mercoledì 5 agosto 2009

PATRIZIA GAROFALO, “ANTONIA POZZI E LA POESIA DELLA MONTAGNA”

«Non monti, anime di monti sono / queste pallide guglie, irrigidite / in volontà d'ascesa», scriveva Antonia Pozzi in Dolomiti. Forse, aggiunge in Prati, la vita è «un soffio eterno che cerca / di cielo in cielo / chissà che altezza». Ecco, questo era per lei la montagna amata: paesaggio interiore e correlato oggettivo, riflesso e proiezione di uno slancio intellettuale e spirituale che voleva – in lei, coltissima al di là degli appassionati e un poco ingenui slanci, allieva di Antonio Banfi, e lettrice di Husserl e di Heidegger, di Mallarmé, di Hölderlin, di Rilke - muoversi entro il vasto spazio, sulla vertiginosa voragine che separava l'esser-ci dall'Essere, marcando la differenza ontologica - proiettare il convulso, apparentemente informe flusso delle “esperienze vissute” nell'assolutezza del piano eidetico, di una “soggettività trascendentale” che potesse investirle di un valore perenne senza privarle, per questo, della loro mobile vivezza, della loro problematicità tormentata.
La poesia non era evasione idealistica o rifugio estetizzante, ma, fenomenologicamente, esistenzialmente, aspro, angoloso travaglio del pensiero e del linguaggio, antitesi dialettica (come si legge nella lettera a Gadenz del 29 gennaio 1933) «tra lo spirito e le forme che inceppano il suo fluire», «forme determinate che ad ogni attimo si spezzano per l'urgere del fluire divino» (e vi è, qui - in questa tensione fra il libero flusso della vita e della coscienza e la fissità delle forme che lo soffocano e lo frenano, e nelle quali, nondimeno, quel flusso non può che cercare di fermarsi, per trovare consistenza e manifestazione -, qualcosa di Focillon come di Pirandello, di Simmel, di Bergson - insomma tutta un'atmosfera concettuale comune al panorama culturale dell'epoca, e fusa, forse, all'influsso dell'immaginario mistico, per la sottesa icona della “luce fluente della divinità”, del “lume in forma di rivera”). Ma ogni cosa che uscisse dalla penna di Antonia Pozzi era - anche quando intellettualmente mediata - espressione sofferta, sentita e dolente della sua esperienza esistenziale, del suo vissuto, della sua “individualità infelice”. Ciò vale addirittura per la tesi su Flaubert, attraversata dal conflitto dialettico, che fu anche della Pozzi, fra sentimento e realtà, soggettività che si autotrascende e “mondo della vita”. E anche nella tesi si incontra la simbologia e l'àmbito metaforico dell'ascesa montana come ascesa esistenziale (si pensi anche al Petrarca della salita al Ventoso). C'era, nell'opera flaubertiana, una «incessante tensione trattenuta che la colloca come in un'atmosfera vibrata di vetta, di spigolo, dove ogni passo è una conquista esatta e la fatica si rastrema in levità attenta, come per un gioco mortale».
Quel gioco mortale, quella sottile, vibrante e precaria oscillazione fra letteratura e vita, fra pensiero e destino, Antonia li esperimentò e li consumò fino in fondo: fino al punto in cui s'infranse la «corazza di Ariel», la difesa della parola poetica e della stilizzazione estetica, e la sua esistenza si risolse, e dissolse, nel suicidio, come esito estremo, e forse più coerente - inevitabile prezzo da pagare, forse, per la sua estrema, purissima e disperata «probità di spirito», inconciliabile con la durezza e l'ingannevolezza del mondo, che Eliot loderà in lei.
Come Hölderlin ai piedi delle Alpi, anche Antonia avvertì la «sacra innocenza» agli occhi della quale «tutto è puro», e seppe intendere e cantare – prima che il suo fluire si perdesse nel Tutto - «i linguaggi del cielo».
Bene fa Patrizia Garofalo, in queste sue pagine intense e suggestive, a citare La montagna incantata di Mann – in cui l'ascesa, la lontananza da terra, il volo, paradossalmente, senza staccare i piedi dal suolo, sono spazio emblematico della sospensione del tempo, dell'oblio, della libertà – come la morte.
Infine, lo specchio della poesia si infranse. Le parole erano vetri che, pur se infedelmente, rispecchiavano il cielo dell'anima. «Una vetrata cadde / ed i frantumi a lungo / sparsero in terra lume». «Sia / nei fiori dei monti / il sepolcro / degli astri spenti». Come in Mallarmé, si era sgretolato l'esangue e fragile miroir di Erodiade, e non restava più che la cendre des astres di Igitur, il polveroso mormorio dei fantasmi sublimi, del celeste niente.


(M. V.)






“E' difficile spiegare la poesia infinita della montagna; forse il fondo ingenuo e primitivo dell’anima nostra, libero da ogni pensiero terreno, ritorna semplice, e ritrova l’istinto antico dell’uomo, la percezione chiara delle grandi bellezze… e nella intima comunione con la severa ed alta natura, ci si rivela quanta gioia ci sarebbe purissima nella nostra vita, se sapessimo ritrovare l’arte di appassionarci ancora delle cose proprio grandi e belle” (Guido Rey, 17 Agosto 1898).
Scalatori e Al sole delle Dolomiti sono due testi che mi hanno sempre accompagnato, rivelazioni di un mondo più vicino al cielo che alla terra, dove si sperimenta e si vive creativamente l’abbandono dei ritmi della vita e il perdersi nel flusso di un tempo straniero alle sovrastrutture e foriero di svelamenti improvvisi, di incantamenti e spaesamenti, di ricerca, di ipotesi sacrali, del silenzio che apre il varco alla parola non peritura. Quando e come, dalla vertigine del buio, la parola conosca la sua epifania nella poesia non è dato saperlo, ma è proprio nella dimensione dell’“inesprimere l’esprimibile”, secondo Roland Barthes, e nell’atto di scoprire una “parola seconda” e altra che consiste l’agito poetico; contro l’obsoleto e l’usura penetra il foglio e lo scolpisce per sempre rimanendo memoria e suggestione meravigliante. E’ quanto accade nell’incontro tra Antonia Pozzi e Tullio Gadenz, un'”amicizia” fuori dal tempo e nel tempo, nelle cose e nella loro sublimazione che orchestra anche la morte ad una percezione d’eternità e trasmuta la gnosi in una pratica sacrale. Come nel “cantico dei cantici”, tradotto dall’ebraico nella trasposizione poetica di Agostino Venanzio Reali, si auspica un futuro nell’ampiezza celeste, vicino alle montagne, così nell’epistolario dei due poeti si delinea l’ipotesi salvifica di un’esistenza defilata che penetri il senso dell’esistenza stessa.

Amato –“ Tu che soggiorni dentro un paradiso
fammi la tua voce riudire
Amata – Tornami a sembrare, amato mio
un cervo, un capriolo sui profili
dei monti che fragrano, viola.”

Antonia Pozzi – “ Radici / profonde nel grembo di un monte / conservano un sepolto
segreto / di origini – e quello per cui mi riapro / stelo / di pallide
certezze”.

Tullio Gadenz – “Ma esser vorrei / Di un grand’albero / In una oscura / Sera / la più
Profonda / Radice.”

Incontri di intensa tonalità, di totale reciprocità e incanto che preludono ad una intesa più ampia e totale e totalizzante che dall’aleph della terra abbraccia tutto il creato fino all’immagine sinestetica del profilo dei monti che “fragrano” viola.

Forte il desiderio che in Tullio Gadenz vede, non a caso, la maiuscola in ogni a capo a connotare ogni incipit come nuova nascita, forte in Antonia Pozzi nella reiterazione della parola “grembo”, dal quale si ripartoriscono le stagioni in una verginità non concessa agli uomini, ma sperata nelle lettere dell’epistolario come intenso vissuto di una poesia che conosce e sa il dolore eppure suona la musica del “per sempre”. Perché la poesia, per definizione, ha carattere di eternità.
Un epistolario pubblicato postumo si offre ad un contatto più diretto con il lettore, a una scrittura meno mediata; “spogliata dal trucco”, la parola di Antonia è affidata alla meraviglia di aver conosciuto un poeta e il poeta dalla prima epistola consegnerà ad Antonia parole di commozione e di gratitudine: “ il suo ricordo non tramonterà”. Lo scritto è breve, intenso e in esso colgo la stessa modalità di “scrittura scolpita” che Tullio Gadenz imprimerà ai suoi versi, mai “rotondi”, se vogliamo ricordare un termine caro a Quasimodo .

“Lei non sa, Tullio. Lei forse non saprà mai che cosa è stata, per il mio spirito affaticato “la scoperta” meravigliosa di lei... Il libro vivo di un’anima, non finisce mai … per chi non vede più che un colore di tramonto, per chi ancora beve l’incanto delle cose, ma non sa, non può… tradurlo più in parole, ah Tullio, è come rivivere trovare un’anima giovane che sprigiona il nostro stesso canto inespresso… perdoni questa mia trasognata lettera… con infinita gratitudine la sua Antonia Pozzi”.

Segna le lettere un avvicendarsi di poesia a due voci .

La situazione dolorosa della poetessa. mai dettagliata nei fatti contingenti, si offre ad una sospirata catarsi nei versi del suo poeta, dei quali si elegge vestale grata e commossa e proprio nella commozione di entrambi si vivifica l’urgere di un risanamento nell’altro. Versi epistolari vibrano la parola secondo spartiti accordati, insieme alla percezione quasi tattile di un altrove, di una erranza, di un incanto che si definiranno in tonalità espressive scandite da un climax ascendente, e in gesti compenetrati dalla cosciente consapevolezza dell’eccezionalità del loro essere insieme - voce all’unisono, risonante eco tra le dolomiti incantate.

“Al cimitero nessuno era andato da tempo; il sentiero era quasi intatto, la neve all’interno era così tesa ed immacolata, che non osai imprimerla del mio passo (solo il mio cuore cantava sul ritmo delle sue parole più tristi), colsi da un pino un ramoscello a forma di croce, lo misi tra le sbarre e venni via… il mio sfiorire non mi doleva più, tanto era concorde con il mio declino lo sbiancarsi di tutte le cose. Così mi è rimasta nel cuore la sua S. Martino… con infinita gratitudine la sua Antonia Pozzi”.

Un passo silenzioso sul camposanto di guerra davanti al quale la poetessa, per non violare il manto di neve intatta, calda consolazione ai morti, pone un rametto a forma di croce sul cancello senza entrare. Sapremo nella lettera che segue di pochi giorni che sarà Tullio Gadenz a trovarla a terra e a porla sulla croce “alta e bianca” del camposanto in una singolare sintonia di gesti che avvicinano sempre più entrambi alla condivisione della sacralità del vivere e del morire.
Una riflessione smarrita e incredula, una sorta di spaesamento sulla pace dell’oltreumano lo induce a chiedere: “ho avuto l’impressione che anche la pace dell’al di là sia una grande illusione. Se fosse vero Lei non crede che tutti i viventi si precipiterebbero verso la morte?”. L’interrogativo viene distratto dalla riflessione, forse anche per il ruolo consolatorio che il poeta si sentiva di avere nei confronti di Antonia, e resta un inciso nella lettera che tanto rimanda alla “montagna incantata” di Mann; stelle impigliate ai vetri e la scoperta mattutina di uno splendente giardino di ghiaccio appena svegli, quando ancora il sonno favorisce il prolungamento del sogno in veglia, insieme alla percezione della mano amata che pone una croce in cima ad un abete, riequilibrano le antinomie tra vita e morte.

Lassù, in montagne dove cielo e cime sembrano volersi congiungere, anche le stelle bussano alle finestre e sembrano riflettere bagliori nel caleidoscopio dei riflessi brillanti e ghiacciati, “incantati”, vergini di pianure che ne “profanerebbero” il candore sporcandole di fango, noia, dolore, costrizioni. Neanche i fiori resistono in pianura uccisi dal freddo e dal loro essere, in altre parole, “essenzialmente” fuori posto. Il silenzio risuona di parole nella melodia degli uccelli nei boschi che chiude la lettera: “non si dimentichi di me”.

Ricordarsi reciprocamente, questo si chiedono ad ogni lettera nell’accezione più compiuta di questo termine, rimandare al cuore il significante che nel suo esistere si nutre anche del timore della fine insieme al desiderio che niente di amato possa essere tradito dal cuore che - scrigno di sentimenti - custodisce attimo dopo attimo per un futuro di memoria, un album di fotografie dell’anima, un canzoniere di liriche “dove solo l’anima pareva poter camminare”.
E’ del 18 gennaio la dichiarazione di Antonia di un dolore pressante. “Sapere la mia piccola croce così in alto sopra i soldati morti quasi mi sgomenta: tanto sono avvezza, ormai, a sostare ai cancelli, così della vita come della morte, ed a sentirmi un po’ come quei giunchi che guardano le acque passare e tremano, sempre infitti nella stessa bassura”.

Tullio le risponderà con un piccolo ritardo di cui si scusa con una modulazione ritmica di parole che entrano nel profondo, affondano nel dolore quasi per ritrovare e donare forza, accarezzano un “tu” confidenziale insieme allo stelo fragile che desidera carezzare e ascoltare. “In questi giorni ho dimenticato anche di esistere. Sono salito su altissime montagne… scendendo a casa mia con la tormenta o con il vento, ho visto fiorire molto nel profondo le stelle… però non ho smarrito la strada che conduce a lei… anch’io voglio essere la piccola, fragile onda che sbatte lievemente a quelle canne… parla l’anima mia - ed accarezza quegli steli che tremano. Mi comprendi, amica?… sorga la tua voce - ad annunciare che qualcuno è nascosto nel silenzio - e nel mio cuore il sole nascerà”. Come non pensare al sogno di Hans Castorp nella tormenta, nel capitolo “Neve” dello Zauberberg? Il quale tuttavia esce da questa esperienza con la convinzione che non bisogna “concedere alla morte il dominio sui pensieri”.

Nella risposta di Antonia un’altra dichiarazione che si aggrappa all’eternità delle alture ed infrangere quel diaframma che Mann chiamava impegno etico dell’uomo verso la pianura: il quale nondimeno può essere avvertito e penetrato solo in una posizione, si diceva, defilata, in un assorto estraniarsi dal tempo e dalla memoria.

Dio è infinito e si esprime in forme che vivificano senza sosta, è un Dio vissuto nelle cose, nel creato, in un panteismo intensamente spirituale che vede nella poesia la conoscenza più alta e la più forte sintesi tra “lo spirito e le forme che inceppano il suo fluire”; e i sentimenti, il silenzio si fanno sbigottimento, parola lirica estasiata, e cancellano il contrasto e il confine fra sogno e realtà: “Vivo della poesia come le vene vivono del sangue”.

Scoprire Dio nella vita prima di giungere a Lui, “far uscire le cose dall’ombra”, abbracciare dolore gioia e amore: “Mi piace raffigurare me stessa come un capriolo pauroso che disegni di piccole ombre la neve… mi mandi presto un altro dono che sappia d’azzurro.”

Entrambe le epistole sembrano lievitare all’eterno pani sacri anche in sofferta ascesa.
Il disagio di Antonia appare nondimeno senza consolazione, le epistole che seguono lasciano il segno di una reciproca fragilità; al peso di chi non avverte più il germogliare della primavera corrisponde quello di chi, solo, trova il suo parlare difficile all’avvertimento di un vuoto incolmabile e senza ritorno: “Raramente io scrivo alle persone che amo, ma invece io parlo con loro improvvisamente in mezzo alla natura e mi pare ch’esse rispondano e che ogni distanza sia distrutta”. Lo scriversi si va diradando, anche impegni e spostamenti dei due lo rendono difficile; troveranno un abbeveraggio a Milano nella casa di Antonia e riusciranno a tornare nella sintonia di sempre: “Forse si sarà accorta… della mia gioia… deve aver sentito che la mia anima si muoveva liberamente nella sua stanza… e sfiorava ogni tanto le sue dita e i suoi capelli… quando ho sentito chiudersi dietro a me la porta della sua casa - è stato per me - come se fossi precipitato in quel momento da un’alta rupe”.

Di un’intensità che affonda nell’anima la lettera del 10 novembre. “Stanotte è morto l’autunno… ho fatto un piccolo volumetto delle mie liriche meno brutte… ho paura che la posta me lo possa perdere. Lo porterò io la prossima volta a Milano… vicino a lei dovrebbero nascere tanti pensieri freschi ed azzurri… in questa busta troverà un fiore. E’ l’ultimo della valle - l’ho colto per lei - perché venisse a morire - come un mio pensiero - nelle sue mani”. La genzianella sarà ricevuta (insieme a versi che si sostanziano, con marcatissima sinestesia, “di pensieri freschi e azzurri”), salvata dalla bufera della vita e della neve con una breve risposta di desiderio di vivere contro il “franare del tempo”, firmata per la prima volta con il solo nome: Antonia.

All’inarrestabile trascorrere del tempo che conduce alla deriva ogni cosa, Tullio comunica di aver scritto un libro di poesie, di cui ben settanta dopo il loro incontro a Milano: “il tempo è la più grande gioia della vita… ogni istante esso ci porta innanzi nell’eternità… bisogna custodire con gioia il piccolo sole che noi portiamo nella vita, e vigilare su tutte le nebbie”.

Seguono cartoline, una d’autore, “Sinfonia candida”, dove l’incisiva sinestesia lascia pensare ad un deliberato dono di Tullio ad Antonia. Nel contempo sappiamo della sua avvenuta laurea, dell’attesa di un praticantato come avvocato, della sua silloge a cui spesso rimette mano. L’insufficienza linguistica lo spingerà a silenzi incantati di montagna che ridonino alla parola l’immagine intensa del suo sentire. Arriverà a Tullio un papavero raccolto da Antonia vicino all’Acropoli, al tramonto “intanto che il vento correva”, baciato “come se in esso vi fosse ancora la soavità delle mani che l’avevano colto”; “… e ho riveduto nella mia memoria, splendere più alta ancora della statua di Minerva che i naviganti scoprono dal Sunio, Lei”. Del loro parlare di poesia scrive: “Non ricordo che fontane di cristallo”. Suggestiva analogia, evocante l’amore per la poesia che invia messaggi di luce, di cristalli sfaccettati, di ipotesi di ricerca nel silenzio ghiacciato iridescente di sole e vita e contemporaneamente rimanda al dolore, nella misura in cui la fontana è “ghiacciata”, immobile, ma non per questo inaridita.

Cartoline rare accompagnano il grande silenzio che non trova più voce che consoli e lenisca l’attraversamento sofferto della vita di Antonia.

Sua l’ultima lettera, forse due, scritte in momenti diversi, dove Antonia singhiozza silenziosa sullo spaesamento e coglie nelle montagne un’infinitezza densa che suona la musica alta del cielo nelle nuvole che passano e alle quali il suo sguardo chiede un concerto d’organo che accompagna come in un requiem l’ultima vista delle Tre Cime, “là erette come una cattedrale gotica, sventrata dal fulmine e spalancata a Dio, che lasciavano prorompere l’urlo delle loro preghiere di pietra”. Tutto a Pasturo si colora della nostalgia, di una impossibile rinascita e ritorno all’origine e alla radice dell’albero, quella profonda di cui Tullio aveva scritto nei versi da lei più amati.

Tutto il resto è storia ed è storia di “pianura”.


Recensione di Patrizia Garofalo (luglio 2009)



Bibliografia

Scalatori, a cura di A. Borgognoni e G. Titta Rosa, Ulrico Hoepli, Milano 1939
S. Casara, Al sole delle Dolomiti, Ulrico Hoepli, Milano 1947
S. Quasimodo, Il poeta e il politico ed altri saggi, Mondadori, Milano 1967
A. Pozzi, T. Gadenz, Epistolario (1933-1938), Viennepierre, Milano 2008.

sabato 1 agosto 2009

Patrizia Garofalo, "Sulla poesia di Gianni Sassaroli"

Le parole si ridefiniscono nell’immagine e la copertina introduce alla silloge di Gianni Sassaroli (L'ombra delle cinque dita, edizione privata) nella solitudine poetica e realistica di uno dei più significativi quadri di Hopper. Un realismo abile a cogliere nell’immagine femminile, inondata dal sole, una finestra da cui niente si scorge, nulla si spera .

Il “ciò che non siamo e che non vogliamo” continua nel poeta come ramo nodoso all’attraversamento sofferto del vivere. Esule volontario da un mondo straniero, barbaro e tracotante, Gianni Sassaroli con la sua silloge ci annoda al dolore e scientemente buca il foglio con l’ombra delle cinque dita. Come la luce di Hopper sottolinea l’isolamento, così l’ombra del poeta non ristora i versi ma li incide e, con lo stesso gioco di contrasti, non suona il pianoforte la mano che scrive, ma arriva graffiante la voce a dirci che in un mondo di giganti si muore.
Lo scrivere assume così la necessità di una messa a fuoco diretta ma anche compromissoria con la realtà. E’ il venire a patti con l’immaginazione che potente spesso rivendica in Sassaroli il dovere di vivere.

«La stanza ancora opaca dell’ultima luce torna pipistrello un / frusciare di rami che sono tende alzate e lasciate nel ritmo / grotte scure gli angoli dei muri / stasera ha anche piovuto e l’erba lascia nelle radici del naso odore / dolce sembra ubriacatura / di stanchezza di battito rapido più lento / vorrei trattenere i respiri prima che il sole violento schiacci tutto e / tutto diventi evidente».

Colgo come sia complessa la lettura di questo testo il cui andare a capo non segue un concetto di logica strutturazione del pensiero ma un agito immaginario in lotta con l’evidenza dalla quale il poeta si distacca proprio nell’infrangere regole di base, di spazi e sguardi. I versi rotolano come sassi da un ghiaione verso valle, senza che nessuno riesca a dirigerli ma, visto che l’ombra delle cinque dita così fortemente scrive, l’intensità del dolore appare ricerca e restituisce alla poesia il valore alto del sacrale cercato. La stanza, opacamente riflessa nella cecità del pipistrello, respira con il modulato ritmo nelle tende alzate e l’aggiunta dell’ “anche ha piovuto” sembra aprire un varco oltre le mura, benevola la pioggia nel sinestetico “odore dolce” che restituisce alla terra e che rientra nell’immagine dell’acqua come emblema di purificazione, nelle nostre radici profumo di buono, di dolcezza, allenta il ritmo del respiro in una configurazione ampia e dispiegata che profuma di amabile ubriacatura, di vendemmie e campagna, di aperto e di aria.
Serve a vivere il prefigurare una tarda nascita del sole, esso non illumina ma sottolinea l’evidenza. Il sole che abbaglia e i pipistrelli che battono nei lampioni di montaliana memoria in questi versi assumono tonalità e spazialità ascendenti pur in una lirica decisamente circolare.
La stanza si ridefinisce infatti in luogo dell’evidenza, ma all’interno si amplia di rumori, colori, ritmi, pianure, pioggia, respiri, immaginazione. E mi sembra di aver trovato il bandolo per leggere queste liriche così complesse ed alte. Esse vivono e pulsano di una musica interna al campo semantico che mettono in scena e in esso dipingono e suonano. Il passaggio è coraggioso, sfrontato quasi. È così che il simbolismo realista della pittura di Hopper è tradotto dal poeta e si disegna in parole a lui consoni, che esplodono e trovano la forza nell’urlo e la quiete nella natura che lo accoglie. «Sono arrivato solo e svogliato il corpo maturo ed invecchiato / a guardare di costa il prossimo giorno che avanza / voglio dimenticare l’origine strana del viaggio / senza impronte recenti».

Il primo lungo verso connota nella rima martellante interna (arrivato-svogliato-invecchiato) un senso di sfinitezza del viaggio umano e «il giorno che avanza» (che, gozzanianamente, possiamo leggere come «il giorno che rimane») è un’aggiunta di inutilità strappata al calendario del tempo, la dimenticanza sembra sussistere come accompagnamento all’anestesia del dolore.

In una struttura aritmica come spesso è il cuore leggiamo anche abbandoni e tregue: «La città è vicina e distante un fiato non porta rabbia/ diffuso quel riflesso diamante/ di luna forse».
Dalla prigionia esistenziale arriva una meravigliosa e ampia figurazione del bacio «sotto il cerchio la ciglia nella guancia sulla bocca salata”; “ quel vento alzerà negli incroci le gonne/ alla più bella che asseconda il movimento dell’alito fresco e ride/ d’essere vista»; «dolcissimo e bello rimane solo sulla fronte il capello riccio»; «il rivolo sul collo della ragazza penetra pensiero pizzicore percettibile/ la lana dei seni».

La fisicità, percettibile nella silloge, sfuma in un orizzonte più lontano spesso ricucito sul dolore, ma che di esso fa poesia e parola accecata dal brivido delle assenze, di volanti attese, di fianco alla vita e nella vita, tangente al male di vivere ma dissetato da «respiri regolari come i fianchi di una gondola/ si muove lentamente».

Dal momento che ho avvertito il suo legame con la pittura di Hopper, altrettanto mi sento di collegare all’arte di Chagall le parole di pausa al dolore.

Forse il mondo è anche sogno dove appendere se stessi qualche volta, e dove l’ombra delle cinque dita può sembrare una carezza.


Patrizia Garofalo

giovedì 16 luglio 2009

GIUSEPPE BAIOCCO, "DAL CERVELLO ALLA CREATIVITÀ POETICA"

Ripubblico in versione digitale, per gentile concessione, un articolo del neuropsichiatra Giuseppe Baiocco (apparso dapprima a stampa su «Atelier», 1997, n. 5), che illumina, con una chiarezza inusitata, le sottili e complesse dinamiche che legano, nella creazione poetica, la sfera verbale e quella visiva, emotiva, sensoriale, l'intuizione istintiva e la consapevole elaborazione formale: due versanti che, senza alcuna forma di riduzionismo o di monismo materialistici, vengono qui ricondotti ai due emisferi cerebrali - da un lato quello demandato al linguaggio, dall'altro quello che la fisiologia, con espressione insolitamente suggestiva, definisce “emisfero silente”. Ebbene queste due sfere, questi due lobi, per così dire, della facoltà percettiva ed espressiva appaiono, nella creazione poetica e artistica, meno nettamente distinti di quanto si pensi: attraverso la sinestesia (la “corrispondenza”, il “colore delle vocali”, l'”orchestrazione verbale” del simbolismo, ma anche il “girotondo delle arti”, l'associazione di colori e suoni di Schönberg e Kandinsky) le rappresentazioni verbali vengono strettamente associate ai suoni e alle immagini, normalmente “silenti”. E precisamente di immagini (cioè di analogie, di metafore, di epifanie, di allegorie) e di suoni (allitterazioni, assonanze, false etimologie, fonosimbolismi, accordi e corrispondenze vocalici) è materiato e tramato il discorso poetico. Ma sullo strato primigenio, archetipico, sulla paleo-logica che sembra accomunare, talvolta, a contatto con l'indicibile, con l'ineffabile, con il “fuori-idioma” di cui parla Zanzotto, anche il più dotto e il più elaborato dei discorsi poetici al balbettamento infantile (alla dantesca “lingua che dica mamma o babbo”, al “pappo” e al “dindi” dei primi conati espressivi), si innestano, in un secondo momento, l'elaborazione formale, il consapevole ed autocritico lavorio stilistico e retorico, che però, data la loro natura essa stessa verbale, fonica, musicale, serbano comunque, potendola tutt'al più limitare e filtrare, l'originaria matrice associativa, arazionale o prerazionale. E si può, su queste basi, ripensare anche il nesso (del resto ben più antico di Lombroso) fra genio e follia, creazione e alienazione (la alienatio mentis che è dei folli come dei mistici, così come di Dante di fronte alla visione del Divino), fra il dominio vitale e iniziatico della poiesis e quello, tumultuoso e abbagliato, della mania, dell'enthousiasmos, del furor. Sembra che la riflessione critica, pur legata e consustanziale all'atto poetico, specie da Baudelaire in poi (eppure anche, ad esempio, in una poetica di matrice per definizione extrarazionale e passionale come quella romantica), venga, in esso, in certa misura incorporata, metabolizzata, fusa con la cosiddetta ispirazione, con la motivazione originaria, e in larga parte oscura, al poetare, fin quasi a non poter essere più nettamente distinta come elemento autonomo, anzi fino a formare, con l'elemento extrarazionale, un tutto unico ed inscindibile, con tutte le inquietanti contaminazioni che questa simbiosi di luce e tenebra, di lucidità e accecamento, di fuoco vivo e traslucido, immoto ghiaccio riflettente, porta con sé. La metà oscura, il lato inintenzionale, non controllabile né razionalizzabile, non sembrano poter essere rimossi, e nemmeno del tutto controllati o esorcizzati, nella creazione artistica come nella vita dei sentimenti. (M. V.)


1. In questo articolo si cercheranno di descrivere i meccanismi cerebrali alla base dei processi creativi poetici e del rapporto tra questi e la loro comprensione psicologica.
Le attuali conoscenze scientifiche del problema ci consentono di affermare che uno dei due emisferi in cui il cervello è suddiviso (quello di destra) entra in azione quando un soggetto ascolta della musica, osserva il viso, la mimica, la gestualità di una persona; l'altro invece esamina la realtà secondo modalità logiche, deduttive ed analitiche. Ciò significa che è in grado di cogliere il significato dei segni semantici convenzionali (quali appunto sono le parole), di afferrare i nessi logici che legano più proposizioni, di recepire i singoli passaggi di un discorso (mentre la comprensione globale ed il senso è afferrato dall'altro emisfero, detto anche musicale, che è portato a fare le sintesi, a cogliere le analogie associando le idee in base a legami emotivi, a procedere per induzione).

Nel presente studio si cercherà di discutere se sia ipotizzabile che la poesia, pur essendo basata sulla forza espressiva della parola, utilizzi a livello cerebrale modalità operative e di linguaggio di quella parte di cervello che in teoria non avrebbe "competenza" su di essa. È probabile che in ciò consista la straordinaria esperienza soggettiva prodotta dall'ascolto di un brano poetico. Si cercherà ora di approfondire meglio il discorso.

E' possibile che nel cervello del poeta avvenga l'esatto opposto di quel che avviene nella materia grigia di un pianista professionista. Studi condotti con sofisticate metodiche elettroencefalografiche computerizzate hanno evidenziato che se un soggetto appassionato di musica ascolta un brano d'opera, è la parte destra del suo cervello ad essere stimolata, ma se è un pianista ad ascoltare la musica che egli stesso suona, accade l'opposto. Anche in questo caso entra in azione l'emisfero "sbagliato". Ciò avverrebbe perché il musicista professionista elabora l'esperienza interna della musicalità a partire dalla "lettura" delle note sul pentagramma e non dalle immagini mentali dei suoni. La sua prestazione artistica parte dall'analisi di segni convenzionali (le note) che "legge" sullo spartito; per questo motivo la parte del suo cervello attivata è la sinistra, come avviene in un qualunque individuo intento nella lettura delle parole sulle righe di un libro.

Si è ipotizzato che nel nostro cervello esista un centro di smistamento capace di discernere i segnali verbali da quelli non verbali: in condizioni di veglia vigile all'emisfero destro arrivano i suoni ed i rumori umani, le vocali, la musica ed i segni non verbali del linguaggio, mentre al sinistro arrivano le parole, le consonanti, le cifre. In particolari situazioni quali l'estasi, la meditazione trascendentale, l'ispirazione creativa, i due emisferi riceverebbero contemporaneamente entrambe le categorie di stimoli, realizzando quello stato fisiologico e mentale definito "pensiero divergente", che potrebbe corrispondere all'esperienza soggettiva dello stato creativo, mistico o immaginativo. Sappiamo che alcune droghe, come i derivati dell'acido lisergico, eccitano le capacità creative e mistiche di un individuo.

In questa particolare condizione, i messaggio smistati dalla parte destra verso quella di sinistra non sono analizzati e trasdotti in linguaggio digitale (basato cioè sulle parole):è come se la parte sinistra del cervello e la sua modalità operativa venissero eclissate da un'esuberanza funzionale della parte "musicale." Nell'emisfero destro, "domina l'immagine e dunque anche l'evocazione di immagini appartenenti al ricordo e le sensazioni che a ciò si ricollegano" (Watzlawick).
A differenza di quanto avviene nella percezione visiva del mondo nelle ordinarie condizioni mentali, le immagini interne si associano in base a quello che nel lessico psicanalitico viene definito "processo primario": ecco perché la poesia fa continuamente ricorso alla similitudine, che è una figura poetica prodotta da un pensiero strutturato per categorie primarie. Vale la pena di spiegare brevemente questo concetto. Il "processo primario" è un tipo di pensiero caratterizzato dal rapportarsi con la realtà in base a schemi affettivi primordiali ed arcaici basati sulla paleologica. Quello della paleologica è un mondo in cui, perché l'identità fra due soggetti sia soddisfatta, è sufficiente che essi abbiano un particolare affettivamente pregnante in comune (ad esempio il predicato) perché siano considerati uguali. Facciamo un esempio: "Il passero solitario" può essere il poeta stesso in quanto egli ha in comune con esso il predicato "solitudine". Infatti il Passero è solo - Leopardi è solo: Leopardi ed il Passero sono soggetti sovrapponibili eseguendo l'operazione logica di identità a livello del predicato "solitario". E' questo un modo di organizzare il pensiero basato sulle categorie primarie. Nel caso citato all'interno della categoria "solitudine" si possono ritrovare infatti sia i poeti che gli uccelli, purché "soli". Il processo primario sarebbe collegato con le modalità operative dell'emisfero destro (Arieti).

Per chiarire meglio i concetti espressi, ricordiamo che, in condizioni di veglia, una persona in uno stato fisiologico di coscienza svolge i normali processi del pensiero in base alla logica comune detta anche "aristotelica" (termine che corrisponde al concetto psicanalitico di "processo secondario"). Sappiamo dalla filosofia classica che le operazioni che un essere pensante fa per valutare la validità dei suoi enunciati sono basate sui principi di identità, non contraddizione e del "terzo escluso". Cioè un uomo sano nel pensare riconosce come valide solo le identità fondate sui soggetti(esempio: Io posso essere solo Io, Io non posso essere contemporaneamente Io ed un altro). Se invece un individuo esegue operazioni di identificazione a partire dalle qualità ("predicati") della sua persona, come precedentemente abbiamo fatto parlando del Leopardi e della sua qualità "solitudine", allora operiamo secondo meccanismi di logica arcaica (paleologica).
La differenza essenziale sta nel fatto che lavorando con le categorie (pensiero secondario), un gatto può essere identificato solo all'interno della classe dei "felini", mentre se utilizziamo le "qualità", esso può essere identificato con qualunque altra cosa, essendo teoricamente infiniti i "predicati" possibili a lui attribuibili (baffi, fiocco, occhi, ecc.).

Questo secondo tipo di logica è sostanzialmente differente da quella "aristotelica", anche perché le associazioni vengono fatte in base a caratteristiche emozionali che ognuno attribuisce alle qualità del soggetto a seconda delle sue condizioni psicologiche (quindi anche di salute psichica).
Per inciso, questo modo di operare è tipico di diverse malattie cerebrali caratterizzate dall'incapacità di organizzare il pensiero in forme di linguaggio coerente, sequenziale, logico (schizofrenia paranoidea, sindrome alogica di Reich, afasia di Wernicke, ecc.).

Anche nel sonno REM (cioè quando si sogna), la produzione onirica segue il processo primario, a differenza di quanto avviene nei sogni non-REM (che avvengono nel sonno cosiddetto "a onde lente"), in cui questi hanno caratteristiche logiche dette "pensiero-simile". E' esperienza di tutti noi l'assurdità dei sogni effettuati nella fase REM; in modo particolare spesso siamo colpiti dal fatto che una certa persona entrata nella trama della nostra attività onirica abbia contemporaneamente le caratteristiche di un altro individuo (manifestando così una rottura del principio di non contraddizione, del tutto "fisiologica" nel sogno).

Ricordiamo infine che un'ulteriore caratteristica funzionale di questo emisfero è quello di operare secondo il principio della "pars pro toto". Questa funzione, collegata con modalità di pensiero induttivo, ci consente di risalire dal particolare all'universale, permettendoci ad esempio di riconoscere un individuo da un suo particolare significativo, come avviene in certi giochi enigmistici. Una delle più classiche figure poetiche, la sineddoche, trova certamente in ciò la sua base cerebrale di funzionamento.

Ma torniamo a parlare del nostri stati emozionali e di come questi, in particolari condizioni cognitive, possano entrare a far parte del vissuto creativo del poeta. Un'emozione può essere avvertita sia attraverso la sua componente viscerale (il cuore che "s'ingrossa", la pelle che si accappona, ecc.), sia psicologicamente, attraverso la produzione di immagini che hanno la caratteristica di presentarsi con la vividezza di un film la cui pellicola scorre non nel senso della temporalità ma della spazialità psicologica: in questo caso infatti le scene non hanno "un prima ed un dopo", sono cioè puntiformi riguardo al tempo, si sovrappongono fra loro in un'istantanea comprensione della totalità e globalità di tutte le immagini visualizzate. E' come se i fotogrammi di un film, anziché scorrere l'uno dopo l'altro sullo schermo(aspetto logico-sequenziale), fossero proiettati tutti insieme, simultaneamente, essendo stati fra loro sovrapposti come le carte di un mazzo (aspetto sintetico-temporale). In questo modo le dimensioni e lo spessore visuale di tali rappresentazioni interne sono psicologicamente talmente dense da occupare tutto lo" spazio mentale" dell'individuo còlto da una forte emozione. Ciò avviene nella cosiddetta "memoria panoramica" delle crisi epilettiche del lobo temporale e nello stato psichico alterato di una persona sana che si trova improvvisamente in immediato pericolo di vita; i soggetti che hanno vissuto tale esperienza raccontano di aver rivisto in pochi secondi "eterni" tutta la loro vita.
Ma torniamo ora agli aspetti cognitivi fin qui descritti, che sono tra loro del tutto differenti ma che hanno in comune il fatto di vedere coinvolto la parte destra del nostro cervello. Questi stati corrispondono ad esperienze endocettuali (cioè a materiale psichico ancora amorfo e grezzo, non comunicabile con chiarezza semantica per via verbale).Tutti noi abbiamo esperienza di come le immagini prodotte mentalmente siano sfuocate, prive di sfondo, di profondità di campo e siano sbilanciate riguardo l'equilibrio compositivo della figura: la visualizzazione cioè è ingigantita in alcuni suo particolari ed è priva di altri.

Da diversi autori viene riportato che certi schizofrenici (come anche i ciechi nati che acquistano la vista da adulti), non riescono ad organizzare la visione nella sua totalità e globalità. Questo disturbo è collegato ad un'alterazione della parte destra del cervello, la cui funzione è quella di far sì che l'insieme di input percettivi "in entrata" venga elaborato in modo totale e globale; altrimenti i singoli percetti attiverebbero le aree cerebrali della visione in modo così frammentario da polverizzare l'unitarietà psicologica dell'esperienza visiva.
Altre regioni del cervello invece, hanno il compito di fungere da analizzatori della percezione, fondendo i segnali in ingresso arrivati in frazioni di tempo diverse, rimontandoli in un processo visivo simultaneo cosicché il tempo psicologico del "vedere" risulti unico.
Questi meccanismi di adattamento cerebrale alla componente cognitiva del processo visivo saltano nelle allucinazioni oniriche della fase REM del sonno, in cui la pregnanza affettiva di alcuni percetti fa sì che questi siano più "salienti" rispetto ad altri che rimangono, per così dire, "in ombra".

C'è quindi una similarità tra le caratteristiche delle immagini mentali della veglia e del sonno e la percezione distorta degli schizofrenici (malattia caratterizzata, tra l'altro, da un cattivo "dialogo" fra le due parti cerebrali). Ciò potrebbe significare che i due tipi di distorsione percettiva siano il prodotto degli stessi meccanismi arcaici di funzionamento psichico cerebrale. A differenza dello psicotico, però, nell'individuo sano questi fenomeni avvengono solo in particolari e ben definite condizioni di regressione, fra le quali appunto vi sono la creatività, il sogno, l'ipnosi, gli stati mistici. In questi casi si verificano delle modificazioni cerebrali che permettono la riduzione della distanza Io-non Io (concetto ben esemplificabile con la frase "sogno o son desto?"), l'attualizzazione dei ricordi, la liberazione delle immagini mentali, l'accesso al mondo della paleologica; si costituisce così lo stato mentale necessario per la messa in moto dell'out-put espressivo .

2. Tramite il linguaggio la coscienza interpreta il mondo esterno ed interno traducendo non solo gli oggetti, ma anche le emozioni, in parole. Nella comunicazione ordinaria la condensazione significato- significante (cioè la fusione in un unico simbolo verbale della cosa in sé e del termine che convenzionalmente la definisce in una data lingua), conserva il valore di strumento operatorio del pensiero logico-digitale. Lo scollamento di tali componenti viene poi operato al momento dello smistamento dell'input tra i due emisferi (ad esempio, il nome è riconosciuto a sinistra mentre il volto della persona cui quel nome corrisponde viene riconosciuto a destra).
È ipotizzabile dunque che nella poesia la parola sia "trattata" dal cervello come nel linguaggio non verbale; deve perciò essere disincarnata del suo valore semiotico e caricata dei contenuti del vissuto emotivo del quale forma il contenitore semantico. Solo così tali contenuti possono venire trasmessi e comunicati con un tipo di linguaggio che ne rispetti integralmente l'aspetto puntiforme, endocettuale, paleosimbolico, atemporale. La poesia cerca così di comunicare per segni verbali, mantenendo però la spazialità, l'immediatezza, la globalità dell'esperienza "interna" che l'ha prodotta e che è intraducibile in linguaggio digitale. Per questo motivo quando si cerca di spiegare un verso ci si accorge che mancano le parole per decifrarlo completamente.
Il problema centrale della poesia è infatti la trasmissione di espressioni verbali usate sia come segni dotati di valore semantico, sia come aggregati di suoni capaci di indurre rappresentazioni mentali, endocetti, immagini, emozioni. Questo perché un verso poetico non può essere costituito semplicisticamente da suoni onomatopeici, ma deve esser fatto di parole, le quali, in quanto segni significanti, sono prive di per sé di risonanze emozionali, che possono però essere acquisite grazie all'amalgama con gli "artefatti analogici" (rime, metrica, allitterazioni, prosodia, ritmo, pause, assonanze, sonorità, ecc.).

Questa fusione, momento tecnicamente molto delicato e "magico", costituisce il passaggio dall'"oggetto interno" informe del momento ispirativo, alle forme semanticamente strutturate del verso compiuto, il quale appoggia il suo "corpo verbale" sugli "artefatti analogici" dei quali costituisce l'impalcatura fonemica, riuscendo così a restituire al lettore la forza visionaria dell'emozione concepita a partire dal versante espressivo dell'atto creativo. Si decompongono così le "forme", cioè il linguaggio logico-verbale ed i suoi segni significanti che fanno da supporto comunicativo ai contenuti della poesia, fino a scomporle, discioglierle, fluidificarle, liquefarle per ottenere un magma omogeneo trasmissibile come contenuto immediatamente, globalmente, simultaneamente, totalmente, percepibile. Una vocale cessa di essere lettera per divenire grido, gemito, sussurro, vento.

Ecco quindi che la poesia nello spostarsi sempre più sul versante analogico della comunicazione riduce di molto la "distanza" fra il significato ed il segno ad esso adeso (cioè la parola che lo denota). Infatti nel linguaggio verbale rimane sempre una deconnessione, una scissione, fra significato e parola, ed in particolare tra emozione e simbolo.

Così il processo tutto mentale della visualizzazione trascende in suoni semanticamente strutturati, costituiti da sonorità in modo tale che l'immagine visuale da essi evocata si sovrappone, incarna, riveste quella sonora al punto che la parola con la sua "rumorosità" può divenire un tutt'uno con l'immagine visiva che incarna. In questo modo il vissuto emotivo viene veicolato tramite segni semantici nei circuiti comunicativi di tipo non verbale, che a questo punto sono gli stessi dell'emisfero "musicale".

3. In sintesi possiamo quindi affermare che anche fenomeni psichici appartenenti alla sfera del "trascendente", rappresentano in realtà il frutto della imprevedibile e continua interazione dinamica tra patrimonio cromosomico, cervello ed ambiente, contribuendo a dar corpo psicologico al vissuto dell'individuo, alla sua storia ed al suo "processo di individuazione" (Jung).
In ognuno di noi avviene una mescidazione universalmente unica e irripetibile di esperienze ed elaborazioni cognitive che coinvolgono la Coscienza, il suo Io e le strutture diacroniche della personalità (cioè il "film" della storia della nostra vita). Scopo di questo lavoro è stato anche quello mostrare come una lettura biologica delle emozioni e dell'arte di esprimerle (la poesia) sia tutt'altro che deterministica e prigioniera di un riduzionismo da "psichiatria molecolare".


Giuseppe Baiocco

"Il presente del silenzio: l’'ora crepuscolare' in 'Elegia' di Sergio Corazzini", di Elisabetta Brizio

Pubblico volentieri queste note di Elisabetta Brizio – rigorose e insieme sensibili, di un rigore quasi accademico, quasi semiotico e strutturalistico, eppure animate e illuminate da una viva partecipazione umana ed esistenziale – che esplorano un'altra dimensione (stavolta prettamente testuale, più e oltre che tematica, contestuale, ambientale) della “provincia” crepuscolare: quella del silenzio, dell'ammutolimento, della reificazione verbale e fonica (corrispettivo testuale e semantico del mistero, del tramonto, dell'ombra, della morte, motivi-emblemi che saranno al centro di un altro grande ed enigmatico testo del Corazzini estremo, La morte di Tantalo) che in Corazzini (come già in Mallarmé e nel D'Annunzio più assorto ed inquieto, e come poi, più sistematicamente e più arditamente, nei futuristi e nel primo Ungaretti) si traducono, visivamente ed espressivamente, nei blancs, negli iati, nelle sotterranee e latenti discontinuità, nelle pause/lacerazioni, del dettato poetico.
“Provincia del linguaggio”, in certo modo, il silenzio: limite ombroso ed immoto avvicinandosi al quale le parole, i suoni, le voci si diradano, si fanno via via più rari, e insieme più puri – allo stesso modo che il nulla, il vuoto, l'abbandono, l'oblio, l'opacità crepuscolare sono “provincia dell'essere”. E in ciò, forse, precisamente in questo rapporto, in questo dilatato e dolente intervallo/ferita, fra la voce e il silenzio come fra l'essere e il nulla, sta, oltre che l'attualità perenne del crepuscolarismo, anche l'essenza del genere elegiaco modernamente (e variamente) rivisitato, dal D'Annunzio delle Elegie romane («Tacciono i venti sopra: non fremito corre le cime; / non, nel profondo incanto, giungon da l'Urbe voci. // Nascere dal silenzio paiono tutte le cose / come le salienti nubi dal mare. (...) // Soli i lauri con lieve tremito incessante / dan tra la selva indizio de la nascosta vita») al Rilke delle Duinesi («ma ascolta il soffio del messaggio eterno / che dal silenzio si forma, e che ti giunge / dai morti prematuri. / (...) E abbandonare anche il proprio il nome / come un giocattolo spezzato»). Ma già l'elegia latina (si veda Properzio, IV, 7: «Cynthia namque meo visa est incumbere fulcro, / murmur ad extremae nuper humata viae. / (...) Inter complexus excidit umbra meos»), esplorava quello spazio “tendente a zero”, sottile ed infinito, minimo ma insieme colmo di risonanze sconfinate, che divide la parola dal silenzio, la vita dal nulla.
«E sarà dolce non seguirne il senso». Le vecchie canzoni, le parole logorate, stinte, affiochite dalla lontananza fino al limite dell'evanescenza e del dileguo, emblematizzano la condizione nuda e indifesa, essenziale ed insensata, della vita ormai protesa alle soglie del nulla e del vuoto. La soglia, il limen della morte (il leopardiano «supremo scolorar del sembiante», il momento estremo in cui “non si sente nulla”, o, precisamente, “si sente il nulla”, delle mummie di Federico Ruysh) rende l'uomo presente e vigile alla propria nullità, alla propria quasi essenzializzata e ontologizzata
nihilitas; allo stesso modo che, sul piano della stilizzazione metatestuale, il bianco, il vuoto, il silenzio che avvolgono e velano la parola la riconducono al cuore luminoso della sua fragilità, al tesoro splendente della sua mortalità che è preludio di rinascita. (M. V.)



essence is the word for the finger
that shows us bright blankness
Dead in Time
You’re dead already
What’s a little bit more time got to do
whit it
sing sound silence
of my sound
Jack Kerouac


In perfetta convergenza tra misure prosodiche e dettato interiore, nell’articolazione strofica di Elegia (Frammento), pubblicata in una plaquette a parte senza indicazione della data nell’intervallo intercorso tra l’uscita del Piccolo libro inutile e del Libro per la sera della domenica (entrambi del 1906), Corazzini svolge il motivo della malinconia crepuscolare attraverso un emblematico - e funzionale - rallentamento del discorso poetico enfatizzato dal frequentissimo uso della virgola, ma senza per questo stravolgere quella continuità sentimentale che lungo i versi è percepibile nell’iterazione assidua e ossessivamente marcata di alcuni gruppi semantici.

Stabilito come eminente connotatore del testo, il campo onomasiologico relativo al pianto - leit-motiv incontrastato e debordante dell’opera - assegna una definitiva uniformità di ispirazione tanto a una tonalità emotiva fatta di rassegnazione regressiva che al nucleo tematico fondamentale: il quale gravita intorno al tema, già pascoliano (ma privato delle pascoliane implicazioni) del compianto per l’infanzia ignara, spazio dei sogni e delle illusioni della vita. La coerenza tematica di Elegia emerge nella quarta strofe, attraverso l’equivalenza semantica di “triste” e “dolce”, i due aggettivi di derivazione jammesiana che nelle rimanenti strofe, nonché negli altri testi corazziniani, si mantengono nei limiti della loro pur impercettibile differenza di significato, laddove il “forse” - come ha fatto notare Stefano Jacomuzzi - non ha valore restrittivo, ma di estensione e di dilatazione dell’attesa vana:

sarà come se tu cantassi una
preghiera incomprensibile, per lungo
volger di tempo, in fin che una sera,
forse più dolce e triste, all’improvviso
t’avvenisse, così, senza sapere,
di comprenderla intera.

Nella seconda strofe alla nozione di un passato pieno di dolcezza (“Ti sarebbe / dolce un imaginare di lontani / giorni che la tristezza esiliò / con le favole”) fa riscontro un presente di malinconica tristezza (“quelle povere favole soavi / senza amarezze e pure, adesso, tanto / tristi che, quasi, piangi per averle / in cuore, tutte”). E a un presente di tristezza, individuabile ancora all’inizio della terza strofe (dove l’autore sembra quasi catalogare alcuni degli oggetti del repertorio crepuscolare):

Piangi pur anche la malinconia
mortale d’una piccola bottega
nera, di vecchi mobili, di vecchi
abiti, in una triste via, nell’ora
crepuscolare, e tutte quelle cose
imagini che siano per morire
in uno specchio, simili a dei fiori
obliati in un vaso?

dovrebbe succedere, inusualmente in Corazzini, un futuro che, come il rifugiarsi nel passato, si riserverebbe di offrire al poeta la tristezza di una felicità evanescente e improbabile:

Sorriderai: se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore?

Analogamente, più avanti:

Tu vedrai; la bella
Vita imagineremo in una chiara
morte. Come se tu fossi, ogni giorno,
per giungere ad un mio primo convegno

Definita (al verso 52) l’equivalenza semantica dell’abusatissima coppia corazziniana “triste” e “dolce” il poeta può procedere all’identificazione tra passato e futuro, pervasi di congetturali dolcezze, in un presente che appare piuttosto gravato da una disillusa estenuazione. Né la felicità trascorsa, intrisa di immagini e cose periture, e come tale falsamente rassicurante, né quella ipotizzata per il futuro, sono dunque idealizzate dal poeta come resolubili ad alternativa allo stato attuale. È piuttosto in questo che tali presunte felicità convergono in rapporto di equivalenza, fino a dare la definizione della loro inesistenza reale come dolcezze avvenute o solo astrattamente idealizzate, e del loro essere un presente dilatato che si prolunga in quella configurazione del tempo quale si mostra alla coscienza quasi infantilmente regressiva del poeta, senza una precisa scansione temporale. Apparenze nel tempo presente (seppure, statisticamente, il tempo presente venga contraddetto nel testo dalle innumerevolissime e preponderanti forme verbali che - a partire dalla zona conclusiva della terza strofe - sono quasi costantemente coniugate al futuro, mentre si nota la grande scarsità di verbi al passato, ridotto a pura evocazione di possibilità), il poeta e la sua “cara anima” sorella (nonché figura femminile assorta, silenziosa e languente come nelle contemporanee esperienze figurative dell’Art Nouveau), ma apparenze certe pur nell’astensione e nell’implosione, sostanze verbali d’invocazione e di attesa. Il dualismo tra passato (evocato in termini di un ritorno del represso) e futuro (che è pura allegoria e finzione) si risolve in un rassegnato qui ed ora inalterabile, in perpetua dilazione, che media e incorpora il tempo trascorso insieme a quello a venire. Il poeta sa che è vano cercare un varco che trasmuti in dolcezza la tristezza per la fine delle cose. La regressione verso il passato diventa allora il segno di una volontà di perseverare nel presente della vita, avvertita come proroga nel segno della stasi e della passività, nella perplessità - per dirla con Gozzano e Corazzini - dell’”ora crepuscolare”. Azzardando una interpretazione figurale, il poeta, nella sua storicità, è figura del presente, laddove passato e futuro ne costituiscono l’adempimento.

La coerenza elegiaca, nell’estensione ininterrotta nel tempo di un languore mortale, si situa nell’insistenza sull’idea del pianto, sulla incontrastata prevalenza di parole-immagini diminuite della loro dimensione empirica-sensoriale. Sono quasi del tutto assenti in Elegia qualsiasi idea di concretezza, l’incisività della parola, il ricorso a un linguaggio fonosimbolico e a un uso cromatico della lingua e qualsivoglia variazione emotiva dalla monocorde intonazione elegiaca e lacrimosa. L’impossibile rifugio nelle favole infantili - e in un futuro alla stregua di favola - è reso lievemente, nell’inevidenza delle immagini e delle evocazioni, in un ritmo lento senza dissonanze e interferenze discordanti, in un continuum dell’elegiaco e dell’ontologico reso in un bianco insonorizzato, un bianco opaco silenzio, tale da suggellare in questi versi il trionfo della malinconia crepuscolare nello sfumare del colore e del tempo:


Cento volte
passeremo per quella via che più
diletta a non so che malinconie
nostre avremo. Lungo i chiari fiumi
canteremo le più vecchie canzoni
e sarà dolce non seguirne il senso.

In endecasillabi sciolti (l’endecasillabo pascoliano, in particolare quello dei Conviviali, più che un’intrusione letteraria pare profondamente assimilato da Corazzini), la scomparsa della rima e l’incessante ricorso all’enjambement che è prolungamento per definizione, nonché l’inconclusione finale allusa dai puntini di sospensione, esemplificano un desiderio di abbandono senza fine, di infinitare il senso di dimissione, di dismissione e di rinuncia. La stessa particolarissima versione grafica di Elegia (riprodotta in versi esageratamente spaziati, quasi a dare una maggiore risonanza a ciascuno di essi in una versificazione, nondimeno, che mantiene un andamento narrativo nel momento stesso in cui allude all’impossibilità del divenire delle due anime), la sproporzione che invade i bianchi margini in alto e in basso, distanze minime rispetto ai larghi spazi vuoti che corrono tra un verso e l’altro, potrebbero concorrere a una visione d’insieme della fissità del tempo, quando al contrario gli intervalli grafici tra i versi di solito orientano diversamente il cosiddetto tempo della lettura; la poesia di Corazzini, che ha già assistito alla dissoluzione delle rigorose forme tradizionali, ritorna qui con un endecasillabo che si sottrae a ogni rimarchevole spezzatura e che esclude enjambement prolungati o “clamorosi”, con un andamento da invocazione sempre uguale, senza progressione ritmica ascendente o discendente. Nondimeno, tale poesia enfatizza lo spazio bianco mentre paradossalmente lo depriva del suo valore di pausa.

Pur pubblicata separatamente, Elegia è un testo non eccentrico rispetto agli altri libri di versi di Corazzini: stessa è la vena crepuscolare, stessa è l’apparente aproblematicità dei contenuti, così come l’autoreferenzialità di un “tu” tutt’altro che relazionale, che è al contempo colloquio con l’anima ed eminente mascheramento di un monologare senza interlocutori, al di qua del limitare del sogno. Stesso è l’ambito fenomenologico essenzialmente solipsistico e di chiusura al mondo esterno: l’ennesimo non luogo dell’anima nell’inviolabile aura in cui si svolge il colloquio del poeta con sé stesso. Ricorrono inoltre l’idea di reclusione, di omissione e privazione, di sospensione del tempo, l’estraneità a una temporalità dispiegata, uno stile antilirico al grado zero, in un codice dimesso e quotidiano, quella totale assenza di scarto tanto stigmatizzata da Gianfranco Contini, e che costò a Corazzini l’esclusione dalla continiana Letteratura dell’Italia unita. L’écart dal livello medio della lingua, il cosiddetto salto stilistico, si verifica assai di rado in Corazzini, soprattutto perché il suo discorso si compie al di fuori di una configurazione tragica, e non cerca alcuna giustificazione storica ma avviene in una tonalità minore, quella, avrebbe detto Guido Gozzano, dell’”esilio” e della “rinuncia volontaria”. La vocazione a una identità, l’aspirazione al possesso della propria esperienza e memoria, paiono frustrate fin dall’inizio in versi in cui Corazzini significa la mancanza di legame con il proprio passato: una volta nominato, il passato svapora nell’assenza di senso e di possesso.

C’è un senso fondamentale dal quale discendono informazioni e motivi: una fenomenologia limbica (e l’atmosfera quasi conventuale che fa da sfondo sottolinea questo straniamento del e dal tempo) descrive due vite congetturali che non riescono a pervenire a compimento, che pare vogliano resistere alla vita e indugiare in perpetuo sbigottimento in uno stato intermedio, in una enfatizzazione dell’hic et nunc: qui l’autore mostra solo disillusione senza resistenza, codifica con l’inaridimento della poesia l’elegia dell’impossibile realizzazione dell’umano. Il soggetto lirico staziona ai confini del tempo nel tentativo di dilazionare il presente per aggirare questa ad infinitum sperimentata assenza di una prospettiva futura verso la quale ogni slancio propulsivo è votato al fallimento. Il poeta vive un secondo tempo: porta in sé ciò che è scomparso alla stessa maniera in cui prefigura le tracce di quello che sarà. E il presente è il secondo tempo quale segno dell’incertezza della vita che adombra la sua sparizione, è estensione e risaltare del silenzio mediante la diminuzione (“un poco”, “piano”, “piccola”, “povero”, “chiara”, “parole bianche”), l’evanescenza anche per mezzo di locuzioni privative (“ombra”, “senza amarezze”, “siano per morire”, “quasi bianchi”, “senza dirti nulla”, “senza sapere”, “non seguirne il senso”, “quasi più”, “senza sapore”, “senza senso quasi”), la lontananza (“addio”, “favola antica”, “lontani giorni”, “vecchi abiti”, “obliati”, “vecchie canzoni”, “verrà la pace”, “avrà tempo”).

Attraverso questa convergenza dei vari tempi dell’esperienza Corazzini non scarta del tutto l’idea di una trasmutazione letteraria - di una metaforizzazione - del proprio allontanamento dalla vita e ci restituisce il suo penultimo travestimento, prima delle soluzioni ironiche o pseudo-ironiche di Dialogo di marionette e di Bando e del sontuoso simbolismo introdotto in La morte di Tantalo, il quale peraltro finirà per sancire l’eternità della vita come eterno nulla non diversamente che in Elegia, che sotto certi aspetti ne costituisce il preludio. Ma senza la forza del pronunciamento dei corazziniani versi estremi, quasi l’ostensione di un privilegio sovrano e solitario. In Elegia la voce del poeta è sommessa, udibile appena e anche le parole hanno perso la loro forza allusiva, perché la poesia crepuscolare è silenzio poetico, è una semantica della sparizione, codificazione del vuoto e della vacanza. Non resta allora che l’assumibilità del silenzio - nella e oltre la scrittura -, paradigma, fato e destinazione del poeta contemporaneo. Quasi paradossalmente, in Elegia Corazzini sembrerebbe dire, con il Kerouac di Mexico City Blues:

mentre leggi questo
è lo stesso del vuoto
dello spazio
proprio ora
e lo stesso del silenzio che odi
dentro il vuoto
che è là
dovunque


Elisabetta Brizio

Luglio 2009

sabato 27 giugno 2009

"LA VIA CRUCIS DI FABIO GRIMALDI, TRA LE PAROLE DEL VANGELO E LO SMARRIMENTO DEL POETA", di Patrizia Garofalo

Il mistero (anche e proprio nel senso sacrale del rito iniziatico, e insieme in quello teatrale, drammaturgico, di sacra rappresentazione) del Dio che s'incarna, che soffre e si umilia (come diceva Eschilo di quella pagana, scandalosa figura Christi che è, forse, Prometeo) "per troppo amore dell'uomo" non ha cessato di ispirare i poeti, dal sontuoso e struggente Christus patiens attribuito a Gregorio di Nazianzo fino a Testori e a Turoldo, con la loro gridata, quasi scandalosa e oltraggiosa, e insieme colma d'amore e di charitas, invettiva scagliata contro il mysterium tremendum, il paradosso essenziale e bruciante racchiusi nello "scandalo della Croce" - nell'absurdum, nell'"ineptum, prorsus credibile" (impossibile e assurdo, quindi certo, al di là di ogni razionalistico ed esclusivo discrimine).

Ciò deve valere (a giudicare, di riflesso, dalla nota interpretativa e dai versi originali che esso ha suggerito a Patrizia Garofalo, e che qui riportiamo) per il libro (attraversato fin dal titolo dalla tensione spasmodica e dolente del paradosso e dell'antitesi) Via gloriosa, via dolorosa di Fabio Grimaldi, edito nell'elegantissima collana di poesia delle Edizioni del Leone.

La scrittrice, certo in sintonia con la poetica sottesa alla sua stessa scrittura originale, coglie nei versi del poeta lo sforzo originario, mitopoieico della parola che esce - "scavata come un abisso" diceva Ungaretti - dal silenzio che la contorna e la assedia e che, nel contempo, la fascia, la protegge, la fa esistere e consistere, librata nel vuoto, come le pause fra le note del canto, e gli spazi fra i respiri delle arcate.

"Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco? / Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?", si chiede, nella Via Crucis di Luzi, Cristo incamminato sul Calvario. "Qui termina veramente il cammino. / Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità. / Ma tu sai questo mistero. Tu solo". Ci troviamo, qui, immersi nel gorgo buio e silenzioso del paradosso ultimo e primo, del "segno di contraddizione" che non ammette riconciliazioni. Analogamente, i versi della Garofalo si muovono, risuonano e respirano nella cava dilatazione, nella nullificante ferita, del vuoto e dell'assenza.


M. V


Assistiamo ad un parlato in versi dalla Via Crucis, riportata testualmente dai Vangeli, allo sbigottimento del poeta che in modalità spezzate da singhiozzi percepiti, vince il silenzio nel quale la parola resterebbe imprigionata, esterrefatta e vuota.

Al silenzio di chi non si difese, ancora più forte appare la forza brutale della crocifissione mista di carne e sangue, dolore e perdono, trascendente persino a se stessa. La grafia diversa segna una linea ideale di demarcazione tra la storia dell’Uomo dei Vangeli e la sensibile percezione della perdita del “sé”. Fabio Grimaldi apre il verso alla pietà, alla cosmicità del dolore, alla vita come attraversamento doloroso, necessario, inevitabile.

Alle quattordici stazioni della Via Crucis altrettanti nomi di vie altamente simboliche all’ultimo viaggio dell’Uomo, nominate come in una mappa colposa, dolorosa, pietosa, lacrimosa, ansiosa, luminosa, ripudiosa, premurosa, vittoriosa, decorosa, gloriosa. Gli aggettivi connotano le soste alla fatica dell’ascesa ed ad ognuna il poeta depone un breve voto d’amore:

“ lieve brezza, delicato fiore/ attimi/ sollievo ormai lontano/”;
“ incommensurabile misericordia/ azzera le colpe/ dona luce/”;
“ un’ombra/ pietosamente/ condivide la croce/”.

Nelle via scorrono ferite, sangue, vergogna, pietà, sbigottimento:

“incommensurabile misericordia/ azzera le colpe / dona luce/”,
“in verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso” (Luca 23, 39-43).

In silenzio il corpo scivola piano fra braccia materne e si aprono ai nostri occhi infinite immagini di “Pietà”, anche quella meno nominata dall’arte sublime dei creatori, quella più vicina a noi, quella del dolore di una fine che non ha riscatto nei dipinti, che si cela magari a due passi da noi in un mondo dove neanche la Crocifissione è riuscita a rassicurare l’uomo dell’eternità dopo la morte, né a porre “corone di rose”.


DI ROSE CORONATO

Solo, davanti alla morte
neanche l’angelo ti recò conforto…Uomo…
Un nodoso ulivo, curvato
raccolse le tua agonie di terra.
Il corteo che seguì
ti fissò nella metopa del tempio,
piansero per primi gli Dei
e
morirono nel tuo silenzio.

La rivelazione
è parola che denuda, strazia e lacera,
suprema vergogna
preda l’inerme
senza arrestarne il volo

Inginocchiarsi
è ludibrio
ma lo sputo e le percosse
come maschere di cera
si sciolsero.
Il sole non ne raccolse l’anima.
Il mondo conobbe lo smarrimento del “senza”
Simone di Cirene fu
ombra, della pietà dispersa
“non piangete per me, ma per voi”
troppo basso il tono della voce , dal dolore
di Uomo
dalla pelle sbranata, chiamasti donna
tua madre
cantasti per lei
l’amore del suo seno vuoto
il tuo andartene
il suo permanere donna madonna dolorosa e pregna.
La strada indicata per il Golgota
confonderà
polvere e sangue
dolori e disattese.

Ineludibile l’amaro retrogusto della viltà.
Nessun marchio impedì l’infinitezza
neanche a chi rimase senza fede
ma ancora ti cerca di carne, nell’amore.

La veste tirata in sorte
firmava, per chi si contava vivo,
la maschera della morte del tutto
Pietoso Uomo
copristi, le loro carni
in luoghi che solo Tu hai benedetto e pianto

“In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”

All’eclisse del vero
atterriscono gli umani

“padre nelle tua mani consegno il mio spirito”

Scompare il sole.
Il vuoto
aprirà un abisso di
cadute e, attraversamenti
sfoceranno a delta su tutti i fiumi
per riportare a mare
il viaggio verso Itaca.

Un lenzuolo pietoso
si farà silenzio.
Attende le nostre parole
coronate di rose.


Fabio Grimaldi è nato a Macerata nel 1968 ed è laureato in Lettere moderne.
Esordisce nel 1989 con la raccolta Il vero della vita, presentata da Mario Luzi e segnalata al premio Montale.
Ha pubblicato diverse plaquettes poetiche, ultima delle quali “Invisibili bambini”.
Ha curato l’antologia Con gioia e con tormento, che raccoglie poesie autografe dei più significativi autori italiani contemporanei.
Interessato all’opera di Mario Luzi, ha inoltre pubblicato La stella della semplicità. Conversazione con Mario Luzi e curato Vita fedele alla vita. Autobiografia per immagini di Mario Luzi.
Recentemente è uscita la raccolta di poesie per bambini Il gallo canta in rima.

venerdì 26 giugno 2009

UN PUNTO OLTRE L'ORRORE. LA POESIA DI DANIELE MENCARELLI

Questo è un poeta vero, limpido e forte - righe di cemento e di vetro, direbbe Fortini traduttore di Brecht, davvero poesia che è poesia, cioè ricerca stilistica, non semplice trascrizione diaristica - eppure anche, e non per riprendere una formula oggi abusata, testimonianza umana, intensa, senza lenocini, "vita fedele alla vita" - dolente umanità còlta con immediatezza rara e invidiabile, senza schermi né mistificazioni, nel momento dell'insensata ed umiliante sofferenza, quando, diceva Vittorini, "l'uomo è più uomo".

Si potrebbero fare vari nomi - Primo Levi, il Calvino della Giornata di uno scrutatore, il Solgenytsin di Padiglione cancro - anche se qui non c'è nessuna implicazione ideologica, solo un impegno etico teso fino allo spasmo doloroso.

Ma si erge, su tutto - al di là di ogni consonanza e di ogni parallelo, oltre i limiti della letterarietà -, quella che si potrebbe chiamare la nostalgia dell'umano - di un'umanità autentica proprio perché vilipesa, oscuramente redenta proprio quando appare, in tutta la sua evidenza, l'inesplicabilità, ma non necessariamente l'insensatezza, anzi forse il segreto, oltreumano significato, del suo sterile martirio che non salva nessuno, almeno qui e ora: tutte realtà che l'odierno patinato edonismo tende ad esorcizzare (un tabù, oggi, la sofferenza e la morte, mentre in passato lo era il sesso, oggi al contrario esibito e gridato), e che invece la poesia si assume qui la tragica e sacrale missione di riportare alla luce, di enunciare.

Si potrebbe citare, per un raffronto non privo di contrasti, certa letteratura della crudeltà, della sofferenza, del corpo lacerato, della carne piagata e scossa dagli spasmi (Sade, Lautréamont, Artaud, fino al Benn di Morgue – ma già l'Inferno dantesco rinserra l'eternità della pena senza redenzione né “speranza di morte” nella circolarità angosciosa, cupamente liturgica, oscenamente rituale, dei gironi).

Il dolore, l'orrore, la malattia, il disfacimento, la luce gelida ed impietosa del tavolo settorio sono qui mostrati, a tratti, con un'evidenza, un'immediatezza e una naturalezza che si vorrebbe definire quasi “pornografiche” - nel senso in cui Carmelo Bene definiva pornografica, alla fine del Processo, la sequenza in cui Josef K. è condotto a morte, ormai inerte, rassegnato, abbandonato all'impossibilità di capire il senso di un destino inflessibile ed impenetrabile.

A suo modo, per certi aspetti, una poesia “crudele”, che sa parlare senza timore (e con un grado ben più alto ed intenso di autenticità rispetto alla tanta letteratura minimalista, pulp e splatter che spaccia per realismo il fumettistico compiacimento dell'orrido) di volti divorati dal male, di corpi devastati dall'infezione, di membra sezionate; eppure, una poesia che riscatta il dolore, che lo redime alla luce di un'umanità assoluta, protesa, per così dire, al di là di ogni ideologia, di ogni religione, di ogni etica: uno sguardo levato al di là di tutto, a fissare "un punto oltre l'orrore" - e quel punto è alonato e racchiuso proprio dalla luce impalpabile - lo si può dire senza enfasi - del Verbo poetico.

Si potrebbe citare ancora Benn (anche se qui - in quest'aria resa più spirabile dal tenue bagliore di una speranza riposta nel qui ed ora come nell'oltre, in questo spazio esistenziale colmato di senso dalla muta testimonianza degli eroi senza nome che parlano proprio attraverso queste pagine come tanti ebrei attraverso quelle di Levi - non c'è ombra del suo nichilismo): “... nel verso / esorcizzare le cose con la parola. (...) Nel verso / il monologo delle ore e della notte”.

(M. V.)


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Ed è da quando ti ho incontrato,
“Bambino Gesù”, ospedale pediatrico,
che il pregarti quasi mi vergogna,
io come l’altra fortunosa umanità
ad invocarti per la più vana delle miserie,
ignari di quanti nel pieno del supplizio
cerchino tua voce col poco fiato rimasto
o i tuoi lineamenti nel buio della stanza.
Se valgono questi versi una preghiera
dai giorni, anni, a questi uomini futuri,
ora bambini che forse non vedranno
la fine di questa sera di settembre.


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I primi orrori le facce funestate
agli inizi mi lasciavano di pietra,
gli altri operai rassicuranti,
“pure te ci farai l’abitudine”.
Il tempo ha continuato il suo dovere
ora per i nuovi sono io l’esperto
ma non so bene come aiutarli,
forse dovrei semplicemente dirgli:
“pure voi ci farete l’abitudine”,
vi abituerete ai piccoli malati
al pianto dei padri e delle madri
alle teste dei nati prematuri
ai corpi ordinati dentro le casse bianche.

(Padiglione S. Onofrio)


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Passarci mi tocca ogni mattina
di fronte a quella porta verde,
quante volte è stata spalancata
piena di parenti a farsi forza,
e come non capire chi tra quelli
fossero padre e madre fino a poco prima,
lo si capisce dal vuoto degli sguardi
persi in un punto che gli altri non vedono.
Ogni mattina che mi tocca di passarci
vorrei esaudito l’impossibile desiderio,
di vederla sparita, anzi mai esistita,
un muro di cemento al posto della porta,
in nessuno al mondo l’ombra di un ricordo
che gliela faccia mai più rivivere.

(Camera Mortuaria)


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Una mattina come tutte le altre
sole e piccioni freschi in cielo,
“prima o poi doveva capitarti”,
così gli altri operai mi dissero.
Non ho ricordi ad aiutarmi
tranne il tavolo d’acciaio bucherellato,
gli arnesi riposti nelle vetrate
l’odore pungente della formalina.
Ancora pago quell’attimo
quell’unico attimo d’innata curiosità,
ricordo barattoli e niente altro,
più che altro niente voglio raccontarti,
se non lo specchio al lato della stanza
che rifletteva uno frenetico a spazzare
a finire il prima possibile il suo dovere,
sudato zuppo con gli occhi vitrei allucinati.

(Pio XII, sala autopsie)


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Lo attraversammo quasi di corsa
il reparto degli infetti
reietti perfino dalla vista,
dalla medicheria arrivarono grida
impossibile non alzare lo sguardo,
vedemmo solo un corpo scarnito
passato da mille tubi trasparenti
e ancora l’atroce dolore urlato.
Uscimmo all’aria aperta
come riemersi dall’abisso,
di noi il più anziano mi si girò contro:
“tu che tanto speri e tanto credi
spiegami una possibile giustizia
di quell’agonia morte futura”.
Non risposi ma una voce
si alzò alta dalle viscere
“per questo credo di più ancora”.

(Padiglione Spellman)


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Non lo finirai il tuo tatuaggio,
le rose bianche, verdi le foglie e gli steli,
t’avrebbe preso quasi metà braccio
dicevi fiero al primo abbozzo,
e noi draghi alle tue spalle
dicendo fosse più giusto un diavolo
o Lucifero in persona
inciso sulla tua pelle.
Solo i gambi e le prime foglie
verranno con te sotto la terra,
le rose bianche, insieme fiorirete altrove.

(Stefano Scalise, operaio)


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Avevo un pavimento da lavare
io che prendo tutto come una missione
anche questo lavoro da tanti disprezzato,
affrettai ancora di più la marcia
sul corridoio di marmo lucidato.
Andavo incontro a due ragazzi
il figlio in braccio mi dava le spalle
loro ci giocavano e lui rideva,
gli fui davanti proprio mentre si girava,
perdonami per la durezza delle parole,
di un bambino aveva il corpo
ma il viso quello di un mostro
sotto gli occhi niente naso niente bocca
solo buchi di carne viva.
Non so se fu più forte
la pietà o forse il disgusto,
quasi correndo abbassai la testa,
ma già avevo la certezza
che di lì a poco l’avrei rivisto
per quel passaggio a me obbligato.
Persi tanto tempo nelle mie faccende
prima di andare mi augurai la loro assenza
poi via sul corridoio di marmo lucidato;
il caso me lo presentò ancora di spalle
ancora preso dai suoi giochi divertiti,
a farlo ridere così di gusto
non erano stavolta i genitori
ma un’anziana suora
distante un palmo dall’orribile viso,
vidi il sorriso di lei e le sue parole:
“ma quanto sei bello, che bel bambino sei”.
Per giorni m’accompagnò il dubbio
non riuscivo a crederla bugiarda,
poi una chiarezza si fece strada,
quegli occhi opachi di vecchia devota
guardavano un punto oltre l’orrore,
lì c’era solo un bambino che giocava.

(Padiglione S. Onofrio)



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Fra gli scaloni eterno è l’andirivieni
padri intenti a far la guardia ai passeggini
accenti sconosciuti che salutano famiglie
raggiungibili solo per una linea di telefono,
tutta una normalità risaputa sembra,
invece poi vedi la signora altolocata
correre ad abbracciare la zingara di strada,
chiederle se la bambina è un po’ ingrassata
se quella medicina ancora la disturba,
poi è la rom ingioiellata e scura
a voler da lei notizie sul figlio malandato,
ed intanto l’abbraccio si ripete,
parlano i loro sguardi che si fanno
a vicenda sembrano dirsi:
“anche tu resisti ancora, anche tu
sopporti la disgrazia con coraggio”.
Mesto l’ultimo loro saluto si alza:
“ci rivedremo tanto, di sicuro”.

(Padiglione Pio XII)

giovedì 25 giugno 2009

MINIMI E INUTILI SGUARDI SUL MONDO

Un centro commerciale il sabato pomeriggio: è così che immagino l’inferno.

Eppure, resta una libera scelta quella di trascorrere un pomeriggio al centro commerciale anziché in pinacoteca (quelle di Imola e di Faenza, per inciso, sempre deserte, sono spendide).

Al centro commerciale (non solo lì invero) tutti o quasi biascicano il chewing-gum, sbattendo in faccia al prossimo il proprio disprezzo e la propria noncuranza.

Masticare per masticare, senza nutrirsi (con la fandonia di miracolose sostanze che preserverebbero i denti, la cui perdita inevitabile è simbolo dell'aborrita vecchiaia, dell'ignominioso declino fisico stigmatizzato e colpevolizzato dalla cultura del fitness).

L'esatto contrario della virtuosa e sapiente ruminatio delle Sacre Scritture praticata dai monaci medievali.

Masticare per masticare, così come si compra per comprare, si consuma per produrre - "si vive per vivere, senza sapere di vivere", come diceva Pirandello lettore di Schopenhauer.

Homo ruminans: l'ultima mutazione antropologica. E il chewing-gum fa americano, è parte integrante della american way of life.


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A me (e certo non a me solo) è accaduto spesso di pensare che la libertà d’espressione sia, per così dire, il prezzo che il sistema capitalistico paga in cambio della diffusione onnipervasiva della sua alienante e reificante logica.

L’aspetto negativo dell’ordine capitalistico è certo rappresentato, appunto, da quella che un tempo si chiamava alienazione (termine che oggi sa di intellettualismo, ideologizzazione, dottrinarismo, ma che designa purtroppo una realtà dolorsamente e angosciosamente esistente, tangibile, vissuta).

L’aspetto positivo, se c'è (accanto alle comodità e agli agi, fra cui lo stesso strumento che ora stiamo usando per comunicare e riflettere, e ai quali nessuno, indipendentemente dalle sue convinzioni, saprebbe o potrebbe più rinunciare, a meno che non si voglia ricadere nel mito, molto borghese, del primitivismo), consiste appunto nella libertà d’espressione, che consente di manifestare e di lamentare quello stesso stato di alienazione, cosa che in un regime totalitario porterebbe (e porta) alla messa al bando per disimpegno politico, sentimentalismo borghese, tendenze antisociali, se non alla prigionia.


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La Cina (stando almeno all’impressione, molto parziale, e forse deformata o amplificata dai media, che se ne può avere da qui) mostra un esempio di capitalismo con tutti gli aspetti negativi (materialismo, consumismo, inquinamento, degrado morale, accentuazione delle sperequazioni) senza il risvolto positivo (elezioni democratiche, libertà di espressione e di culto).

Forse i cinesi non cercano e non cercheranno mai la libertà, perché hanno ormai raggiunto, nelle città, un relativo benessere, e nelle campagne sono narcotizzati e paralizzati da una rassegnazione millenaria (né hanno mai attraversato, come l’Occidente, il tirocinio delle “rivoluzioni borghesi”, che se da un lato posero le basi dell’ordine capitalistico, dall’altro abbatterono definitivamente quello nobiliare e feudale, ancor più oppressivo).

Insomma la realtà capitalistica non è la panacea di tutti i mali, ma è forse, allo stato attuale delle conoscenze, il male minore (essendo la socialdemocrazia scandinava difficilmente applicabile altrove).

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L’idea dell’assoluta “disponibilità” della vita umana, del completo arbitrio bioetico riconosciuto al singolo, non rischia forse di rappresentare, per l’appunto, il trionfo ultimo dell’individualismo postmoderno, l’approdo estremo dell’egoismo e dell’individualismo borghesi?

E' solo un dubbio. Io non ho risposte. Da un lato la sacralità della vita, dall'altro la libertà del singolo e l'habeas corpus. Due istanze contrapposte e, su basi e per motivi differenti, entrambe irrinunciabili. Un'aporia che non trova soluzione, se non in una scelta ideologica o confessionale che costringe, per definizione, a "mettere fra parentesi", almeno in parte, il proprio senso critico - o nell'approdo, vincolante, cogente e insieme rassicurante, per certi aspetti rasserenante, ad una morale assoluta, trascendente, rivelata.

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E’ ovvio - contrariamente ad uo dei tanti slogan di moda già da anni, e non solo a destra - che la scuola non può essere un’azienda, se non altro (al di là di ogni sottile questione culturale e pedagogica) per il semplice motivo che non vende nulla, e che gli studenti non ricevono un salario.

Nè bisogna scaricare sulla scuola responsabilità eccessive. Le “agenzie formative” principali sono e restano la televisione (ahinoi), il gruppo di amici e la famiglia (”agenzie” che esercitano un potere persuasivo incomparabilmente maggiore).

Quanto all’”educazione estetica dell’uomo”, come la chiamavano i romantici, che viene ancora invocata con abbondante spreco di enfasi e d retorica…. Molto dipende dalla società in cui viviamo, nella quale non si viene certo apprezzati per la sensibilità e la cultura.

C'è da chiedersi, poi, quanto e fino a che punto la sensibilità estetica e culturale possa essere infusa dall’esterno, attraverso l’”inculturazione” esercitata dalle istituzioni. Credo che un ruolo decisivo sia giocato dalla predisposizione individuale, dall’ambiente familiare, dalle condizioni di vita e di lavoro (chi torna, stremato, da dodici ore di pronto soccorso o di fabbrica difficilmente si metterà a leggere Virgilio o Heidegger, ma sarà pronto ad ingoiare due ore di grande fratello).

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Paradosso delle democrazie capitalistiche, che da un lato (attraverso l’industria culturale, dunque sempre a fini di produzione e di consumo) mettono potenzialmente a libera disposizione di tutti un patrimonio sterminato e quanto mai variegato di espressioni, ideologie, visioni del mondo, dall’altro sottopongono l’individuo ad un processo di alienante massificazione, che rischia di porlo, di fatto, nell’incapacità di recepire, assimilare e far proprio quel patrimonio, o anche solo di trovare in sé la motivazione e la determinazione ad avvicinarvisi…

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Eppure, non si può che continuare, al di là delle ideologie, a credere - ostinatamente, assurdamente, disperatamente, contro tutto - nell’uomo, nella sua libertà e nella sua volontà.

Ma anche questa - direbbe l'amaro e disincantato Renato Serra - è letteratura.


M. V.