mercoledì 26 dicembre 2018

Sul Mallarmé di Luzi

Pubblico qui la versione originaria e integrale del mio scritto recentemente apparso a stampa, in forma abbreviata e semplificata, come premessa alla riedizione del saggio Mallarmé di Mario Luzi. (M. V.) 

Ne 1952 esce, da Sansoni, Studio su Mallarmé di Mario Luzi. Nel 1987 Giuseppe Grasso, allora direttore della collana di varia umanità «La Scatola Magica», lo ripubblica con una emblematica Avvertenza dello stesso Luzi, in cui veniva ridefinito il posto che in esso era stato negato all’Après-midi d’un Faune. Oggi il volume viene qui riproposto (oltre che con una preziosissima e dimenticata intervista, dalle rivelatrici venature idealistiche ed hegeliane) con quella storica Avvertenza, della quale si riproduce anche il dattiloscritto, testimonianza diretta della fervida officina del poeta (dove, per inciso, una sia pur minima variante, da "come dovrebbe" a "come forse dovrebbe" – mentre lo stesso avverbio dubitativo appariva già appena due righe prima –, riferita proprio alla riparazione riguardante l'Après-midi, mostra pur sempre un pensiero in costante divenire, che anche in sede critica, e fino alla soglia dell'ultima revisione, non esorcizza mai del tutto l'alea, il forse, del coup de dès, senza cui la scrittura si irrigidirebbe, quasi, nel gelo irredimibile di un destino già tracciato).

martedì 25 settembre 2018

"Five years, no tears". Massimo Sannelli dopo Neuromelò



(con le grafiche dell’autore e una foto di Fabio Giovinazzo)
Lotta di Classico, Genova 2018, pp. 80 (non numerate)

a cura di Elisabetta Brizio


Sono già cinque anni: nel 2013 lei abiurò pubblicamente dalle sue opere di poesia. Se lei non fa le cose in pubblico, sembra che non sia pienamente soddisfatto. 

Ovviamente. C’è una scala dei piaceri, no?

Allora il suo tono era eccitato e categorico, quasi esultante nella prospettiva di riapparire con altra voce, e a differenza di ora sembrava disposto a mettere in chiaro le sue ragioni. Con tono serrato e ultimativo lei chiamava in causa appartenenze, rapporti personali ed editoriali, e dilatava l’accezione di poesia («Non ho mai voluto scrivere poesie, ma dare una forma musicale ad un’azione biologica, o anche biografica», ricorda?). Che veniva spoetizzata, e per molti versi sliricata, e introdotta in un contesto teso a scavalcare l’esclusivo ambito della parola scritta. Ora, la Nota finale dell’appena uscito Neuromelò – a suo dire, suo ultimo libro di versi – non parla di cancellazione, né delinea un autodafé: sigilla l’esaurimento di un altro ciclo, l’arco di anni dal 2013 al 2018. La lapidarietà del colophon dà l’impressione di una indisponibilità a parlarne, di una maggiore radicalità e chiusura a spiegazioni, di voler rendere conto solo «a se stesso». Se è cosí, è inutile andare avanti...

giovedì 6 settembre 2018

Giselda Pontesilli, "Su 'Trittico e lamentazione' di Armando Rudi"




Leggendo Trittico e lamentazione del poeta di Mozzate, Armando Rudi, ci troviamo di fronte a un’idea di poesia come estroversione e introversione, e come reversibilità dell’una nell’altra: reversione continua, ciclica, perché, dopo le tre parti del Trittico (I Camini, Orti, Il Vento), canto esaltante dell’ambiente, del “paesaggio” culturale e naturale, c’è il controcanto, il ripiegamento interno e tremendo della Lamentazione (Lamentazione d’un Giobbe moderno), che noi però non  sentiamo come esito finale, bensì - talmente imponente e magnificante è stato il canto – come premessa d’un ritorno al canto, così come accade nel Libro Sapienziale di Giobbe, appunto.
Canto e controcanto sono, insomma, collegati, in una sorta di ricambio, di scambio simbolico; difatti, se qui ci fosse solo il canto, l’elogio dei camini, degli orti, del vento, noi – benché ammirati della sua esuberanza – penseremmo pur sempre trattarsi solo di uno sforzo volontaristico, supremo ma -in definitiva- di maniera, inautentico; invece, subito dopo Il Vento, il poeta scrive:

Poi succedono giorni senza vento.
Anche il figlio rimasto con il Padre
ha le sue crisi: crisi depressive.

E ha inizio, così, a inverare il canto, l’articolata, tormentata Lamentazione.

Ora, si deve osservare che I Camini che il poeta ci presenta non sono solo i comignoli di casali e case d’antan (il che sarebbe di nuovo accademismo, maniera), ma tutti i camini, anche quelli, apparentemente privi di interesse, che

martedì 10 luglio 2018

Giselda Pontesilli, "Su 'Tutte le voci di questo aldilà' di Andrea Temporelli"



Il Künstlerroman, il "romanzo d'artista", che ha per protagonista un artista o un poeta, e che attraverso le vicende e le vicissitudini, le oscillazioni e le sfumature, della narrazione ne mette in evidenza, e ne scompone dialetticamente, le idee estetiche e le scelte creative, ha - da Goethe a Mann, da Rilke a D'Annunzio - una lunga tradizione. Tradizione che, nella struttura adamantina e nella scrittura asciutta e limpida, lontana sia dalle strettoie del minimalismo che dalle contorsioni spesso vacue del neobarocco, di Tutte le voci di questo al di là, sembra vanificarsi ed implodere in un genio assoluto e proprio per questo negato, volutamente rimosso e sepolto nel silenzio, tramite l'evocazione di una poesia illuminante e dirompente, ma tenuta, per così dire, fuori scena, sospinta oltre i margini dell'inquadratura, tangibile indirettamente, ma forse ancor più intensamente, solo negli effetti che produce nel suo unico, quasi predestinato, lettore. Poesia presente, infine, solo nell'unico modo oggi forse rimastole: ovvero nella sua assenza, di cui il suicidio (quasi pavesiano "non più parole, un gesto") sancisce infine la gloriosa sconfitta, il titanico annientamento. E si potrebbe pensare, con Blanchot, all'assoluto di una letterarietà quasi metafisica, di cui il bianco il vuoto il silenzio l'eclissi possono essere l'unica degna veste, la sola forma aderente; se non fosse che la vicissitudine e il dramma della creazione non impossibile, non incompiuta, ma ugualmente vana, sono calati, qui, atrocemente, nell'opaca realtà (l'istruzione, i convegni) in cui proprio la cultura dovrebbe trovare (e forse un tempo trovò) espressione ed eco, e che non sembra essere, oramai, altro che un labirinto d'ombre, una pallida danza di fantasmi. (M. V.) 

L’autore del romanzo, che in prima persona appare solo due volte di sfuggita, ne è tuttavia il perno centrale, in una sorta di coraggiosa autobiografia in terza persona che ci mostra (tra l’altro) due ambienti in cui si svolge la sua vita: la scuola, dove fa il professore, e l’ambiente letterario, dov’è critico e poeta.

mercoledì 3 gennaio 2018

I volti ambigui del sacro nella pittura di Padovani





Sacrum è, in latino, ciò che è sacro e insieme ciò che è esecrando – ciò che deve essere venerato e insieme la vittima destinata all'annientamento espiatorio – il santo e il tremendo, il sublime e l'impuro – ciò che è doppiamente intoccabile, perché troppo elevato, irraggiungibile anche solo con il pensiero, e perché può, in eguale, misura, contaminare ed essere contaminato attraverso qualsiasi contatto (questo è forse uno dei sensi riposti del noli me tangere evangelico, di quel velo sottilissimo ma invalicabile d'irraggiungibile, che tante risonanze e tanti aloni ha avuto anche nella traduzione figurativa).
Pochi artisti sanno oggi, credo, cogliere questa inquietante, impura ma fecondissima, ambiguità del sacro (che è sublime e tremendo, altissimo e insieme celato in una profondità tenebrosa e impenetrabile) come Sergio Padovani, la cui mostra Sanctimonia  (http://www.ilpomodadamo.it/progetti/sanctimonia/) è visitabile ancora per qualche giorno, fino al sette gennaio.