venerdì 19 giugno 2009

ALVARO VALENTINI, UN SEMINARIO SULLA METAFORA

Riemerge, grazie alla devozione e alla pazienza di Elisabetta Brizio, una dispensa (una pecia, una recollecta si sarebbe detto secoli fa) di Alvaro Valentini, poeta e critico letterario, allievo di Ungaretti e docente all'Università di Macerata.
Pagine, queste, che (testimonianza di una consuetudine antichissima e nobile, quella del confronto e del dialogo umanistici e critici possibili in quel quieto, riposato e pacato contesto seminariale che rischia di andare definitivamente travolto dall'odierno sistema, alienante e reificante, dei crediti formativi, che feticizza il sapere a moneta "spendibile", dispogliandolo di quel poco che ancora sopravviveva della sua purezza, della sua libertà e della sua aura) rivelano, sia pur nella schematicità e nella semplificazione inevitabili degli appunti e della raccolta di "materiali", la vastità di interessi e il grado di aggiornamento teorico e metodologico che contraddistinguevano il lavoro dell'autore; il quale aveva già alle spalle, a tacere del molto altro, l'importante volume Responsabilità semantiche, espressione ed esito del suo particolare approccio (originale, sciolto, fluido, appassionato, a tratti estroso, mai scientisticamente dogmatico o metodologicamente irrigidito) ai metodi e ai problemi, quanto mai sfaccettati e vivi, della semantica letteraria.
Nonostante il rigore dell'approccio e la nuda analiticità della disamina teorica, nelle pagine conclusive riaffiora, incoercibile, la passione riflessiva e insieme affabulatoria ed immaginosa del Valentini poeta-critico e traduttore-poeta (così come, alcune pagine prima, la sua competenza e la sua affascinata sottigliezza di indagatore ungarettiano del metaforismo e delle agudezas barocchi).
Alla fine, le tortuose e un po' capziose classificazioni dei semiologi cedono il passo (per fortuna, verrebbe da dire) alle intuizioni fascinose, estemporanee, asistematiche, ma proprio per questo illuminanti, dei poeti, a partire dai surrealisti e dagli ermetici (con, fra l'altro, la delicata e preziosa distinzione fra la semplice metafora e la più vasta, ardita, complessa, speculativamente ed esistenzialmente pregnante, analogia) per risalire a ritroso fino a Leopardi, agli occhi del quale il poeta è accomunato al filosofo (sotto la comune insegna del genio) dal saper cogliere le affinità più remote, afferrando l'essenza celata e ramificata del reale.
E non si può, allora, non evocare l'uso (parsimonioso, equilibrato, lucido, leopardianamente "classico", ma proprio per questo esistenzialmente connotato in maniera ancor più marcata) della metafora nel Valentini poeta.
(....) ritmi
che mi vuotano l'anima, mi fanno
arido e rassegnato. Questa sera
la nebbia preme ai vetri ed a me gonfia
di tristezza i polmoni. Non mi possono
parlare i cari libri.
Di metafora in metafora, seguendo (per ripendere una metafora fra le metafore che in questa stessa dispensa si insinua nella neutralità della scrittura informativa e didascalica) gli "anelli" della montaliana "catena" delle metafore, la parola perviene infine ad aprirsi e sciogliersi nel silenzio dell'anima, nel vuoto della vita, nel lago deserto ed opaco della solitudine, in cui anche i libri amati sembrano non aver più da proferire alcuna parola consolatrice. Ecco, forse, l'essenza di quella "melodiosa solitudine" (per citare l'ultimo D'Annunzio) in cui Valentini visse immerso.
(M. V.)
Materiali di studio per una
esercitazione sulla
M E T A F O R A
Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea
(Prof. Alvaro Valentini)
Anno Accademico 1980-81
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi
di Macerata




LA METAFORA secondo Aristotele

«La metafora consiste nel trasferire a un oggetto il nome proprio di un altro, e questo trasferimento avviene o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o da specie a specie, o per analogia.
Secondo me, un traslato dal genere alla specie si ha in questo esempio: “Ecco, la mia nave è ferma”, perché “essere ancorato” è una specie del generico “essere fermo”. Esempio di traslato dalla specie al genere: “Migliaia di gloriose imprese ha Ulisse compiute”, dove “migliaia” sta per “molte”, in luogo di cui è stato usato. Esempio di traslato da specie a specie: “avendogli attinta la vita col bronzo” e “coll’imperituro bronzo avendo l’acqua tagliato”, dove “attingere” sta per “tagliare” e “tagliare” per “attingere”; e ambedue i vocaboli sono specie del generico “portar via”».
Per rapporto di analogia intendo quando di quattro termini, il secondo sta al primo come il quarto sta al terzo; e infatti si potrà usare il quarto per il secondo e il secondo per il quarto, e qualche volta anche aggiungere il termine in rapporto col quale sta la parola sostituita dalla metafora. Esempio: il termine “coppa” sta a Dioniso come quello di “scudo” sta ad Ares; il poeta dirà che la coppa è lo “scudo di Dioniso” e lo scudo “la coppa di Ares”. Oppure: la vecchiaia sta alla vita come la sera al giorno. Il poeta chiamerà la sera “vecchiaia del giorno” o, come Empedocle, la vecchiaia “sera” o “tramonto della vita”».

Aristotele, La poetica, Milano 1956, cap. XXI, pp. 98-99.

Sul modello di Aristotele, Quintiliano dirà (Inst. Or., 8, 6, 9): «In totum autem metaphora brevior est similitudo, eoque distat quod illa comparatur rei quam volumus exprimere, haec pro ipsa re dicitur»

(Aristotele aveva recato, infatti, l’esempio: Achille balzò come un leone (similitudine); (con il balzo di Achille, si può dire che) balzò un leone (metafora).

LA METAFORA nel trattato Del Sublime

«Ad ogni modo, pur nello svolgimento dei luoghi comuni e nelle descrizioni, nulla reca tanto significato quanto un continuo succedersi di tropi. Per tale mezzo (…) l’anatomia del corpo umano (è dipinta) divinamente da Platone. Rocca del corpo questi chiama il capo, e fra capo e petto dice costruito un istmo, cioè il collo, e sotto fissate come a piani le vertebre. Il piacere è per gli uomini l’esca del male e la lingua è pietra di paragone del gusto. Il cuore nodo delle vene e sorgente del sangue che circola impetuoso; collocato lì al posto di guardia. Le diramazioni dei canali le chiama sentieri (…). E la sede della cupidigia egli la chiama gineceo o appartamento delle donne, e quella dell’ira appartamento degli uomini; la milza asciugatoio degli organi interni, per cui, riempiendosi delle impurità, appare grossa e tumefatta (…). E quando sopravviene la morte, dice che dell’anima si sciolgono le gomene, come d’una nave, e ch’essa è lasciata libera (cfr. Platone, Timeo, 69 d sgg.).

Queste e altrettali espressioni sono lì di seguito infinite; ma bastano gli esempi citati a mostrare come sia grande per sua natura il linguaggio traslato, e come concorrano al sublime le metafore, e che di esse, per lo più, si compiacciono i luoghi patetici e descrittivi».

Del Sublime, a cura di Augusto Rostagni, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947, cap. XXXII, pp. 95-99 passim.

LA METAFORA BAROCCA

Sono presenti alla memoria di tutti due metafore celebri: “Ridono i prati” di Petrarca e “prata biberunt” di Virgilio. Questi, che per i due poeti rappresentavano due lampi, due illuminazioni, per i poeti barocchi, e per i trattatisti dell’età barocca, sono appena i primi anelli di una catena. Per Emanuele Tesauro (Il Cannocchiale aristotelico, Valvasente, 1688, pp. 71-73; le citazioni sono tratte da questa edizione) se i prati ridono possono anche piangere, in quanto le gocce di rugiada possono essere intese come “lacrimae” che “cadunt gaudio”. Attribuita ai prati una “facies” umana, che può anche essere “pulcherrima”, i prati conoscono la canizie delle nevi, salutano festosi la loro età novella, “pereunt hyeme”, e, sulla scia della loro umanizzazione, finiscono col mutare i loro fiori in “oculi micantes”.

Si potrà anche dire che “ridentibus pratis falx dira supervenit”. O anche che “prata lugent” nel caso che siano sterili. Dalla umanizzazione dei prati nasce la catena delle metafore. “Prata rident” poiché “laeta sunt”. E posso giocare, quindi, su una espressione siffatta: “Tam effuse rident prata ut roscidas exprimant lachrimas”, poiché quelle lacrime “cadunt gaudio”.
Stabilita la possibilità di vedere antropomorficamente i “prata”, niente vieta di dire che essi “Boream pavent”.

Le espressioni appassionate che possono essere dedotte, svolgendo l’argomento, sono infinite: Tellus benefica, Ingratum solum, prata nivibus canescunt, oppure, in primavera conoscono la loro “nova aetas”… Il Tesauro chiama tutte queste espressioni “simboli ingegnosi” e giunge ad immaginare una Terra che, per la sua amenità, possa essere vista come una “giovane ridente, vestita a verde e trapuntata di perle come rugiade, con le chiome di frondi…". E “per contrario simbolo” aggiunge che si può rappresentare la Terra sterile “in guisa di Vecchierella piangente, pallida, rugosa, scarna, con le chiome al modo di sfrondati rami”.

Come si vede la dialettica sillogizzante è messa al servizio della fantasia inventrice; e la poesia barocca vuole esprimere gli stati d’animo con mezzi razionali.

LA METAFORA E LA POESIA SECONDO VICO

«Partendo da quest’ultima ipotesi (le figure hanno un’origine “naturale”1), si possono distinguere ancora due tipi di spiegazioni. La prima è mitica, romantica, nel senso largo del termine: la lingua “propria” è povera, non basta a tutti i bisogni, ma vi supplisce l’irruzione d’un altro linguaggio, “quel divino sbocciare dello spirito che i greci chiamavano Tropi; oppure (Vico ripreso da Michelet), dato che la Poesia sarebbe il linguaggio originale, le quattro grandi figure archetipiche sono state inventate nell’ordine, non da scrittori, ma dalla umanità nella sua età poetica: Metafora, poi Metonimia, poi Sineddoche, poi Ironia: in origine esse erano impiegate naturalmente. Come son potute diventare delle “figure di retorica”? Vico dà una risposta assai strutturale: quando è nata l’astrazione, vale a dire quando la “figura” s’è trovata in una opposizione paradigmatica con un altro linguaggio.

La seconda spiegazione è psicologica: è quella di Lamy e dei classici: Le figure sono il linguaggio della passione. La passione deforma il punto di vista sulle cose e costringe a parole particolari: “Se gli uomini concepissero tutte le cose che si presentano al loro spirito, semplicemente, come sono in sé e per sé, ne parlerebbero alla stessa maniera: gli studiosi di geometria tengono quasi tutti lo stesso linguaggio” (Lamy). Questa prospettiva è interessante, perché se le figure sono i “morfemi” della passione, attraverso le figure possiamo conoscere la tassonomia classica delle passioni, e specialmente quella della passione amorosa, da Racine a Proust. Ad esempio: l’esclamazione corrisponde al brusco furto della parola, all’afasia emotiva; il dubbio, la dubitazione (nome d’una figura) alla tortura delle incertezze di comportamento (Che fare? questo? quello?), alla difficile lettura dei “segni” emessi dall’altro; l’ellissi, alla censura di tutto ciò che turba la passione (…).

Si comprende allora meglio come il figurato possa essere un tempo naturale e secondo: è naturale perché le passioni sono nella natura; è secondo perché la natura esige che queste stesse passioni, per quanto “naturali”, siano distanziate, poste nella regione della Colpa; ed è perché, per un classico, la natura è “cattiva”, che le figure di retorica sono ad un tempo fondate e sospette».

ROLAND BARTHES

(La Retorica Antica, Bompiani,
Milano 1979, pp. 106-107)

1) «A la ville, à la cour, dans les champs, à la Halle, l’éloquence du coeur par les tropes s’exhale» (F. Neufchateau)

«Basta ascoltare una lite tra le donne della condizione più vile: quale abbondanza nelle figure! Esse prodigano la metonimia, la catacresi, l’iperbole, ecc.» (J. Racine)

REALTA’ PSICOLOGICA DELLA METAFORA

«La metafora è per noi molto più di una semplice operazione di transfert di significato: essa è un modo di approccio e di conoscenza della realtà ed in quanto tale deve essere riscoperta e rivalutata. Se da un punto di vista operazionale la metafora consiste nella decontestualizzazione e ricontestualizzazione di un elemento (questo infatti viene dissociato da quello che è il suo contesto abituale per essere associato ad un nuovo contesto), da un punto di vista psicologico la metafora, che pur si avvale di tale operazione, consiste essenzialmente nella creazione di nuova realtà, di nuove esperienze che non sarebbero altrimenti designabili.

La metafora è contemporaneamente magica e logica, soggettiva e oggettiva, interiore e comunicativa, e la sua forza sta proprio nel fatto che in essa si conciliano poli differenziati. Se da un lato la metafora esprime ciò per cui il linguaggio denotativo è insufficiente, la sua funzione non si esaurisce in questo ma consiste essenzialmente nell’evocazione di una nuova realtà e nella reificazione dei suoi significati. In questo senso la metafora ha una forza magica, consistente nel suo potere di creare e di imporre nuove “presenze”.

I segni “cielo” e “fazzoletto” hanno un significato letterale nella lingua italiana, stabilito da una certa convenzione d’uso dei medesimi. Nel momento in cui vengono associati, per esempio nella frase “il turchino fazzoletto dei cieli”, si verificano due fenomeni semantici complementari che interessano non soltanto il linguista ma anche lo psicologo. Se da un lato infatti la parola “fazzoletto” non può essere interpretata nel suo significato convenzionale, dall’altro lato anche il significato della parola “cielo” viene ampliato oltre ciò che stabilisce la convenzione. Le due parole assumono significati diversi da quelli abituali per un fenomeno di reciproca induzione semantica…
…La metafora presenta una duplice realtà psicologica: in senso lato e in senso stretto. In quanto modo inconsapevole di approccio con il mondo, che non si avvale della riflessione ma che si fonda essenzialmente sulla sintonia dell’io con la realtà esterna, delle cose con le cose, su una fusione sincretica di polo soggettivo e oggettivo, la metafora presenta una realtà psicologica in senso lato: essa appartiene al mondo magico, le cui leggi sono quelle della partecipazione, del sincretismo e della diffusione, In quanto invece mezzo intenzionale e comunicativo di conciliazione dei due poli soggettivo e oggettivo, di superamento del già noto, essa presenta una realtà psicologica in senso stretto ed è demandabile alle capacità combinatorie del pensiero divergente (…). Ci sembra di poter individuare un “mondo metaforico”, diverso da mondo fisico obiettivo, che è compito della metafora fare emergere dalla coscienza (…). Il mondo metaforico è quindi essenzialmente un mondo di partecipazione in cui il soggettivo e l'oggettivo sono indifferenziati: esso sta alla base di quella conciliazione creativa e consapevole dei due poli che si verifica nella metafora».

Fonzi – E. Negro Sancipriano, La magia delle parole: alla riscoperta della metafora, Einaudi, Torino 1975, pp. 3-6 passim.

LA VERITA’ DELLA METAFORA

«… Le mie conclusioni sono che nel leggere metafore: 1) ci si presentano delle immagini; 2) tali immagini non sono libere; 3) tali immagini sono esperienze quasi sensuali; e 4) tali immagini sono contemplate secondo una loro propria finalità, sicché non corrispondono necessariamente o al mondo fisico o alla “realtà”.
(…) Ora si può distinguere la metafora da quegli elementi che nella poesia sfruttano il suono, quali la rima e il ritmo, per il fatto che la prima utilizza immagini “viste” e “sentite” mentre i secondi approfittano di impressioni sentite per davvero. Tuttavia non si è ancora distinta l’essenziale unicità della metafora dalle descrizioni che nella poesia funzionano ironicamente. Per esempio, in questa strofa da The Waste Land:

Dopo il lume delle torce rosse sui volti sudati
Dopo il gelato silenzio nei giardini
Dopo l’agonia in luoghi petrosi
Il clamore e il compianto.

(Th. S. Eliot, The waste land, vv. 322-25),

il primo verso è altamente immaginistico, seppure non è metaforico. Eliot ha uno speciale talento per far sì che il lettore “veda”, “senta”, “odori”, “gusti” e “tocchi” attraverso le sue descrizioni. La metafora, tuttavia, implica un ulteriore elemento essenziale.
La metafora non implica solo simili descrizioni iconiche, ma implica la relazione intuitiva di “vedere come” fra parti della descrizione. Nella metafora di Shakespeare: “Il Tempo porta, o mio signore, una bisaccia sul dorso/ Dove egli ripone elemosine per l’oblio,/ un gigantesco mostro di ingratitudine” (Troilo e Cressida, III, 3, vv. 145-147), non c’è solo una descrizione iconica del tempo e di un mendicante, ma del tempo visto come un mendicante. La metafora non implica solo un tenore e un veicolo, per usare la terminologia del Richards, messi insieme a una frase, ma la relazione positiva di “vedere come” fra tenore e veicolo"

N. Hester, The Meaning of Poetical Metaphor, The Hague-Paris, Mouton, 1967, pp. 146-150 e 169-70 passim, citato da E. Raimondi-L. Bottoni, Teoria della letteratura, Bologna 1975.

UNA PROSPETTIVA FREUDIANA PER LA METAFORA

Freud non si è occupato della metafora in senso stilistico e retorico, ma dalla sua Interpretazione dei sogni (nonché dalla Psicopatologia della vita quotidiana e dal Motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio) si possono ricavare utili proposte per leggere la metafora in chiave psicanalitica.

Scrive Freud (L’Interpretazione…, in Opera, III, Torino 1967, p. 257): «Pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere segni e regole sintattiche, confrontando l’originale con la traduzione».

L’interpretazione del sogno può ritenersi analoga, quindi, all'operazione di riduzione della metafora. Come il sogno si spiega in relazione a tutta la vita mentale del sognatore, così il funzionamento di una metafora esige un processo di astrazione paradigmatico che interessa tutto il sistema della lingua o di un testo particolare.

Può essere di qualche utilità il seguente schema per un parallelismo tra sogno e metafora, secondo Freud:


S O G N O M E T A F O R A

1) Contenuto latente termine di partenza
2) Contenuto manifesto termine di arrivo
3) Condensazione sovrapposizione o addizione
4) Spostamento doppia metonimia o doppia sineddoche
5) Immagini Parole

Per spostamento, in Freud, si deve intendere che la rappresentazione del sogno è spostata verso elementi periferici; nel processo retorico si ha una metonimia (ala per uccello): ma la metafora, secondo Henry, sarebbe una doppia metonimia e per gli autori della Rhétorique générale il prodotto di due sineddochi.
Per condensazione si deve intendere che, nel sogno c’è un processo di sovrapposizione di più immagini dietro una sola immagine; nella metafora si ha la sovrapposizione di due campi semantici.

(Riduzione da G. Sàvoca, Introduzione allo studio della metafora, Bonaccorso, Catania 1976, pp. 48-67).

M E T A F O R A

«Tradizionalmente la metafora è considerata una similitudine accorciata, similitudo brevior (Quint. VIII, 6, 8). Ad esempio, Achille è un leone deriva da Achille combatte come un leone; Tizio è una volpe è la condensazione di Tizio è furbo come una volpe.

La metafora designa un oggetto attraverso un altro che col primo ha un rapporto di similitudine. Quando diciamo “capelli d’oro” vogliamo intendere “capelli biondi come l’oro”.

I moderni studi di retorica hanno abbandonato la definizione della metafora come similitudine abbreviata e si sono proposti di approfondire la genesi linguistica del traslato.

In effetti, “si dice che una metafora è una parola usata al posto di un’altra per rendere un referente con un significato diverso (Berruto, La semantica, Bologna, 1975, p. 117). In "capelli d’oro" la metafora d’oro non indica come è ovvio un referente, ma un significato traslato, cioè diverso da quello letterale. La metafora, come la metonimia e la sineddoche, opera uno spostamento di significato: ma secondo quali regole?

“La spiegazione del meccanismo di trasferimento di significato, cioè delle regole secondo cui una parola sostituisce quella “propria” in un certo significato, è fondata su una parentela di somiglianza in base alla ‘catena’: la parola x, usata propriamente per designare il referente x, viene usata per designare il referente y (al quale può o non corrispondere una parola ‘propria’); che rapporto c’è fra parole, significati e referenti? La risposta è che si ha metonimia quando tra i significati c’è una relazione di contiguità logica e/o materiale: per es., causa ed effetto ("lavoro" per "opera compiuta" in "il quadro che hai terminato è proprio un bel lavoro"; materia ed oggetto ("ferro" per "spada" o "arma"); contenente e contenuto (bicchiere per "un po’ di vino" in "ho bevuto un bicchiere di Chianti"); astratto e concreto ("inseguimento" per "inseguitori" in "è sfuggito all’inseguimento"), ecc.

Si ha sineddoche quando tra i significati c’è una relazione di maggiore o minore estensione (in termini tecnici, diremmo di iponimia), o di parte e tutto: "macchina" per "automobile", "bocche" per "persone" in "tante bocche da sfamare", ecc.” (Berruto, op. cit., p. 116 sgg.).

Nella metafora il meccanismo di spostamento semantico può avvenire tramite un termine intermedio che accomuna proprietà inerenti ai due termini che sono il punto di partenza e il punto di arrivo della metafora (X e Y). Ad esempio, la metafora "il dente della montagna" verte sulla traslazione ‘cima’ - ‘dente’ (rispettivamente X e Y), resa possibile dal termine intermedio ‘aguzzo’, ‘appuntito’ che accompagna il cosiddetto ‘veicolo’ della metafora (X) al ‘tenore’ (Y).

1. Metafora e metonimia secondo Jacobson. Jacobson afferma che “Lo sviluppo di un discorso può aver luogo secondo due differenti direttrici semantiche: un tema conduce ad un altro sia per similarità sia per contiguità. La denominazione più appropriata per il primo caso sarebbe direttrice metaforica, per il secondo direttrice metonimica, poiché essi trovano la loro espressione più sintetica rispettivamente nella metafora e nella metonimia.” (Jacobson, Saggi di linguistica generale, Milano 1966, p. 40).

Si tenga presente che per Jacobson la metonimia comprende anche la sineddoche: nella metafora sono confrontati due termini che hanno fra loro un rapporto paradigmatico, di somiglianza: l’espressione capelli biondi può essere associata all’idea dell’oro, per cui si ha la metafora capelli d’oro (i due elementi sono esterni l’uno all’altro); nella metonimia il rapporto tra i due termini è sintagmatico, di contiguità (intrinseco): fra vela e nave (in ho visto una vela partire), sudore e lavoro (in si guadagna la vita col sudore della fronte), corona e re (in discorso della corona) c’è un rapporto interno perché la prima parola (metonimia-sineddoche) è una parte dell’altra, una sua causa o reificazione ecc.

Aristotele (Poetica, 1457 b, Retorica, 1407 a) dice che tra la vecchiaia e la vita c’è lo stesso rapporto che tra la sera e il giorno: “il poeta dirà dunque della sera, con Empedocle, che è la vecchiaia del giorno, o della vecchiaia che è la sera della vita o il tramonto della vita.
Qui la scelta paradigmatica vecchiaia-sera è sottesa da un rapporto analogico strutturabile in uno schema che spiega il “meccanismo sublinguistico” (Henry) operante a livello profondo:

vecchiaia = sera
vita = giorno

Dagli enunciati:

La vecchiaia è la fine della vita
La sera è la fine del giorno
derivano l’analogia distesa

3. La vecchiaia è la fine della vita come la sera è la fine del giorno

e la metafora

4. La vecchiaia è la sera della vita.

L’equiparazione vita-giorno comporta l’equiparazione vecchiaia-sera e la possibilità del transfert semantico con l’eliminazione del termine comune ai due enunciati profondi.

2.Morfologia della metafora secondo Henry.

“Nella metafora - sostiene Henry – l’intelletto sovrappone i campi semici di due termini appartenenti a campi associativi diversi (e talvolta assai lontani l’uno dall’altro), finge di ignorare che vi è un solo tratto comune (raramente ve ne sono di più) e opera la sostituzione dei termini (Henry, Metonimia e metafora, Torino, 1975, p. 88).

Così in capelli d’oro si hanno due campi semici - quelli relativi a capelli e oro – con tratti o componenti o semi assai diversi, salvo uno, il colore, che può permettere lo spostamento semantico:

oro: colore “giallo” (e non “bianco”)
capelli: colore “biondo” (e non “nero”, “rosso”, ecc.)

Il tratto comune giallo-biondo permette la formazione della metafora:

capelli - giallo -oro -biondo

La metafora può essere espressa in varie forme grammaticali (nomi, verbi, aggettivi prevalentemente). La metafora nominale ha diverse strutture:

la sostituzione di un solo nome: è nata una stella (=diva del cinema)
la copula: il mare in certi giorni / è un giardino fiorito (Cardarelli)
l’apposizione: e l’eco che non tace, amica dei deserti (Quasimodo)
la costruzione col genitivo: non c’erano trombe di mitraglia (De Libero)
la catena di due o più nomi: voci di tenebra azzurra (Pascoli)

La metafora verbale può riguardare il solo verbo ("Osservare tra frondi il palpitare / lontano di scaglie di mare", Montale) o il nesso sostantivo-verbo ("Trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un’immagine ride", Montale). Gli aggettivi metaforici sono comunissimi anche nel linguaggio standard: barba d’argento (=argentea), mani bucate, sguardo angelico, attacco fulmineo.

Secondo Henry occorre distinguere le metafore non sulla base della loro forma grammaticale, ma in rapporto al numero dei termini espressi, cioè quattro, tre, due e uno. La metafora a quattro termini è costituita dal rapporto di equivalenza a/b = a1/b1 (si ricordi l’esempio aristotelico).

Una metafora a tre termini è rappresentata dal verso di Hugo: "La vita è lo spaventoso viale delle sfingi", in cui si ha l’analogia:

viale = vita

sfinge = problemi

con i termini espressi a, b, a1 (b1 è contestuale).

Molto comune la metafora a due termini (a, a1, oppure a, b1). Ad esempio il sintagma il fuoco dell’amore ha come schema sublinguistico l’equivalenza

fuoco = amore
ardore = passione

Così le nevi della testa si analizza nello schema

nevi = capelli bianchi
montagna = testa

(con termini espressi a e b1).

La metafora a un termine richiede l’aiuto esplicatore del contesto, come quando diciamo: Arriva la mummia! per riferirci a una persona piuttosto silenziosa e appartata. Per capire il valore di forbice=’tempo’ nel montaliano Non recidere, forbice, quel volto… è necessario ricorrere al contesto della poesia (e al sistema tempo-memoria che percorre tutta la produzione di Montale).

3. Altre interpretazioni della metafora. Gli autori della Retorica Generale (1970 c, tr. ital., 1977, p. 161 sgg) ritengono che la metafora risulti da due operazioni di base: addizione e soppressione di semi (v.) e come tale sia il prodotto di due sineddochi, una particolarizzante secondo il modulo Π e una generalizzante secondo il modulo Σ [v. Sineddoche: generalizzante (Σ, mortale per ‘uomo’; Π uomo per ‘mano'), particolarizzante (Σ, zulù per ‘nero’; Π vela per ‘battello’)]. Ad esempio, la metafora "La betulla è la fanciulla dei boschi" si realizzerebbe secondo lo schema X-P-Y riformulato con le etichette P-I-A (termine di partenza, termine intermedio, termine di arrivo):

p- I-A,

dove P sarebbe fanciulla, A betulla e I ‘flessibile’: il percorso P-I è una sineddoche generalizzante Σ e il percorso I-A è una sineddoche particolarizzante Π (il primo modulo è esemplificato da mortale per uomo, il secondo da vela per nave).

Anche Eco (Le forme del contenuto, Milano 1971, p 95 sgg) ritiene che la metafora sia una catena di metonimie. Così, nella metafora barocca di Artale: "il crin s’è un Tago, e son due Soli i lumi", la connessione fra fiumi e capelli sarebbe metonimica, perché il sema ‘fluenza’ unifica i due sememi.
Nella sua più recente opera, Eco sembra aver rettificato questa interpretazione. Accentuando l’impostazione di Jakobson, secondo cui la metafora è una sostituzione per similarità e la metonimia una sostituzione per contiguità, afferma giustamente che la «similarità non riguarda una relazione tra significante e cosa significata, ma si presenta come identità semica» (Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, 1975, p. 348: l’esempio citato e domini canes = i domenicani, ‘cani del Signore’).

La metonimia, in cui è inglobata anche la sineddoche, rappresenta un caso di interdipendenza semica (e non di identità), che può essere di due tipi: a) una marca (cioè un sema) sta per il semema cui appartiene (vela per nave); b) un semema sta per una delle sue marche (uomo per mano; Eco cita l’esempio: Giovanni è proprio un pesce per ‘nuota molto bene’, ma sbaglia perché pesce è metafora). In conclusione «la connessione tra due semi uguali sussistenti all’interno di due diversi sememi (o di due sensi dello stesso semema) permette la sostituzione di un semema con un altro (metafora), mentre lo scambio del sema per il semema costituiscono metonimia» (Eco, op. cit. 1975, p. 352 sgg.).

L’assunto che la metafora sia il prodotto di due sineddochi (o di due metonimie) è criticato da Bertinetto (in Henry, op. cit. 1975, p. VII sgg.) che lo ritiene inadeguato a spiegare una locuzione metaforica del tipo Cassius Clay è una roccia sottesa da una duplice predicazione: Cassius Clay è forte, la roccia è dura. Lo schema sublinguistico di Henry mostra invece che la metafora è resa possibile dall’analogia fra i due termini ‘forte’ e ‘dura’.

La metafora è, sostanzialmente, un caso di anomalia semantica che, secondo la linguistica generativa, deriverebbe dalla violazione di determinate regole di selezione, e più esattamente le restrizioni di selezione che comandano la combinazione dei lessemi. Nella frase "Il sole ride" la metafora nasce dalla violazione del sema / + umano / che è una delle restrizioni di selezione del verbo ‘ridere’. Ancora meglio, si potrà dire che lo straniamento metaforico deriva dalla violazione delle presupposizioni referenziali. Ad esempio, in "Finalmente la mummia ride" (per indicare una ragazza chiusa, silenziosa) la normale presupposizione di ‘mummia’ = / cadavere imbalsamato / è violata dal riferimento a un tratto / + umano vivente /.

E' ciò che Weinrich (Metafora e menzogna, la serenità dell’arte, Bologna, 1976, p. 89) chiama “controdeterminazione”. Se il significato di una parola consiste essenzialmente in una certa aspettativa di determinazione (ad es. paesaggio), la metafora, trasferendo il senso del referente ad un altro (la vostra anima è un passaggio eletto), delude l’aspettativa e crea una sorpresa; il senso è provocato dal contesto. «Chiameremo questo processo “controdeterminazione” perché la determinazione effettiva del contesto avviene in direzione contraria all’attesa di determinazione della parola. Con questo concetto possiamo definire la metafora come una parola in un contesto ‘controdeterminante’» (Weinrich, op. cit. p. 89).

Etim.: dal greco metaphérein = portare oltre

ANGELO MARCHESE
(Dizionario di retorica e di stilistica. Arte e artificio
nell’uso delle parole
, Mondadori, Milano 1978, pp.
158-163)

METAFORA LINGUISTICA E METAFORA ESTETICA

«La metafora, che ha attirato l’attenzione dei teorici estetici e dei retori fin da Aristotele, è stata esaminata negli ultimi anni anche dai teorici della linguistica. Il Richards (Philosophy of Rhetoric, London 1936; trad. it. Milano 1967) ha protestato energicamente contro il modo di considerare la metafora come una deviazione dalla norma pratica linguistica invece di esaminarne le possibilità caratteristiche e indispensabili. La ‘gamba’ della sedia, il ‘piede’ della montagna e il ‘collo’ della bottiglia sono tutte forme che applicano, per analogia, nomi di parti del corpo umano a parti di oggetti inanimati. Queste estensioni di termini, tuttavia, sono state assimilate nella lingua e per solito non sono più avvertite come forme di metafora neppure da chi sia particolarmente sensibile alle cose letterarie e linguistiche, e divengono allora metafore sbiadite o logore e morte.

Dobbiamo distinguere la metafora come “onnipresente principio del linguaggio” (Richards) dalla metafora specificamente poetica. George Campbell affida la prima al grammatico e la seconda al retore. Il grammatico giudica le parole dalle etimologie e il retore dalla capacità o meno di produrre “un effetto di metafora sull’ascoltatore (…). H. Conrad contrappone la metafora “linguistica” alla metafora “estetica” e fa notare che la prima (ad esempio: la gamba del tavolo) sottolinea il tratto dominante dell’oggetto, mentre la seconda tende a dare una nuova impressione dell’oggetto, a “immergerlo in una nuova atmosfera”».

(R. Wellek A. Warren, Teoria della Letteratura, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 267-268)

DALLA METAFORA ALL’ANALOGIA

L’analogia è “una sorta di estensione della metafora ai più diversi ordini sensibili” (S. F. Romano, La poetica dell’Ermetismo, Firenze 1942). Essa “consiste in una trasposizione di significato, risultante dalla comparazione di due diversi ordini di emozioni: è un metaforico avvicinamento di termini diversi per rappresentare nell’immagine che ne risulta, uno stato d’animo o un sentimento” (Idem).

“Mentre nella metafora, o passaggio di un termine ad altro ordine di sensazioni, si serba una qualche affinità, sia pure esteriore, con l’ordine originario, nell’analogia il legame di affinità è molto più lato ed è intuito come rapporto affatto nuovo dalla fantasia creatrice” (M. Petrucciani, La poetica dell’Ermetismo italiano, Torino 1955).

ESEMPI DI INDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN UNGARETTI

Decrescente luna, / piuma di cielo.
Morte, arido fiume…
Fratelli / Parola tremante / Nella notte / Foglia appena nata
E’ il mio cuore / Il paese più straziato
Col mare / mi sono fatto / Una bara / Di freschezza
Morte, muta parola / Sabbia deposta come un letto / Dal sangue

ESEMPI DI IDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN MONTALE

Scordato strumento / cuore
Mia vita è questo secco pendio, / mezzo non fine, strada aperta a sbocchi / di
rigagnoli, lento franamento
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida / scorta per avventura tra
le pietraie di un greto
Felicità raggiunta… / agli occhi sei barlume che vacilla, / al piede teso ghiaccio
che s’incrina…
Il cavo cielo se ne illustra ed estua / vetro che non si scheggia…

ESEMPI DI IDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN QUASIMODO

Ma il tuo viso è un’ombra che non muta…
Sui tuoi muri ch’erano a sera / un dondolio di lampade
In me si fa sera: / l’acqua tramonta / sulle mie mani erbose.
Spesso il processo analogico si realizza attraverso il come: ma esso non ha valore di comparazione, bensì di identificazione soggettiva:
Noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo (Montale)
Come questa pietra / del San Michele / … è il mio pianto (Ungaretti)
La neve, muta a guisa del pensiero / cade… (Pascoli)
Ma Pascoli, col suo linguaggio impressionistico ed analogico fa pensare a giochi più complessi nei quali ha tanta parte la sinestesia:
Lo strepere nero d’un treno
Passero azzurro
Un bianco sorriso di cieco
Voci di tenebra azzurra

Questo impressionismo visivo e fonico produce una profonda unità dei sensi. E benché la sinestesia che ne risulta non sia da confondere con la metafora o con l’analogia, è sempre una di quelle arditezze espressive che vengono catalogate, globalmente, nel parlar figurato o metaforico.
L’analogia (vera) è invece - come scrive il Flora – la sostituzione d’un rapporto d’identità a un rapporto di comparazione. Al riguardo, Mariani (Poeti della terza generazione del Novecento, Roma 1963) ci offre, traducendolo da Claudel, questo brano esplicativo: «La mia anima è come un uccello che… Poi è venuto il simbolo che, nel suo vero senso, è un trasferimento di un’immagine in un’altra: la mia anima è un uccello… Sopprimendo il “come” il poeta afferma più nettamente l’identità tra la sua anima e un uccello. Questa identità (…) gli è apparsa in un lampo di intuizione così vivo, così evidente che egli non ha temuto di affermare che esiste tra la sua anima e un uccello non soltanto un rapporto, ma una vera partecipazione». Il poeta in oggetto era Rimbaud, a proposito del quale Claudel scriveva: «Chez ce puissant imaginatif, le mot comme disparaissant, l’hallucination s’installe et les deux termes de la métaphore lui paraissant presque avoir le même degré de realité…”

Mediante la metafora il poeta rinnova e reinvergina il suo mondo, spezza vecchi schemi stilistici, sorpassate cristallizzazioni e apre nuove vie, impensati sbocchi al suo linguaggio. (G. Mariani)

…L’attività metaforica non fa che rispecchiare nel campo specifico del lessico il meccanismo tipico di tutto il linguaggio, inteso come attività simbolizzatrice dell’intelletto, che per esprimere le proprie intuizioni e percezioni e renderle comprensibili, le formalizza in immagini, nelle quali più o meno rinnova, con la propria impronta personale, la materia linguistica che la tradizione gli offre. (C. Schick)

"On crée, au contraire, une forte image, neuve pour l’esprit, en rapprochant sans comparaison deux réalités distantes dont l’esprit seul a saisi les rapports" (P. Reverdy).

Alla metafora, dunque, è necessariamente legato un inganno. Ma questo è un inganno del tipo della menzogna? Certamente no. Infatti, si tratta soltanto un inganno di una spettativa, quindi in realtà è piuttosto una delusione che un inganno. Avevamo ormai preso per sicurezza la verosimiglianza, e ora ci sentiamo scossi nella nostra tranquilla attesa. Ma una volta che la determinazione metaforica ha avuto luogo, in maniera diversa da ciò che ci saremmo attesi, in un primo tempo, tutto torna di nuovo alla normalità e l’intendimento della metafora è strettamente circoscritto, preciso, individuale e concreto come qualsiasi altro intendimento (H. Weinrich).

SULLA METAFORA

“La metafora è di regola chiamata a chiarire il pensiero, cioè a renderlo più perspicuo e prontamente comunicabile con il confronto e la similitudine. È un aiuto pedagogico alla logica del discorso”. (F. Ferrarotti)

“La metafora rende il pensiero innaturale, sterile (non cresce insieme) e alla fine vuoto di pensiero.” (F. Nietzsche)

“La metafora, a sua volta, … ha ormai rivelato appieno il suo valore conoscitivo. Perché, se l’universo dell’uomo è il linguaggio, l’esperienza e il linguaggio si confrontano, e una buona metafora è un’ipotesi, e un’ipotesi è una domanda che esige una risposta che vuole essere verificata… messa sotto stato d’assedio, espugnata, nella sua struttura, con il microscopio e il laser”. (G. Celli)

“Comparer deux objets aussi éloignés que possibile l’un de l’autre, au, par toute autre méthode, les mettre en présence d’un manière brusque et saisissante, demeure la tâche la plus haute à laquelle la poésie puisse prétendre… Plus l’élement de dissemblance immédiate paraît fort, plus il doit être surmonté et nié”. (A. Breton)

La metafora «è così piacevole perché rappresenta più idee in uno stesso tempo (…). E però ancora si raccomanda al poeta (ed è effetto e segno nobilissimo della sua vena ed entusiasmo e natura poetica e facoltà inventrice e creatrice) la novità delle metafore» (G. Leopardi).
Metafora nuova, ovviamente, vuol dire metafora ardita, cioè non «presa sì da vicino che le idee, benché diverse, pur quasi si confondano insieme» (G. Leopardi).

lunedì 8 giugno 2009

"In quel punto entra il vento: l’inattualità di Remo Pagnanelli", di Elisabetta Brizio

Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre!

Paul Valéry


Compito primario della poesia è sempre stato quello di
provocare una interazione tra la storia e le invarianti
della specie umana, tra archetipi e contesto sociale, di
modo che ne nascessero ipotesi, almeno, nuove sul
mondo. Quello che scorgo è una volontà di resistenza
ammirevole nell’unica battaglia politica che valga la pena
di combattere: conservare e custodire il patrimonio dei
nostri socioletti. Se sapremo rivivificare il passato, il
futuro, che pare fosco, sarà un affare che ci competerà.
Remo Pagnanelli

Lo scorso ventuno maggio si è svolta a Macerata la presentazione del libro In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi (a cura di Filippo Davoli e Guido Garufi, Quodlibet 2009), che raccoglie gli atti del convegno nazionale tenutosi a vent’anni dalla scomparsa del poeta.

Vi sono contenuti venti pregevolissimi saggi che offrono al lettore interpretazioni diverse e multiformi, senza che per questo venga disperso il filo che le unisce, ribadito da Guido Garufi nell’introduzione, vale a dire il riconoscimento dell’operare umanistico di Pagnanelli poeta-critico, della priorità da lui ascritta alla prevalenza del senso, a una parola che sia argomentante, espressione del sentimento del tempo e della storia, che si erga sull’ostentazione del divertissement e sullo scadimento del “ruolo” della poesia, che non è una attività consolatoria o accessoria ma oggetto di assorta e assillante riflessione - una “morale della forma”, avrebbe detto Roland Barthes -, nonché visione eminentemente problematica. Ne deriva la stretta correlazione tra poesia ed etica: entrambe si misurano, contrastandola, con la troppo umana tendenza alla rimozione, allo spostamento.

Lontana dal defilarsi, dal mimetizzarsi, dal rifugiarsi ai margini, la poesia deve attraversare o stazionare - senza alcuna intenzione negativista o esito nichilista - sulla precarietà e sull’inconsistenza, aspetti ineludibili e inerenti all’uomo in quanto tale. Il nulla è un dolceamaro narcotico; bisogna progressivamente immunizzarsi all’idea del nulla e della mancanza, che è come dire della vita stessa. È da questa accettazione che forse traggono origine in Pagnanelli quelle soluzioni linguistiche dall’accento ironico, strategie espressive che tradiscono la lucidità disperata di continuare a scrivere, a elaborare verbalmente e meditatamente la propria esperienza nel momento stesso in cui veniva visitato dal pensiero della perdita e della dissoluzione.

Come accade in questi versi appartenenti a Preparativi per la villeggiatura, con i loro giochi d’eco e le loro riprese vagamente ecolaliche, una versificazione quasi scandita per sintagmi:

tra un tentativo e l’altro (suicidario), scrivo un saggio
di sudario su Viaggio d’inverno, preparo un libro dal
titolo Atelier d’inverno (sussidiario). L’inverno è in me,
certamente. Parcamente mi consolo in tombeaux di
autori celebri. Anche qui, vedete, conati (clonazioni),
disperazioni disperanti, dispersioni.

Nel saggio di apertura Amedeo Anelli sottolinea il valore da Pagnanelli accordato alla riflessione “su quello strano legame estetico, percettivo, noetico, che unisce parola a materialità diverse, che lega l’esperienza al giudizio, il senso al non senso, il senso al significato”. E al binomio visione-visionarietà, sottratta, quest’ultima, a ogni idealizzazione romantica e restituita al suo significato di ipotesi disincantata e comunque percorribile in vista della riempitura del “vuoto dei simulacri”, attraverso immagini seppure visionarie ma autentiche.

Danni Antonello parla di una postumità di Pagnanelli, poeta inattuale del dopo, che affida alla memoria una poesia che è lotta contro la transitorietà. Poesia è martyrion e sacrificio, testimonianza e luogo testamentario; deposto l’uomo, il poeta intrattiene una contesa contro l’evanescenza e per la persistenza della memoria. Venuto meno il “tu”, attraverso i suoi eteronimi, liberandosi da quella “iterazione possessiva” e ossessiva (“canticchiando la solita solfa ne varietur”, scrive Remo in Continuum, appartenente a Epigrammi dell’inconsistenza), Pagnanelli esce da una configurazione monologante, e resta solo il poeta “che ha saputo farsi polifonia di voci”, la cui sconfitta esistenziale è a un tempo compimento della vita, autorealizzazione e liberazione. E la poesia è annunciazione - pur in una dimensione tutta immanente – di qualcosa che si ritiene già postumo. Come avviene in Michelstaedter, dice Antonello.

Scrive Pagnanelli, in Tentativo (fallito) di aggirare con te il monologo (in Dopo):

finché si torna
malgrado tutto e la stanza e il posto non possono
essere aggirati ancora. In quel punto
entra il vento

Quanto alla metafora del vento che entra, forse Remo aveva in mente, oltre il Cimetière marin di Valéry, il suo caro Caproni di Dopo la notizia, dove il vento è appunto quello mobile-immobile della “morte che vive”, dell’istante eterno che fonde in sé tutti i momenti e li azzera; e, ancora, il Montale di Vento e bandiere, dove il ritorno del vento, assente la donna, testimonia di una sconnessione, una fenditura, una sfasatura del tempo che “non mai due volte configura / in egual modo i grani”, gettando l’uomo nello smarrimento eppure salvaguardando, parimenti, il suo forse illusorio, e comunque precario ed esile, margine di scelta e di autodeterminazione.

“In quale punto entra il vento?”, si interroga Filippo Davoli: entra nell’istante in cui si tenta di sottrarsi al chiacchiericcio - al mormorio come vuoto di senso - e al chiasso interiore, il vento entra nella sostanzialità e non marginalità di una parola che non sia indifferenziata o segno di indifferenza, nel “recupero di un’idea esteticamente forte e strutturata”, nel rinvenimento di una parola “usata” che nondimeno sia in grado di resistere all’usura. Il vento entra nel punto in cui una parola altra riesce a fondersi con la tradizione sottraendosi alla dispersione semantica e ricollegandosi alle ragioni esterne alla scrittura.

Guido Garufi intravede in Pagnanelli una stretta contiguità tra poesia e testo, in una superiore visione olistica, non come discordanza. Ribadisce l’idea pagnanelliana della poesia come “conservazione attiva”, il cui ruolo fondamentale è di “conservare la tradizione e renderla dinamica e attiva, mobile e memorabile”. E ricorda una delle costanti della poetica pagnanelliana, quella del prevalere dell’”asse del senso e della leggibilità” sull’enfatizzazione retorica, sull’accostamento gratuito, cerebrale e trasgressivo, sulla finzione, sull’infrazione eletta a regola, opachi e fuorvianti mascheramenti. “Il vento e l’aria - scrive Garufi nell’introduzione - sono in qualche modo la metafora della poesia. Altezza e cielo, invisibilità e presenza, aspirazione e vita, sguardo che la traversa grazie alla sua trasparenza”. Quello pagnanelliano è un linguaggio classico, non classicistico, che procede segnicamente verso la memorabilità del dettato poetico. In Pagnanelli mai è venuto meno quell’indispensabile e imprescindibile legame tra categorie etiche ed estetiche.

Anche Massimo Gezzi parla della poesia di Pagnanelli nei termini di “uno scavo in direzione del significato”, di un’operazione archeologica, come lo stesso Remo ebbe a dire, sia come “discorso del Principio”, sia come “conservazione e custodia di ciò che è andato perduto o si sta perdendo”. Poesia per Pagnanelli non è né infingimento né menzogna, dice Gezzi, ma perpetua lotta con l’indicibile e con il “nontempo”. Poesia è un’attività semantica, uno strenuo tentativo di attribuzione di senso al di là della tentazione di affidarsi all’autonomia del significante. Non alla maniera dei postmoderni, ci dice Andrea Ponso, i quali postulano l’irresponsabilità della parola alla volta di uno spazio infinitamente percorribile di ipotesi di senso che alla fine coincidono con l’assenza di un referente e di un senso, percorso dunque rassicurante e al contempo nichilista, nella misura in cui ridefinisce la propria incapacità di significare. Pagnanelli oppone la tradizione come luogo di resistenza, di consistenza, ma anche causa di una resistenza con cui ogni poeta autentico dovrebbe misurarsi.

Poesia come tensione verso l’autentico, ribadisce Daniela Marcheschi, poesia sorretta da un “umanesimo antropologico” che fa del poeta un poeta-critico all’interno di una visione unitaria della cultura. Non trascurabile è il rimando in nota della Marcheschi a “Presupposti per un’estetica pedagogica” (in Remo Pagnanelli, Scritti sull’Arte, Vicolo del Pavone, Piacenza 2007), in cui l’autore, nel culmine dell’euforia postmodernista, pare quasi stigmatizzare gli eccessi dell’infinità e dell’illimitatezza delle interpretazioni in vista della permanenza di una qualche “funzione di realtà”. Altro segno essenziale dell’inattualità di Pagnanelli, una tra le rare voci discordanti nell’euforico dilagare del postmoderno di quegli anni, atteggiamento che al contrario da qualche anno è oggetto di ripensamenti e ritrattazioni.

Il tema di un Dio alluso, del riferimento agli dèi è svolto da Umberto Piersanti: dèi delineati quali apparenze enigmatiche e distanti, amalgamate quasi con la condizione umana, e un Dio vagamente inquietante, figura quasi irrisolta essa stessa, una delle varie pagnanelliane “figure di pensiero”. Analogamente, Andrea Di Consoli pone la questione di un poeta che rientra nel “culto tutto novecentesco dell’assenza di Dio”.

Poesia di “’sosta’, che guarda all’oltre, al luogo della sua sparizione”, scrive Francesco Scarabicchi, come se la morte fosse un privilegio che fa dire parole assimilabili a sottoscrizioni di un’ultima volontà. Poesia “da ‘soglia’ di ingresso”, nella consapevolezza del transito e dell’impermanenza.

Più particolare l’interessantissimo saggio di Roberto Galaverni, che mostra e “rettifica” Pagnanelli attraverso tre testi rispettivamente di Milo De Angelis, Gianni D’Elia e Andrea Gibellini, laddove Remo “reagisce” o al contrario si svela in versi altrui, nei quali Galaverni interseca riflessioni proprie e legittimazioni puntuali e circostanziate.

Andrea Gibellini si sofferma, ripercorrendolo per illuminazioni, sull’itinerario di Pagnanelli poeta, una “voce così implacabile nel rappresentare se stesso”, esito della “totalità di un io-poeta in permanente allerta e perpetuo abbandono oltre il visibile e dentro la storia”.

Tra gli innumerevoli saggi, che, pur ricollegandosi a distanza, svolgono ognuno una prospettiva particolare (qui ne sono stati sfiorati solo alcuni, e di passaggio), si distingue per la diversa impostazione quello di Piero Feliciotti (“Presente indicativo: funzione poetica e funzione politica dell’inconscio”), nella misura in cui la sua ricerca risale all’origine di quella parola come territorio in cui non è concesso bluffare, che ha costituito l’aspetto centrale della poetica pagnanelliana.

Scrive Lucia Tancredi quanto Remo sentisse il “valore assoluto, quasi liturgico della parola e del suono”, nonché della poeticità del silenzio inteso non come suo rovescio, ma come lo spazio del “non detto” e del “non dicibile”.

Esiste una omologia tra poesia e psicoanalisi, scrive Feliciotti, due maniere diverse, ma per certi aspetti similari, di cui l’uomo dispone per la cura di sé. Non è possibile ricordare Remo Pagnanelli se non in termini di presenza, la presenza di “una vita al presente indicativo”. E il titolo del convegno, “In quel punto entra il vento”, sintetizza la funzione della poesia, che è fatta di vita e tempo, alluse dall’irrompere del vento, come nella metafora pagnanelliana. Feliciotti delinea questo presente configurandolo esteticamente ed eticamente, nella sfera dell’inconscio e in una prospettiva politica. L’oggetto poetico è situato nello spaesamento per l’incorrispondenza tra le parole e le cose. In assenza del proprio rinvio referenziale il linguaggio poetico crea un vuoto di senso univoco nella parola poetica che ci induce a riempirlo con le nostre emozioni, creando nuove presenze e orizzonti imprevedibili. È questo, secondo Feliciotti, l’aspetto che accomuna la poesia “e ciò che nell’inconscio resiste all’interpretazione, il Reale”: “in quel punto entra il vento”, cioè la vita presente.

Feliciotti sottolinea l’insufficienza dell’approccio freudiano alla creazione artistica, e in particolare il limite di considerarla come qualcosa di riconducibile al solo inconscio, come l’esibizione di un nonsense che andrebbe tradotto, attraverso l’interpretazione, in enunciati comprensibili. Tale presupposto è limitante, perché leggere dei versi come se fossero enigmi inconsci non rende ragione del fatto che i poeti “arrivano sempre per primi nel luogo dove la psicoanalisi fa le sue ‘scoperte’. Che è luogo d’origine non già della significazione più o meno edipica, ma piuttosto del senso e cioè del tempo della creazione del soggetto”. Con l’opera d’arte si è situati in un altro tempo, in un tempo che “ricomincia” e il soggetto è chiamato nel punto d’origine dell’atto creativo, cioè dell’azione umana in quanto tale. Leggere dei versi o guardare un quadro è una attività che implica la ripetizione dell’azione dell’autore in una rappresentazione che è anche una ri-presentazione, vale a dire la trascrizione “nell’unità di tempo” del gesto creatore.
Se consideriamo l’opera d’arte come l’esito di una “proiezione fantasmatica inconscia” finiamo per fare astrazione dall’”atto creativo e dall’opera come oggetto concreto”. La psicoanalisi, scrive Feliciotti, “non è un’ermeneutica ma la logica stessa dell’azione”, il senso ne è il tempo: del soggetto che la compie, artista o fruitore. L’arte è il luogo d’elezione per la generazione di un senso inedito non per essere interpretato traducendolo in significazione cosciente; al contrario, per andare “dalla significazione all’atto che la sostiene”. La poesia è il rovescio del sogno, ma per comprenderlo bisognerebbe avere un concetto di inconscio che vada al di là della combinatoria significante. Esiste un punto di convergenza tra l’azione umana, il significato e l’atto di creazione inconscia.

Il sogno sottrae il soggetto e il sonno alla percezione di una realtà sgradevole e puramente percettiva. Si incarica di interporre la difesa della struttura simbolica, che è l’Altro, “cioè l’apparato del linguaggio”. Si situa tra dimensione percettiva e coscienziale, tale che “neppure nel sonno la dimensione significante viene meno”. L’indicibile, il territorio inaccessibile al linguaggio è la sfera del nostro essere e delle nostre pulsioni, esprimibili solo attraverso un atto. La vita è fatta di atti, non di parole, “l’atto è al di là del significante perché supera sempre tutte le ragioni, le valutazioni, i calcoli che lo preparano”.

Il linguaggio poetico è statutariamente trasgressivo. Nel sogno la potenza è codificata dall’Altro e non dal soggetto, e in una lingua estranea. Scrive Feliciotti che questa configurazione paradossale “indica la posizione del soggetto sul limite del significante, perché in fondo si parla sempre nella lingua dell’Altro”: precarietà ed estraneità si mescolano a una situazione che comunque ci appartiene.

Il “testimone non è tanto chi rivisita il passato”, perché la testimonianza include anche la componente del non detto. Il testimone istituisce il posto della verità e restituisce un senso alle azioni umane. E lo specifico dell’uomo “è in questo essere-tra-due, tra enunciato ed enunciazione, che è lo spazio precario e sempre presente della lettera”. La poesia non è traduzione del significato inconscio, ma è vero il contrario, “è l’inconscio che funziona come l’atto di creazione poetica”.

La psicoanalisi si occupa del soggetto sociale come anche del soggetto lirico, non del soggetto psicologico. Psicoanalisi e poesia si svolgono in una considerazione speciale di una parola non menzognera. La vita comporta qualcosa al di là della pura finzione, “un rapporto con la seconda morte”, di tutto ciò che siamo e che ci rappresenta, valori, credenze. E la parola ha più valore dell’esistenza stessa. In tal senso in relazione a Remo Pagnanelli si parla di presente indicativo.

Come diceva Heidegger, l’esistenza anonima che rinuncia a prendere la parola è inautentica. Tale presente, secondo Feliciotti, costituisce la valenza cronologica-logica del soggetto etico, il soggetto della parola. Rapportarsi alle forme letterarie è inoltrarsi verso le origini del senso, che muove il poeta dal “luogo originario del silenzio”, da cui poesia e psicoanalisi traggono origine. È origine il silenzio, “il tempo dell’evento che è tale proprio perché è atto e non linguaggio”, atto che origina il linguaggio e riflessione verso l’origine, verso la non-parola. Poesia e psicoanalisi dunque sottraggono la voce al silenzio, eludendo gli automatismi della rimozione. Il sogno, analogamente alla poesia, mette in scena metafore e metonimie, ma soprattutto chiama in causa il tempo del soggetto, “lo confronta con il Reale dove non c’è più parola”. Il poeta, diversamente che nel sogno, si scontra con la realtà attraverso una cancellazione di sé e travalica la sfera dell’inconscio per un itinerario inverso, “nel punto logico dell’origine del soggetto”: “in quel punto entra il vento”, scriveva Remo. Dallo sprofondamento nel proprio abisso alla vita, traendo dalla presunta mancanza di senso una parola nuova, una parola altra.

Nessuna ricaduta nell’idealismo, ma l’esibizione di un segno concreto che non si incarica di tradurre alcun contenuto inconscio: un segno che indica, suggerisce, allude, traumatizza, riannodando “il simbolico, l’immaginario e il reale”. Oltrepassata “la tirannia del significante” attraverso una parola nuova il poeta va oltre ogni mistificazione nella misura in cui codifica la propria opera poetica attraverso il proprio stile, un’opera che quanto meglio riesce tanto più disdice l’abbonamento all’inconscio, visto che c’è di sicuro più inconscio in una cattiva poesia che in una buona. Fare poesia non ha nulla a che vedere con l’interpretazione dell’inconscio, il quale, d’altro canto, “si crea e si riattualizza nell’atto di scrivere o di leggere”.

L’uomo deve riferirsi alla realtà con l’unico strumento che possiede e lo strumento linguistico essenzialmente diverge dalla realtà “quanto più pretende di aderirvi”, diceva pressappoco Proust. La parola non coincide con la cosa, la snatura, “ma nel suo compiersi l’atto di parola può (…) risarcire il soggetto di questa perdita, farlo essere grazie a ciò che non si può dire”. E ciò che non si può dire si può comunque elaborare, fino a farlo significare.

Pagnanelli è riuscito a presentificare il presente, il male di vivere. Tale presente non è il sintomo di Remo Pagnanelli, dice Feliciotti, quanto la maniera attraverso la quale “l’autore riscatta la precarietà del vivere e si sostiene al di là del sintomo psicopatologicamente inteso. Non lo risolve ma lo trasforma”. I versi di Remo Pagnanelli non necessitano di interpretazione analitica “perché il poeta è già interpretato” dai versi stessi. La ricorsività, nella poesia di Remo, del tempo presente è segno della manchevolezza del presente: è la presenza mancante, non l’assenza, che muove il poeta. La vita non trascorre alla ricerca di un senso, anzi le azioni quotidiane ci distraggono dalla ricerca di un senso nelle cose. “È un vivere nel presente”, dice Feliciotti, anche senza preoccuparsi “del Reale che il presente presentifica”, è anche alienarsi indugiando nella cura inautentica, prendersi cura dell’hic et nunc, intrattenersi con l’effimero.

Scrive infine Feliciotti che non è possibile all’individuo defilarsi “da questa sopportabilità del presente. Che è sempre senza speranza, proprio come deve essere il presente della vita”. E tale coscienza dell’impossibilità di una svolta spirituale pare legittimamente ricollegarsi a quanto Pagnanelli scriveva sulla poesia italiana dopo la neoavanguardia, una poesia, malgrado tutto, non rassegnata alla morte, che resiste all’idea dell’estinzione senza l’esibizione di soluzioni disperate, che si intrattiene in una condizione invernale, permane e dialoga, testimone non immemore, “con e sulla precarietà assoluta”. Come scrive Maria Lenti, “tutto affidato all’uomo, nonostante la sua orfanità, o forse proprio a causa di essa, nella sospensione di un senso del vivere affidati ad un rovello che chiede una voce di rimando.”

Scrivere, dunque, quel che c’è da scrivere, ogni parola scritta è una parola strappata alla morte, e nel contempo la esorcizza proprio perché la prefigura con la sua fissità, e la rende in qualche modo pensabile, concepibile, accetta nella sua possibilità essenziale e inesorabile.

Elisabetta Brizio

maggio 2009


Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato a Macerata nel 1955, dove è morto nel 1987.
In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell'esistere. Lettura dell'opera poetica di Vittorio Sereni (Scheiwiller, Milano 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Di Mambro, Latina 1985), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste (“Alfabeta”, “Otto/Novecento”, “Letteratura Italiana Contemporanea”, e altre), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Mursia, Milano 1991) e postumo Fortini (Transeuropa, Ancona 1988). Alcuni scritti sull’estetica e le poetiche sono stati raccolti nel volume a cura di Amedeo Anelli Scritti sull’Arte (Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza 2007).
Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forum, Forlì 1981 e Musica da Viaggio, Olmi, Macerata 1984), due raccolte, Atelier d'inverno (Accademia Montelliana, Treviso 1985), e, postumi, Preparativi per la villeggiatura (Amadeus, Montebelluna 1988) ed Epigrammi dell'inconsistenza (Stamperia dell'Arancio, Grottammare 1992). Il tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (il lavoro editoriale, Ancona 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale “Poesia Aperta” Milano (1990).

Il suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi sono confluiti presso l'Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze .
La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della frontiera, come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni, che lo separava dalla utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci con la loro immagine di metabolizzare l'eternità.
La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l'estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d'avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non avesse la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai "dilettanti allo sbaraglio ". E proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole, " pedagogica", Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell'anima e della società.



Opere di e su Remo Pagnanelli:


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mercoledì 3 giugno 2009

METAFORE DELL'AIDS NELLA CULTURA CONTEMPORANEA

La pubblicazione del bell'articolo riguardante il colloquio fra Patrizia Garofalo e Paolo Ruffilli mi induce a riproporre qui un mio scritto di qualche anno fa, che affrontava il problema delle rappresentazioni letterarie dell'Aids, tipiche del puntinistico e frantumato minimalismo postmoderno, ma alle quali la poesia di Ruffilli - cantabile e insieme drammatica, melodiosa e dolente, terrestre e celeste come nell'ultimo Luzi - aggiunge una nota più alta e pura, che va al di là di contingenze ed emergenze storiche e sociali destinate (si spera) a mutare, e investiga quasi metafisicamente il mistero della sofferenza e del male; mistero, mysterium tremendum oggi occultato, rimosso, marginalizzato, e dunque esso stesso confinato, si direbbe, nella "provincia dell'essere", quando non fiduciosamente e trionfalisticamente esorcizzato dalle certezze, talora arroganti, della scienza.

E colgo l'occasione, non pretestuosa, credo, né peregrina, per riprodurre, perché non si perdano nel nulla, alcuni appunti che presi a caldo, subito dopo la lettura delle Stanze del cielo, raccolta di Ruffilli edita nel 2008 da Marsilio, e quasi dimenticati, sepolti iin qualche foglio sgualcito del "libro della memoria".

E', nelle Stanze del cielo (sorta di fugato, dolorosamente melodioso, dialogo in absentia fra un carcerato e un drogato, entrambi prigionieri, l'uno delle mura, l'altro della chimica infernale in cui cerca l'oblio), davvero meraviglioso il conflitto, il discidium vitale e tragico fra la prigionia reale e l'illusoria evasione - fra la vita-morte, o morte-vita, dei segregati e la libertà, la trasgressione, l'"evasione" ingannevoli, e in realtà ugualmente vincolanti, della droga.

Eppure, c'è una sorta di duplice tensione mistica (lo sguardo levato verso le "dimore del cielo", gli ormai anch'essi aridi, sordi e desolati "templa serena" di una possibile ascesa metafisica, nella prima parte; e, nella seconda, l'autodissolvente, autodistruttiva immedesimazione, vagamente "beatnik", ma ben più consapevole, filtrata ed amara, con l'assoluto, l'essere, l'eterno, simulata dai paradisi artificiali delle droghe).

Ma è una tensione che infine sfocia e si disgrega (un po' come in quella mistica negativa, in quella sacralità del Nulla, del Vuoto, del Silenzio, che è del Buddismo come di certa teologia monastica) nel deserto dell'annientamento, nel naufragio della tenebra fonda.

E nel lettore (ma questa non è che una mia impressione del tutto soggettiva) può infine restare come il senso sospeso, limbico, di un'oscillazione quasi baudelairiana tra inferno e cielo, tra beatitudine e dannazione; e come la scia o l'eco di una tentazione, di una seduzione dell'annullamento, della nientificazione, della "morte del tempo", dell'eterno ossessivo ripetersi, che saranno comunque, paradossalmente, e forse fatalmente, purificatrici, con qualunque mezzo vengano colmate e placate; e che apriranno, forse, un insospettato sentiero verso un - direbbe Heidegger - "vivere autentico" conseguito proprio nella morte e nell'annientamento, che almeno liberano dalle catene del tempo e dalle maschere della socialità.

Sembra a volte che Ruffilli riscriva nichilisticamente (ma nel senso del Dio "nihil aeternum", o dello zanzottiano "ricchissimo nihil") Eliot - quello dei "Four Quartets", con il suo "tempo irredimibile", ma anche quello della "Rocca", che in Ruffilli diviene eterna ed immobile fortezza carceraria, più che strenuo baluardo di valori eterni.

Ci sarebbe molto altro da dire. Ma leggo in un mistico medievale che ogni conoscenza, ogni dire tendono di per sé all'infinito, e devono infine rassegnarsi alla loro limitatezza, alla loro gloriosa pochezza, al loro luminosissimo vuoto.

giugno 2009

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Le taglienti riflessioni sviluppate negli ultimi anni da Susan Sontag (da Malattia come metafora a L'Aids e le sue metafore, recentissimamente riuniti negli Oscar Mondadori sotto il titolo Malattia come metafora) hanno mostrato come i linguaggi della medicina, dei media e, in qualche caso, della stessa letteratura, adibiscano spesso la metafora a mezzo terroristico, a strumento di una specie di sortilegio che avvolge la malattia (il cancro come l'Aids) entro un alone di minaccia inesorabile, di fatale castigo, di degradante contaminazione.

A questo tipo di metafore della malattia gli scrittori possono però opporre una retorica di segno diverso, non necessariamente minacciosa e intimidatoria, che presenta la malattia non tanto o non solo come un'infermità fisica, un'alterazione organica, ma piuttosto come uno stato esistenziale, una chiave di lettura del reale, a volte addirittura come una paradossale scelta di vita, una forma di allontanamento dal mondo, una condizione sospesa ed estatica che prelude alla creazione: basti pensare a certe pagine decadenti (il Baudelaire degli scritti su Poe, il D'Annunzio del Piacere, il Mann della Montagna incantata), o al mito crepuscolare del “mal sottile”, o ancora alla malattia sveviana, intesa come “convinzione”, disagio psicologico, esasperata attitudine autoananalitica che paralizza l'azione.

Negli anni '80, l'irrompere dell'Aids ha suggerito agli scrittori un nuovo impiego della retorica della malattia.

Qualcuno ricorderà, in proposito, certi versi del Libro di poesia di Dario Bellezza, in cui l'Aids appariva personificato come un “nero angelo” che recava con sé un iniquo e paradossale castigo destinato ai “vecchi peccatori di un minuto”, e il poeta, quasi delineando una fosca profezia del proprio destino, chiedeva di essere “leccato” e “bevuto” dal morbo.

L'Aids è divenuto uno dei temi ricorrenti della narrativa d'ispirazione minimalista e pulp, che ha nella deriva e nella dispersione dei significati, nel frenetico spostamento dei centri e dei punti di riferimento, nella disgregazione delle strutture, uno dei suoi elementi essenziali; quasi che l'Aids, con le ferite e le deturpazioni che infligge alle carni, non potesse trovare una compiuta espressione letteraria se non attraverso una scrittura analogamente lacerata, dilaniata, decostruita.

Nondimeno, anche davanti alla sofferenza e all'orrore, la parola letteraria può conservare un suo spessore e una sua dignità.

Ne sono testimonianza due volumi usciti recentemente, il cui accostamento, dovuto al tema (l'Aids, appunto) è reso significativo anche e proprio dalla diversità di formazione, indole e vicende individuali che divide i due scrittori.

Il primo dei due libri in questione è Questo buio feroce (storia della mia morte) di Harold Brodkey, una sorta di allucinato diario d'infermità scritto nell'imminenza della morte ormai certa, dopo la diagnosi di malattia conclamata. In questo senso, Questo buio feroce rappresenta quasi un'estrema, cupa propaggine, tesa fino alla soglie del buio, dell'effuso discorso autobiografico già sviluppato nel romanzo fiume The runaway soul. E si ritrova qui - per quanto ormai impallidita, prossima alla definitiva disgregazione - la stessa immagine che Brodkey volle lasciare di sé in quell'opera più vasta: il ritratto di uno scrittore ribelle e maledetto, che aveva alle spalle una giovinezza segnata dall'inquietudine, dall'estraneità, dalla diversità sessuale e caratteriale, e che proprio della diversità faceva la propria bandiera, la propria maschera, il proprio difficile tramite per rapportarsi con il mondo della comunicazione.

La scrittura si snoda lungo l'esile lembo di luce che separa la vita dalla morte, la voce dalla quiete. La parola batte alle porte del silenzio, “un silenzio dolcemente indiscreto e irresistibile”, in cui l'autore intreccia con se stesso un “dialogo muto”, e che è poi anche il “silenzio di Dio”, che egli ha sempre avvertito, condizionato in questo anche dalle sue radici ebraiche.

E l'imminenza della morte segna anche la percezione del tempo, che diviene “durata reale”, tempo dell'anima, dello scavo interiore, della rievocazione autobiografica a volte impietosa, tutta giocata sul “tremolio di questo limite del tempo che ti rimane”; un tempo che a volte - segnato com'è dall'”andirivieni dei significati” - appare privo di ordine e di senso.

Ci si può chiedere che cosa resti, che cosa vada immune da questo ”andirivieni dei significati”. Ciò che permane, ciò in cui l'autore continua a nutrire un'incrollabile, quasi umanistica fiducia, è la scrittura, il linguaggio, con la sua “immediatezza ammiccante e debolmente radiosa”, il suo potere quasi narcotico. L'autore si definisce un “tossicodipendente del linguaggio”, pervaso da “un desiderio struggente delle parole degli altri, di amare gli altri per le loro parole”.

È proprio il tema della malattia e della morte ad accomunare l'opera di Brodkey a quella di uno scrittore da lui tanto diverso per indole, sensibilità e formazione, cioè Paolo Ruffilli, autore del poemetto La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids.

In questa raccolta è possibile ritrovare, anche sulla scorta della prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, lo stesso respiro metrico che animava le prove precedenti, da Piccola colazione a Diario di Normandia a Camera oscura: un inconfondibile verso breve, che raramente eccede la misura dell'ottonario, e che può svariare, volta a volta, con grande versatilità, da un andamento melodico e cantabile, che si direbbe rievochi certe serene e limpide armonie settecentesche, ad un'essenzialità lirica e ad una concisione rastremata che ricordano Ungaretti, per arrivare a volte ad un gusto postmoderno per il frammento, l'aforisma, la scrittura segmentata e nervosa (era Roland Barthes a parlare, a proposito di un precedente lavoro dell'autore, di una scrittura intesa come “spazio di morte” e “lettera della trafittura”).

Il poeta coglie il tragico paradosso di un male - “delitto atroce” di una leopardiana “natura indifferente” - che costringe i genitori a piangere i figli: “i padri seppelliscono / i figli, si prendono cura / delle loro vite perdute, / li stringono feriti / fra le braccia, li / vegliano morenti”.

Sennonché, uno dei messaggi più forti e più limpidi che emergono da libro è proprio la compenetrazione di morte e vita, la percezione (presente anche nella Montagna incantata) che la vita trae alimento dalla morte, e che l'esperienza della morte può essere iniziazione alla vita: la morte non è se non “l'altra faccia / rimasta in ombra / della vita”; “il lutto / chiama la vita, non altra morte”.

Ruffilli, che tra le altre cose ha tradotto Il Profeta di Gibran e il Tao-teh-ching, sembra avere appreso dall'uno che il segreto della morte va cercato “nel cuore della vita”, “perché la vita e la morte sono una cosa sola, così come una cosa sola sono il fiume e il mare”, dall'altro che “Essere e non-essere si generano l'un l'altro”.

Né manca, in quest'idea dell'essere vivente che muore “per essere rinato” e si consuma “per essere risorto”, un possibile richiamo alla concezione paolina del Cristo primogenitus mortuorum, dell'uomo che “muore corpo mortale” e “rinasce corpo spirituale”.

E il discorso poetico di Ruffilli si risolve infine in un'apoteosi di luce e di silenziosa armonia cosmica, che può ricordare il “miro gurge” e il “lume in forma di rivera” del Paradiso dantesco, così come certe folgoranti epifanie dei Four Quartets di Eliot. Oltre la morte, dice il poeta, “nello splendore / cosciente della luce”, “fluisce un grande / fiume di energia / che spande e che riversa / oltre le porte / l'eterno nel presente”.
H. Brodkey, Questo buio feroce. Storia della mia morte, Rizzoli.
P. Ruffilli, La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids, Marsilio.
S. Sontag, Malattia come metafora, Mondadori.

(2003)

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RETORICA DELL'IMMAGINE, LOGICA DEL DENARO E SFIDUCIA NELL'EDUCAZIONE. RIFLESSIONI SULLA SCUOLA, PARTENDO DA DE SANCTIS

Chi ancor oggi parla, con una retorica che suona a tratti quasi mazziniana o deamicisiana, di "missione educativa" non ha, perlopiù, mai messo piede in una classe.

Gli unici che a a scuola fanno qualcosa di sensato sono, forse, gli insegnanti di sostegno, che almeno cercano di aiutare un minimo, e nei limiti del possibile, alunni che ne hanno davvero bisogno, e che se creano problemi non lo fanno per colpa loro o per cattiveria (come i normali, per i quali far star male un insegnante è un divertimento, una scommessa, un innocuo motivo di chiacchiere, scherzi e risibili pettegolezzi), ma per la malattia (o la "disabilità", la"diversabilità", come si usa dire con quegli eufemismi tipici dell'"antilingua" su cui ironizzava amaramente Calvino, e che finiscono per svilire ulteriormente una realtà nel momento stesso in cui cercano di raddolcirla paternalisticamente, o di comodamente occultarla).

"Conchiusi che la rettorica, attirando l'attenzione sopra forme esteriori alle cose e appariscenti di falsa luce, indirizza la gioventú alla menzogna, e la svia da' forti studi,guasta l'intelletto e il cuore. Dissi il simile di quelle figure che hanno la loro radice nell'immaginazione e nel sentimento. 'Buttate al foco le rettoriche, - dicevo, - e anche le logiche. Ci vuole il verbum factum caro, la parola fatta cosa. Studiare le cose, questa è la vostra rettorica. Le cose tireranno con sé anche le forme, le quali solo in esse e con esse sono intelligibili. Lo studio isolato delle forme adusa l'intelletto al vacuo. Solo nello studio delle cose lo spirito esercita ed educa tutte le sue forze, e a questa educazione dee provvedere la scuola'".

Questo ai tempi del giovane De Sanctis. Noi, che Verbo possiamo trasmettere? E poi, chi lo ascolterebbe? Ed esistono ancora le cose, le "res" che i "verba" dovrebbero fedelmente e onestamente seguire e ricalcare, in quest'era digitale, virtuale, illusoria, immateriale, fatta di non-luoghi e di paradisi artificiali?

Noi sì che siamo soggiogati dalla logica e dalla retorica. Ma da una logica che non è quella di Aristotele o di Hegel, ma quella del denaro. E da una retorica che non è quella della parola e della persuasione argomentata, ma quella irriflessa, istantanea, prerazionale, precritica (e perciò onnipotente, sottratta ad ogni controllo), dell'immagine.

Né possiamo (come ripete qualcuno) insegnare ad analizzare criticamente quest'ultima, perché l'Immagine, ormai signora di ogni cosa, è sempre e comunque più veloce e più penetrante del pensiero e della parola. Ci si consola, nel privato, con il "vizio solitario" di una letteratura splendida e inutile, che non ha (né, almeno nella modernità, basata sull'autonomia dell'arte, ha forse mai avuto) alcuna funzione educativa, alcun valore formativo - ma è sempre stata, come diceva Petrarca, un "alieniloquium", un parlare d'altro, un pensare ad altro, una preziosa divagazione, una decorazione essenziale, finissima, la quale pure lasciava intravedere, agli occhi acuti di chi un tempo sapeva scorgerle, profondità nascoste, risonanze segrete ed originarie.

La poesia non serve a nulla, è assolutamente e splendidamente inutile, diceva Montale, con una sincerità travestita da snobismo, all'Accademia di Svezia, all'atto di ricevere il Nobel (Aldous Huxley, non diversamente, considerava l'etrusco, proprio perché assolutamente morto, dimenticato, in larga parte incomprensibile, l'unica lingua degna di essere studiata da un gentiluomo).

La poesia, soggiungerà Fortini, non muta nulla, non salva e non può salvare il mondo dalla violenza, dall'assurdo, dall'ingiustizia, dal male. Eppure, nonostante tutto, non si può far altro che continuare, disperatamente, con appassionato ed assurdo - e magari distaccato, rassegnato ed amaro - amore, a scrivere.

La poesia non muta nulla. "Nulla è sicuro. Ma scrivi".

Forse proprio a a partire da ciò, muovendo da questo vuoto, dal dato preliminare e sostanziale di questa nullificazione, la funzione educativa della Parola, del Verbo, può, paradossalmente, risorgere (magari, come diceva un filosofo, per educare non tanto ai "valori", quanto, più realisticamente, "alla disperazione", che bisogna guardare in faccia senza illusioni e senza autoinganni).


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venerdì 29 maggio 2009

DESUBLIMAZIONE REPRESSIVA E SIGNIFICATO DELLA CULTURA

Si è detto e ripetuto che i poeti devono scendere dal piedistallo, sporcarsi le mani, confrontarsi con la realtà, farsi capire da tutti. Il rischio di queste posizioni è quello di cadere in una sorta di neoromantica "retorica dell'antiretorica".

Io credo che, proprio in quest'epoca che liquida l'"alta cultura", che riduce tutto ad oggetto, che sancisce lo strapotere della merce, dell'immagine, dell'effimero, la poesia - comunque destinata, per la sua stessa immateriale e fragile natura, alla solitudine, all'isolamento, all'ombra, esclusa dalla "visibilità"e dalla "promozione" - debba paradossalmente accentuare il suo già consustanziale carattere elitario, la sua già necessaria e ardua densità culturale.

E' l'unico modo per non essere essa stessa travolta ed omologata nella montante marea di sontuoso e sgargiante nulla - per non essere arruolata, diceva un filosofo, nella grande fabbrica del vuoto.

Come notava Marcuse, la "liquidazione dell'alta cultura", la "desublimazione repressiva", la profanazione e la dissacrazione di un patrimonio culturale millenario finiscono per fare il gioco della mercificazione, dell'omologazione, della neutralizzazione ideologica ed intellettuale perseguite dal capitalismo.

Certa cultura di sinistra (penso ai "travestimenti", a volte ingegnosi, altre puramente, e un po' superficialmente, giocosi, a cui Sanguineti sottopone i classici) sembra non essersene resa conto.

Un tempo, la dittatura borghese si serviva del sublime e della retorica. Oggi si serve, al contrario, della volgarità, della banalità, della spazzatura. Proprio per questo noi dobbiamo a maggior ragione tutelare e perpetuare, come diceva Pasolini compiangendo la "generazione sfortunata" dei giovani senza storia, senza passato, senza coscienza, prede inerti e cieche delle mode effimere (dei "trend", si direbbe oggi), la "poesia della tradizione".

Chi non si sente ignorante leggendo un grande poeta? Anzi, quest'ultimo esercita anche la salutare funzione di esortarlo allo studio, alla ricerca, alla riflessione.

O voi che avete gli intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto il velame de liversi strani.

Ecco, da Virgilio a Dante a Mallarmé, l'essenza del poetico. La quale giace "sub tegmine", e deve essere faticosamente e pazientemente scavata e (in modo sempre parziale) rivelata. Il poeta scende nell'abisso del pensiero e del linguaggio, "e risale alla luce coi suoi canti".

Si fa spesso il nome di Rimbaud, indicandolo come poeta spontaneo, diretto, se non selvaggio e barbaro. Eppure, Rimbaud iniziò a poetare in latino. In latino, lingua madre per eccellenza, la Musa gli disse (come a tanti prima di lui e a tanti dopo di lui, in modo più o meno veritiero): "Tu Vates eris". Senza questo sostrato archetipico, questa memoria remota e pura, non si capirebbero certi suoi testi. Cosa può dire "Testa di Fauno" a chi non abbia insé un'anima antica? "Il battello ebbro" non è forse il viaggio di un''immaginazione nutrita di letture, cultura, memorie?

Non possiamo far altro che avviarci anche noi, con umiltà e pazienza, lungo questo cammino.


Herbert Marcuse, Eros e civiltà:

http://www.webster.it/libri-eros_civilta_marcuse_herbert_einaudi-9788806159009.htm?a=328366


Arthur Rimbaud, Opere:

http://www.webster.it/libri-opere_rimbaud_arthur_einaudi-9788806188498.htm?a=328366

http://www.webster.it/libri-opere_testo_francese_fronte_rimbaud-9788804560234.htm?a=328366

venerdì 15 maggio 2009

MORTE, SCRITTURA, MENZOGNA. SGUARDI SUL ROMANZO CONTEMPORANEO

Non è ovviamente pensabile poter riassumere, in queste poche pagine, tutti i molteplici, pressoché inesauribili caratteri e risvolti del romanzo contemporaneo: un discorso, quello del (e di conseguenza sul) romanzo, eminentemente contraddistinto dalla “polifonia” (cioè dal carattere composito, sfaccettato, multiforme, per più aspetti contraddittorio, che ad esso riconosceva Michail Bachtin nel suo ormai celebre Estetica e romanzo), dall'intreccio cangiante ed inestricabile dei cronòtopi (cioè delle situazioni, degli ambienti, delle atmosfere, delle unità spazio-temporali che lo compongono e in esso si intersecano), da un assiduo mutare dei punti di vista, delle angolazioni, dei piani narrativi e rappresentativi, e, infine, sovrastato e compiuto dall'artificio di cui parlava Sklovskij, vale a dire dallo straniamento (corrispettivo, con buona approssimazione, del Perturbante di cui parla la Psicanalisi), dallo sguardo “altro”, difforme, desueto, spiazzante, che il grande narratore, non asservito (come oggi perlopiù accade) alle banali, quasi meccaniche aspettative del pubblico e del mercato, riesce ad imporre alla materia trattata, alle ambientazioni, alle vicende, inducendo il lettore a modificare, o a mettere in discussione, la sua usuale e condivisa ottica sul mondo e sulla vita.

Ben prima del formalismo russo, del resto, già il nostro Pietro Borsieri, nelle Avventure letterarie di un giorno (un testo importante nella polemica fra romantici e classicisti che animò gli ambienti letterari italiani ai primi dell'Ottocento), definiva il romanzo come un genere «anfibio», ambivalente, diviso fra storia ed evasione, realismo ed immaginazione, ed impossibile da inserire nei canoni e nelle classificazioni di genere propri della classicità.

La «prosa della vita reale», specchio di una realtà già di per sé «ordinata a prosa», l'«epopea borghese» che Hegel, nell'Estetica, vedeva incarnate nel romanzo non si traducevano affatto, come avrebbero voluto certe restrittive letture ideologizzanti, in una stretta, predeterminata, quasi meccanica (o biologica) aderenza del discorso alle strutture storiche, sociali, economiche, ma lasciavano un largo margine alla capacità inventiva, analogica e trasfigurante dello sguardo letterario.

Eppure – quasi a ribadire, per una singolare ironia, per un curioso paradosso della storia e del pensiero, il carattere multiforme, caleidoscopico e, di conseguenza, inafferrabile del genere romanzesco – erano proprio alcune voci del mondo classico a definire per la prima volta, con sorprendente chiaroveggenza, taluni tratti essenziali e caratterizzanti del genere: da Apuleio, che nel proemio dell'Asino d'oro sottolineava di avere intrecciato, per il puro diletto del lettore (diletto, peraltro, dietro cui si celava, da esso veicolato, il messaggio profondissimo ed enigmatico di un percorso di iniziazione e di purificazione sotto il segno di Iside), «multas fabulas», avvalendosi di un «desultorium genus dicendi», di uno stile variegato, dinamico, mobile, proteiforme, divagante, polifonico appunto, a Luciano di Samosata, che nelle pagine introduttive della Storia vera rivendicava già (come avrebbe poi fatto, nel Cinquecento, Giraldi Cinzio nel Discorso dei romanzi) all'espressione letteraria la facoltà e il diritto di raccontare pseusmata poikila, «variopinte fole», pur se pithanos ed enalethos, in modo «persuasivo» e «non lontano dalla verità», e dunque di muoversi e vivere all'interno di una sorta di analogon rationis, come l'avrebbe chiamato il Baumgarten agli albori dell'estetica moderna, di una verità altra e difforme da quella ordinaria – in una specie, insomma, di mondo alternativo, virtuale, sospeso ed oscillante nei limbi dell'immaginazione e della fantasia, e nondimeno governato da una sua coerenza interna, da una sua peculiare ed autoreferenziale verosimiglianza, avallato e sorretto da leggi sue proprie, in certo modo omologhe o speculari, eppure non identiche, a quelle che governano la natura, la società e la storia.

Un'idea, questa della creazione artistica come opus superadditum operi, come mondo aggiunto al mondo, come creazione aggiunta alla Creazione, come "altra realtà" governata da sue leggi delle quali le parole retoricamente studiate ed elaborate sono i segni e le formule, che si ritroverà in varie estetiche moderne, dal manierismo fino al simbolismo e alla décadence.

Dichiarando di stare mentendo (anzi, letteralmente, dicendo la verità proprio nel momento in cui mente, in cui intreccia le sue variopinte fabulae), la figura del romanziere antico inaugura quella contaminazione, quella multiprospettica e spiazzante intersezione di verità e menzogna (menzogna in senso fenomenico e fattuale, più profonda e celata “verità” sul piano intellettuale, espressivo, in qualche caso morale) che rappresenterà uno degli aspetti fondamentali della modernità letteraria, dallo Svevo della Coscienza di Zeno (la cui inattendibile voce narrante rivela, aprendo così un labirintico ed inestricabile gioco di illusioni e di riverberi, di aver mescolato verità e bugie senza che l'una sia facilmente distinguibile dalle altre) al Manganelli della Letteratura come menzogna, che inviterà a ripensare, in termini di finzione letteraria, la concezione nietzscheana della verità comunemente accettata e condivisa come illusione di cui si è dimenticata l'illusorietà e, per contro, della menzogna artistica (o della dialettica provocazione filosofica) come potenziale, e paradossale, strumento di una verità purificata, rifondata, autonomamente ripensata e rivissuta – ricostruita, su altre basi, dalle proprie rovine.

Anche Achille Tazio, nell'incipit di Leucippe e Clitofonte, accostava la sua narrazione al raffinatissimo dipinto sidonio da cui essa aveva tratto spunto: dipinto in cui l'arte figurativa rivaleggiava con la natura e, implicitamente, con l'artificio della creazione letteraria, capace di stilizzare, di sublimare (o viceversa di mistificare, di confondere, di scomporre e ricomporre) la realtà della storia e dell'uomo (donde, pur se in una diversa luce, la sottile analogia, esplicita od implicita, fra romanzo e tableau che si ritroverà nel realismo ottocentesco, fra romanticismo e naturalismo, da Manzoni a Dickens, da Hugo a Balzac, fino all'écriture artiste – al crocevia fra naturalismo e simbolismo – di Huysmans e dei fratelli Goncourt).

Sul romanzo (e sulla vocazione “realistica”, in senso lato e con tutte le ambiguità che il termine porta con sé, ad esso consustanziata) pesa dunque, fin dall'origine, l'insidiosa dicotomia ontologica che Platone, e poi Wittgenstein, ravvisavano nella condizione dell'immagine, dell'eikon, che è e, nello stesso tempo, letteralmente, non è la cosa che rappresenta – che, anche al suo massimo grado di concretezza, verosimiglianza, addirittura brutalità e crudezza, comunque evoca, addita, accenna la cosa, l'evento, la circostanza esistenziale, senza però poter mai, letteralmente ed effettivamente, costituirne ed offrirne un'equivalenza piena.

Si può risalire ancora a ritroso, fino agli archetipi più remoti dell'esperienza romanzesca: ad esempio all'egizia Storia di Sinuhe, le cui peregrinazioni “di terra in terra”, volte, come poi nel romanzo ellenistico, alla purificazione, all'iniziazione, ad un cammino di autocoscienza e di riconciliazione, sono governate dal volere di un “Signore di percezione che percepisce gli uomini”, e il cui sguardo benevolo e provvido si identifica, infine, con l'occhio sovrano di quello che è forse il primo narratore onnisciente della letteratura universale; o al giapponese Diario di Murasaki Shibiku (in cui un lettore versatile, colto ed acuto come Montale additava addirittura un'anticipazione della moderna introspezione psicologica), narrazione incredibilmente sottile, lirica e sfumata delle peregrinazioni sentimentali del principe Genji, sempre segretamente e profondamente fedele, pur nei suoi cedimenti e nei suoi tradimenti (a danno degli altri come di se stesso), ad una imago materna ormai dispersa, svanita dal mondo, irrecuperabile nell'orizzonte dell'esistenza terrena, ricostituibile soltanto nello specchio impalpabile dell'affabulazione.

Iniziazione, autocoscienza (come quella del giovane Moreau nell'Éducation sentimentale di Flaubert), ricerca ed autenticità, smarrimento e tensione, più o meno coronata dal compimento, all'identità e all'origine (si pensi alle Vie dei Canti cui è dedicato il capolavoro di Bruce Chatwin, e più generale alla ricerca, problematica, multicentrica, spesso spaesata, delle radici culturali e dell'autenticità esistenziale ed affettiva nella letteratura postcoloniale): questi, forse, gli archetipi essenziali e più remoti, direi antropologici (si può rinviare qui anche al Calvino di Cibernetica e fantasmi, che riconduce l'origine della narrazione ad una natura e ad una funzione, in certa misura ancor vive nell'età tecnologica, di memoria collettiva, di enciclopedia tribale, di verbale esorcismo a difesa dai terrori più radicati ed oscuri), del narrare, che incontriamo già nei più antichi esempi di romanzo e che riaffiorano a più riprese (pur nelle molteplici, spesso drastiche e traumatiche, metamorfosi formali, rappresentative e antropologiche susseguitesi nel corso dei secoli, e soprattutto nel Novecento) fino all'età contemporanea.

Il “tempo vissuto” (potremmo dire con Ricoeur e con Minkowski) si struttura come narrazione, come fluire temporale sempre in diretto rapporto tanto con la sua origine, con la sua scaturigine prima, e ormai offuscata e perduta, quanto (essendo, come insegnano Platone e il platonismo, “immagine mobile dell'eternità”) con una sfera superiore, con una fantasmagorica proiezione figurale che lo trascende e in cui nondimeno, forse, si svela, per chi sappia scrutarlo, il significato più autentico di ogni apparentemente gratuito ed assurdo accadere.

A ben vedere, anche negli autori (penso ad esempio al Vassalli della Chimera, o, in un'ottica stilisticamente e formalmente antitetica, e ben più tesa e complessa, agli artefici dell'antiromanzo e dell'“irromanzo” novecenteschi, da Beckett a Sanguineti) più antiplatonici, remoti ed avulsi da ogni metafisica, chiusi ad ogni superiore e più puro orizzonte di senso, questa iniziatica ricerca di un significato ultimo e profondo è in qualche modo avvertibile, pur se magari destinata ad approdare alla constatazione di un assoluto nulla, di una apocalittica mancanza di fondamento - o viceversa a prendere le mosse da quella stessa constatazione.

Da Musil a certo giovane Hesse, dal Moravia del Conformista, della Noia, dell'Amore coniugale (sorta, quest'ultimo romanzo breve, di sottilmente ironica e demistificante riscrittura, in chiave di esistenzialismo borghese, di certi motivi del Poe più algido e lunare) al La Capria di Ferito a morte, lo schema fondamentale del racconto di ricerca, di iniziazione, di formazione, di metamorfosi sembra convertirsi o risolversi in un viaggio e in un cammino che approdano alla rivelazione dell'assurdo, dell'abisso, dell'incomunicabile, infine dell'insignificanza, o perlomeno dell'irriducibile, vagamente sinistra ambiguità, insite in ogni segno e in ogni messaggio.

Pur se in modi diversi, La Capria e Moravia esperiscono la tensione dialettica che oppone la Storia alla Natura, la temporalità sociale e culturale al perenne, immutabile fondo di pulsioni originarie e remote, al groviglio indistricabile ed oscuro di Eros e Thanatos, istinto di vitalità e di piacere e gorgo vorace, mostruoso maesltrom che, a malapena mascherato e schermato di amara, mondanamente superiore e distante, ironia, o di convenzione sociale a prima vista condivisa, stabile, rassicurante, trascina invece ogni cosa verso il nero vuoto senza fondo: la Natura, si legge in Ferito a morte di La Capria, vince la Storia, eppure «solo la Storia ha senso», sebbene l'uomo ne sia sempre distolto dal richiamo suadente delle Sirene, da quel « richiamo insensato», quale già appariva al Kakfa dei Frammenti, che attraversa «il silenzio del mattino, come uno spiro di vento» che subito dilegua e svanisce.

Nella Morte di Virgilio di Hermann Broch, si fanno evidenti lo sfociare, lo sfumare e il dissolversi del filo narrativo nelle vaste plaghe del nulla, del vuoto, del silenzio, della trascendenza indicibile in cui si annida e si cela il senso tragico (o forse la tragica assenza di senso) di una storia segnata dalle iniquità e dal sangue, e di una vicenda intellettuale e letteraria marchiata (come in Sartre) dal rischio o dal sospetto, sempre incombenti, dell'inautenticità.

Ogni esperienza vissuta ai margini, da «ospite della vita», da spettatore, per quanto affascinato o pietoso, dell'umana esistenza – ogni incontro, ogni parvenza, ogni esteriore ed occasionale fonte d'ispirazione inghiottita e dissolta dalla sapiente finzione, dalla «bella menzogna», della letteratura – altro non erano stati, per il Virgilio di Broch, «se non un accadimento, che pari ad un vaso delle sfere celesti, stesse per accoglierlo in sé ed immetterlo nell'infinito». Tanto la nascita, da cui l'homo viator trae origine, quanto la rinascita a cui (come l'iniziando di un rito orfico) anela, non potrebbero darsi «se dietro a loro non vi fosse, eterno e immutabile, ultima genesi, il nulla»; e «la grande luce dell'atemporalità» sgorga proprio dalla «silenziosa, divinante unione di essere e non essere». «Solo colui che cerca l'occhio della morte, potrà guardare nel nulla senza che il proprio occhio si spenga. [...] E colui che si immerge nel ricordo può ascoltare il suono di quell'istante in cui l'elemento terrestre deve aprirsi all'infinito e all'ignoto, dischiuso alla rinascita e alla risurrezione di un ricordo senza fine».

L'eternità, infine, è il nulla, il nihil aeternum dei mistici. Dell'essere, dirà Heidegger, ne è nulla. La parola narrativa della modernità più alta e consapevole è o finisce per essere, anche quando si assume intenti di realismo o di impegno, spia di una rivelazione negativa, spiraglio aperto sulla luce ferma e desertica del nulla: basti pensare a Petrolio di Pasolini, con la sua tragica, emblematica, oscuramente profetica incompiutezza, con il suo lucido e debordante delirio interpretativo affondato nelle falsità, nelle speculazioni e nelle reificazioni del mondo industriale, o al Tondelli di Un week-end postmoderno, con la sua frenetica e frammentante eversione dei confini fra romanzo e saggio, con la sua desolata e lucida diagnosi del declino e del degrado di una società e di un sistema, quelli borghesi e capitalistici, con i loro loro speciosi ed alienati equilibri.
Ciò che per Broch è il supremo, ultimo e primo, Essere-Nulla – il gorgo indistinguibile, apocalittico di origine e fine, alfa ed omega, alba ed annullamento – è invece, per Proust, il “Tempo ritrovato”, resuscitato e rinnovato dal ricordo, dalla memoria involontaria, dall'intermittenza delle reminiscenze e delle illuminazioni che (quasi platonica anàmnesis) sembrano, forse solo illusoriamente, ricondurre il fluire del tempo alla sua matrice originaria e pura – così come, in poesia, Valéry riporta il dire poetico «aux sources du poème».

Per il Joyce di Dedalus, questo Essere potrà invece annidarsi nell'istante rivelatore della epiphany, della radiance, nella subitanea rivelazione (quasi un montaliano, salvifico “fantasma”) della tomistica claritas, dell'armonia delle parti che è celata sotto la caotica casualità dell'accadere, e nella quale risiede il segreto, insieme razionale e mistico, della bellezza e della conoscenza.

Un'armonia che, nella babele spazio-temporale e linguistica dell'Ulisse, e più ancora di Finnegans Wake, andrà perduta ed infranta in un caleidoscopio di rutilanti ed irrelati frammenti: e il romanzo diverrà, allora, progressivamente, meandertale, primitivo-primigenio racconto-labirinto, convulsa e nevrotica espressione verbale dell'Essere-per-la-morte, della circolarità apocalittica di vita e morte – della morte «that bitches birth that entails the ensuance of existentiality». Anzi ogni discorso, ogni racconto possibile non saranno che «a rude breathing on the void of to be, a venter hearing his own bauchspeech in backwords» – parola vuota che riecheggia e ripete se stessa, facendo sordamente tintinnare, nel proprio inane vuoto sonoro, nelle proprie celate abissali cavità, la vacuità stessa di un'esistenza precaria e friabile, già inesorabilmente votata all'annullamento e alla dissoluzione.

Pur se in un contesto stilistico diametralmente opposto (un tedesco lucidissimo, tagliente, essenziale, che sembra, come suggeriva Deleuze, avere ereditato dall'yiddish la concisione sapienziale, gnomica, sentenziosa ed allusiva, e dallo spirito ebraico l'ironia amara, desolata, tragica, senza rancore e senza sorriso), Kafka vorrà forse additare – con il suo castello inaccessibile, le sue norme imperscrutabili, assurde, arbitrarie, la sua “porta della Legge” destinata a restare chiusa per sempre, pur essendo occultamente, e vanamente, destinata ad aprirsi proprio e soltanto per colui che desiderava, e non osava, avvicinarvisi – precisamente questo Senso ultimo, velato, eclissato, forse in realtà inconsistente.

Per Broch, l'approdo ultimo, il limite estremo coincidono – come per Mallarmé e come per Wittgenstein con la sua concettualizzazione del “Mistico” – nell'«inespresso, là dove il linguaggio [...] spalanca il terribile, improvviso abisso fra le parole, per indicare in questa muta profondità [...] la totalità dell'universo, la fluente contemporaneità in cui riposa l'eterno».

Questa bergosniana «fluente contemporaneità» in cui l'eterno si dispiega e, insieme, si raccoglie e si condensa nel suo immoto divenire, è la stessa in cui si muovono, nel loro discorso ugualmente fluido, cangiante, soffusamente melodioso e insieme concentrato, denso, essenziale, tanto l'Eliot dei Four quartets quanto il Proust del Temps retrouvé, che, per poter cogliere appieno e fermare sulla pagina la purezza e l'intangibilità dell'istante passato – che è in qualche modo archetipo, figura, modello ideale e più puro, di ogni istante, di ogni esperienza, di ogni pensiero presenti e futuri –, per poter perlustrare e riflettere nella scrittura le sterminate e flessuose distese spazio-temporali della soggettività, dell'homo interior, della quantitas animae, deve, come Agostino (le cui Confessiones sono, del resto, accanto alla Vita nuova di Dante, anch'essa segnata dalla rivelazione folgorante e cupa della mortalità della donna amata, e all'Elegia di Madonna Fiammetta di Boccaccio, sorprendentemente percorsa dalla dolce insidia della disperazione e dal pensiero del suicidio, fra gli antecedenti più nitidi del moderno romanzo autobiografico), «ridiscendere in se stesso», «discendere più profondamente in sé», rinvenendo le larve, i lemuri, le tracce esili ed esangui (i cliché astrali, come li chiamava l'antroposofia cara a Pirandello), di luoghi, volti, amori, momenti che il tempo e la morte (insidiatasi nel cuore «come fa un amore») hanno ormai redento, purificato, disincarnato, quasi mutato in puri, platonici schemata ideali, non vivi ormai che nel cielo rarefatto della mente.

Come l'iniziato ai misteri orfici o delfici, così il discepolo cresciuto all'ambigua e cangiante sapienza (quasi alchemica e nietzscheana “gaia scienza”) infusa dal romanzo moderno finisce per conoscere e conoscersi, per trovare (o ritrovare) se stesso, o almeno andarne in cerca, nel tempo, nel passato, nella memoria, e nelle intricate e fragili trame verbali delle loro narrazioni (non è forse troppo difficile trovare le tracce di un simile percorso iniziatico anche nelle grandi epiche romanzesche, nelle maestose architetture simboliche ed esoteriche, di Tolkien o di Lewis, come pure di Melville o del nostro D'Arrigo).

In Italia sono state forse le narratrici (accanto al Gadda della Cognizione del dolore) a vivere ed esprimere il tempo interiorizzato, assoluto e insieme nichilistico, purissimo e nondimeno sempre punteggiato e contaminato dai molteplici e variegati accidenti delle vicende individuali: ho in mente la Manzini di Tempo innamorato, che proietta e distende nel flusso della coscienza, del vissuto e della narrazione il “tempo assoluto” degli ermetici, o (con il suo sguardo ancora più vasto, la sua coscienza storica e ideologica ancora più duttile e prensile) la Morante della Storia, vasto affresco epocale la cui eroina vede, con gli occhi del ricordo, «tutto il passato [...] come un punto d'arrivo, tuttora confuso da un'immensa lontananza» – per poi abbracciare con lo sguardo, nel lirismo allucinato della visione onirica, «una sorta di specchio concavo senza luce, che rimanda alla visione dello stesso oceano, caotica e indistinta, come una memoria sul punto di scancellarsi», quasi a simboleggiare una mondana kenosis, un mallarmeano o montaliano annullamento e svuotamento della storicità, dell'esistenza e del pensiero.

In Menzogna e sortilegio, all'io rimemorante e narrante sperduto «nella camera taciturna e spopolata», avvolto dalla gelida e chiaroveggente «luce penetrante e fredda» della morte, della perdita, dell'assenza, non resta «nessun rimedio fuori che il triste sonno». Scrittrici, a ben vedere, la Morante e la Manzini, che, pur così diverse, per tanti aspetti stilistici e ideologici, l'una dall'altra, l'Italia può entrambe accostare, con qualche cautela, all'arte dell'analogia, dell'evocazione, della memoria, dello scandaglio psicologico ed esistenziale, della riflessione storica ed identitaria, sperimentata (certo con maggiore audacia e più radicale spirito d'innovazione sul piano dello stile, della forma e delle tecniche narrative) da una Woolf o da una Stein.

Ad ogni modo, neppure la nietzscheana “leggerezza”, la grazia lieve e tenue, l'apparente facilità e “sprezzatura”, il sapiente e disinvolto “salto mortale”, di certa narrativa contemporanea, da Nabokov a Kundera, da Calvino a La Capria, riescono del tutto ad esorcizzare, a medicare o a rimuovere il senso del vuoto, del nulla, della tragicità dell'esistere («Et in Arcadia ego», sembra costantemente bisbigliare lo spettro della morte e dell'insensatezza); semmai, la leggerezza è la forma che può assumere, nel discorso narrativo, il nietzsheano amor fati, lo zarathustriano sacro dire sì alla vita, il fermo, risoluto, ma forse celatamente, sordamente disperato, proposito di aderire, in ogni pensiero, in ogni scelta, in ogni gesto esistenziale, al ritmo che, come diceva un antico poeta, domina gli eventi, e che forse solo oltre la vita e oltre il tempo, scioltasi infine la catena aurea o ferrigna dell'eterno ritorno, rivelerà le sue leggi e il suo significato, per ora celati allo sguardo da un'alta coltre di bruma.

Si tratta, a ben vedere, della stessa leggerezza, della stessa signorile e sapiente noncuranza con cui Giuseppe Pontiggia poteva lasciar scivolare, a proposito di Lucano e della sua poesia ardente, truce, ferale, il nome di Heidegger, per poi cospargere la sua prosa narrativa classicamente composta, e insieme concisa ed energica (dalla Morte in banca al Giocatore invisibile alle Vite di uomini non illustri), degli oscuri e balenanti presagi, delle maschere trascorrenti e sogghignanti di una morte sempre illusoriamente procrastinata, ma inevitabile, ed incombente su ogni momento e ogni gesto della vita: mundus ipse senescit, lo sanno bene i professori amari e disincantati del Giocatore invisibile; poco sopravvive allo jaspersiano “naufragio” del tempo e della storia; l'acqua dell'inganno e dell'ipocrisia, dalle quali forse non va immune la stessa parola letteraria, è quella su cui l'intera vita veleggia ed oscilla, per venirne infine inghiottita e, forse, finalmente redenta e purificata, senza possibilità di ulteriori contaminazioni.

L'uomo, dice il Manganelli di Hilarotragoedia, è mosso da una inesorabile volontà discenditiva, percorre un già segnato cammino «infernico, supernamente infimo», che, come nella semiotica dello spazio rimbaudiana e simbolista, interseca e confonde, rovesciandoli l'uno nell'altro, l'alto e il basso, il cielo e l'abisso. L'angoscia, come la noia di Moravia (ma con ben altra tensione e ricerca stilistica), «si inconsanguinea alle cose» – le invade e le impregna, diceva Heidegger, come una nebbia nera. Così l'Orca di D'Arrigo solca imperturbabile, mossa essa stessa dal destino che incarna e reca ad effetto, «abissi di silenzio», avvolta «dalla tenebrosità come di roccia della sua sorte che sarebbe a dire dalla fatalità di essere e fare la Morte».

In un clima non lontanissimo si muove la historiographic metaficion che Linda Hutcheon (in un contesto di pensiero che ha riscoperto, a partire da Hayden White e dal Clifford di Writing culture, i nessi fra storiografia e narrazione, ricostruzione e rilettura dei documenti-monumenti ed elaborazione letteraria: nessi peraltro già intuiti, ancora una volta, dal Luciano di Come si deve scrivere la storia, geniale profeta della condizione astorica o antistorica del letterato apolis e xenos en tois bibliois, «senza patria» e ovunque «straniero fra i libri») ha additato come uno degli orientamenti fondamentali delle narrazioni postmoderne (segnate, paradossalmente, nonostante la vocazione epica che sembra a volte caratterizzarle, proprio dalla “fine delle grandi narrazioni”, almeno intese nella tradizionale, e ormai forse un po' angusta, accezione ideologica e metodologica).

Si staglia – o almeno si intuisce e si intravede, al di là del piano meramente evenemenziale, oltre o al di sopra degli eventi che si presumerebbero certi, tangibili, già dati – il grado più alto, più universale e vasto, ma nello stesso tempo più fluttuante, precario ed opinabile, dei fatti, che si risolvono o si disseminano in derive e anasemie verbali e semantiche, in elaborazione stilistica, espressione, discorso, scrittura. Il verum ipsum factum di Vico (egli stesso, per Bloom e la decostruzione, prima di tutto poeta, geniale ed immaginoso creatore di incarnazioni mitiche) sembra così risolversi in fatto letterario, in simulacro verbale, in affabulazione (nel senso più alto e veritiero) retorica e simbolica.

Come si ricorderà, Il Nome della rosa – esempio per eccellenza di controversa e sottilmente autoironica metanarrazione postmoderna, scritto dopo la fine delle ideologie, «per puro amor di scrittura» – si conclude nel segno di Meister Eckhart e del suo Dio come nulla eterno e come quiete deserta, pur continuando a palesare, a tratti, un'ostinata fiducia in una post-strutturalistica ed ermeneutica razionalità, peraltro (come nella fenomenologia di Paci, di Banfi, di Anceschi) aperta, duttile, pronta ad aderire alle diverse ed imprevedibili sollecitazioni dell'esperienza e del pensiero.

Si potrebbe chiosare l'approdo ultimo della narrazione nel Nome della rosa con ciò che Umberto Eco osservava introducendo, nel 1980, la riedizione della Struttura assente. Le stratificazioni dei metalinguaggi (dei linguaggi che spiegano e chiarificano un altro linguaggio), le forme e le strutture che dovrebbero illuminare e descrivere altre strutture e altre forme, finiscono, come in un gioco barocco di trompe l’oeil, in una manieristica prospettiva d' inganno, in una incessante ed illusoria sequenza di proiezioni, per approdare ad un fondo di silenzio, di ineffabilità, di inconoscibilità – e forse proprio su quel fondo oscuro ed insondabile giace l'Ur-Sprache dei romantici, la lingua madre, la matrice prima di ogni segno, di ogni codice, di ogni espressione.

E l'abisso di invisibilità, il solco di silenzio annidati nel cuore del linguaggio sono dimora della differenza, della béance, del vuoto, della presenza-assenza propri del segno – e in particolare del segno linguistico, lacerato, diceva Platone, dalla ferita, dallo stacco, dal korismos fra realtà e linguaggio, fra il mondo e la sua pronuncia, la sua orma impressa sulla grana friabile della voce, e più ancora della scrittura.

Il discorso del romanzo contemporaneo non può – implicitamente od esplicitamente, in modo più o meno consapevole – che snodarsi e vagare in questo deserto ontologico, conoscitivo e semantico. E la scrittura, cosa fra le cose, ente fra gli enti, confitta nel piano discontinuo, franto ed incomunicabile, dell'esistenza e dell'esser-ci, non può – dovrà riconoscere Sartre alla fine della Nausée – richiamare in vita il passato, redimere il tempo, eternare l'istante vissuto, nella stessa misura in cui «un esistente non può mai giustificare un altro esistente» – eppure è, con un mortuario paradosso, soltanto nel passato che l'uomo può riconoscersi, ripensarsi, «accettare se stesso».

Una sfumatura, un valore ontologici, e nel contempo potenzialmente nichilistici, questi, che affiorano addirittura dalle pagine del nouveau roman e dell'école du regard, pur nel loro volersi oggettive, fredde, esteriori, di una freddezza e di un distacco quasi fotografici o cinematografici. Penso, ad esempio, a L’Amour di Marguerite Duras, dove il simbolo quasi montaliano del mare viene a rappresentare il Nulla, una temporalità e un'esistenza nullificate nella loro ossessiva ed inesorabile ricorsività, oppressivamente immobili pur nel loro fluire, nel loro espandersi e contrarsi (e qui, come insegnano tanto il Sartre lettore di Faulkner – il quale gli sembra «capti, nel cuore stesso delle cose, una velocità congelata» –, quanto il Robbe-Grillet della Jalousie, la temporalità del romanzo potrà essere stata influenzata dalla teoria della relatività e dalla fisica quantistica, nel loro postulare un invalicabile limite proteso fino alle soglie dell'infinito, e rispetto al quale ogni differenza, ogni passaggio ed ogni scarto temporale risultano infinitesimalmente accentuati, e nel contempo quasi azzerati, o ridotti a pura, sconfinata potenzialità).

In Cent’anni di solitudine di Márquez (venendo al variegato, inesauribile panorama della cosiddetta letteratura post-coloniale, uno dei fenomeni più significativi della letteratura degli ultimi decenni) la scrittura profetica e mitopoietica, il mallarmeano e borgesiano Libro in cui sono scritte, o meglio si scrivono via via, le sorti del mondo, finiscono – come le intorte e labirintiche rovine circolari di un racconto di Borges, o come la mise en abyme del Gide dei Faux-Monnayeurs – per crollare ed implodere su se stesse, per divenire fomite del loro stesso annientamento, sorgente ed alimento del loro stesso autodistruttivo rogo.

Ed è significativo che tanto Insciallah della Fallaci, quanto i geniali ed apocalittici deliri del Pynchon di Arcobaleno di gravità e del De Lillo di Rumore bianco siano pervasi, in diverso modo, dalla nozione e dallo spirito dell'entropia, del disordine, della disarmonia prestabilita, immersi in una heisenberghiana atmosfera di indeterminazione, fluttuazione, impermanenza (alla morte, dice emblematicamente la Fallaci, risponde la morte, «decombinazione estrema dei possibili» secondo il Gadda del Pasticciaccio, al disordine altro disordine, in una dolente e stridente catena che non sembra poter avere mai fine).

La letteratura post-coloniale, divisa fra il “realismo magico”, che sembra costituirne il tratto saliente, da un lato, e il risentito impegno civile e ideologico dall'altro, anche quando privilegia quest'ultima linea (basti pensare al Soyinka di The Interpreters e di The man is dead) sembra ritrarre e trasmettere, infine, un medesimo scenario di morte e di dissoluzione. L'uomo muore quando viene costretto al silenzio da un potere feroce che assume la maschera della legge, ma anche quando non ha il coraggio di far sentire la propria voce e reclamare al propria dignità.

Eppure, diceva Vittorini, proprio allora, proprio quando sembra abbassato al rango di non-uomo, lacerato e vilipeso dall'esperienza dell'inquità e del dolore immeritato – proprio allora l'uomo è più uomo, animato dalla speranza ostinata ed estrema di un riscatto e di una redenzione. Il nichilismo, insegna Sartre, può convertirsi, paradossalmente, in nuovo umanesimo. Allora anche l'ontologia del nulla, il senso della caduta, della resa, della deiezione – dell'alienazione, della degradazione, del rigetto – possono convertirsi, paradossalmente, in valori attivi, se non positivi, di cui la letteratura sa farsi ancora (magari anche al di là dei suoi intenti e dei suoi contenuti fattuali, anche solo nella partecipe ed appassionata intentio lectoris, e senza per questo necessariamente abbandonarsi alle ingenue e generiche utopie di un inerte ed osmotico meticciamento, o di una indifferente ed onnivora multiculturalità globalizzata) testimonianza e veicolo.

Come suggerisce Assja Djebar in L’Amour, la Fantasia, l'individualità dello scrittore – per quanto vilipesa, violata e conculcata nella sua identità sessuale e culturale, nella sua civiltà, nelle sue radici, per quanto oppressa sia sul piano storico sia su quello esistenziale, affettivo e pulsionale, per quanto divenuta, come per Agostino, essa stessa la propria interminabile, inesauribile quaestio, «il luogo stesso della propria privazione» – riaffiorerà ostinatamente nelle parole strappate al silenzio come le reliquie della vita al deserto, nelle voci gementi ridestate dal sepolcro dei millenni, nel rimemorante ascolto offerto al «richiamo dei morti» – nella sacrale «fiamma della parola» ancora agitata «davanti al muro della separazione o della lontananza».

Il mondo accecato dall'integralismo e devastato dalla violenza ideologica può assumere (come l'indistinta e cruenta selva di membra e rottami su sui si apre la prosa variegata e polifonica dei Versetti satanici di Rushdie) la parvenza di un torbido verminaio di monadi irrelate e incomunicanti, «fragmented, equally absurd» – «debris of the soul, broken memories, sloughed-of selves, severed mother tongues, untranslatable jokes, extinguished futures».

Al-Lat, la luna infera, l'ambigua dea preislamica che apre la trinità femminile dei versetti famigerati, è a un tempo Venere e Atena, Afrodite e Mitra: incarna la sotterranea seduzione di una passione che può farsi distruttiva, di un entusiasmo che può divenire devastante, di una razionalità e di una sapienza che possono spingersi e spingere fino ad una tragica ate, ad una irreparabile perdita di confini, equilibri, misure, alla cancellazione di ogni spazio possibile di mediazione e di dialogo, e, dunque, alla distruzione e all'annullamento – eppure, proprio le tre fugaci e fantasmatiche “dee altovolanti”, guidato l'uomo fino al «Loto del limite», fino alla soglia di un Paradiso non ancora rivelato, possono, nella loro ambivalenza di Furie-Eumenidi, dischiudergli, dee terribili e rivelatrici, la luce di una verità.

E il protagonista del Paziente inglese di Ondaatje, che sogna un “mondo senza mappe”, senza barriere artificiose, senza contorni e limiti arbitrari, convenzionali e politicizzati, rischia per ciò stesso di perdere ogni distinzione e ogni senso morali, di trovarsi sperduto, al di là del bene e del male, in un mondo indefinito e vago, materiato, direbbe Agamben, di “nuda vita”, di sentimenti e passioni essenziali, di pulsioni e di estasi indeterminate e senza freni -̶ in uno spazio simile, dunque, al deserto, con la sua abissale ed insondabile instabilità, con la sua libertà e le sue insidie, la sua maestosa vastità e i suoi smarrimenti vertiginosi.

Ma è, infine, ancora Eliot, ben memore anch'egli delle peregrinazioni, delle ansie e degli smarrimenti agostiniani, a rammentarci che proprio attraverso la via negationis, la noche oscura del alma, proprio percorrendo, spogliati ed inermi, «the way of dispossession», si può forse oltrepassare il deserto e arrivare ad una meta; che proprio da un caleidoscopio vorticoso di «broken images» sarà forse possibile ricomporre un volto umano – che, infine, proprio con i frammenti è possibile puntellare le proprie rovine.