domenica 20 marzo 2016
Gian Ruggero Manzoni. I segni oltre il tempo di un pittore-poeta
Chi pensa che la Transavanguardia altro non sia, come a volte si legge, che vuoto formalismo, citazionismo fine a se stesso, sterile gioco stilistico, inerte ritorno figurativo dopo i tumulti e i soprassalti e le lacerazioni delle avanguardie, non potrà che ricredersi di fronte alle opere di Gian Ruggero Manzoni, in mostra ad Imola, alla Bottega Gollini (www.bottegagollini.it), fino al trentuno di marzo (così come, del resto, di fronte alle immagini, ora di una figuratività esile, diafana, quasi fantasmatica, eppure proprio per questo intensamente evocativa, ora di un cromatismo acceso e vitale, di una vivacissima, elettrica e vibrante impazienza di forme e di linee, con cui Mimmo Paladino ha accompagnato, o meglio
domenica 13 marzo 2016
Un libro su Massimo Sannelli
a cura di Elisabetta Brizio - marzo 2016
e-book gratuito, pp. 104 (14,4 MB)
Con quattro interviste a Massimo Sannelli, tre saggi di Elisabetta Brizio, tre saggi di Matteo Veronesi
https://lottadiclassico.files.wordpress.com/2016/03/lotta-di-classico-massimo-sannelli.pdf
C’è davvero un caso Massimo Sannelli? A prima vista, Sannelli è un autore ben pubblicato e ben inserito, ha lavorato nell’editoria e nel cinema, e come poeta figura nelle antologie militanti, quelle che contano. Non è quindi uno sconosciuto. Se vuole pubblicare, pubblica, e se vuole apparire, appare, anche in scena. L’idea del caso fa pensare a un problema. E allora dov’è il caso? Qual è il problema? È nella sua singolarità: autore molto versatile, dà l’impressione di essere fuori del tempo, non sembra appartenere al 2016, né fisicamente né fisiognomicamente. Sannelli è una delle ultime propaggini del poeta-intellettuale, una coda molto autoironica, ma perfettamente consapevole. Come si ricava da queste pagine, dove non ci sono sconti né ambiguità.
mercoledì 9 marzo 2016
Antonio Castronuovo, "Aforismi esclamativi, ma poetici (Su un'originale raccolta di schegge aforistiche)"
Da genere appartato, anche confidenziale, negli ultimi dieci anni l’aforisma ha trovato un consistente numero di voci che ne hanno arricchito il panorama editoriale. E come per ogni fenomeno che allarga i propri confini, anche quelli espressivi si sono ampliati, con un panorama sempre più vasto di interpretazione dell’aforisma. Ogni autore, insomma, vede l’aforisma a modo suo – e a modo suo lo produce, consapevole che in fondo la schiera dei possibili maestri è assai ampia, in un ventaglio di nicchie aforistiche che spazia dal mondo antico al Novecento, da Ippocrate a Longanesi.
L’osservazione trova riscontro in una piccola collezione aforistica che ho di recente ricevuto. Assemblata da Annalisa Mancino, Al limite... Aforismi! (Urizen Edizioni, 2015) è un minuscolo album in sedicesimo orizzontale con pagine cartonate dello stesso peso della copertina. Già la forma pone il prodotto fuori dalla schiera, mettendoci nelle mani un oggetto cartaceo che è anche stampato e legato a spago nel modo assai gradevole di una attenta arte tipografica, il che lo distanzia dal cumulo antiestetico dei libri auto-prodotti e ne fa qualcosa di curiosamente simile a un album classificatore di antica concezione. È già un punto di qualità, almeno per il bibliofilo: una plaquette materialmente assemblata in maniera originale diventa infatti qualcosa di “raro”.
Il primo carattere che affiora è che, in linea col prodotto tipografico d’autore, ogni scelta è concessa, anche se irrazionale. Manca ad esempio la numerazione di pagina; la stampa degli aforismi è solo al recto delle pagine; i primi aforismi hanno un titolo tematico e i restanti no; l’autrice ha totalmente rinunciato alla punteggiatura interna dei testi, che pure astrattamente esiste, sostituita dal gioco dei “dacapo” e dalla fugace apparizione di qualche maiuscola non preceduta dal punto. Tutte scelte in linea con la nota biografica finale dell’autrice, che si dichiara «creativa... forse troppo», e che di fatto lo è stata nella definizione formale complessiva del proprio libro. Ma la linea è forse data, meglio, dalla dedica Ai contrari, che prospettando una scelta volutamente libera e sbrigliata da ogni regola – anzi avversandola – fa della medesima autrice quel bastian contrario cui ella dedica le proprie schegge. E dei quali ci dona anche una definizione: «I contrari invertono le rotte / per solidarietà al loro cuore, / i consenzienti fanno solo un giro di boa / per non essere contrari a se stessi!».
Non essendoci paginazione, per sapere a cosa ci troviamo di fronte dobbiamo contare: sono trentasei aforismi in tutto, se non abbiamo sbagliato a scorrere i cartoncini. Dunque, come tutti i piccoli libri di aforismi, anche questo si legge presto, in nemmeno mezz’ora; però, come tutti, a leggerlo veloce i testi s’ingarbugliano. E la ragione è ben nota: le forme brevi reclamano la pausa; piuttosto vale leggere qualcos’altro, mai trascorrere un’intera serata solo con aforismi. Tutto si mescola e s’imbroglia, anche il pensiero.
In ogni caso, soltanto una volta letta la collezione si coglie il senso dello strano titolo. L’autrice dichiara trattarsi di aforismi, ma al limite: è cioè consapevole di muoversi in un cosmo espressivo border-line. Il lettore si trova infatti in compagnia di aforismi impregnati di pensiero, ma non solo: anche di attitudine alla poesia. Essendo brevi pensieri di forma poetica, questi aforismi rientrano tra le massime poetiche, ma al contempo non lo sono. Sono pensieri, immagini di vita, per i quali l’autrice sente l’obbligo della bellezza – ed ecco che si muove verso la poesia. Un esempio per tutti: «Non lascio nulla al caso / lascio che il caso assegni / un ultimo posto in prima fila / per lo spettacolo della mia vita / finale a sorpresa!». Lo svolazzo impertinente dell’aforisma viene insomma sacrificato a un effetto di bellezza quieta, molto femminile, che resta però sempre sotto il controllo accurato e geometrico della ragione.
Con ciò, alcune schegge inclinano all’aforisma. In questo frammento: «Il tempo ci rende migliori / nell’ipotesi peggiore!», si percepisce bene il gioco aforistico: appare un’avversativa e non manca nemmeno una pungente deviazione finale, tanto che il pezzo non avrebbe neppure bisogno del finale esclamativo. Altri frammenti vanno in questa direzione, e implicano l’identico riscontro che si tratta di aforismi in nuce: «Tutto scontato / in un mondo a saldo di idee!», oppure: «Temeraria la vita per il sesto / unico senso veritiero!».
Un altro particolare attira l’attenzione: l’uso insistito dell’esclamativo. Tutti i frammenti della Mancino si chiudono con l’esclamativo, che viene annunciato già dal titolo, Aforismi!
C’è da chiedersi come mai l’autrice indulga su un segno di interpunzione parecchio usato un tempo come interiezione, enfatizzazione, entusiasmo e sorpresa; un segno che ha oggi perso gran parte dell’energia espressiva, in quanto considerato enfatico e ridondante. Ugo Ojetti lo odiava, e così scrisse nelle sue Cose viste (Milano, Treves, 1923-1929): «Odio il punto esclamativo, questo gran pennacchio su una testa tanto piccola, questa spada di Damocle sospesa su una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il buon senso, questo stuzzicadenti pel trastullo delle bocche vuote, questo punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani...». Ma Ugo Ojetti non è la Bibbia.
Credo che la soluzione del dilemma stia proprio nel fatto che l’esclamativo – come detto – può esprimere sorpresa. In tal senso, l’esclamativo procura all’autrice ciò che manca in ambito di ortodossia aforistica: l’uso della pointe, il grande segreto dell’aforisma novecentesco, quello acuminato e impertinente, anche tracotante: la sorpresa (linguistica o contenutistica) che, con un colpo secco di timone, conduce il lettore in uno spazio espressivo inatteso (un esempio classico da Camillo Sbarbaro: «Nella vita come in tram quando ti siedi è il capolinea»). L’assenza, in questi aforismi, della pointe viene bilanciata dall’esclamativo che, appunto, fa nascere nel lettore la sorpresa.
Siamo dunque al cospetto di una forma abbastanza inedita di aforisma; una bella invenzione, per materia (libro materiale) e significato (massime poetiche), che colloca l’autrice in una geografia originale, una formula di rara apparizione, capace di catturare l’attenzione estetica.
E qui serve un’ultima pausa. Walter Benjamin definì una volta la differenza tra traccia e aura: «La traccia è l’apparizione di una vicinanza, per quanto possa essere lontano il suo segno; l’aura è apparizione del lontano, anche se ciò che suscita è vicinissimo, quasi palpabile. Seguendo la traccia facciamo nostra la cosa che inseguiamo; all’apparizione dell’aura è lei che s’impadronisce di noi». Bene: gli aforismi della Mancino si collocano nello spazio dell’aura: una apparizione del lontano che suscita qualcosa di assai vicino e quasi palpabile, un’apparizione che s’impadronisce del lettore, con la seduzione della novità imperativa.
Antonio Castronuovo
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giovedì 3 marzo 2016
Paolo De Caro, «Le formiche del Diario postumo. Noterella a margine di una polemica letteraria» («Il protagonista», agosto 1997)
Di tanto in tanto, sulla base di più o meno sottili, ingegnose o capziose argomentazioni, viene revocata in dubbio l'autenticità del Diario postumo, la raccolta, dedicata all'ultima Musa, la poetessa Annalisa Cima (poetessa, peraltro, di per sé valentissima, che ebbe gli elogi di Cesare Segre e di Maria Corti: voce incisa, travagliata dalla dialettica eppure protesa verso l'Armonia), che Montale depositò presso i notai con la volontà che fosse pubblicata, gradatamente, dopo la sua morte.
Ho ora l'onore di riproporre, per gentile concessione, uno scritto di Paolo De Caro, uno dei più acuti ed informati studiosi di Montale (basti qui citare il fondamentale Journey to Irma: una approssimazione all'ispiratrice americana di Eugenio Montale, indispensabile per comprendere a fondo i complessi rapporti che legarono il poeta ad un'altra sua ispiratrice, Irma Brandeis, studiosa di Dante d'ispirazione gnostica e a tratti finanche esoterica).
Anche se è passato un ventennio, attualissima, anzi innovativa, e forse poco seguìta, è la lettura in chiave gnostica, esoterica, “gematrica” che viene suggerita da De Caro.
Libro ‒ il Diario postumo ‒ ultimo, estremo, “fascinoso”, cioè magico, beffardamente esorcistico, ludicamente misterioso, ambiguamente criptico ed iniziatico; incentrato, nel gioco sapiente delle uscite postume con le loro scansioni, sull'Uno (Aleph, il respiro primordiale, l'Uno-Tutto e Uno-Nulla della Mistica, l'Unomnia del naturalismo esoterico rinascimentale) e sul Sei (la lettera Vav, la mediazione dell'energia, il canale attraverso cui la luce primordiale «per l'universo penetra e risplende»); Sei che è anche simbolo del compimento, dell'opera finita, dell'opificium mundi condotto ad apparente perfezione, ma, nel contempo, anticamera dell'inquietante, sfingea quiete della Domenica, dell'immensa e silente stasi del riposo: compimento che è forse, dunque, possibilità di distruzione (si ricordi, alla fine delle Sette giornate del mondo creato, misconosciuto capolavoro tassiano, la preghiera che a Dio rivolge il mondo, l'universo compiuto, anelando alla propria
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