Giancarlo
Pontiggia (nato nel 1952; Con parole remote,
1998; Bosco del tempo,
2005; traduttore, fra gli altri, di Mallarmé e Valéry, prototipi di
quella simbiosi di creazione poetica e riflessione critica di cui
egli stesso è partecipe; legato alla rivista Niebo,
e curatore della celebre antologia La
parola innamorata,
del 1978, che reagiva alle programmate e spesso impersonali
devastazioni dello sperimentalismo con un ritorno al lirismo, al
canto, all'evocazione, alla luce del mondo, alla «verità del canto
che è dono», alla parola «innamorata, colorata, rapinosa») è,
senza dubbio (al di là dei punti di contatto che può presentare da
un lato con la poesia neo-orfica, dall'altro con il Mitomodernismo),
il più classico dei poeti contemporanei, nel senso in cui Valéry,
riferendosi a Baudelaire (d'altro canto «poeta della modernità»
per antonomasia), definiva classico il poeta che contiene in sé un
critico e lo fa collaborare alla stesura, anzi all'architettonica
costruzione, delle proprie opere; ma classico Pontiggia è anche nel
senso eliotiano, in quello, cioè, di un autore in cui la tradizione
letteraria pare aver raggiunto un grado particolarmente alto di
«maturità», di compiutezza, di pienezza, di autocoscienza, e
insieme, in certo modo, di appassionato distacco, di tenera ed
amorosa lontananza, di velata e serale rievocazione, come se tutto
fosse già, e forse fin dal principio, serenamente detto, composto,
compiuto ‒
«chaque atome de silence / est la chance d'un fruit mûr»,
per citare il suo Valéry, il lungo silenzio, mormorante come d'api
operose, della meditazione, della rievocazione, del ripensamento
prelude ad una creazione non estemporanea, non effimera, episodica,
franta, ma tale, al contrario, da rendere eterno, perenne, quasi
fatale e predestinato, anche il kairós,
anche l'istante «rapinoso» della conoscenza e della rivelazione.
Così
si spiegano i lunghi «silenzi creativi», come li chiamava Sereni,
fra una raccolta e l'altra, che inframmezzano e scandiscono il
discorso dell'autore; e il «lavoro di tessitura lenta, paziente,
nella quale si alleano un'umile dedizione da artigiano e una forza
misteriosa, quasi ipnotica»,
come ha dichiarato in un'intervista ‒
ancora la fusione, insomma, di ispirazione, necessità, destino,
vocazione alla forma, e disegno razionale, coscienza strutturale
attraverso cui quell'anelito diviene parola, quella concezione
espressione, quella pura virtualità canto spiegato.
Come sempre, il
laboratorio del traduttore (nel quale si fondono interpretazione e
creazione, esegesi e riscrittura) costituisce un osservatorio
privilegiato. Consideriamo, ad esempio, le versioni da Valéry (due
poeti-critici, e critici-poeti, che si specchiano vicendevolmente, e
intessono un contrappunto finissimo e prezioso).
«Nos antiques
jeunesses, / chair morte et belles ombres, / Sont fières des
finesses / qui naissent par les nombres». «Antiche giovinezze, /
Carne opaca e belle ombre, / Fiere delle finezze / Che nascono dai
numeri!». L'ellissi, nella versione, del possessivo e del verbo
assolutizza i sostantivi, scolpisce in quel marmo terso ed ombroso,
limpido e chiaroscurale come d'intercolumnî e di arcate la purezza
di una condizione ontologica, di un'ipostatizzazione concettuale che
sono, poi, quelle proprie, in universale, della forma, della
bellezza, dell'armonia, dell'esteticità. «Temple du Temps, qu'un
seule soupir résume, / À ce point pur je monte et m'accoutume, /
Tout entouré de mon regard marin»: «Tempio del Tempo, in un solo
sospiro, / A questo punto puro io salgo e mi conformo, / Cinto dal
mio sguardo marino»: espressioni, rispetto all'originale,
ulteriormente essenziali, dense, concentrate, raccolte sull'aseità
del soggetto poetico ripiegato su se stesso eppure cinto,
circonlocuto dalla natura e dal paesaggio. La parola poetica stessa è
Tempo-Tempio, scansione, divisione, o sacrale e sacerdotale
separatezza e chiusura, di uno spazio-tempo consacrato.
Con
parole remote
e Bosco
del tempo,
titoli emblematici: la lontananza, le radici, gli echi archetipici
delle parole dell'antico ‒ e, dall'altro lato, il bosco, la natura,
hyle
physis arché ‒
bosco sacro, dimora del divino, principio primo, senza principio,
«verbo non pronunciante ancora e impronunciato», per citare Montale
traduttore di Eliot: un fondamento, un
a priori
essenziale che, però, si dispiega nel tempo, diviene parola
riconoscibile, storicizzabile, densa di vissuto culturale,
di matrici e di echi ‒
un fato che diviene volontà, un'essenza che si fa storia, come nel
mito-mistero del Logos fatto Carne.
Come in Piersanti,
nella Natura e nella Parola l'istante si fa eterno ‒ trova, in
qualche modo, il suo stampo, il suo archetipo, la sua ombra luminosa
e traslucida, la sua rovesciata figura destinale.
Come
scrive l'autore in Contro
il romanticismo,
uno dei testi di poetica più lucidi degli ultimi decenni, la terra è
cielo, la storia è natura, e il silenzio condizione dello scrivere,
e il vuoto è spazio della consistenza dei corpi: apparenti antinomie
si fondono, si conciliano, senza venire per questo eluse,
anestetizzate, azzerate, nella continuità di una coscienza
culturale che salvaguarda, nel mutamento, nel moto vitale, la
persistenza e l'esemplarità degli archetipi.
Le
metafore valgono e vivono finché sono inscritte in una «visione
essenziale», in un ordine in qualche modo necessario, perché
naturale, sebbene ricostituito e riepilogato attraverso l'arte della
parola, nella temporalità diveniente del discorso, del dettato: in
caso contrario, le metafore stesse sono strumento del caos, della
devastazione, dell'innovazione e della frattura ad ogni costo,
indiscriminate e cieche ‒
insomma dei tanti deteriori ed iconoclastici romanticismi.
Ogni
classicismo, è stato detto, suppone un romanticismo precedente. La
ricomposizione delle parole nel grembo degli archetipi, nel seno
della Natura
e delle Madri, è superamento dell'arbitrio nevrotico, devastante e
inumano di un'avanguardia disumanizzata e alienata. «Che cos'è il
ritmo degli archi se non misura? Qualcosa di remoto si effonde. Un
fuoco platonico si alimenta». In Sant'Ambrogio a Milano, come nelle
colonne di Valéry, il tempo, scandito dalle ariose e ferme euritmie
delle arcate, dei portici, dei pieni e dei vuoti, si fa eterno,
diviene imago aeternitatis.
Tempo
come archilocheo rhysmós,
come Arché,
Principio che presiede e prelude ad ogni divenire ‒
come il tempo superiore, assoluto, più alto e puro, che il Bo di
Letteratura
come vita
contrapponeva al «tempo minore», sfibrato e franto e disunito,
dell'umano accadere ‒ o come la storicità
che Jaspers giustapponeva alla storia.
Non
è casuale che Pontiggia, nel volume saggistico Selve
letterarie,
affermi che gran parte della sua poesia deriva da Sallusrtio, del
quale ha tradotto e curato, per Mondadori, il De
coniuratione Catilinae.
Non si tratta di cercare “fonti”, “ipotesti”, “corrispondenze
estese e isomorfe”; ma, semmai, di ripercorrere un rapporto che
investe più lo spirito che la lettera, più i nuclei profondi che le
superficiali consonanze testuali. Da Sallustio, Pontiggia mutua
soprattutto la contrapposizione, la dialettica, di stampo platonico,
fra tempo ed eternità, fra corpo e anima, fra terra e cielo ‒ due
versanti che, peraltro, nella visione di Pontiggia spesso si
intersecano e si contaminano. «Da una parte i rostri assolati del
foro, ... dall'altra le sale ombrose dove si celebrano riti
minuziosi e segreti». «Vertigine metafisica, solenne lento sguardo
dall'alto». «Venti oscuri». «Un territorio più segreto, di cui
sentiamo la potenza ma che non possiamo descrivere». Uno stile che
fa «di ogni pensiero un'immagine, di ogni enunciato un'apparizione».
Questi gli elementi che Pontiggia enfatizza in Sallustio; ed è
evidente che egli li trova specchiati nella propria stessa Musa,
incline al chiaroscuro, sospesa fra luce ed ombra ed portata a
sovvertirle, fluente e spirante fra il tempo e l'eterno.
Nella sua versione,
esatta, preziosa, risonante, «cetera animalia» sono «gli esseri
del mondo», enti gettati nel flusso dell'esistenza, «animi virtus»
è la «potenza dello spirito» (forza, ma insieme potenzialità
indefinita del pensiero, della creazione, dell'azione), «trepidare»
è «un incessante ondeggiare», mossi e sospinti dal corso
esistenziale degli eventi.
Più
pertinente ancóra parrebbe, quasi, un richiamo al Bellum
Iugurthinum,
tutto intriso della luce, dell'arsura, del sole, degli indefiniti
spazi propri dell'Africa ‒ e proprio le «onde / che battono
pensose sulle rosse / sponde d'Africa» sono evocate, radiosi e
tremuli lidi «a una spanna dal nulla», nei versi di Con
parole remote.
«Animus pollens potensque et clarus», spirito rampollante, forte,
luminoso, «animus incorruptus, aeternus», platonicamente
contrapposto al discontinuo e franto fluire degli eventi terreni; e
il fuoco interiore dell'anima destato e alimentato dal ricordo, dalla
«memoria rerum gestarum»: questa è anche la forza della poesia,
che pure vive nel mondo, che pure nasce in qualche modo dal vissuto,
eppure lo media, lo scherma, lo filtra con un velo lucido d'eterno.
Altro
autore amato da Pontiggia, e rievocato nei suoi versi per la verde
pace, per il fresco silenzio che le sue pagine effondono, è Plinio
il Giovane ‒ di cui andrebbe citato almeno il passo (Epistulae,
I, 9) ove è lodato il silenzio in cui, lontani dai
rumores
della molesta umanità, è dato «cum libellis loqui», e
tratteggiata la natura ‒ autentico mouseion,
sacra dimora delle Muse ‒ che «invenit» e «dictat», come retore
genuino ed infallibile, parole armoniose e copiose ‒ o il tenero
ritratto di Marziale (III, 21), l'uomo e l'amico che scrisse versi
forse non immortali, forse non destinati a vincere il tempo, eppure
scritti «tamquam essent futuri», già protesi in un tempo oltre il
tempo, in un accarezzato vestibolo dell'eternità.
Fatte
queste premesse, messi a fuoco questi
novantiqui,
classico-moderni referenti culturali, l'essenza della poesia di
Pontiggia ‒ essenza a prima vista così evasiva, sinuosa,
sfuggente, impalpabile quasi ‒ affiorerà e si mostrerà in tutta
la sua luce.
Versi
fluenti, equilibrati, euritmici, bilanciati fra il pieno e il vuoto,
fra la luce e l'ombra, nella visione
come nel suono
(«Invoco il silenzio fedele, taccio / ogni nome, e il vostro,
pensieri, / suono potente e segreto; depongo / su un'ara remota / una
parola che non compare»: dall'armonia delle liquide al rintocco
delle dentali, dal soffio delle sibilanti al cerchio radioso delle
rotanti; come il suo Sallustio, da «prima vigilia silentio egredi»
a «ita tacente ipso occulti pectoris patefecisse», dalla fuga lieve
nel buio al segreto tormentoso che tumultua nel fondo del cuore).
«Nella
sua ara
chiara,
/ in un rogo
devoto»:
dalla luce aperta del nitore (Cavalcanti: «che fa tremar di
chiaritate l'âre») al cupo
suono del cerchio che si chiude, della fiamma che si consuma e,
piano, si estingue.
La parola conduce
dall'informe alla forma, dall'insensato al senso: come gli esseri
che, in Esiodo e in Ovidio, affiorano, cosmogonicamente, da una massa
primigenia in cui sono racchiuse e confuse tutte le forme possibili.
«Tutto / era sospeso in una / quiete lunga, nel forte / vuoto»
(Ungaretti: «E tutto è rapito in quel momento»). «Nulla / che
risuonasse in cielo». La parola si affaccia «su di un buio più
remoto / del tempo che ci ospita».
L'alchimia della
memoria può plasmare «un tempo semplice, inviolato» ‒ ma anche
ridestare, più cupo ed inquietante, «un tempo / straniero». Il
passato, rievocato, è «luce fiammea, fissa» ‒ «l'alta, la cupa
fiamma» di Luzi, ma anche, scorporato, destoricizzato, il fuoco
della memoria sallustiana, o la «fiamma gemmea» della passione
estetica in Walter Pater.
Come
nel Virgilio georgico, il tempo anela alla quiete dolce dolce e
composta del miele e delle arnie. E il tempo è bosco sacro in cui la
parola aspira a sprofondare
e perdersi, per sempre riconciliata con la Storia che è Destino, con
la Natura che è Forma e Principio.
Matteo Veronesi