martedì 28 febbraio 2012

Del Libro Digitale

Il libro digitale, proprio in virtù della sua smaterializzazione, della sua fluidità, della sua impermanenza, della sua postmoderna liquidità, accentua la levità, la purezza assolute della parola poetica, che vive essenzialmente nel pensiero del lettore e nella sua coscienza interpretante.
Con il libro digitale, la condizione dell'opera che prende forma, che inizia davvero ad esistere, nel momento e nei modi in cui viene recepita e interpretata, troverà la sua traduzione e la sua visualizzazione più piene.
Vero è anche che la censura diverrà sempre più ardua, se non in quei paesi in cui anche la rete viene monitorata e censurata.
E, soprattutto, si potrà aggirare, grazie ai libri elettronici gratuitamente distribuiti tramite la rete, quella che è forse, oggi, in campo letterario, la censura forse più inflessibile e dura: quella esercitata (come sostiene Dubravka Ugresic in "Vietato leggere") non tanto da regimi politici, quanto dal mercato editoriale, che impone prodotti spesso scadenti controllando la distribuzione, inondando librerie, edicole e ipermercati, e anteponendo, com'è ovvio, il profitto al valore culturale.
Certo la rete esigerà lettori aperti, intraprendenti, voraci ma nello stesso tempo vigili, dotati di gusto sottile e spregiudicato ma, in pari misura, di una solida e stratificata preparazione (la quale dipende dalla passione individuale, ben più che da qualsiasi inutile imposizione scolastica).
Lettori capaci, finalmente, di discernere il reale valore di un autore e di un'opera, al di là degli schieramenti (ideologici e partitici, più che culturali) che hanno controllato e controllano rigidamente, con sistematiche e scientifiche lottizzazioni, l'editoria e la comunicazione tradizionali.

Ho già toccato argomenti simili qui:

http://www.paginatre.it/online/2011/08/08/4701/

http://www.diesse.org/detail.asp?c=1&p=0&id=4896

mercoledì 8 febbraio 2012

"Durata del mezzogiorno" di Antonio Melillo



In Durata del mezzogiorno (da poco edito nella preziosa e gloriosa collana dell’editore Carabba, rinato alcuni anni or sono dopo un lunghissimo silenzio) la poesia di Antonio Melillo nasce, si potrebbe dire, da una intersezione – o da un conflitto – di piani temporali. Da uno stridore di tempi, che è anche stridore in senso fisico, segnato com’è dal nodo e dallo spasmo della separazione e del rimpianto. Da un lato il tempo della poesia, che sembra scandito dalla franta e turbatissima eco dei metri tradizionali (la terzina, la sesta rima, il sonetto, anche caudato) indirettamente evocati, anche se mai fedelmente ricalcati – al contrario, trafitti, alterati e sfasati, come in un ologramma imperfetto, dalle dismisure metriche e dalle spezzature. Dall’altro, il tempo dell’esistenza, precocemente insidiata e troncata dalla morte, venata e minata dal lutto che tinge di sé ogni percezione e ogni reminiscenza. Così la musica della rievocazione è perturbata e contaminata da una dissonanza che ne diviene tuttavia parte integrante e sostanziale.
Scarsissimi sono gli accenni alla vita come esperienza, perlopiù configurata come vita degli altri che il marginoso soggetto lirico fugacemente osserva, o attraverso lo stream mestamente tende a riattualizzare, nella sua inibizione a nascondere, o a stilizzare, lo strato delle proprie memorie (memoria che tuttavia, trascegliendo, sembrerebbe operare quasi come canone). La distanza dall’esperienza è tangibile inoltre nella costante parcellizzazione, con cadenza descrittiva tutta esteriore, di variazioni tonali – benché sempre in sottotono in virtù del loro statuto di sfocatura, lontane dagli esiti di una ripresa dal vivo –, delle stagioni, le quali o si sovrappongono, o si alternano quasi insensatamente: elaborazioni soggettive di un horror vacui di esperienza presente. Ovvero, prolungamenti della insolvenza di uno stato d’animo che non ostenta pulsioni, volizioni né risposte emotive, che non “prega vita” giacché “è altro che si attende”. Lo smorzamento delle gradazioni tonali delle stagioni, sorprese nel loro stato di approssimazione, e rese nei versi nello smorire in atmosfere senza flagranza, costituisce il corrispettivo di una Stimmung emotiva, restituiscono la misura di un arresto o di un involgersi nella “illusione di mutamento”: esse muovono le cose, ma solo “in apparenza”. Analoga sorte paiono avere i simboli temporali (altra mancanza in emblema), anch’essi veicolanti proprietà illusive, e performanti la monocromia e la fissità di una elegia dell’abbandono. Le stesse parole “hanno perso senso in un tempo / allontanato, dissonante senza // rima”. Ma sono comunque selettive, e colgono l’inarcamento di questo tempo trattenuto e in sosta, dove l’atto di includere è ben consapevole di ciò che è destinato all’esclusione.
La “durata del mezzogiorno” è una “ombra inferma” adibita a meridiana della distanza dalla “vita”, misurata da una prospettiva (anzi, da “un corpo”) “di tramonto”, il quale si commisura con l’orizzonte del mare, margine ingenerato, principio di iterazione e refrain che non è dato traguardare. O forse Melillo concepisce l’ora meridiana in senso dannunziano e nietzschiano, dunque una sorta di limbo interiore che può prolungarsi, nella durée réelle, oltre ogni orologio e ogni misura.
Ciò che si è estinto è inaccesso e non può più essere rivisitato e rivissuto, nel perenne eterno presente della poesia, se non proprio in quanto morto, attraverso il diaframma opaco della lontananza e dell’assenza, che di questo libro sono temi portanti. Athànatoi thnetòi, thnetòi athànatoi, morti immortali, immortali morti: tali, come nel frammento di Eraclito, sono le ombre dei vivi morti, dei morti vivi, nel tempo ambiguo, vivente morente, che muore e rivive, in ogni frazione temporale della poesia – “tentativi di rime verso il cielo” –, delle sillabe che tengono dietro e incessantemente si legano alle sillabe nella musica fluente del verso.
Nel parziale antinomizzarsi delle due dimensioni, prossimità e lontananza convergono, si intravede insomma il filo di una compatibilità, di una coincidenza di “vita”, come un vincolo tra i vivi e i morti, una comunanza di condizione, che consiste nel vivere la stessa attesa (“il vento diviene acqua, / trascina lunghe domande di vivi / e morti”) – esperita in due diverse configurazioni, ma uguale negli atti –, la stessa speranza, un avere le stesse preghiere: giacché la distanza che li separa è solo di carattere spaziale.

Viaggiare è solo un restare nel mondo,
una speranza di sperare,
vano è averlo appreso con la morte,
se pure i morti debbono tenere
la pazienza del ballo insieme ai vivi,
in questi spazi dove si è eletti senza fine.

“Durante il funerale non si muore, / ma da allora si resta fuori dalla vita”. La condizione freudiana del lutto e della melanconia è un territorio intermedio tra vita e sparizione che prescrive di continuare a vivere una – e in una – vita segnata nel profondo dalla morte, e attraverso il velo della mortalità essenziale, inverata dalla fine della vita (“il sole sorge dal tramonto”) vedere ogni cosa e ogni volto e ogni luogo. La morte è l’infinito, l’essere, il tutto, sembrerebbero suggerire i versi di Melillo. “Non bastano tutte le morti per compensarne una”. È sulla scorta della mortalità che la condizione individuale si fa specchio e ricettacolo di quella universale. Il sovvertimento – e insieme l’amplificazione – che è anche una illuminante chiosa dell’enigmatico verso montaliano (“Ci vogliono troppe vite per farne una”), paiono in tal senso emblematici. E al montaliano “anello che non tiene” si rifanno i versi “nell’ordine scorrere un errore, / un intoppo nel ritorno / della risacca”, vano moto ottativo, giacché, scrive Melillo poco più avanti, “questa vita albeggia e tramonta / sempre aldiquà dell’orizzonte”. “Il morire è solo un migrare”, “un sorprendersi / della propria morte come quando ci si addormenta”. Nella circolarità, se non nell’unità, di vita ed estinzione, la mortalità che alona ogni cosa è anche presagio e tensione verso qualcosa più in là, quanto basta per definire i contorni vaghi di una “fede senza fuga”, speranza dunque “diafana / come un’addimoranza, un rifugio lontano”.


Elisabetta Brizio

domenica 5 febbraio 2012

Jean Soldini, "Frontiera e vita in comune"




La riflessione intorno al concetto di territorio, di identità (identità una e insieme molteplice, nel continuo, impercettibile ma assiduo, mutare della storia, nell'assiduo e silenzioso screziarsi e creolizzarsi dell'umano), e dunque di frontiera, limite, margine, che circoscrivono, avvolgono, definiscono e insieme suggeriscono la possibilità del superamento (che sono fatti, forse, proprio per essere un giorno oltrepassati), è centrale, fin dall'inizio, per il discorso culturale che si intende condurre in questo spazio.
Terminus, il Confine che gli antichi personificavano, e addirittura divinizzavano e veneravano, è insieme linea e spazio, concreto e astratto: riunisce in sé, per così dire, l'assoluta astrazione geometrica e geopolitica, cartografica, e lo “spazio vissuto” degli scambi, dei passaggi, degli incontri, delle contaminazioni, delle “traduzioni” libere o forzate, coinvolgenti, letteralmente, le parole e le idee come i soldati e i prigionieri, aggiogati gli uni e gli altri, ugualmente, alla forza feroce (per parafrasare l'Adelchi) che possiede il mondo e prende il nome (Nomen-Nomos) di Legge: spazio, dunque, a volte, la frontiera, anche come teatro di guerra, come luogo di contesa, di disputa, di scontro, siano essi storici, religiosi, militari o anche semplicemente intellettuali (de-finire, affermare e delimitare un concetto, un'idea, una visione del mondo, ha a che vedere anche con i fines, con il finis: confine, territorio, e insieme frontiera, limite, orizzonte che si chiude – finis ultima, infine, ovvero morte). La frontiera è passaggio, ma anche negazione, come l'esistenza. Omnis determinatio est negatio.
Nell'elaborazione manoscritta dell'Infinito di Leopardi, “celeste confine” diviene poi “ultimo orizzonte”. Se il confine è celeste – se il limite anela al cielo –, dall'altro lato l'orizzonte, l'apertura irraggiungibile ed incolmable, è ultimo, attributivamente e predicativamente – il confine ultimo, oltre il quale non c'è nulla, o c'è, precisamente, il Nulla – e l'ultima frontiera, l'ultimo lato o l'estrema piega del confine – come il margine curvilineo, impercorribile, quasi-immaginario, dell'universo einsteiniano, finito ma illimitato, e sul cui limite estremo, se potessimo osservarlo, vedremmo la nostra nuca.
Dove un tempo passava la cortina di ferro, fra Gorizia e Nova Goriza, ora c'è una piazza in cui non si sa dove finisca l'Italia e dove inizi la Slovenia, dove finisca l'Occidente e dove inizi l'Oriente. Luogo emblematicamente postmoderno. Sta a noi far sì che quello spazio, quella frontiera, quella linea (non solo immaginaria, e anzi segnata un tempo dal sangue) slabbratasi e dilatatasi fino a divenire agorà, non sia la terra di nessuno di un arbitrio senza regole, ma un effettivo luogo di incontro, di scambio, di vivificante, memorabile e memore, transito.
Incontro, dice Soldini in queste pagine, anche e soprattutto di solitudini che in parte restano tali; sovrapposizione o parallelismo o intersezione di rette incorporee, forse puramente pensate; dialogo di silenzi, dialogo che è, invero, un tacere-insieme, come fra antichi amici.
Si tratta di far sì che l'individualità non divenga individualismo; che non si smarrisca e non si dissolva, indistintamente, in un'alterità anonima ed incolore, ma che, al contrario, nell'incontro con l'altro-da-sé conservi, e anzi arricchisca, il Sé, fino a farne un'entità sovraindividuale, intersoggettiva, eppure sostanziale e consistente. “Solo gli isolati parlano”, scriveva Montale, il personnaliste convainçu che proprio in Svizzera trovò, come tanti altri, un'isola di libertà d'espressione.
Pagine, queste, vorrei dire, che rispecchiano appunto un tipico risvolto dell'esprit helvétique: la Svizzera come piccola Europa all'interno dell'Europa, come sorta di forma a priori, pur nella sua neutralità, o forse proprio in virtù di essa, dell'identità europea; specchio o riflesso, riduzione solo in senso spaziale, quasi per una sorta di mise en abyme, dell'Europa come mosaico o concerto di voci e di identità; identità, quella elvetica, particolare e molteplice, che riflette, proprio nelle sue interne divisioni, nelle sue pluralità dialettiche e silenziose, nella raggiera ripartita delle valli, dei cantoni, delle realtà linguistiche e religiose particolari, l'essenza di uno spirito unico e polifonico, idealmente pacifico eppure strenuamente difeso, nitido e insieme policromo.

(M. V.)



Nell’atto unico intitolato Stranieri, opera del drammaturgo Antonio Tarantino, un uomo anziano è barricato in casa ossessionato dalla minaccia degli stranieri. Progressivamente esce tutto lo squallore della sua relazione con la moglie e col figlio morti che, venuti dall’aldilà per portarlo via, bussano con ostinazione alla sua porta (1). Il testo si conclude coi pesci lasciati morire nell’acquario in quattro dita di melma e col rimprovero del figlio al padre: «E questo significa che per molto tempo tu li hai fatti vivere nei loro stessi rifiuti» (2). Il finale è quanto mai felice perché non aggiunge un “e come se non bastasse hai pure fatto morire quei poveri pesci”. L’apologo si chiude aprendo lo sguardo sull’insieme dell’esistente e sulla sua fragilità, sul suo esistere e resistere. Ora, la riflessione filosofica privilegia in genere l’uomo, quando tutto l’esistente andrebbe considerato. Anzi, tutti i corpi perché solo il corpo turba e può essere tenuto a distanza fino a essere fisicamente soppresso. Nella sua apparente venialità il tenere a distanza può finire per coincidere col cannibalismo mentale, innestandosi con ferocia sull’annullamento ordinario dell’alterità, sull’inevitabile, generica cancellazione dell’altro, di ogni altro e non solo dell’uomo. La coscienza è fatalmente taglio nell’essere-insieme della moltitudine, nella trama dell’essere-con, della circolazione e della relazione tra enti in un pullulare e moltiplicarsi di enti-con-enti. Avvolge col suo fascio di luce ciò che in esso entra ed esce. È così immediata privatizzazione stabilizzante. Produce un possesso dell’altro nella privatizzazione che dà vita al mio palcoscenico, benché l’impressione sia quella di una coscienza-finestra che si muove nell’aperto su cui è schiusa. L’altro a cui faccio riferimento è l’Altro-con-Altro tolto di mezzo come Altro dalla privatizzazione che accompagna il prodursi come senso, che va insieme alla fenomenizzazione dell’apparire per cui, con Fernando Pessoa-Bernardo Soares, si potrebbe dire: «Il mondo esterno esiste come un attore sul palco: è lì, ma è un’altra cosa» (3). La coscienza nel suo illuminare privatizzante mette in atto una sorta di diritto di visita, termine che riprendo dal lessico kantiano di Per la pace perpetua (4). Parlo qui di un ontologico diritto e stato di visita, di un’ospitalità generica e inconsapevole che stempera l’Altro come straniero e ospite assoluto, ma può ugualmente dar luogo a un esercizio d’ospitalità (5).
L’esercizio d’ospitalità – che non è ancora esercizio dell’ospitalità – è prima di tutto realismo da cui emerge il tipo d’interdipendenza esistente tra sé e sé, tra sé e l’altro uomo, tra sé e tutto ciò che esiste. L’esercizio d’ospitalità è riconoscimento di sé con l’altro, dell’interdipendenza tra ospiti-stranieri evitando di andare subito al senso come valore, di cadere troppo presto nel dispositivo privatizzazione-valore. Non che tutto si equivalga; ogni cosa viene giustamente caricata di un valore. Il problema è la supremazia assoluta di questa operazione e la fretta con cui ha luogo. L’esercizio d’ospitalità è realismo del pensiero che parte per combattere, per resistere, per remare controcorrente e, quindi, anche contro l’illusione che basti combattere, resistere, remare controcorrente in nome di un nobile ideale. Opporsi significa coltivare la resistenza in sé esprimendoci con Thomas Hirschhorn a proposito dell’arte e del suo Crystal of Resistance presentato alla Biennale di Venezia nel 2011 (6): «L’arte […] non è resistenza contro qualcosa, bensì resistenza in sé». La resistenza in sé e non la resistenza contro. Per questo non basta guardare alla storia e cercare di modificarla. Non basta, benché non sia certo inutile e ogni sforzo in vista di un pur impercettibile miglioramento abbia la sua rilevanza (prima di tutto sul piano di una chiara formulazione dei problemi di fondo dell’attuale, epocale crisi economica, finanziaria e politica). Resta il fatto che l’unico senso ravvisabile nella storia è il potere. La storia è quella dominante che in parte piega e in parte annulla un’infinità di storie di ogni genere entro un flusso prevalente. Alcune di queste storie si sono raggruppate in modo egemone come non è accaduto ad altre, dando luogo a variazioni di potere più positive o negative. Nondimeno senza deviazioni dalla storia, e non esclusivamente della storia, rimane sempre e solo il potere. Occorrono pertanto micronavigazioni, microdiversità, microsorgenti di disorganicità anarchica rispetto alla storia e alla sua imprescindibile violenza per rientrare a tratti nell’essere-insieme della moltitudine, nel pullulare e moltiplicarsi di enti-con-enti-con-enti.
L’esercizio d’ospitalità è messa a fuoco dell’interdipendenza esistente tra sé e sé, nonché tra sé e tutto ciò che esiste. Siamo stranieri e ospiti in senso radicale. L’altro rispetto a noi – così come ognuno di noi rispetto a sé – è ospite, cioè ospitato e ospitante, nonché straniero. Straniero in senso radicale è l’altro assoluto, il barbaro escluso come nell’antica Atene dalle prerogative concesse allo straniero in senso relativo vii. È quanto si ricava dall’Apologia di Socrate (8). Socrate afferma che se fosse uno straniero, se parlasse un’altra lingua sarebbe compatito. Ma nel suo caso, a settant’anni, si trova per la prima volta in un tribunale, non è pratico del linguaggio di quel luogo; chiede che si faccia attenzione non al suo modo di parlare, ma a ciò che dice. Si trova, insomma, in uno stato d’inferiorità rispetto allo straniero di diritto. L’ospite radicale – ospitato e ospitante – è inafferrabile, è straniero come nella Trilogia di Agota Kristof, in ciò che la scrittrice chiama menzogna; attraversa in modo esplicito tutto il romanzo Le troisième mensonge. Particolarmente alla fine quando a Klaus T. viene annunciato che il suo presunto fratello gemello Claus T. (Lucas), che a quindici anni aveva varcato la frontiera per un lungo esilio, si è ucciso gettandosi sotto un treno nel momento in cui avrebbe dovuto essere rimpatriato nel suo Paese. L’uomo dell’ambasciata gli consegna una busta sulla quale sta scritto: «All’attenzione di Klaus T.». All’interno la richiesta, firmata Lucas, di «essere seppellito accanto ai nostri genitori». Ma quello era veramente suo fratello? Klaus T., pur rispondendo negativamente, aggiunge: «ci credeva così tanto che non posso rifiutarglielo». Due giorni prima, alla domanda se avesse ritrovato qualcuno della famiglia, Claus T. aveva risposto di no. Eppure, aveva già incontrato Klaus T. Quest’ultimo dà l’autorizzazione a seppellirlo accanto al padre, «l’unico morto della mia famiglia», precisa. «Accanto alla tomba di mio padre, si scava una nuova tomba. Vi si cala la bara di mio fratello, vi si pianta la croce che porta il mio nome con un’ortografia diversa. Torno al cimitero ogni giorno. Guardo la croce su cui è inscritto il nome di Claus, e penso che dovrei farla sostituire con un’altra che porti il nome di Lucas» (9).
Questa è resistenza in sé e non contro. La resistenza in sé è resistenza con altro e la resistenza con altro è frontiera. Non confine tra cosa e cosa, ma facoltà di darsi il cambio. Non di confondersi, di perdersi nell’indistinto, ma possibilità di uno scambio reale e transitorio: “io sono chi ti ospita mentre tu mi ospiti”. Qui può manifestarsi quel tacevamo di cui parla Charles Péguy: «Felici due amici che si vogliono abbastanza bene per (saper) tacere insieme. In un paese che sa tacere. Tacevamo. Salivamo. Da tanto, tacevamo» (10). “Tacevamo” al plurale, perché nel silenzio solitario può non avvenire alcunché. Può essere la conferma di tutto quanto vogliamo sia confermato. Il silenzio come vuoto sa riempirsi in fretta delle nostre allucinazioni, delle immagini derivanti dal nostro copione, delle immagini più sensibili o ideali, poco importa, dove ci preoccupiamo soprattutto di organizzare il gioco e controllarlo secondo una sceneggiatura già data. Il silenzio solitario rientra in un agire concorrenziale, contro ogni piacere in comune, contro la forza positiva, affermativa che oltrepassa il singolo individuo, il singolo attore e che non ha niente a che vedere con l’edonismo mercantile diventato espediente indispensabile alla sopportazione di una vita comune, quella che si dà oggi nella forma della subdola brutalità del tardocapitalismo inconciliabile con ogni aspirazione a una vita in comune, a un piacere in comune come approssimazione alla saggezza di cui parla Pessoa-Soares, sempre in Il libro dell’inquietudine: «Un uomo, se possiede la vera sapienza,

 sa godere dell’intero spettacolo del mondo da una sedia,

 senza saper leggere, senza parlare con nessuno,

 solo con l’uso dei sensi e con l’anima

 incapace di essere triste» (11). “Tacevamo” al plurale (Péguy) allargato alla moltitudine degli enti, con un’attivazione senza riserve dei sensi rispetto alla seduzione, al tirarci in disparte (seducĕre) di ciò che è. Condurci via dalla tristezza verso una sapienza, un sapore che sia incitamento dell’intendimento.
Vita e piacere in comune che significano anche rientrare in quel grande atelier della natura a cui pensa Jean Arp. Rientrarvi per essere anonimi «come le nuvole, le montagne, i mari, gli animali» xii, non insistendo quindi solo sull’aspetto personale dell’uomo, ma anche sulla sua dimensione a-personale, sulla libertà a-personale oltreché sulla libertà personale che è quanto chiamiamo abitualmente libero arbitrio. La libertà a-personale è l’uomo, è acqua senza vaso. Acqua che ha bisogno di un vaso, ma che deve sempre poter rompere i vasi che diventano prigioni. Penso qui a una forzatura dell’idea di assenza di impedimenti al moto di cui parla Hobbes il quale – nell’ambito di un diritto di natura (ius naturale) distinto da una legge di natura (lex naturalis) – intende per libertà l’assenza di costrizioni legate al corpo: «così l’acqua chiusa in un vaso non è libera, perché il vaso le impedisce di spandersi; e rotto il vaso, è libera» (13). Libertà a-personale e non solo libero arbitrio che appartiene al volere. Nietzsche aveva colto qualcosa di centrale per il tramite dell’immagine del fanciullo che dice di sì alla vita, libero dalla volontà di un io già costituito e volente: «Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo» (14). Si tratta di libertà in quanto forza, potenza che genera libertà per una nuova creazione. Una «ruota ruotante da sola», che si alimenta da sola e che è possibile pensare di sviluppare dalla parte del rincorrersi-con-altro di un io che si sfugge di mano (che sfugge al suo stesso dire “io”) e di un io-protagonista-persona disponibile a farsi decostruire, a lasciarsi lacerare dall’interno della libertà di movimento per riconquistarsi, riunificarsi senza sosta e provvisoriamente nella responsabilità-con-altri, nella facoltà-accadimento di un esercizio di risposta-con-altri. Io-protagonista, io-persona disponibile a essere trascinato in prossimità della dimensione pubblica dell’essere-insieme della moltitudine, a essere condotto in prossimità della nostra frontiera, della facoltà di scambiare la nostra individualità personale con la nostra dimensione umanamente anonima.

1) Antonio Tarantino, Stranieri è pubblicato in La casa di Ramallah e altre conversazioni, Ubulibri, Milano 2006, pp. 11-61. Nel 2008 il regista e drammaturgo Marco Martinelli (Teatro delle Albe) ha messo in scena questo testo con l’interpretazione di Luigi Dadina, Ermanna Montanari e Alessandro Renda. Lo spettacolo teatrale è stato poi elaborato filmicamente nel 2010 da Aqua-Micans Group.
2) Stranieri, cit., p. 61.
3)Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine [Livro do Desassosego], a cura di Piero Ceccucci, traduzione di P. Ceccucci e Orietta Abbati, Newton Compton, Roma 2006, p. 258.
4) Cfr. Immanuel Kant, Per la pace perpetua [Zum ewigen Frieden], testo tedesco a fronte, introduzione, note e apparati di Massimo Roncoroni, traduzione di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1997, terzo articolo definitivo per la pace perpetua, p. 91.
5) Diritto di visita, esercizio d’ospitalità, privatizzazione-valore, aspirazione a una vita in comune insistendo sul rapporto tra dimensione personale e dimensione umanamente anonima sono temi sviluppati in un saggio filosofico di prossima pubblicazione: A testa in giù. Per un’ontologia della vita in comune, prefazione di René Schérer, Edizioni Mimesis, Milano 2012.
6) Cfr. il flyer in http://www.crystalofresistance.com/.
7) Cfr. Émile Benveniste, L’ospitalità, in Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, a cura di Mariantonia Liborio, Einaudi, Torino 1981, vol. I, pp. 64-75 (2a edizione; 1a edizione: 1976. Tit. orig.: Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Les Éditions de Minuit, Paris 1969, 2 tomes).
8) Cfr. Platone, Apologia di Socrate, in Dialoghi filosofici, a cura di Giuseppe Cambiano, UTET, Torino 1970, vol. II, I, 17 c-d, p. 52.
9) Agota Kristof, Le troisième mensonge, Seuil, Paris 1991, pp. 185-187.
10) Ch. Péguy, Victor-Marie, comte Hugo, in Œuvres en prose complètes, edizione presentata, stabilita e annotata da Robert Burac, Gallimard, Paris 1992, vol. III, pp. 164-165.
11) F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., p. 128.
12) Jean Arp, Art concret, in catalogo Konkrete Kunst, Kunsthalle, Basel, 1944.
13) Thomas Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino [Elementa philosophica de cive], a cura di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 1979, ix, 9, p. 163.
14) Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra [Also sprach Zarathustra], versione di Mazzino Montinari, in Opere, edizione italiana diretta da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1968, vol. VI, t. I, 69-77, p. 25.