mercoledì 3 gennaio 2018

I volti ambigui del sacro nella pittura di Padovani





Sacrum è, in latino, ciò che è sacro e insieme ciò che è esecrando – ciò che deve essere venerato e insieme la vittima destinata all'annientamento espiatorio – il santo e il tremendo, il sublime e l'impuro – ciò che è doppiamente intoccabile, perché troppo elevato, irraggiungibile anche solo con il pensiero, e perché può, in eguale, misura, contaminare ed essere contaminato attraverso qualsiasi contatto (questo è forse uno dei sensi riposti del noli me tangere evangelico, di quel velo sottilissimo ma invalicabile d'irraggiungibile, che tante risonanze e tanti aloni ha avuto anche nella traduzione figurativa).
Pochi artisti sanno oggi, credo, cogliere questa inquietante, impura ma fecondissima, ambiguità del sacro (che è sublime e tremendo, altissimo e insieme celato in una profondità tenebrosa e impenetrabile) come Sergio Padovani, la cui mostra Sanctimonia  (http://www.ilpomodadamo.it/progetti/sanctimonia/) è visitabile ancora per qualche giorno, fino al sette gennaio.

È davvero da profondità infere, dagli abissi sinistri e fascinosi di un immaginario universale e insieme stratificato e storicizzato, già definito in icone, in emblemi, in cristallizzazioni figurative che sono ormai, al di qua o al di là della piena consapevolezza, segni allusivi di qualcosa d'altro, che emergono gli spazi e le immagini di Padovani. Dove, tra possibili richiami quasi infiniti, da certo vigoroso e sanguigno Trecento bolognese (penso a Vitale da Bologna con la sua energia raccolta, tesa, quasi spietata) all'espressionismo ritorto e sardonico, alla crudeltà elegante e sottile, di un Cranach, un Bruegel, un Callot, riletti magari con gli occhi di Baudelaire («Pareils aux mannequins; vaguement ridicules; / Terribles, singuliers comme les somnambules»), fino ad una lunga genia di visionari e di allucinati, visitati dai simboli ossessivi della cupezza, del disfacimento e dell'enigma seducente e oppressivo, da Füssli a Goya al Böcklin notturno e mortuario, sono gli spettri del subconscio, le ombre di un Ade insieme esistenziale e storico (l'angoscia individuale della coscienza tormentata ma, insieme, la condizione dell'artista postmoderno oppresso da millenni di cultura artistica dalla cui ingombrante eredità, che è anche sorgente inesauribile di illuminazioni e di sollecitazioni, non può né vuole discostarsi del tutto) a risalire e a prendere linee e corpo sulla tela.
Tela che è e resta ancora, perpetuamente, al di là di ogni sperimentazione ormai trita, di ogni sensazionalismo effimero, di ogni facile contaminazione, lo spazio necessario, fatato e fatale, bianco e vuoto – al pari della pagina inesorabile allo sguardo del poeta – come un destino da adempiere, rinserrato e vibrante come un recinto sacro, della creazione.
Ecco allora, consunte, scavate, logorate dall'ascesi e dall'attesa mai appagata, accomunate da uno stesso alone di venerabile sofferenza, di inviolabile enigma, le figure dei santi come quelle degli eretici: San Girolamo, il cui leone, tutt'altro che ammansito, tacito ma oscuramente minaccioso, ha, quasi, le fattezze ossute, impenetrabili ed evanescenti delle sfingi dei pittori simbolisti; San Bartolomeo lacerato e piagato, sullo sfondo di una notte selvosa, senza fine; San Giuseppe da Copertino sospeso, nella sua estasi, sulle brume di un nulla nebuloso; Lutero, dal volto fermo ed eburneo, che avanza lasciandosi alle spalle le macerie affocate e fumide dei dogmi disfatti; e, infine, il nostro San Cassiano, che la leggenda di per sé dipinge, diceva Prudenzio, «fucis coloribus», e il cui corpo martoriato dagli stili è quasi emblema del segno scavato dolorosamente, della testimonianza incisa per i secoli a prezzo del sangue; e che qui, invece, guarda, quasi stranito, insieme ai persecutori, verso l'alto, verso una vuota trascendenza, un cielo impassibile al di fuori o al di sopra di ogni immagine, di ogni rappresentazione, come assorto per sempre nell'ascolto di un oracolo muto.
E ci si potrebbe chiedere, ancora con Baudelaire: «Que cherchent-ils au Ciel, tous ces aveugles?».

                                                                                
                                                                                        M. V.   

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