession,” as in Saint Augustine, and attempts to find ways in whichconsciousness,” “inwardnesscan be brought to light. This poetry includes both the intense desire for self-consciousness (as in Wordsworth) and the fear of it (as in Keats’ “Lamia”). What does selfhood taste like? How can one describe “soul”? There is also of course the demonic aspect of selfhoodits manifestation as a powerful “underground,” as in Baudelaire or even Jack Kerouac (“the subterraneans”). One thinks of Coleridge’s Ancient Mariner, whose terrifying self-awareness brings him to the anguished point of admitting his primal crime: “With my crossbow / I shot the albatross.”
I agree with Paul de Man (a mentor of mine at Cornell) thatWhat sets out as a claim to overcome Romanticism often turns out to be merely an expansion of our understanding of the movementand that Modernismdespite its frequent explicit rejection of Romanticismis in fact a thorough-going example of it. In general Romanticism marks the shift from thinking of poetry as a “craft” (and of the poet asmaker”) to thinking of it as a provoker of consciousness, even a creator of consciousness.
The fact is that Hamlet seems real not because he is a coherent character or “self” or because there is some discoverableessenceto him but because he actively and amazingly inhabits so many diverse, interconnecting, potentially contradictory contexts. Implicitly promising to tell us all about the interestingindividualHamlet, the play Hamlet ends by expressing the possibility thatindividualityis in fact multiplicity. It is the plenitude of contexts in which Hamlet functions—i.e., his multiplicitythat gives him density.

(...)

[In Keat's Ode to a Grecian urn], we are in some sort of vague version of idealism—some sort of conception in which the “idealis to be preferred to the “real.” And the urn seems to express that idealism. Nothing is ever consummatedwe are still in the realm of the “unravished bride”—but, on the other hand, desire is never quenched. Such a state, Keats argues lightly, is better than a situation in which consummation occurs.

(...)

Death,” says Hamlet, “is “the undiscovered country from whose bourn / No traveler returns.” Death has suddenly entered Keatspoem: “not a soul to tell / Why thou art desolate, can e’er return.” The artificiality of the paradise Keats was trying to describe protects us against death. Yet that paradise utterly shatters against the actual presence of death in the poem—a presence which both we and Keats know to the bone and which is linked to sexual frustration, itself a kind of death.
To paraphrase Keats’ “Ode to a Nightingale,” the word “desolate” “is like a bell / To toll me back from thee to my sole self”—to the very mortality the poet has been trying to escape by writing the poem. “The fancy,” he complains in the Nightingale Ode, “cannot cheat so well / As she is famed to do.” What began as simple descriptionthis is what is on the urn, it’s only a descriptionhas suddenly turned upon him and revealed the very sources which the poem existed to evade. Keats didn’t know why he was writing the poem, and the poem’s language is now telling him something about his own consciousnessmanifesting conscience de soi.

(…)

The idea ofsilenceis important in the poem. The urn is the “foster child of silence”; Keats writes ofunheard melodies”—silent ones; the streets of the townfor evermore / Will silent be”; there isnot a soul to tell / Why thou art desolate.” In the last stanza the urn itself is called a “silent form,” though in the concluding lines itspeaks”: “thou sayst.” Perhaps the most telling phrase of the stanza isCold Pastoral!” At this point the urn is almost a tombstone, something which extends beyond the life of the humans who constructed it and extends as well into the midst ofother woe / Than ours.” If it is “a friend to man,” it is also cold, like stone, lacking human warmth.

(…)


Da AMLETO, KEATS E LA CONSCIENCE DE SOI: BREVI CONSIDERAZIONI SU UN VASTO ARGOMENTO


Nel corso del diciannovesimo secolo, la figura di Amleto passò dall'essere il personaggio principale di una delle più ambiziose e più entusiasmanti opere di Shakespeare all'essere, ben più di qualsiasi personaggio di Shakespeare espressamente “poeta”, un emblema del poeta stesso - “lisant”, come affermava Mallarmé, “dans le livre de lui-même” (intento a leggere nel libro di se stesso”).Ciò che Amleto rappresentava agli occhi di Mallarmé era l'uomo che si confrontava con la propria “vita interiore”. Egli arde di ciò che Wordsworth chiamava “l'intimo sguardo / che è la delizia della solitudine”.
Credo che la questione centrale del romanticismo sia quella che Rousseau chiama “conscience de soi”: autocoscienza. La poesia recupera, a ritroso, i modi cristiani della “confessione”, come in Sant'Agostino, e cerca le strade per riportare alla luce l'”interiorità” e la “coscienza”. Questa poesia racchiude sia l'intenso desiderio di autocoscienza (come in Wordsworth), sia la paura di essa (come in Lamia di Keats).
Qual è il sentore dell'individualità? Come si può descrivere l'”anima”? C'è, ovviamente, anche l'aspetto demonico dell'individualità – la sua manifestazione come un possente “sottosuolo“, come in Baudelaire o anche in Jack Kerouac (“i sotterranei”). Si pensa al Vecchio Marinaio di Coleridge, spinto dalla propria terrificante autoconsapevolezza fino al punto angoscioso di dover confessare il suo crimine capitale: “Con la mia balestra / Colpii l'albatro”.
Concordo con Paul De Man (uno de miei maestri alla Cornell University) che “ciò che si pone come un'intenzione di oltrepassare il Romanticismo si risolve spesso in un semplice ampliamento della nostra comprensione del movimento” - e che il Modernismo, nonostante il suo frequente, esplicito rifiuto del Romanticismo, è di fatto un perfetto esempio di esso. In generale, il Romanticismo segna il passaggio dal concepire la poesia come un'”arte” (e il poeta come “creatore”) al vedere nel poeta un sollecitatore di coscienza, o addirittura un creatore di coscienza.
Il fatto è che Amleto sembra reale non perché sia un personaggio o un “sé” coerente, o perché vi sia, in lui, una riconoscibile “essenza”, ma perché egli attivamente e meravigliosamente abita tanti diversi, comunicanti, potenzialmente conflittuali, contesti. Pur promettendo, implicitamente, di parlarci dell'”individuo” Amleto, il dramma Amleto finisce per esprimere la possibilità che l'individualità sia, di fatto, molteplicità. È l'abbondanza di contesti in cui Amleto opera – ovvero la sua molteplicità – a conferirgli spessore.

(...)

[Nell'Ode sopra un'urna greca], ci troviamo in una sorta di vaga forma di idealismo – una sorta di concezione in cui l'”ideale” è preferito al “reale”. E l'urna sembra esprimere quell'idealismo. Nulla è ancora consumato - siamo ancora nel reame della “sposa intatta” - ma, nel contempo, il desiderio non è mai quietato. Tale stato, Keats sottilmente suggerisce, è migliore di una situazione in cui la consumazione avvenga.

(…)

“La morte”, dice Amleto, è “l'inesplorata terra dal cui confine / Nessun viaggiatore torna indietro”. La morte ha improvvisamente fatto irruzione nella poesia di Keats: “Nemmeno un'anima potrà tornare per dire / Perché, o paese, così desolato tu sia”. L'artificialità del paradiso che Keats stava cercando di descrivere ci protegge dalla morte. Ancora, quel paradiso improvvisamente irrompe contro la presenza della morte nella poesia – una presenza che sia noi che Keats conosciamo a fondo, e che è collegata alla frustrazione sessuale, essa stessa una forma di morte.
Per parafrasare l'Ode ad un usignolo di Keats, la parola “desolato” “è come una campana / che lugubre risuona e mi richiama / da te alla mia chiusa solitudine” - esattamente a quella stessa mortalità a cui il poeta ha cercato di sottrarsi scrivendo la poesia. “La fantasia”, egli lamenta nell'Ode a un usignolo, “non può ingannare così come / vuole la fama”. Ciò che è iniziato come semplice descrizione – questo è ciò che è sull'urna, una mera descrizione – si è improvvisamente rivoltato contro il poeta e ha rivelato le vere fonti che la poesia era finalizzata ad eludere. Keats non sapeva perché stesse scrivendo la poesia, e la lingua della poesia sta ora dicendo qualcosa sulla sua propria coscienza – manifestando conscience de soi”.

(...)


L'idea di “silenzio” è importante nella poesia. L'urna è “figlia adottiva del silenzio”; Keats scrive di “melodie non udite” - quelle silenziose; le strade della città “per sempre / nel silenzio immerse resteranno”; non c'è “una sola anima che potrà dire / Perché tu sei, paese, desolato”. Nell'ultima strofa l'urna stessa è chiamata “una forma silente”, sebbene nei versi conclusivi essa “parli”: “Tu dici”. Forse la frase più significativa della strofa è “Fredda Pastorale!” A questo punto, l'urna è quasi una pietra tombale, una cosa che si estende oltre la vita degli uomini che la costruirono e si estende, allo stesso, modo, nel mezzo di “lamenti altri / Dai nostri”. Se da un lato essa è “un'amica dell'uomo”, dall'altro è anche fredda, come pietra, priva di calore umano.

lunedì 14 dicembre 2009

Gordiano Lupi, "La poesia di Virgilio Piñera"



Ho il privilegio di pubblicare in anteprima , grazie alla cortesia di Gordiano Lupi, un testo di uno dei massimi autori cubani, che della coraggiosa, contrastata ma vitale ed insopprimibile libertà delle scelte esistenziali ed intellettuali ha fatto l'aspetto essenziale della sua versatile personalità di poeta diviso fra lirismo modernista ed aspra satira, romanziere immaginoso e vivido e geniale drammaturgo, precursore del teatro dell'assurdo così come dell'inquietudine propria della scena esistenzialista (non casuale l'interesse che per lui nutrì Sartre).
Il testo che presentiano, che ha tutta la potente e vivida intensità di colori, suoni e profumi di quell'internazionale, persistente e mitizzata provincia del mondo globalizzato, desta, nella mente di chi non è esperto di cose cubane, analogie forse avventate con le paradossali, estrose ma in fondo sapienemente amare peregrinazioni del Satyricon di Petronio come con il romanzo picaresco spagnolo, con Villon come con i maledetti francesi (e in particolare un Corbière). Ma emerge nitida e potente, su tutto, e in tutta la sua anti-ideologica ed impolitica problematicità, la drammatica individualità dell'essere umano, abbandonato alle strade del tempo e della vita senza una direzione prestabilita, senza catene e vincoli cogenti ma ad ogni passo esposto, proprio per questo, allo smarrimento, al dolore, agli imponderabili meandri del destino o del caso. (M. V.)



VIRGILIO PIÑERA (1912 – 1979)

Teatro dell’assurdo, poesia modernista e narrativa fantastica di uno scrittore pericoloso che non si piega al regime

Guillermo Cabrera Infante racconta in Mea Cuba (Est, 2000) che la morte e il funerale di Virgilio Piñera si trasformarono in una commedia dell’assurdo come quelle che l’autore era solito scrivere. Moriva uno dei più grandi scrittori popolari cubani, ma il regime che aveva perseguitato Piñera con tecniche staliniste, faceva di tutto perché nessuno partecipasse al suo funerale. Non solo. I giornali sudamericani non scrissero una parola sulla morte di Virgilio Piñera e la stampa italiana si adeguò perfettamente. L’editoria nostrana non conosce Piñera, anche se è un autore di livello mondiale, alla pari di Lima, Carpentier e Cabrera Infante. In Italia non esiste un solo romanzo pubblicato, a parte La carne di Renè, edito da un piccolo editore, da anni fuori catalogo e consultabile solo con prestito interbibliotecario. Stessa cosa dicasi per poesie, opere teatrali e racconti. Virgilio Piñera, secondo i nostri esperti di letteratura cubana, non è degno di comparire nemmeno in antologie di autori sudamericani. Ha avuto il torto di non schierarsi dalla parte del più forte, come capita a molti uomini liberi. Ripercorriamo la sua storia.

Virgilio Piñera nasce il 4 agosto 1912 a Cardenas (Matanzas), da padre agricoltore e madre maestra, ma la famiglia si trasferisce presto a Guanabacoa (Ciudad Habana) per motivi di lavoro. Nel 1925 consegue il diploma liceale a Camagüey, allievo di Felipe Echemendía e Felipe Pichardo Moya che lo indirizzano alla passione letteraria. Nel 1935 fonda, con Luis Martínez e Aníbal Vega, la Hermanedad de Jóvenes Cubanos, organizzazione per la diffusione della cultura. Comincia a scrivere le prime poesie e sente crescere dentro la sua vocazione di scrittore. Nel 1937 va a vivere all’Avana, dove viene iscritto gratuitamente alla facoltà di Lettere e Filosofia, a causa della precaria situazione economica. Questo dimostra un’altra bugia della propaganda castrista: non è un merito della Rivoluzione aver inserito le facilitazioni allo studio per i ragazzi meritevoli. Virgilio Piñera è uno studente molto dotato che vede pubblicare la poesia El grito mudo nell’antologia La poesia cubana en 1936 a cura di Juan Ramón Jiménez. Il suo debutto pubblico come poeta risale al 1938 alla Sociedad Lyceum con la lettura di alcuni testi di buona qualità presentati da José Antonio Portuondo (1911 - 1996). Nello stesso anno scrive l’opera teatrale Clamor en el penal, la prima di un gran numero di commedie, e definisce lo stile letterario. Nel 1939 pubblica altre poesie nella rivista Espuela de Plata (1939 - 1941), diretta dal poeta José Lezama Lima, dal critico d’arte Guy Pérez Cisneros e dal pittore Mariano Rodríguez, una delle riviste che precede Orígines (1944 - 1956). Nel 1940 collabora alla rivista Grafos e scrive il racconto El conflicto. Nel 1941 pubblica la prima raccolta di poesie Las furias, scrive l’opera teatrale Electra Garrigó, la migliore e più rappresentata di un vasto repertorio, tiene una conferenza su Gertrudis Gómez de Avellaneda, poetessa e narratrice cubana del secolo XIX. La conferenza su Avellaneda è un momento importante nella poetica di Piñera e fa capire la sua profonda polemica con il passato. “La Avellaneda ha un solo segreto: adornare tutto con le gale orientali delle parole e delle frasi più ricercate e melodiose. Parlare molto senza dire niente o quasi niente”. Piñera è uno scrittore moderno che rompe con la tradizione accademica e con la retorica del passato, sia nella saggistica che nella poesia. Scrive il saggio Dos poemas, dos poetas, dos modos de poesia, su Elegia sin nombre (1936) di Emilio Ballagas e Muerte de Narciso (1937) di José Lezama Lima, due figure poetiche importanti nella sua formazione culturale. Nel 1942 fonda e dirige la rivista Poeta che ha breve vita (solo due numeri), ma è importante per alcuni saggi sulla scrittura che contengono la sua filosofia: “Per me scrivere è stata sempre una vera tortura”. Nel 1943 appare il lungo poema La isla en peso, testo fondamentale nella storia della poesia cubana del XX secolo, paradigma di tutta la sua opera, lavoro emblematico come rottura degli schemi lirici tradizionali. Nel 1944 pubblica Poesia y prosa, dove riunisce otto poesie e quattordici racconti (tra questi Vida de Flora) che confermano la rottura con i vecchi schemi. Nel 1945 collabora a Orígines e scrive poesie importanti come En estos páramos, El oro de los días, Tesis del gabinete azul e La oscura. Nel 1946 lo troviamo a Buenos Aires dove rimane per un anno come vicario della Commissione Nazionale della Cultura ed entra in contatto con i migliori scrittori argentini che influiscono sulla sua formazione. Pubblica il racconto En el insomnio sulla rivista Anales de Buenos Aires, diretta da Borges, scrive su La Nación un articolo intitolato Los valores más jóvenes de la literatura cubana e compone la poesia Treno per la muerte del príncipe Fuminario Konoye. Prima di fare rientro all’Avana pubblica il racconto El señor ministro, ancora su Anales de Buenos Aires, alcune critiche su Realidad e diverse plaquettes ironiche. Il 23 ottobre 1948 debutta la commedia Electra Garrigó, interpretata dal gruppo teatrale Prometeo nel Teatro Valdés Rodríguez dell’Avana. La critica accoglie il lavoro in maniera sfavorevole e Piñera si vendica dei commentatori definendoli incolti sulla rivista Prometeo, nell’articolo Ojo con el critico. Nel solito anno scrive le commedie Jesús e Falsa alarma, la prima del teatro dell’assurdo ispanoamericano, antecedente a La cantatrice calva di Ionesco che risale al 1950. Falsa alarma viene pubblicata su Origines nel 1949, anno in cui Piñera comincia a scrivere il romanzo La carne di René (unico libro tradotto in italiano, ma difficilmente reperibile), pubblicato nel 1952 da Editorial Siglo XX di Buenos Aires. È anche l’anno del colpo di Stato di Batista che conquista il potere con l’aiuto dell’esercito. Piñera fa la spola tra L’Avana e Buenos Aires, città dove ricopre importanti incarichi consolari ma che ama per il moderno clima culturale. Scrive il racconto El gran baro, collabora a Ciclón, diretta da José Rodriguez Feo, interrompe la collaborazione con Orígines di Lima che persegue altri ideali estetici ed entra nella redazione di Sur (pubblica il racconto El Enemigo). Borges inserisce il racconto En el insomnio nella antologia Cuentos breves y extraordinarios.

Nel 1956 Piñera pubblica Cuentos fríos e, proprio mentre chiude la rivista Orígines, intensifica la collaborazione con Sur dove presenta i racconti La carne, La caída e El infierno. Nel 1957 pubblica tre racconti su Les Temps Modernes, mentre chiude anche Ciclón, perché secondo Rodríguez Feo non è il caso di fare una rivista letteraria nel pieno di una lotta armata contro Batista. Piñera continua a lavorare, viene rappresentata Falsa alarma, pubblica racconti sulla rivista Carteles e scrive la pièce teatrale La boda che verrà rappresentata un anno dopo.

Il primo gennaio 1959 trionfa la Rivoluzione. Piñera scrive la commedia El flaco y el gordo, pubblica Aire frío con Editorial Pagrán e comincia a collaborare attivamente al periodico Revolución, diretto da Carlos Franqui. Piñera cura la sezione Puntos, comas y paréntesis, all’interno della quale pubblica saggi e testi critici sotto lo pseudonimo di El Escriba. Molto importante anche la collaborazione a Lunes de Revolución, diretto da Guillermo Cabrera Infante, settimanale in polemica con Lima, Vitier e con tutti i rappresentati della vecchia rivista Orígenes. Le biografie pubblicate dai testi cubani tacciono colpevolmente sul fatto che Revolución e Lunes de Revolución erano riviste dirette da Franqui e Cabrera Infante, intellettuali dissidenti depennati da tutti i libri di letteratura dopo il loro esilio volontario. Tacciono pure sui gravi problemi insorti tra Piñera e il regime dopo una prima fase di convinta condivisione dei valori rivoluzionari. Lo pseudonimo di El Escriba è un’imposizione governativa, per coprire il nome di Piñera, autore noto per le abitudini omosessuali che la Rivoluzione vuole mettere al bando. Tutto ciò nonostante Piñera accetti le riforme rivoluzionarie e scriva articoli come La riforma literaria e Literatura y revolución, che comunque contengono critiche verso la letteratura diretta e al servizio della politica. Nell’articolo Pasado y presente de nuestra cultura (1960) mette in evidenza il grande cambiamento culturale rispetto al passato e si dice disposto a partecipare attivamente al processo rivoluzionario.

Nel 1960, Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir assistono a una nuova rappresentazione di Electra Garrigó, mentre viene pubblicato il Teatro completo di Piñera da Ediciones R dell’Avana. Casa de las Américas fa conoscere il primo capitolo del romanzo Presiones y diamantes, Lunes pubblica la commedia La sorpresa e Piñera scrive El filántropo. A questo punto i testi cubani scrivono che nel 1961 cessa le pubblicazioni Lunes de Revolución, ma non spiegano il motivo, perché non possono. Carlos Franqui e Cabrera Infante sono sempre più critici verso Fidel Castro e il Comandante mette a tacere una voce libera e indipendente. Il 1961 è l’anno decisivo della crisi di rapporti tra Piñera e la Rivoluzione. Lo scrittore non sopporta l’idea di un’arte sottomessa a un disegno politico e critica la messa al bando di libri e pellicole considerate controrivoluzionarie. Il famoso discorso agli intellettuali di Fidel Castro rappresenta la consacrazione di una politica che non può vedere Piñera al fianco di chi imbavaglia gli intellettuali. “Nella Rivoluzione tutto. Fuori della Rivoluzione niente. Il primo diritto della Rivoluzione è quello di esistere. Contro la Rivoluzione non può essere ammessa un’attività intellettuale che ne metta in pericolo l’esistenza”. Sono parole di Fidel Castro. Resta famosa la breve replica di Virgilio Piñera: “Ho molta paura. Non so perché ho questa paura, però so che è la sola cosa che voglio dire”. Reinaldo Arenas citerà questa frase storica di Piñera nel romanzo El portero. Nella vita cubana repressione e censura assumono un ruolo di primo piano, gli intellettuali che vogliono restare liberi non hanno vita facile e si rendono conto che la Rivoluzione si sta trasformando in una spietata dittatura. Questo è il vero motivo della chiusura di Lunes de Revolución, ricostruzione storica che non troverete mai nei libri di letteratura cubana. A Cuba non si fa parola neppure dell’arresto di Piñera, avvenuto nel 1961, durante una notte infernale che vede la polizia dare la caccia a prostitute, magnaccia e omosessuali, pure se lo scrittore si trova a casa, non è per strada ad adescare ragazzini. Secondo i principi rivoluzionari l’omosessualità è un decadente vizio borghese da estirpare, opposto alla naturale e sana eterosessualità del popolo. L’omofobia è un tratto caratteristico della cultura cubana, ma la Rivoluzione contribuisce a rinforzarlo e per gli omosessuali comincia un periodo di tristi persecuzioni. Virgilio Piñera resta a Cuba, nonostante la vita sia diventata un inferno, non se la sente dio compiere la stessa scelta di Cabrera Infante, Carlos Franqui e Reinaldo Arenas. Piñera dirige Ediciones R, molte commedie vengono rappresentate all’Avana e persino in televisione, viaggia in Cecoslovacchia e in Belgio, scrive il racconto Oficio de tinieblas e le poesie Un hombre es así, Yo estallo, El delirante e Un bamboleo frenético. La rivista nordamericana Odyssey pubblica una versione inglese della sua opera teatrale Los siervos e del racconto El gran Baro. Scrive i racconti Un fantasma a posteriori, Amores de vista, El señor ministro e le poesie Los muertos de la patria, Palma negra, Sin embargo…, Entre la spada y la pared e Cuando vengan a buscarme. Nel 1963 pubblica il romanzo Pequeñas maniobras (Ediciones R.), il racconto El filántropo viene tradotto in francese sulla rivista Les Temps Modernes e scrive la commedia Siempre se olvida algo.

Nel 1964 viene ancora rappresentata Electra Garrigó ed Ediciones Unión pubblicano Cuentos completos. Piñera viaggia in Europa, lo troviamo a Praga, Milano e Parigi. Nel 1965 scrive la poesia El jardín, il racconto El caso Baldomero e l’opera teatrale El no, proprio mentre si adatta per la televisione la commedia El álbum. Nel 1965, Piñera denuncia anche l’infame apertura delle UMAP, campi di lavoro forzato per antisociali dove vengono rinchiusi omosessuali, santeros, religiosi, rockettari e persone non in sintonia con la Rivoluzione. Questo i testi cubani non lo ricordano, soprattutto non rammentano le frasi con cui lo scrittore afferma che a Cuba sono ben sessantamila gli omosessuali arrestati. Nel 1966 partecipa al Secondo Incontro Nazionale degli Scrittori e degli Artisti a Matanzas, scrive la commedia La niñita querida. Nel 1967 fa parte della giuria del Premio Casa de las Americas, viene pubblicato il romanzo Presiones y diamantes (Unión), scrive la commedia Dos viejos pánicos, le poesie En el Gato Tuerto, Solicitus de canonización de Rosa Cagí e El banco que murió de amor. Nel 1968 vince il Premio Casa de las Americas per il teatro con Dos viejos pánicos e scrive la nuova commedia Una caja de zapatos vacía.

Virgilio Piñera si afferma come uno dei più importanti autori di teatro del XX secolo, le sue opere vengono rappresentate anche a Bogotà e a New York, soprattutto Dos viejos pánicos. Ediciones Unión pubblicano La vida entera, antologia della sua opera poetica, che rappresenta l’ultimo atto del suo esercizio letterario legittimato dallo Stato.

I primi anni Settanta sono i peggiori momenti della repressione nei confronti degli intellettuali che non si schierano anima e corpo con la Rivoluzione. Se sfogliate un testo di letteratura cubana autorizzato dal regime, vi rendete conto che dal 1970 al 1978 (anno della morte), Virgilio Piñera sembra non esistere, non pubblica niente, perché il governo lo mette da parte. “La proprietà intellettuale è dello Stato”, affermano i principi rivoluzionari, ma soprattutto gli artisti dissidenti e omosessuali vengono messi al bando perché negativi per la morale rivoluzionaria. Un omosessuale rischia trent’anni di galera e addirittura la pena di morte se ricopre un incarico pubblico. Piñera viene censurato a Cuba, accusato di omosessualità per metterlo ai margini della vita culturale. A Lezama Lima le cose vanno meglio, perché Paradiso (1968) è purgato dei passaggi omosessuali, ma non viene ritirato dal commercio. Reinaldo Arenas vive sulla sua pelle ogni tipo di persecuzione, ben descritte nel romanzo confessione Prima che sia notte (edito in Italia da Guanda), fino al sofferto esilio volontario.

Le opere di Piñera continuano a circolare fuori da Cuba. L’atto unico Estudio en blanco y negro viene pubblicato in Spagna, proprio mentre Dos viejos pánicos è rappresentato a Madrid ed esce tradotto in francese Cuentos fríos. Piñera scrive El trac, nuova opera teatrale, e molte poesie ricche di giochi verbali, ma il suo teatro conquista l’Europa. A Londra e a Francoforte sono rappresentate Electra Garrigó e Dos viejos pánicos. In Romania viene tradotto il romanzo Pequeñas maniobras, la televisione spagnola e la radio argentina diffondono Aire frío e Estudio en blanco y negro. Piñera muore di infarto cardiaco all’Avana il 18 ottobre 1979, proprio mentre sta scrivendo l’opera di teatro Un pico o una pala.

Dopo il 1985 a Cuba comincia il processo di rettificazione degli errori, le figure letterarie di Lezama Lima e Virgilio Piñera vengono rivalutate e valorizzate, omettendo tutte le persecuzioni che hanno dovuto subire. Piñera ha molti estimatori e discepoli tra gli scrittori cubani contemporanei della diaspora: Antón Arrufat, Abilio Estévez (I palazzi distanti e Tuo è il regno, Adelphi), Karla Suarez (Silenzi e La viaggiatrice, Guanda) ed Ena Lucía Portela. Il regime cubano ha messo al bando per anni l’opera di Piñera, ma adesso pare che voglia riconvertirlo alla causa rivoluzionaria, modificando e adattando alla bisogna persino la sua biografia. L’operazione è davvero squallida ma in perfetta sintonia con lo stile di una dittatura che non concede nessuno spazio alla libertà individuale. Un ottimo sito cubano raccoglie notizie sulla vita (omettendo i problemi tra il poeta e il regime), un’antologia di testi, la bibliografia e alcuni giudizi critici.
Indirizzo: www.cubaliteraria.cu/autor/virgilio_pinnera/index.html


BIBLIOGRAFIA

Las furias. Poemas. Viñeta y dibujo René Portocarrero. La Habana, Úcar García, 1941.
El conflicto. Un cuento. La Habana, 1942.
La pintura de Portocarrero. La Habana, Editorial Guerrero, 1942.
La isla en peso. Un poema. La Habana, Tipografía García, 1943.
Poesía y prosa. La Habana, Editorial Serafín García, 1944.
La carne de René. Novela. Buenos Aires, Editorial Siglo XX, 1952.// Madrid, Ediciones Alfaguara, 1985.// Pról. Antón Arrufat. La Habana, Ediciones Unión, 1995.
Cuentos fríos. Buenos Aires, Editorial Losada, 1956.
Aire frío: tres actos. Ed. Inaugural Extraordinaria. La Habana, Editorial Pagrán, 1959.
Teatro completo. La Habana, Ediciones R, 1960.
Pequeñas maniobras. Novela. La Habana, Ediciones R, 1963.
Cuentos. La Habana, Ediciones Unión, 1964.// Madrid, Ediciones Alfaguara, 1983 (Literataura Alfaguara, 120).// Madrid, Ediciones Alfaguara, 1990.
Presiones y diamantes. Novela. La Habana, Ediciones Unión, 1967.
Dos viejos pánicos. Teatro. La Habana, Casa de las Américas, 1968 (Colección Premio).// Buenos Aires, Centro Editor de América Latina, 1968.
La vida entera. Poesías. La Habana, Ediciones Unión, 1969.
El que vino a salvarme. Cuentos. Pról. José Bianco. Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1970.
Una caja de zapatos vacía. Teatro. Edición crítica y prólogo Luis F. González-Cruz. Miami, Florida, Ediciones Universal, 1986.
Un fogonazo. Cuento. La Habana, Editorial Letras Cubanas, 1987.
Muecas para escribientes. Cuento. La Habana, Editorial Letras Cubanas, 1987.// Madrid, Ediciones Alfaguara, 1990 (Alfaguara Hispánica, 72).// México, Editorial Diana, 1995.
Una broma colosal. Poesía. Introd. Antón Arrufat. La Habana, Ediciones Unión, 1988.
Teatro inconcluso. Selección, ordenamiento y prólogo Rine Leal. La Habana, Ediciones Unión, 1990.
Algunas verdades sospechosas. Cuentos. Selección Jorge Ángel Pérez Sánchez. Pról. Salvador Redonet. La Habana Editorial Abril, 1992.
El viaje. Un cuento. Pról. Mirta Yáñez. La Habana, Ediciones Unión, 1992.
Teatro inédito. La Habana, Editorial Letras Cubanas, 1993.
El no. Teatro. Pról. Ernesto Hernández Busto. Coyoacán, Editorial Vuelta, 1994.
Cuentos de la risa del horror. Selección Efraín Rodríguez Santana. Bogotá, Editorial Norma, 1994.
Poesía y crítica. Selección y prólogo Antón Arrufat. México, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, 1994.

Edizioni Italiane

La carne di René - traduzione di Giancarlo De Pretis - Il Quadrante - Torino, 1988 - ISBN 8871800664 - reperibile in prestito alla Biblioteca di Scienze Letterarie e Filologiche di Torino


La gran puta

Cuando en 1937 mi familia llegó a La Habana
—uno de los tantos éxodos a que estábamos acostumbrados—
mi padre —como tenía por costumbre sanguínea—
se dio de galletas y se puso a echar carajos.
Llegaron exactamente a las diez de la mañana
de un día de agosto mojado con vinagre;
antes de ir a esperar el Santiago-Habana
tomé un jugo de papaya en Lagunas y Galiano,
y como el deber se impone al deseo
perdí a un negro que me hacía señas con la mano.
Por esa época yo tenía veinticinco años
y toda la vida resumida en la mirada:
años mal llevados porque el hambre no paga:
"Virgilio —me decía Oscar Zaldívar—
no te alimentas lo suficiente. Hay que comer carne..."
De vez en cuando me llevaba a La Genovesa
en la esquina atormentada de Virtudes y Prado,
donde Panchita, una italiana operática(,)
le decía doctor a Oscar y a mí no me decía nada.
Las calles eran vahídos y las aceras desmayos:
en la cabeza los versos y en el estómago cranque.
Corría a la casa de empeños sita en Amistad y Ánimas
buscando que me colgaran entre docenas de guitarras(,)
yo, empeñado, yo empeñando un viejo saco de Osvaldo
para trepar jadeante la cazuela del Auditorium
a ver El avaro de Moliere que Luis Jouvet presentaba.
Era La Habana con tranvías y soldados
de kaki amarillo, haciendo el fin de mes
con los pesos de los homosexuales;
entre los cuales, en cierta manera, me cuento, es
decir, en mi humilde escala: no osaría ponerme
a la altura de la Marquesa Eulalia, del Pájaro Verde,
del Jarroncito Chino, de la Pulga Lírica y del Marqués
de Pinar del Río, y aunque una noche, en el Don Quijote(,)
bailé sobre una mesa disfrazado de maja,
mi alarde palidece ante la magnificiencia
del Pájaro Verde dejándose degollar en el baño.
Según se mire eran tiempos heroicos, tiempos
que fueron cantados por guitarras alcoholizadas(,)
palabras tremendas que eran pronunciadas
con el filo de un cuchillo, mientras allá,
en Marte y Belona, los bailadores realizaban
la confusa gesta del danzón ensangrentado.
Esta gesta alcanzaba proporciones épicas
en el cuchillo de San Miguel: allí Panchitín Díaz
le decía con su voz aflautada a la putica debutante:
"Muchacha, tienes toda la vida por delante..."
y dando dos pasos se metía en la barbería de Neptuno
para entablar un diálogo funambulesco
con la corpulenta Albertino, que se hacía afeitar
una barba imaginaria.
Una noche en el Prado, con su pedazo de cielo
particularmente convulso sobre leones de bronce verde,
sobre leones que temblaban al paso del
Emperador del Mundo —un negro tuberculoso con
el pecho constelado de chapitas de Coca Cola—,
se comentaba con terror manifiesto
la frase ciceroniana de la mujer que se tiró
bajo las ruedas del automóvil de Lily Hidalgo de Conill:
"¡Habana, ábrete y trágame!"
Pero La Habana se hizo aún más rígida
para que ella pudiera ir hasta Colón sin baches,
para que esas noches las putas chancrosas
hicieran buenos pesos y para que lloraran los
sentimentales, entre los cuales también me cuento,
al extremo que podría ser nombrado presidente de
los sentimentales, y ahora precisamente
recuerdo al hombre que vi matar junto a la estatua de Zenea
con su mano convulsa aferrada al seno de mármol
de la mujer que eternamente lo acompaña.

Me pareció que llegaba el Apocalipsis,
pero justo en ese momento oí: "¨¡Maní tostao, maní!"
y metían por mis ojos anegados en lágrimas
un cucurucho de voluptuosidad cubana.
Mi amiga, la Muerta Viva, una puta francesa
que recaló en Sagua allá por el veinticuatro
compraba todos los días el periódico para
ver si en la Crónica Roja aparecía muerto
el cabrón, decía ella, que la dejó plantada en Sagua.
Pero como la vida manda, seguía abriendo las piernas
sin sentimentalismo de ninguna clase.
Yo, que mi destino de poeta me impidió la putería,
soñaba persistentemente con abrir las mías:
cuando el hambre aprieta, sueños monstruosos
se perfilaban en cada esquina, monedas del tamaño de
una casa me caían encima, y todo terminaba al compás
de una frita deglutida al compás de
"Bigote de Gato es un gran sujeto..."
Sin embargo, pensaba en la inmortalidad
con la misma persistencia con que me acosaba
la mortalidad, porque aún cuando viéndome
forzado a escuchar "la inmortalidad del cangrejo"
y ver al tipo pálido sentado en el café de
los bajos de mi casa, con un palillo en los
dientes y un vaso de agua sobre la mesa
pensando en las musarañas, yo me aferraba
a la mentira piadosa siguiendo al mismo
tiempo con la vista los sandwiches de pierna
que rechinaban en mis tripas.
Suaritos anunciaba a Ñico Saquito,
Toña La Negra quebraba la luna con su voz
de tortillera mejicana, Batista daba golpetazos
en Columbia, Patricia la Americana se momificaba
en un disco y Daniel Santos galvanizaba los solares.
Claro está, en la ciudad del sol constante
los fantasmas acostumbraban salir a plena luz:
los he visto acompañándome por Monte y Cárdenas
el día del entierro de Menocal, con ron peleón,
porque de eso el general prodigó, enchumbó, anestesió
y el champán para él y Marianita en París.
"Querida, me dijo Jarroncito Chino, hoy todo el mundo
está jalao, haremos ranfla moñuda,
ya el General templó lo suyo y nosotras moriremos
con un troyó papá bien grande adentro."
Así murió efectivamente. Destino cumplido,
vida realizada, strip-tease de pelo en pecho,
sacando palanganas de agua de culo(.)
Cuando se la llevaron había un Norte de
tres pares de cojones.
Estos son los monumentos que nunca veremos en
nuestras plazas, amorfas, sí, amorfa cantidad
de donde extraigo el canto, en cualquier parte,
bajando por Carlos III que entonces tenía bancos(,)
escuálido, tembloroso, con mi amorosa Habana
siguiéndome los pasos como perro dócil
entre años caídos retumbando como cañones
dejando la peseta en casa de la barajera
para saber (—)¿para saber?(—) si mañana entraré
en la papa... Un pelado en el Mercado Único,
un guarapo en el Mercado del Polvorín,
siempre avanzando, en brecha mortal,
buscando la completa como se busca un verso(,)
¡oh, inacabables calles, oh aceras perfumadas
con orine! ¡Oh, hacendados con pañuelos
impregnados en Guerlain, que nunca
me pusieron casa!
Solo en mi accesoria haciendo mis versitos
veía pasar La Habana como un río de sangre:
y como una puta más del barrio de Colón
los contaba de madrugada como si fueran pesos.


Virgilio Piñera


La gran puttana

Quando nel 1937 la mia famiglia arrivò all’Avana
- uno dei tanti esodi ai quali eravamo abituati -
mio padre - come abitudine sanguigna -
si dette un paio di sberle e cominciò a bestemmiare.
Arrivarono esattamente alle dieci della mattina
di un giorno di agosto bagnato con aceto;
prima di andare ad aspettare il Santiago-Habana
bevvi un succo di papaya tra Lagunas e Galiano,
e siccome il dovere s’impone al desiderio
persi un negro che mi faceva segni con la mano.
A quel tempo avevo venticinque anni
e tutta la vita riassunta nello sguardo:
anni mal portati perché la fame non paga:
“Virgilio – mi diceva Oscar Zaldívar –
non ti alimenti abbastanza. Devi mangiare carne…”
Di tanto in tanto mi portava a La Genovesa
all’angolo tormentato tra Virtudes e Prado,
dove Panchita, un’italiana affabile,
chiamava dottore a Oscar e a me non diceva niente.
Le strade erano indisposte e i nervi stremati:
nella testa i versi e nello stomaco crampi.
Correvo al monte dei pegni posta tra Amistad e Ánimas
cercando di farmi appendere tra dozzine di chitarre,
io, dato in pegno, io impegnando un vecchio sacco di Osvaldo
per raggiungere ansimante il loggione dell’Auditorium
per vedere L’Avaro di Moliere che Luis Jouvet presentava.
Era L’Avana con tranvie e soldati
vestiti di gialle uniformi, che arrivavano a fine mese
con i pesos degli omosessuali;
tra i quali, in una certa maniera, mi conto, come
dire, nella mia umile scala: non avrei osato mettermi
all’altezza della Marchesa Eulalia, del Pájaro Verde,
del Jarroncito Chino, della Pulce Lírica e del Marchese
di Pinar del Río, anche se una notte, al Don Chisciotte,
ho ballato sopra una tavola travestito in modo attraente,
la mia ostentazione impallidisce davanti alla magnificenza
del Pájaro Verde mentre si concedeva nel bagno.
Secondo come si guardino erano tempi eroici, tempi
che furono cantati da chitarre alcolizzate,
parole tremende che erano pronunciate
con la lama di un coltello, mentre là,
tra Marte e Belona, i ballerini realizzavano
la confusa espressione del danzón insanguinato.
Questa espressione raggiungeva proporzioni epiche
nel coltello di San Miguel: lì Panchitín Díaz
diceva con la sua voce leziosa alla puttanella debuttante:
“Ragazza, hai tutta la vita davanti...”
e facendo due passi entrava nel negozio di barbiere di Neptuno
per intavolare un dialogo funambolesco
con la corpulenta Albertino, che si faceva tagliare
una barba immaginaria.
Una notte nel Prado, con il suo pezzo di cielo
particolarmente convulso sopra leoni di bronzo verde,
sopra leoni che tremavano mentre passava
l’Imperatore del Mondo - un negro tubercoloso con
il petto costellato di tappi di Coca Cola -,
si commentava con terrore manifesto,
la frase ciceroniana della donna che si lanciò
sotto le ruote dell’automobile di Lily Hidalgo de Conill:
“Avana, apriti e ingoiami!”
Ma L’Avana adesso è diventata più rigida
per poter andare fino a Colón senza difficoltà,
perché durante quelle notti le sudice puttane
avranno guadagnato buoni pesos per far piangere i
sentimentali, tra i quali anch’io mi conto,
al punto che potrei essere nominato presidente dei
sentimentali, e adesso precisamente
ricordo l’uomo che ho visto uccidere accanto alla statua di Zenea
con la sua mano convulsa aggrappata al seno di marmo
della donna che eternamente lo accompagna.

Mi sembrò che arrivasse l’Apocalisse,
ma proprio in quel momento udii: “Maní tostato, maní!”
grido che metteva nei miei occhi gonfi di lacrime
un cartoccio di voluttuosità cubana.
La mia amica, la Morta Viva, una puttana francese
che andò a finire in Sagua con il ventiquattro
comprava tutti i giorni il quotidiano per
vedere se nella Cronaca Nera dicevano che era morto
il bastardo, diceva lei, che la piantò in asso in Sagua.
Ma come pretende la vita, continuava ad aprire le gambe
senza alcun tipo di sentimentalismo.
Io, che il mio destino di poeta mi impedì di fare la puttana,
sognavo intensamente di aprire le mie:
quando la fame opprime, sogni mostruosi
si profilavano a ogni angolo, monete grandi come
una casa mi cadevano addosso, e tutto finiva al tempo
di una frittura deglutita al tempo di
“Baffi di Gatto è un gran soggetto…”
Malgrado ciò, pensavo all’immortalità
con la stessa persistenza con cui m’incalzava
la mortalità, perché anche quando mi vedevo
obbligato ad ascoltare “l’immortalità del granchio”
e a vedere il tipo pallido seduto al caffè
sotto casa mia, con uno stecchino nei
denti e un bicchiere d’acqua sul tavolo
con la testa tra le nuvole, io mi aggrappavo
alla menzogna caritatevole seguendo al tempo stesso
con lo sguardo i panini al prosciutto
che recalcitravano nella mia pancia.
Suaritos annunciava a Ñico Saquito,
Toña La Negra superava la luna con la sua voce
da lesbica messicana, Batista dava colpetti
in Colombia, Patricia l’Americana si mummificava
in un disco e Daniel Santos animava le catapecchie.
È chiaro, nella città del sole costante
i fantasmi si abituavano a uscire in piena luce:
li ho visti accompagnarmi verso Monte e Cárdenas
il giorno che sotterrarono Menocal, con il suo pessimo rum,
perché quello il generale elargì, profuse, anestetizzò
e lo champagne per lui e Marianita a Parigi.
“Cara, mi disse Jarroncito Chino, oggi tutti
sono ubriachi, faremo una gran festa,
il Generale ha già goduto abbastanza e noi moriremo
con una grande rassegnazione nell’anima.”
Così morì per davvero. Destino compiuto,
vita realizzata, strip-tease di pelo nel petto,
tirando fuori catinelle di acqua sudicia.
Quando se la portarono via aveva un Nord di
tre paia di coglioni.
Questi sono i monumenti che mai vedremo nelle
nostre piazze, amorfe, sì, amorfa quantità
da dove estraggo il canto, in qualche parte,
scendendo verso Carlos III che allora aveva panchine,
squallido, timoroso, con la mia amorosa Avana
seguendo i miei passi come un cane docile
tra anni caduti rimbombando come cannoni
lasciando la moneta in casa della chiromante
per sapere - per sapere? - se domani sarò coinvolto
nella patata... Un pelato nel Mercato Unico,
un succo di canna nel Mercato del Polvorín,
sempre avanzando, in un’apertura mortale,
cercando l’intero come si cerca un verso,
oh, interminabili strade, oh acciai profumati
di urine! Oh, possidenti con fazzoletti
impregnati di Guerlain, che non mi
dettero mai a casa!
Solo nel mio appartamento componendo i miei piccoli versi
vedevo scorrere L’Avana come un fiume di sangue:
e come una puttana in più del quartiere Colón
li contavo all’alba come se fossero pesos.



Virgilio Piñera
(1912 – 1979)

Traduzione di Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

giovedì 3 dicembre 2009

Elisabetta Brizio, “Lasciar tracce. Nota minima ed extrametodica sull’ontologia sociale di Maurizio Ferraris"

Pensare
cosa può essere – voi che fate
lamenti dal cuore delle città
sulle città senza cuore –
cosa può essere un uomo in un paese,
sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante
e dopo
dentro una polvere di archivi
nulla nessuno in nessun luogo mai


Vittorio Sereni, Intervista a un suicida



In Dove sei? Ontologia del telefonino (2005) Maurizio Ferraris si appropria di uno dei nostri oggetti più personali e ne definisce lo statuto ontologico nel segnare il passaggio dalla società della comunicazione a quella della registrazione: ci accorgiamo infatti di esser di fronte a una macchina per scrivere, a un potente strumento per registrare e per archiviare piuttosto che per comunicare, e come tale in grado di contenere una vasta quantità di iscrizioni che appartengono all’universo invisibile, e all’apparenza immateriale, della realtà sociale. Incorporeo o evanescente soltanto all’apparenza perché matrimoni, divorzi, lauree o anni di galera (gli esempi sono di Ferraris) possono condizionare intere esistenze. La registrazione insomma genera degli effetti tangibili. Nella scansione delle argomentazioni Ferraris restituisce all’ontologia lo status che le compete traendola dalla dispersione postmoderna caratterizzata dalla tendenza a generalizzare i casi particolari e dall’indifferenza verso la nozione di verità per un soggettivismo indeterminato. Lavorare a una ontologia dell’attualità e misurarsi con le trasformazioni cui assistiamo, nel tentativo di recuperare anche da questo lato il legame con la realtà empirica, potrebbe apparire – Ferraris scriverà poi in Sans papier (2007) – forse monotono, ma è filosoficamente rilevante, dal momento che l’argomento riguarda il nostro Dasein.
Sull’ontologia sociale in particolare Ferraris si sofferma nella seconda parte di Dove sei?, dove analiticamente espone sia gli argomenti ammissibili che i limiti del realismo (che postula l’esistenza degli oggetti a prescindere dai soggetti) e del testualismo (che afferma l’esistenza degli oggetti come costruzioni del soggetto) e propone l’iscrizione che sancisce il valore sociale dell’atto (Ferraris definisce l’oggetto sociale un «atto iscritto») solo nella misura in cui sia idiomatica, individualizzante, tale cioè da conferire all’atto uno statuto documentale. La società è imprescindibilmente connessa alla registrazione senza la quale non solo una qualsivoglia dimensione sociale, ma anche lo stesso pensiero non potrebbe aver luogo. L’iscrizione idiomatica costituisce dunque il nesso fondante dell’ontologia sociale, altrimenti di noi non permarrebbe che «nulla nessuno in nessun luogo mai», dice Ferraris con un verso di Vittorio Sereni che figurava in Sans papier ad esemplificare sinteticamente la necessità della traccia, segno scritto che garantisce la nostra memoria. Lavoro, Sans papier, in cui diffusamente si argomenta sull’universo di Internet, sulla globalizzazione, sul confine tra pubblico e privato, sulla correlazione paradossale tra il regredire del materiale cartaceo (malgrado l’eccesso di carta che quotidianamente esce dalle nostre stampanti) e il debordare della scrittura, sulla archiviazione e sull’iscrizione idiomatica che fonda la realtà sociale: il mondo sociale può dipendere dalle deliberazioni dei soggetti senza per questo risolversi in costruzione soggettiva, perché è in virtù della registrazione che gli oggetti sociali acquisiscono l’attitudine a istituirsi
La critica a quel postmoderno che aveva perso la distinzione tra essere e sapere era passata attraverso le pagine di Goodbye Kant (2004), del più disinvolto Babbo Natale, Gesù Adulto (2006) e di quelle commosse in memoria di Jacques Derrida (2006), dove Ferraris ripensa alla sua emancipazione dal maestro, e in particolare dall’assunto derridiano secondo cui «nulla esiste al di fuori del testo», il quale, se aveva individuato la centralità della traccia, aveva tuttavia assimilato gli oggetti ideali agli oggetti sociali, confondendo – Ferraris scriveva in Dove sei? – «il sapere con la sua socializzazione». E la filosofia della scrittura, nella lettura alternativa di Ferraris della formula derridiana, resta comunque un punto di riferimento costante: «nulla di sociale esiste al di fuori del testo», in quanto sia gli oggetti fisici che quelli ideali hanno esistenza propria. Un moto revisionista che riannoda il filo di un discorso interrotto e che pone i presupposti per la costruzione della realtà sociale. Dalla scrittura, dal testo, dalla traccia inizia l’iter verso l’oggetto sociale, il quale, a differenza degli oggetti fisici non esiste a prescindere dai soggetti ma in quanto i soggetti pensano che esistano, non è relativo solo per il fatto di dipendere dal soggetto, né dipende solo dalla nostra volontà. E alla registrazione, che sottende una vita sociale che rammenta, cataloga e archivia.
La preistoria di questa «svolta» è tracciabile in alcuni lavori precedenti, quali Estetica razionale (1997), una revisione dell’estetica che culminerà in La Fidanzata Automatica (Bompiani 2007), dove si espone una teoria normalista dell’arte, né eccezionalista né straordinarista dunque, che definisce l’opera un oggetto sociale dotato di iscrizione idiomatica, a dispetto della sua forte vocazione – se assunta dalla prospettiva dell’utente – a fingersi soggetto. Ma in particolare nel Mondo esterno (2001), dove, in una sorta di contromovimento rispetto al trascendentalismo, Ferraris inclinava verso il riconoscimento dell’evidenza e dell’autonomia, e di conseguenza della «inemendabilità», di un mondo «incontrato», che esiste, resiste e segue regole proprie indipendentemente da noi e dalle nostre interpretazioni di esso, che non si risolve nel linguaggio, e del quale il più delle volte abbiamo una conoscenza unicamente empirica cui poco servirebbe associare strutture a priori o schemi concettuali che conferiscano rilievo costitutivo.
Gli oggetti verranno catalogati con frequenti riferimenti ai soggetti, alla vita e alla quotidianità nel Tunnel delle multe (2008), e nel più recente Piangere e ridere davvero (2009) due non sempre incompatibili reazioni soggettive ai nostri stati affettivi sono sottoposte a una implacabile verifica che ci induce a ridefinire ciò che ritenevamo incontestabile. Ancora, dunque, contro ogni presunzione di oggettività, anche il feuilleton filosofico costituisce un invito a non acconsentire ad ovvietà e a riconoscere la dicotomia tra l’essere e il credere infondato. Ma soprattutto il rimando alla vita, alla sfera emotiva, caratterizza un pensiero che è tutt’altro che una ossessione oggettivistica.
Ma è nel suo ultimo libro – Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (Laterza 2009) – che Ferraris espone sistematicamente i risultati della sua ricerca di questi ultimi anni, integrandola e avanzandola, inoltrandosi ulteriormente nell’ontologia del documento, termine ultimo della teoria degli oggetti sociali. Gianni Vattimo, in una recensione al volume apparsa il 29 novembre scorso su «La Stampa» si chiede, invertendo i termini del sottotitolo e trasformandolo in domanda, se «è davvero necessario lasciar tracce, e perché?». Appare necessario – almeno al lettore ingenuo come me – in atti che inverano una vita sociale che altrimenti non avrebbe né luogo né memoria, e l’atto di «lasciar tracce» è inoltre inevitabile nelle più correnti circostanze della vita ordinaria. Gli oggetti sociali sono l’esito di atti sociali, e senza iscrizione – vale a dire senza certificazione, la base ontologica della teoria degli oggetti sociali – verrebbe meno la validità istituzionale dell’atto.
La cosiddetta conversione di Ferraris a una – come egli stesso la definisce – «metafisica descrittiva di impianto realistico», secondo Vattimo, condurrebbe a una antecedenza, a un ritorno «a prima di ogni modernità», ma non se ne avverte la tonalità arcaica o arcaicizzante cui si allude – il catalogo del mondo, per Vattimo, non sarebbe troppo dissimile dalle raccolte museali. Vi si potrebbe invece percepire un altro genere di antecedenza, quell’Husserl che nei «Prolegomeni» alle Ricerche logiche sosteneva che «il ritorno alle questioni di principio resta un compito che deve essere sempre di nuovo intrapreso». Le «arguzie» e le «amenità» rilevate da Vattimo in alcuni lavori di Ferraris, se appaiono funzionali a un alleggerimento della dissertazione, talora sono esplicativi, come nel caso (forse in Dove sei?) dell’episodio dell’Agnese dei Promessi Sposi, addotto a esemplificare la validità della registrazione dell’atto che non necessariamente avviene per iscritto. Oppure, nell’esempio della nota espressione nietzschiana «non esistono fatti, ma solo interpretazioni» trasferita in un’aula di tribunale, tanto per testare, e far reagire con la realtà, assunti non concepibili fuor di metafora. Sia gli aneddoti tratti dalla vita che i riferimenti alle opere letterarie concorrono allora ad abbassare il tono, per così dire, accademico, in un procedere analitico che comunque rigorosamente argomenta: la scrittura filosofica viene insomma deprivata di quell’aurea freddezza tipica di certe filosofie, mentre avvertiamo uno spessore e una intensità che traducono la partecipazione dell’autore. Come nei rimandi alla Recherche. Tra parentesi: parecchi anni fa ebbi la possibilità di seguire un seminario tenuto dal Prof. Ferraris sull’estetica proustiana: senza enfasi alcuna egli riuscì a trasfonderci una sconfinata passione per Proust tenendo sempre ben presenti le implicazioni che quest’opera può contemplare. Non ce lo disse allora che già quindicenne aveva letto tutta la Recherche, ma l’apprenderlo dalle pagine di Sans papier o da quelle di Documentalità non avrà affatto stupiti, né meravigliati, i lettori che come me lo ascoltarono.
Dopo l’annoso lavoro filosofico di Ferraris (che, come scrive in una anticipazione del libro sul «Secolo XIX», è volto a «riconsiderare tutto ciò che tradizionalmente si è pensato sotto la categoria dello spirito concependolo come una modificazione della lettera», a dimostrare che «Geist è .doc») e il suo approdo a conclusioni inevitabilmente provvisorie (visto che ha il merito di confrontarsi con l’attualità, quindi con un oggetto trascorrente), in quale senso nella sua prospettiva sarebbe assente il «salto in una critica di quel che c’è»? Perché questa perplessità, se il realismo si caratterizza come dottrina critica?
La filosofia insegna a dubitare, spessissimo incanta e affabula, talora illude anziché dare, ove ciò sia possibile, risposte plausibili in merito alla vita e all’esperienza. E non ci illude Ferraris: se gli oggetti sociali, affidati come sono alla memoria della registrazione che in larga parte avviene su supporti magnetici e digitali, attraverseranno il futuro, almeno quello immediato, la documentalizzazione della vita dovrebbe possedere tutte le caratteristiche per consegnarci all’eternità, benché si tratti di una eternità relativa, come Foscolo scrisse nell’explicit dei Sepolcri («E finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane»), legata alla configurazione di transitorietà che la locuzione congiuntiva introduce ed evoca: finché, dice Ferraris, nuove innovazioni non renderanno illeggibili i supporti attuali.

lunedì 30 novembre 2009

Patrizia Garofalo, "Quando la maschera cede il passo al volto. Nota sulla poesia di Claudio Moica"

Titolo: Angoli nascosti
Autore:Claudio Moica
Edizioni: il filo

È da qui
che si respira
la ragione del cercare.
Alle estremità del pensiero
vive la verità nascosta….


L’incipit connota indubbiamente una poesia meditativa, del pensiero che nell’autore trova congiungimento nella relazione e contatto tra le cose circostanti che, risvegliate dalla pregnanza della parola poetica, animate popolano gli angoli del cuore.

Ad una prima lettura la frequenza delle ipallagi sembrerebbe enfatizzare la ricerca della conoscenza nell’attribuzione trasversale e multivoca di significati che si dissemina nei vari elementi del verso e del cuore, della ragione e delle emozioni se man mano non ci si addentrasse in un meandro di immagini surreali e metafisiche, ideali inerpicamenti d’abbraccio al mondo perché con calore esso si schiuda all’uomo e al poeta.

Consapevole della necessità di afferrare suoni, musiche e parole che li inveri di cui neanche il vento può riportare i significati, Claudio Moica confida nel silenzio “negli angoli del cuore” e percorre l’ipotesi tonale più alta di cogliere e afferrare il senso della la ricerca del sé.

Dall’ immagine dell’eremo delle carceri che apre suggestivamente la silloge, il poeta coglie la caducità dell’esistere tra un sospiro che appena trovata la verità può con un soffio essere condannato a perderla… e allora invita a salire e a trovare un varco, nell’accezione montaliana dell’impossibilità di rinvenire “la maglia rotta nella rete che ci stringe” che poi scompare nel testo fino a essere lui e lui solo abitante i luoghi del tempo, gli angoli temporali e ottici del cuore e della poesia.

Anche la finestra è un angolo, uno spazio al contempo aperto e defilato e condizione di tempo dal quale il poeta guarda scendere la neve e, in attesa di estati di sole, scrive: ”La neve dell’indifferenza / cala copiosa / ne sento il profumo;/ rimango immobile dalla mia finestra/ sperando / che tu non la sospinga/ alla porta del mio cuore.” E quindi tutto, anche l’amore, risuona nello scorrere del tempo e della ricerca di momenti di echi non raccolti, tensioni, attese, rimandi; e, analogamente, la parola poetica viene sempre più a connotare i tempi del cuore, e solo del cuore, e solo interiori.

E di commozione si parla quando si legge la silloge, un sentimento diverso dall’emozione di superficie e casuale ma un “avvertimento” di vitalità che esplode anche con “chiari presagi di porti mai raggiunti”, che si tinge di mare, di colori, di momenti, di tregue, di lontananze, di presagi: “Ho aspettato che la rabbia / fosse semplice passaggio / di nave senza rotta”.

È una poesia, quella di Moica, di umanesimo mai disgiunto dalla memoria della quale con sovraesposizione emotiva si inoltra nella delazione di “rottami di ipocrisie… ombre di inganni… urla strazianti… preghiere delle madri”; fino all’intensità di “stille di sangue/ come destini d’autunno/ vestirono il cielo/ e languide/ scesero nelle sue mani”.

In questi versi l’empatia del poeta disegna ipallagi disvelanti nel “destino d’autunno” che designano la morte, mentre un cielo partecipe al dolore piange sangue. Poesia quindi quella di Claudio Moica non solipsistica ma sommessa e insieme vitale adesione al mondo fino scrivere: “non possediamoci/ ma cerchiamoci al buio/ tra le pieghe dell’anima”.

“Trasformerò / l’eternità delle stagioni/ in piccoli riflessi/ giocando / al Dio dell’illusione/ pur convinto che“ al di là /di questo mare /baie / che il mio sguardo non scorge / …l’Anima adagiata / si conforta/ di pace presunta.” Le assenze vanno cercate nel rapimento di un volo “dove le nuvole vanno a dormire”, nelle rughe del viso negli “attimi fuggiti / per simulare un’altra volta/ il gioco della vita.”
Negli angoli nascosti dove il poeta custodisce il suo sentire per guardare persino oltre l’illusione: “tu, ladra d’emozioni, / hai carpito / il senso del mare / lasciando nelle mani / dei giovani ciechi/ solo acqua e sale.”

La valenza della silloge è anche nel possibile accoglimento del suo angolo nascosto al sentire del lettore, alle situazioni in cui ci si riflette specularmente leggendo i suoi versi, nelle possibili contingenze non scritte ma comuni, ce fanno sentire e riafferrare la suggestione della poesia quando essa si specchia in un'individualità emozionale e trova “tra le cavità del tramonto / la direzione del dolce sentire”, laddove “si scambiano emozioni/ quando la maschera/ cede il passo al volto.”

Patrizia Garofalo

lunedì 23 novembre 2009

PATRIZIA GAROFALO, "LA LUCE SEPOLTA DI REBORA"

"Come questa pietra / è il mio canto / che non si vede", dice Ungaretti in versi celeberrimi. E Serra, nell'"Esame di coscienza di un letterato", evoca, con timore e forse con oscura speranza, con una sorta di vago e sanguinante desiderio filiale, la terra "buona per i nostri corpi". Qualcosa di non troppo diverso - un consimile senso, quasi, di residuo inorganico, assenza di vita, regressione allo stadio impersonale e minerale proprio nel momento in cui, nel carnaio feroce della trincea, il corpo si fa più nudo e dolente, più atrocemente sentito nella sua fragile caducità - trasuda dai versi e dalle lettere di Rebora, che forse andrebbero ripensati e riletti con un più stretto riferimento al milieu vociano e al contesto storico della "Letteratura della Grande Guerra".
Il cielo, si leggeva nei Frammenti lirici, "Non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe, / Mentre la terra gli chiede il suo verbo". Umano e divino, il soldato ferito e il cristo sofferente, e insieme la terra e il cielo, il temporale e l'eterno, accavallati e intrecciati come in un arco teso, si abbracciano nell'esperienza del dolore, della fragilità, della finitudine, nello spazio in cui si muove, con il suo incompiuto anelito, la coscienza infelice, che non sa rassegnarsi a non poter essere tutto, a non poter scandagliare fino in fondo l'abisso del significato, del pathei mathos (e qui affiora forse il Rebora lettore dei Tragici), della conoscenza che è dolore e del dolore che è fonte di conoscenza. (M. V.)



LA MIA LUCE SEPOLTA
LETTERE DI GUERRA
CLEMENTE REBORA

A CURA DI MARCO DALLA TORRE



Viatico

O ferito laggiù nel valloncello
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio.
Grazie, fratello.

Clemente Rebora


Clemente rivela fin da giovanissimo una “ sensibilità intellettuale acutissima”: così Marco Dalla Torre presenta questo epistolario dal quale si evince come la tensione del percorso di Rebora si elabori e si coniughi lentamente nel suo essere dilaniato tra gli orrori della storia di inizio secolo, che investono e permeano l’animo in una devastante dolente tensione dello spirito che convergerà nella conversione.

Dalla partenza per il fronte appare evidente come il falso mito della guerra rivendicato dai “ vociani” lo veda distante ma anche vittima dell’ orrore più vasto dello sguardo pietrificante della Medusa. Indagare dentro questa tensione è stato attento compito di Dalla Torre, che si fa voce di orrori e riporta l’espressionismo semantico e la disgregazione della parola con la lucidità critica di una selezione che restituisce voce al silenzio che seguì, allora, la produzione di Rebora.

E’ desueto tentare la lettura di un critico che a sua volta riporta la voce di un grande nel suo travaglio. In realtà la mia non è la recensione di uno studio ma una forma di ringraziamento ad una lettura da reportage che Dalla Torre offre non alla sua breve lettura personale, ma, come dono, a chi si può avvicinare a Rebora senza impostazione autoferenziale.

A proprio modo ognuno può entrare nel testo, nell’epistolario poco noto e nel travaglio che lo anima tra la Medusa, più vicina al dipinto di Caravaggio che al mito greco, e un rapporto-dissidio sempre presente tra orrori di guerra e guerra dell’io.

Nella necessità di Rebora di essere parte delle sofferenze altrui, di una risorgenza comune e senza schieramenti , è sottolineata con significativi testi la progressiva disgregazione del linguaggio che esonda in urla disperate di pace. L’orrore e la deriva hanno gambe mozzate, teste dilaniate, sacrifici umani insieme alla puzza del sangue e della carne che marcisce, e reclama non solo sepoltura, ma risurrezione e trasfigurazione nella luce di Dio.



Patrizia Garofalo

venerdì 6 novembre 2009

NICOLA VACCA, UN POETA ALLA RICERCA DEL "DIO VERO"

Questi versi di Nicola Vacca mi ricordano (forse, anzi quasi certamente, per mera analogia, per semplice suggestione soggettiva di lettore, più che per riscontro filologico) il respiro, il passo, il ductus di certi grandi poeti mistici, da Angelus Silesius a Juan de la Cruz.

Dio, che visto da occhi e con occhi umani, è in se stesso purum nihil, antitesi del terrestre, opacità, eclisse, negazione, può forse, proprio dal silenzio, e con e nel silenzio, rivelarsi e parlare. Con il silenzio, meglio che con le parole, può essere umanamente invocato; e bisogna fare vuoto e silenzio nella propria anima perché nel profondo di essa possa risuonare - quale che sia, e qual che ne sia l'enigmatico, forse indecifrabile, messaggio - la sua voce.

Dice, con spirito modernissimo, un salmo: «Perché, signore, stai lontano, / nell'ora dell'angoscia ti nascondi?». Forse Dio è appunto concepibile proprio sotto la specie di quel «vuoto immenso» che le domande ultime e prime, destinate probabilmente a restare senza risposta, spalancano.
Da questo silenzio e da questo vuoto può derivare anche il respiro stilistico netto, secco, a volte in apparenza angoloso e contratto, della versificazione, che tende a procedere per versi raggrupati a due a due, o a volte isolati, ma sempre contrassegnati da una forte condensazione aforistica e da una acuminata pregnanza.

Viene in mente, per analogia come per contrasto, Il Dio dell'impossibile di Patrizia Garofalo, la cui vena è peraltro più sinuosa, più sensuale e fluente: «Il Dio dell'impossibile / Ti significa nell'anima / Mentre accolgo / La tua assenza / Nuda». L'assenza, la distanza, la lontananza (che non hanno misura né metro di comparazione, significando entrambe una stessa mancanza che è simile alla morte) possono accomunare amore umano e amore divino, sensualità e ansia di assoluto. Due tensioni che si fondono nella Sposa del Cantico dei Cantici, nella sua inesausta ed insoddisfatta ricerca: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato / l'amato del mio cuore; / l'ho cercato, ma non l'ho trovato».

Per l'uno come per l'altra, le parole sono «Vestali di vita e morte» - simili all'oraziana tacita virgo, messaggera di sacro silenzio come di eternità.


(M. V.)



A UN DIO VERO

La comunicazione si è interrotta
perché arriva il nulla
dallo scavo della crudeltà
nelle ferite dell’amore.
A un Dio vero chiedo
della paura che invade le anime
dell’inquietitudine che turba i cuori.
Lo invito a darmi tutte le risposte
che dal suo silenzio dovrebbero giungere.
Davanti alle domande
si apre un vuoto immenso.


A QUATTRO MANI CON MIA MOGLIE

Amo la notte
con la passione per il giorno
invento momenti
per vivere e morire.
C’è sempre un’onda che attraversa tutto
in un mare che travolge.
Riempio lo spazio di silenzio
respiro
facendo i conti con secondi.
Bisogna cucirsi addosso un destino
quando tutto sembra perduto.
Si ha sempre bisogno di ali
perché la vita continua
fino ad interrompersi.


CECITÀ

In compagnia dell’oscurità
avanziamo passi incerti.
Disincantati guardiamo in alto

verso un cielo che minaccia pioggia.
Dietro le nuvole ci sarà un sole
che attende di essere liberato.
Intanto abbiamo smesso
di conversare con la luce.
La cecità è il terrore che uccide la gioia.
E’ condannato alla morte più buia
solo che non sa raccontare il male.