mercoledì 23 novembre 2011

Silvia Secco, "In morte di Andrea Zanzotto"

Presento questi versi in idioma veneto, scritti da Silvia Secco in occasione della morte di Andrea Zanzotto. La poesia dialettale tende spesso, forse per sua stessa natura, a scadere nel bozzetto mimetico o, viceversa, deformante e caricaturale, ma in ogni caso angusto. Nei suoi esiti più alti (Loi, Baldassari, Bandini, Zanzotto stesso) essa attinge invece, grazie alla musicalità, all'essenzialità, all'ingenuità sapiente ed arcaica, proprie del vernacolo, un lirismo luminoso e assoluto. Bandini e Zanzotto, appunto, ma anche Marin e Pasolini: i poeti veneto-friulani, se è possibile ricorrere a questa generalizzazione, hanno il vantaggio di potersi servire di un dialetto che è in realtà, con le sue sonorità aperte e distese, con i suoi indugi meditativi, con la sua malinconica grazia ariosa e cantata, un vero e proprio idioma romanzo, che ha, rispetto all'italiano con cui istintivamente lo si raffronta a livello di ricezione psicolinguistica, quasi la consistenza ombrosa e remota di un'eco e di un'origine, riverberate e specchiate.

Nel testo ora presentato, riaffiorano motivi eterni, antichi come moderni (il mondo come libro e come pagina che infine, come nell'Apocalisse,si ravvolgono su se stessi e si dissolvono, forse per schiudere caelum novum et terram novam; il luminoso silenzio della luna che sovrasta la veglia e la creazione), che trovano nel dialetto un ricetto e un'espressione naturali e insieme elaborati.

(Matteo Veronesi)

In morte di A.Z.


Stralocia là ‘na luna pena nata

penapena fata (o pena stria?) e a ti

la t’ha portà via: i fii, tajai nel farse

dea so false quarta, filà dal vento

dala pria del tempo – lima/rima… Mah!


Gnanca sa te fussi ‘ndà co ‘na busia,

n’altra poesia/grafia, ‘na virgola,

na ciglia… Zolà via come ‘na foglia,

un strame astrale fin là insima! Pecà


gnanca t’hai spetà la neve… Saria sta

lieve el passo, el viajo ciaro. Un fojo

novo tuto gualivo tuto par ti. Ah!

Falive de fojo podae sul mondo a far

del mondo un fojo/a mondarlo/ a sorarlo…


E ti là sora a segnarlo, sgrafiando

(corsivo) le norme in orme in nome…

Ah… Come saria sta belo! Ancora un fià

qua zo, un filò (de seta): la A. La Zeta.


Spetaspeta? Gnanca t’avessi tuto

pensà! Come ‘na metrica, un verso

e te fussi corso via a stralunarte

alto là in quela cuna a dindolarte

na scianta prima del sfarse del cielo!


Par vedarlo mejo. E metarlo in rima.





Traduzione)

In morte di A.Z.


Strabica là una luna appena nata

appenappena fatta (o appena strega?) e a te

lei t’ha portato via: i fili tagliati nel farsi

della sua falce quarta, affilata dal vento

dalla pietra del tempo – lima/rima… Mah!



Nemmeno te ne fossi andato con una bugia,

un’altra poesia/grafia, una virgola,

un ciglio… Volato via come una foglia,

un pulviscolo astrale fino a là sopra! Peccato


nemmeno tu abbia aspettato la neve… Sarebbe stato

lieve il passo, il viaggio chiaro. Un foglio

nuovo tutto disteso tutto per te. Ah!

Faville di foglio posate sul mondo a fare

del mondo un foglio/a mondarlo/a calmarlo…



E tu là sopra a segnarlo, graffiando

(corsivo) le norme in orme in nome…

Ah… Come sarebbe stato bello! Ancora un poco

quaggiù, un filò (di seta): la A. La Zeta.



Aspettaspetta? Nemmeno tu avessi tutto

pensato! Come una metrica, un verso

e fossi corso via a stralunarti

alto là in quella culla a dondolarti

appena un attimo prima del disfarsi del cielo!



Per vederlo meglio. E metterlo in rima.

lunedì 21 novembre 2011

Giselda Pontesilli, "Con me e con gli amici"

Ho il piacere di presentare questo poème critique, questa sorta di prosìmetron intriso di afflato lirico e memoriale e coscienza critica, culturale e programmatica, opera di Giselda Pontesilli: un testo che parafrasa, nel titolo, Jahier, scrittore fra i più cari all'autrice, e animato da una volontà di condivisione, di compartecipazione umane, oltre e prima che intellettuali, affini proprio a quelle dei cosiddetti moralisti vociani, cui Jahier è stato accostato: e si potrebbe citare, qui, il brevissimo scambio epistolare che con Jahier intrattenne, proprio nell'immediata vigilia della morte al fronte, Renato Serra, che da Jahier veniva vanamente esortato ad attenuare il remoto, un poco trasognato ed algido, culto della pura Bellezza, per confrontarsi, sulle orme di Claudel, con l'evidenza e l'abbraccio esperienziali dell'umanità e della verità – della verità inverata, incarnata nell'umano, in una parola sentitamente umana, calda di vita e di testimonianza. Questa stessa unanime, condivisa passione, che pervadeva il clima della rivista “Braci”, in ciò simile alla “Voce”, è richiamata e rievocata dall'autrice, che ne auspica – con quell'utopia che è il lievito della realtà - una rinascita nell'attuale, grigio e mistificato e falsato, panorama. Le sottili anomalie linguistiche, i tenui e delicati straniamenti semantici e sintattici (“quella casetta in basso, / quell’ in alto casale, / vogliamo, vi prego, convolare? / Ci vogliamo, vi prego, rivivire?”) che infine increspano ed impennano il testo poetico (per il resto intonato ad una cantabile discorsività, ad una naturalezza e ad una levità che hanno la tersa limpidezza dell'alba e del miracolo) rispondono proprio a questo anelito, a questa volontà quasi dantesca di palingenesi. E, come in Ruskin, la bellezza dell'arte del passato è speranza per una futura riscoperta della bellezza, della dignità e della sacralità del comune lavoro. Ed è significativo, infine, che il testo si chiuda con una citazione (assai cara anche a Beppe Salvia, poeta di Braci) da Sleep and poetry di Keats: un passaggio sommesso, sussurrante, in cui peraltro si auspica, senza clamori, e anzi ai limiti stessi del silenzio, del non-detto, che la voce sapiente, la voce-sapienza, e sapienza della, e nella, voce, insite nella poesia-natura e nella natura-poesia (la sapienza mediata e riflessa del linguaggio umano riconciliata con quella inconscia, ma eterna, racchiusa nelle armonie e nei ritmi della natura), tornino a regnare, a regolare, a scandire i tempi e i modi e le civili, umane misure dell'umana convivenza.

(Matteo Veronesi)


GISELDA PONTESILLI


Con me e con gli amici”


Con Mauro e suo padre, l’architetto,

ho visto

-vedo-

il Duomo di Orvieto.


Ci andammo in gita in tre, lui e il padre

chissà come invitarono me

tutto un giorno.


Partimmo presto, da piazza del Popolo

per tornarvi al tramonto.


Ma poi anche Mauro con me

vide

mio padre, in alto, sul tetto

d’una casetta, che faceva lui stesso

in un lotto di terra – mille metri –

a Valle Martella.


L’architetto Biuzzi con il figlio

stava col Duomo davanti quel giorno

- ricordo il loro sfavillare -

e dopo pranzo andammo

su una vasta collina col casale

che lui

voleva acquistare.


Ma certo anche Mauro con me

stette un giorno in quel lotto, nell’orto

con mio padre davanti sul tetto,

al lavoro, perfetto.


-E avevamo

un altro amico,

Giorgio.


Ora vi dico: Mauro, Gino, Giorgio

visto che abbiamo visto

da tanti anni ormai tutto un giorno,

lo stesso Duomo,

lo stesso uomo,

lo stesso orto,

quella casetta in basso,

quell’ in alto casale,

vogliamo, vi prego, convolare?


Ci vogliamo, vi prego, rivivire?



***



Con me e con gli amici” di G. P. ci parla, come già dice il nome,

di lei e dei suoi amici;

ma solo perché è un appello,

l’appello più urgente, e concreto, a questi concretissimi amici;

- appello diretto:

vi prego” di “con-volare”, “rivivire”,

cioè pensare-insieme-agire-uniti.

Ma chi sono, gli amici? e perché (e per dove)

volare, cioè pensare-agire?

Sì, proprio a loro, eminentemente a loro

compete questo sperato effettuale agire, perché sono stati unanimi

un giorno” nel vedere “tutto”,

unanimi non nichilisti.

Un suo scritto di allora, dice:

Siamo amici; grazie a un riconoscimento reciproco avvenuto, che, per la sua forza difficilmente verrà revocato”.

Ecco, si erano riconosciuti:

ciascuno - in un suo proprio modo,

vivificatore, non nichilista.

Quel riconoscimento non è revocato:

oggi: dopo “questi anni di sempre più accentuato isolamento e sempre meno probabile comunione di intenti”;

separati e scomunicati, come tutti,

ma sempre doverosamente non nichilisti;

perché hanno pensato e agito, seppur soli,

come si può da soli;

come si può:

cioè, allegoricamente.

Infatti:

Mauro Biuzzi –Artista:

non hai subìto l’ insignificanza impazzita, l’epifenomeno -senz’arte, né pensiero, né parte –postmodernista; così, hai agito, hai fondato allegoricamente il “partito dell’amore”, dicendo:


Con il nostro antipartito, ci opponiamo al partito dell’alienazione e della simulazione: questo superpartito unico è il vero fantasma che si aggira per l’Italia e per l’Europa e lo si riconosce perché compone il suo linguaggio fantasma con frammenti impazziti di linguaggi ideologici”;

vogliamo “sostituire il linguaggio alienato dei partiti e delle ideologie lasciando emergere la lingua amorosa delle attuali società civili”.


Infatti:

Giorgio Pagano –Artista:

hai còlto subito il crollo dell’ideologia, la crisi del sapere, la fine del marxismo,

e che vi si reagiva

non con migliorato comprendere, non con rinnovata azione creativa e razionale”,

bensì con la rinuncia, l’ “istituzionalizzazione della soggettività”, l’eclettismo, il citazionismo, la superficialità:

così, nel tuo inosservato, isolato saggio Arte e critica dalla crisi del concettualismo alla fondazione della cultura europea, hai disaminato Transavanguardia, Anacronismo, Nuovi-nuovi, e hai concluso con una “dichiarazione”,


un “manifesto” scritto con Gino Scartaghiande, Beppe Salvia, G. P., e letto da Gino a Roma,

l’8 Settembre del 1984 al Festival Internazionale dei Poeti;


una dichiarazione, un “allegorico” agire insieme:


() A noi sembra che l’attuale saccheggio di geometrie storicistiche ed eclettiche filologie sia viziato a tal punto da consentire una fittizia rinascita artistica nello stesso momento in cui la spiritualità che essa dovrebbe testimoniare tocca il suo fondo.

A volte ci si rivolge al passato sperando che esso, nel suo intoccabile splendore, ci accolga e difenda. Ma è più spesso la disillusione delle forme vuote a rimanerci in mano.

E’ dunque necessario per noi prenderci cura della fragile natura del presente, e fondare in esso una tradizione futura, dentro e oltre il riflesso del passato.

E del presente la necessità prima ci sembra essere l’unificazione europea.

Europa come regione dello spirito, come il ritrovato luogo di un lavoro vero, che riguarda tutti.

L’unità “internazionale” del mondo, attraverso l’imperialismo di alcuni popoli sugli altri, è fittizia, è disillusione.

La via da praticare è invece quella dell’unione reale, là dove spirito e corpo coincidono: l’unione europea assume, in tutti i suoi aspetti, la ricerca di un’unione reale.

Si tratta di sostituire un luogo e un lavoro vero alla pratica dell’illusione.

La nascita della cultura europea trova nella definizione di una lingua comune il suo primo fondamentale passo.

()”.


Giorgio, tu come Mauro, pensavi alla lingua:

la lingua amorosa della società civile” –dice Mauro:

una lingua comune della cultura europea” –tu dici.


E i poeti di “Braci”? Anche loro pensavano alla lingua,

ma non si iscrissero al partito dell’amore, Mauro,

né, Giorgio, alla tua associazione esperantista:

- restarono soli poeti, a tutti i costi poeti, così, dopo “Braci”,

fecero un Convegno a Roma sulla poesia: “La parola ritrovata”

(dove Gino parlò de “La gloria della lingua”, Claudio di “Lingua e linguaggio”);

poi, un anno e mezzo dopo, riuscirono a ripubblicare l’Arte poetica di Orazio, con i loro interventi

-e, l’intervento di Gino, era “Orazio (Dialogo)”, quello di Claudio “Arte e natura”, quello di Giuliano Donati, “Crotto Urago. Una nota di poetica”, quello di G.P. “Il custode

incorruttibile”.


E così poi anche loro del resto

furono separati, isolati, privati.


Ma è forse avvenuto qualcos’altro – anche? Qualcosa che può di nuovo far pensare, sperare?


Il 24 Aprile 2007 compare “NUOVE BRACI –giornale di educazione”:

sotto il titolo, la data, poi, c’è scritto: “Editoriale, di Claudio Damiani”, poi

c’è l’immagine azzurrina di Braci 1, poi questo testo:


Se l’attuale dittatura economico-mediatica o dittatura della pubblicità, può, nei confronti

di chi ha qualche attrezzatura culturale, essere tutto sommato limitatamente dannosa, dobbiamo riconoscere che nei confronti degli individui più fragili dal punto di vista culturale, che sono la grande maggioranza, essa ha degli effetti devastanti. Questa è la vera catastrofe, l’emergenza ecologica prima del nostro mondo. Che poi, la limitatezza del danno recato a quei pochi che possono spegnere la televisione, è in effetti molto relativa: perché, se anche questi sono danneggiati solo nel fatto che sono emarginati, e non perseguitati, o sterminati, tuttavia la loro esclusione ha un ritorno devastante sulla società, che diventa come un corpo senza cervello. Se studiassimo la nostra società, vedremmo che il tratto comune a ogni sua singola parte, l’essenza della sua struttura, è la negazione dell’educazione. L’educazione è mostrare un’opera (di pensiero, di arte, di sentimento ecc.), qualcosa che esiste, permettere a un educando di entrare in uno spazio di rigore, di arte, di realtà, di verità, permettergli di godere di quello spazio. ()

Oggi si tende a dire che i cantautori sono i veri poeti, che i giornalisti sono i veri scrittori, che i pubblicitari sono i veri artisti. E’ la dittatura economico-mediatica che spinge a questo, utilizzando anche la devastata e devastante cultura ideologica precedente, che già aveva fatto deserto con storicismo, strutturalismo, fango e ceneri ideologiche sulla brace, sul fuoco vivo dell’opera. La dittatura pubblicitaria utilizza, assolda la vecchia cultura ideologica desertificante (). Ci sono altri, e stanno nella mia generazione, in quelli nati negli anni ’50 e ’60, e oltre, che non sono d’accordo, ma sono stati messi da parte. Si potrebbe dire: è inevitabile, non c’è niente da fare, la dittatura economico-ideologica è troppo potente, stiamocene appartati, coltiviamo i nostri studi nell’ombra ecc. Ma invece, se ragioniamo un attimo, c’è una forma di resistenza semplicissima, che potrebbe cominciare a minare l’intero sistema. Basterebbe cominciare a separare l’opera, la virtù, l’ordine, il bene, dal caos, dalla spazzatura, dall’ideologia, dalla violenza. Basterebbe cominciare, come diceva Confucio, a “raddrizzare i nomi”. Riportare i nomi, le parole, alla loro realtà. ()

(http://nuovebraci.blogspot.com/2007/04/editoriale-di-claudio-damiani.html)



Il 29 luglio 2011 compare -anche,

La competenza dei poeti” di G. P.


Niente di nuovo, in fondo, se non un anello in più, una connessione “logica” “stringente”:

  1. la lingua, usata per le informazioni, le “comunicazioni di massa”, è fondamentale per la società;

  2. ma queste informazioni non informano affatto, anzi umiliano, confondono, perché, sempre più spesso, contrarie al senso della lingua e, sempre, “basate” su una visione sorda, accettata passivamente, inaccettabile, della realtà;

  3. i poeti, in quanto competenti, professionisti della lingua, sanno alla perfezione tutto questo, tutto ciò che nella lingua è giusto o sbagliato;

  4. dunque, loro, sono indispensabili alla società e possono agire insieme per studiare, e realizzare un modo, un metodo di informazione televisiva.


Come Petrarca, sollevando –solo con pochi amici- tempi disumanizzanti e disumani, varò un rinnovato, ontologico, umanesimo, così anche i poeti, oggi, devono fare.

Questo, devono fare.

Ma, appunto, questo nuovo, ontologico umanesimo, non si può fare abbandonando gli uomini alla “lingua” dell’informazione di massa, alla “società di massa” infatti, che umanesimo è, se abbandona gli uomini, se li considera materia informe, massa?”

(http://nuovaprovincia.blogspot.com/2011/07/giselda-pontesilli-la-competenza-dei.html)


I poeti possono agire, sì, agire, e, anche,

lavorare,

come lavorano i professionisti, gli imprenditori, i lavoratori,

le associazioni di categoria, le parti sociali, gli operai, i consigli comunali, i pensionati, i disoccupati, i giovani, le donne, i magistrati:


-come loro, anche loro possono portare al Governo, all’attenzione del Paese, al Parlamento, alla Scuola, alla Chiesa, all’Europa, al Capo dello Stato,

una piattaforma di base, un piano di intesa, un calendario di lavoro, un pacchetto di misure eccezionali, le loro esigenze reali


-per evitare la bancarotta, la catastrofe umana e culturale.



Ora vi dico: Mauro, Gino, Giorgio

visto che abbiamo visto

da tanti anni ormai tutto un giorno,

lo stesso Duomo,

lo stesso uomo,

lo stesso orto,

quella casetta in basso,

quell’in alto casale,

vogliamo, vi prego, convolare?


Ci vogliamo, vi prego, rivivire?



"O may these joys be ripe before I die".


domenica 20 novembre 2011

Una nota di Giorgio Linguaglossa sul "Cordone d'argento"

Ho il piacere di pubblicare una nota di Giorgio Linguaglossa, uno dei più significativi critici militanti del panorama attuale, il quale rilegge, a distanza di qualche anno, il mio Cordone d'argento. Il richiamo ai crepuscolari mi fa tornare con la mente agli anni dell'adolescenza, quando proprio la lettura di quei poeti, contaminata con quella di Montale e di Zanzotto (come se io avessi voluto, inconsciamente, rileggere e rivivere a ritroso tutto il Novecento italiano, per me simultaneo e compresente, dagli esiti più maturi fino alle radici), mi offriva gli occhi e le lenti, opache e meditabonde, attraverso cui vedere la mia provincia, quella in cui mi trovavo a vivere – e anche, più minutamente, quella provincia dell'essere e dell'esistente che sono non tanto le “piccole cose”, quanto i minimi dettagli, le minime pieghe ontologiche, i più sottili anfratti percettivi, di ogni realtà, grande o piccola, degli oggetti più minuti come delle più vaste e ardite immaginazioni cosmiche – specie oggi che tutto il mondo è divenuto, o può o potrebbe divenire, insieme centro e provincia, fulcro e margine, identità e alterità, tanto che i massimi poeti d'oggi - un Walcott o un Soyinka, o anche l'europeo Heaney - possono fare di usanze, miti e scenari lontanissimi dal vissuto e dall'immaginario dominanti dell'Occidente il tramite e l'oggetto di immedesimazioni mitopoietiche e di meditazioni sapienziali che travalicano ogni confine.

E, forse, se vogliamo un poco giocare con le formule, il minimalismo della poesia, e spesso della mentalità, di oggi può essere superato proprio fondendo neo-crepuscolarismo e neo-simbolismo, oggettualità ed evocazione, ekphrasis ed allusione; recuperando, in fondo, quella stessa matrice simbolista (Maeterlinck, Rodenbach, Samain: poeti proprio per questo da rileggere) che era alla base del crepuscolarismo.

Poesia neo-crepuscolare, infine, non nel senso in cui Borgese parlava del crepuscolo a cui non sarebbe seguita la notte; ma, al contrario, precisamente nel senso di un crepuscolo come anticamera e annunzio della notte: notte santa e dannata, notte luminosissima e oscura; notte del Divino e dell'Essere, come del Silenzio e del Nulla.

(Matteo Veronesi)


Matteo Veronesi,
Il cordone d’argento

Oggi, dopo l’interminabile foce epigonica degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, dopo la stagnazione economica e stilistica (e politica) di questi anni Zero, è sempre più chiaro, a chi voglia vedere le cose senza gli occhiali ideologici del minimalismo, che l’epoca dello pseudo-simbolismo delle scritture epigoniche non ha nulla da dire (di comunicabile) alla comunità nazionale, nulla di significativo ai cittadini.

Posta l’impossibilità, certo, oggi, di costruire uno stile simbolistico (ovvero, post-simbolistico), per via della caduta a picco del fondale simbolico, per quella problematicità di porre il simbolico come «simbolico», e per via di quella confusione di porre l’equivalenza: l’immaginario=mito e mito=simbolico, quello che rimane possibile è, per la nuova generazione, un linguaggio poetico che non poggi su alcuna stilizzazione e su alcuno zoccolo stilistico. Lo so, è paradossale e fortemente antinomico, ma così è.

Quel poco di pseudo-classicismo che si è voluto accordare ad uno stile mitologicamente sostenuto non ha lasciato traccia significativa, durevole. Lo pseudo-simbolismo del post-simbolismo del tardo Novecento è stato davvero una cosa curiosa: convenzionale nell’enunciazione e conservativo nella formalizzazione, non era in grado di offrire alla poesia delle nuove generazioni alcun sostrato su cui poggiare la forma-poesia.

Adesso, è chiaro che i neoclassici della scuola orfica hanno scritto e parlato per tutto il tardo Novecento in una prosa rimata e ritmata, al meglio, antichizzata e nulla più. Sono stati i simbolisti italiani del primo Novecento (Gozzano, Govoni, Moretti, Vallini) che hanno scoperto la prosa, la natura metaforica del discorso poetico inteso come ambientazione di interni domestici e raffigurazione di personaggi. Essi chiusero tutte le parole, tutte le forme, predestinandole esclusivamente ad un uso laico, borghese e piccolo borghese.

Se adesso facciamo un salto in avanti, alla seconda metà del secolo scorso, e precisamente nei decenni che hanno visto l’esaurimento dello sperimentalismo e della poesia degli oggetti, quello che vediamo è uno spazio linguistico senza frontiere, dove è possibile manovrare a piacimento il veicolo poetico alla ricerca del proprio orto botanico di linguaggio incontaminato, direi biologico (con tanto di autobiologia che fa rima con apologia dell’io). Ne derivò qualcosa di assai scomodo: il discorso poetico del secondo Novecento non concede sufficiente spazio a chi voglia accomodarsi, non c’è un atrio per i ricevimenti né un salotto per l’accoglienza, c’è solo un corridoio lastricato di sperimentalismo e di oggettistiche urbane; non si può andare né avanti né indietro, né alzarsi, né sedersi. Con la conseguenza che il linguaggio poetico del tardo Novecento è rimasto privo di pavimentazione lessicale e stilistica, il che non può che riprodurre le medesime aporie e i medesimi nodi che erano già venuti al pettine negli anni del crepuscolarismo.

«L’uomo non è più padrone a casa sua. Deve vivere ora in una chiesa, ora in un sacro boschetto di druidi, l’occhio padrone dell’uomo non ha dove riposarsi né dove trovare pace. Tutto il vasellame si è ammutinato. La scopa chiede riposo, la pentola non vuole più bollire ma chiede per se stessa un significato assoluto (come se bollire non fosse un significato assoluto). Hanno cacciato di casa il padrone ed egli non osa più entrarvi. Ma come fare con la adesione della parola al suo significato: forse che si tratta di una dipendenza fortificata? Ma la parola non è una cosa. Il suo significato non è affatto una traduzione di se stessa. Infatti, non è mai accaduto che qualcuno abbia battezzato un oggetto e l’abbia chiamato con un nome inventato. La cosa più conveniente, e nel senso scientifico più esatta, è guardare alla parola come ad una immagine...»: sono parole di Mandel’stam contenute nel saggio Sulla natura della parola, pubblicato nel 3° n. di «Poiesis», nel 1993, da Donata De Bartolomeo.

Se è chiaro, per sommi capi, quanto abbiamo detto in queste righe, ci sarà chiara anche la scelta, da parte di un autore della generazione degli anni Settanta come Matteo Veronesi, di una «poesia povera», una «poesia da scrittoio», che ci parla di cose semplici e antiche come un «ciclamino», di affetti privati e domestici, dell’ombra della morte che si allunga, al tramonto, su tutti le suppellettili del quotidiano.

Il ciclamino, il fiore
che nel suo giro fragile
di colore e profumo chiude il cerchio
delle ere e degli astri, e col suo muto palpito
fa eco al chiaro riso delle stelle
ignaro di mesi e di stagioni
è fiorito ai confini dell’inverno

Ed ecco che ritornano tutti gli stilemi e i topoi del crepuscolarismo: la vita come «pianto», l’alba «grigia», la preghiera sulla «lapide», la presenza pervasiva e costante della «morte», l’ombra della «madre», la «primavera» nebbiosa, etc.

Come l’edera figlia del silenzio
e del buio che avviva le mura
dei cimiteri e reca in quella quiete
il verde riso della primavera
così è questo mio canto che vive
nutrito dalle tenebre e dal nulla

Un discorso poetico emblematico della nostra esperienza, direi.

Giorgio Linguaglossa


venerdì 4 novembre 2011

Elisabetta Brizio, "Aver a che fare con il cuore. 'Affari di cuore' di Paolo Ruffilli"



Aver a che fare con il cuore. Affari di cuore di Paolo Ruffilli


Affari di cuore (Einaudi 2011): esteriormente, un libro di versi che enfatizza l’esperienza erotica. Ma già la parola affare, per la varia serie dei suoi significati, suona come un preliminare avvertimento: si sta parlando di una faccenda complessa, di qualcosa che potrebbe prendere una piega indesiderata, o che non è possibile circostanziare. O di una questione riservata. Di una cura. Estensivamente, è un avere a che fare con il cuore. Con il cuore e con un essere pensante. Una gamma ambigua e pluriversa di sensi e sfumature che la lingua inglese sintetizza con l’idea di love affair: storia, vicenda, esperienza, coinvolgimento; nodo che avvince; forse destino. Ma anche insidia, sviamento, in qualche caso sofferenza. Ad facere: un impegnarsi alimentato dal soggetto e proteso verso l’altro.
In Affari di cuore non siamo troppo lontani dalla prospettiva mengaldiana, relativa al Ruffilli della Gioia e il lutto, che localizzava una concezione della realtà che «è in fondo tale solo se pensata dal soggetto». Qui l’immaginazione si era messa al servizio del pensiero: raccontare il disfacimento del corpo vedendo con la mente, fingendosi, leopardianamente, situazioni non direttamente sperimentate. E analogamente, delineare la privazione della libertà, come avveniva in Le stanze del cielo, l’imprigionamento del «morire senza morte». «Pensiero e immaginazione» titolava con sigla pregnante Alfredo Giuliani le sue pagine introduttive a Le stanze del cielo.
Ora, raccontare storie d’amore e di disamore Ruffilli lo aveva fatto quasi pervasivamente, tanto in versi che in prosa, come nelle intense scene di spezzature esistenziali che compongono Un’altra vita, situazioni verosimilissime e non sentimentalizzate, comunque anch’esse esiti del fingersi, frammiste a liriche e emotivamente alonate descrizioni di paesaggi che si sostituivano al discorso diretto, che prendevano il posto della parola, introflessa, non razionalmente verbalizzabile, di alcuni dei protagonisti delle storie. Cosa che induce a considerare parecchi inserti paesaggistici ruffilliani come altrettanti referti di pensiero altrimenti designato. E nel più recente romanzo L’isola e il sogno l’amore era tema centralissimo: meglio, era centrale la questione del come conciliare il dissidio tra la dimensione organica e quella spirituale dell’eros. Dilemma di fatto non conciliabile, tanto che Ippolito, il protagonista del romanzo, fortuitamente, e emblematicamente, naufraga con la tragica coscienza di questa dicotomia, che forse aveva intuito potersi ricomporre in un amore assoluto, ma avvertito come elemento destabilizzante e di deriva della ragione.
In Affari di cuore viene in parte meno la prospettiva indicata da Pier Vincenzo Mengaldo del «pensare poeticamente», viene meno solo nella misura in cui tanti versi sono sostanziati di una quasi tangibile materialità dei corpi, tutt’altro che stilizzata e sublimata. Ed è il riverbero delle storie intime del soggetto dell’esperienza ciò che a una vista esteriore potrebbe apparire come la vera trama di quest’opera, là dove la configurazione del fingersi sembrerebbe meno decisiva, data l’intensa partecipazione emotiva del locutore. Ma non si tratta, in fondo, della stessa partecipazione emotiva che ha da sempre attraversato le opere ruffilliane? Cosa altro muoveva, allora, Ruffilli in La gioia e il lutto e in Le stanze del cielo a partecipare di forme di angoscia che solo marginalmente inerivano la propria persona? Ma siamo di fronte a delle trasfigurazioni poetiche, nelle quali non è affatto scontato che il soggetto lirico coincida con quello dell’esperienza.
Tuttavia, il soggetto, poetico o empirico che sia, è eminentemente pensante, tenta di attribuire senso e ordine agli accadimenti, alle immagini del sogno, si domanda, si ricorda, si scorge, e in particolare ricerca – magari senza esito alcuno – l’in sé dell’accaduto, tentando di farne preliminarmente astrazione. Ma la vera difficoltà di pensare l’amore – o, come in questo caso, di scrivere sull’amore – è quella, come avvisava Roland Barthes, di non potersi attenere ad alcuna forma di logica, di non riuscire a «pensare con lucidità», perché «la riflessione viene subito trascinata nel ribollimento delle immagini». L’amore è inanalizzabile, un enigma non concettualizzabile, e insieme, scrive Ruffilli, «un assalto / di pura conoscenza», che gli farà dire, come responso critico e consapevole: «Perché ti amo / io non lo so / ma è un fatto». Un fatto, un prodotto della immaginazione individuale, che talora si tende a distinguere dalla dimensione sessuale come spinta fisiologica. Se una traducibilità dell’eros in termini razionali, una sua pensabilità, è cosa difficilmente realizzabile, resta la circostanza che esso abbia a che fare con la mente e con il pensiero, sebbene resti ambito di un discorso noologico in senso vasto. Non solo fare – pur senza pretese di assolutezza – un discorso amoroso, ma l’amore stesso è piuttosto un affare di testa che di cuore, anche nella prospettiva che l’eros dal cuore va alla testa nel delirio sentimentale e che progredisce – o regredisce – in fatto cerebrale, in quanto segna i vari stadi della vita che ognuno, sliricizzando il tempo, non può esimersi dal sondare. E ancora: l’amore è in ultima istanza un affare di testa perché implicato con l’infelicità. In questa – parafrasando il titolo del noto libro ruffilliano – «camera oscura» dell’eros che è Affari di cuore, l’infelicità correlabile all’amore è da considerarsi un affare mentale o una questione di cuore? Se la seconda sezione del libro, meno aperta alle illusioni, si chiude con l’interrogazione: «Perché siamo infelici?».
Leggiamo i versi che Ruffilli ha posto in copertina, versi che sinteticamente restituiscono tutta la complessità dell’opera:

Il letto per l’amore
è un campo di battaglia
del mistero:
vi dura la pace
nella guerra e nel conflitto,
più si è morti
più si vive meglio
da risorti
e, colpendo,
ognuno
vuole essere trafitto.

In questi versi la suggestione della poesia delle cortigiane («Or mi si para il mio letto davante», Veronica Franco) si fonde con il motivo della lucta amoris, dell’amore come combattimento, lacerazione, dagli elegiaci a Tasso. In quanto soggetto amante e insieme oggetto d’amore, il soggetto lirico sembra perdere ogni identità e connotazione: possedente e al contempo posseduto, penetrante e penetrato, compreso e compenetrato in sé stesso, due in uno e uno in due. L’io poetico è carnale e universale, femminile e maschile, esperienziale e sublimato in parola, nodo inscindibile di yin e yang, come nel pensiero orientale. Se per Lucrezio gli amanti cercano invano di congiungersi e nella impossibilità di questo pieno appagamento sta il loro tormento, qui si verifica piuttosto il tormento della gioia, lo svuotamento nella e della pienezza; e molto orientale è anche questo sguardo che gode del mondo, del corpo, dell’altro da sé nel momento stesso in cui ne percepisce la caducità e l’impermanenza.
Cognizione ampiamente suffragata lungo il libro, e che culmina nella probabile idealizzazione dei versi di Ribaltato:

oltre l’alone scuro
del puro desiderio
intrecciato e avvolto
nel punto incandescente
nel buio della notte
che rischiara il buio
ormai uno di due –
di noi a noi
perciò consustanziale
di mai e sempre
di tutto e niente… ce l’hai
eppure no, non vale:
avendolo è come fosse assente.

Allo stadio iniziale di questa fenomenologia dell’eros si situa l’evocazione della pienezza fisica («addosso» è una delle parole-chiave che risuonano in questa poesia, specie nella prima delle quattro sezioni che scandiscono il volume, Per amore, quella dell’inesauribile desiderio), là dove un evidente straniamento verbale fa sì che lui e lei si scambino le parti iperbolizzando una complexio oppositorum diffusamente evocata e semantizzata: nel rispecchiamento della «gioia dell’amante nell’amato», della salvezza che coincide con la perdizione. La coincidenza degli opposti, il possesso dell’altro come essere asintotico e non afferrabile, oggetto di un amore possessivo, il desiderio della reciproca appartenenza, della varia unitas, passano attraverso quel «campo di battaglia / del mistero» che è l’alcova, nella quale, in questa logica di permutazione e di unione totale che si risolve in un «corpo a corpo», «chi cattura / vuol farsi prigioniero», in una inversione dell’ordine dei ruoli («lasciati entrare / poco alla volta / dentro di me»; «E nell’averti in me / è il ritrovarmi intero») dove è lei che finisce per entrare, e precisamente, nella testa dell’amante. Per poi magari tornare al cuore, all’enfasi dell’emozione informe, ma in termini di spasmo dell’anima, coercizione, di soverchiante ossessione.
Dunque, la dominante di quest’opera (anche per la pressoché totale assenza di descrizioni esterne e per l’essenziale atonalismo e la monocromia che la alona) sembrerebbe esser di pensiero, l’ennesima interiorizzazione ruffilliana della materia trattata: è la dimensione fisica a mettere in opera un pensiero ipertrofico che si traduce in dubbio, in delirio interpretativo, nella decostruente inquietudine del soggetto amante, relativamente sia all’amata che a sé stesso. Pensiero chiaroscurale, che coglie insieme l’estasi e l’ombra, che talora trascende nel delirio amoroso di proustiana memoria, o nel riconoscimento del coefficiente impensato veicolato dall’inconscio – la «cascata del pensiero» –, nel tormentarsi congetturando dell’amante nella lontananza, del tradimento che non è sempre detto che si consumi solo con l’atto fisico, o dell’infedeltà legittimata come ricerca dell’amata «dentro a un altro corpo». La «ferita» è allora, sì, evidente correlativo metaforico, o metonimico, dell’oggetto pulsionale, ma insieme fonte di infelicità, ibridazione di due ambiti contestuali come eros e dramma, sfera germinale di una vulnerabilità innescata dal ragionare, o dallo sragionare, sull’amore.
Ricompare nel libro l’ambivalente formula ruffilliana designata come «un’altra vita»: essa rinvia a un umanissimo tendere verso qualcosa di infinibile, e alla eventualità degli esseri di dare un altro corso alla propria esistenza. Ma qui Ruffilli devia e compie uno scarto dal proprio etimo, e ascrive all’espressione il valere come recupero di un’altra forma, che si credeva eclissata, sia di vivere il tempo che di esperire dell’eros. E l’autore sembra autoplagiarsi: «Con te magari / troverò la strada / che non ho trovato»: eco, o addirittura stilema, dei racconti di Un’altra vita. E un’altra vita si inventa, si ritaglia, l’amante presago di Affari di cuore, deluso della circostanza che l’amata trovi «qualcosa di eccitante» nel suo stazionare nell’inappagamento, «amputato nell’attesa».
Nell’incrinarsi della misura dell’illusione non tardano a emergere i retroscena dell’amore (in particolare, inventariati nella seconda sezione, Canzonette della passione amara, ma proletticamente adombrati fin dalla prima), sfila implacabile la trama degli impedimenti che si frappongono alla passione e all’attuazione alla discordia concors, alla interagenza dei contrari, alla reciproca contaminazione nell’«incastro più assoluto», quali una indistinta paura che serra gli amanti, il dubbio di piacere all’altro «senza amore», gli algidi sms sul display del telefonino, semiotica di una presenza che si va dileguando e che rende lei «sicura da distante». Analogamente, lo stesso rischio dell’inaridimento era sul punto di minare la parola poetica prima della asserita conversione stilistica ruffilliana da una gradazione troppo egoriferentesi e incline alla autoindulgenza, e pertanto prescindente dalla cosa («La parola, per me / veniva da distante. / Un a priori, quasi, / l’avvertivo. Un eccitante», elusiva e «inconsistente ai cinque sensi»), conversione dichiarata in Piccola colazione, e che in quest’opera dell’87 promuove un diverso orientamento, una sorta di inversione della precedente riflessione linguistica e delle ragioni che in seguito Ruffilli chiamerà «sentimentali», strettamente implicate con quelle versificanti. Almeno sotto questo aspetto, la parola poetica assomiglia all’amore, due fatti che mirano alla totalità e nei quali pertanto non potrebbe troppo a lungo protrarsi il fatto di bluffare, né sotto il profilo della referenza linguistica né in quello della vita.
Si afferma, in Affari di cuore, la disperazione di «due destini» che si distinguono e si scoprono diversi, benché mescolati nella duplicità-unità dell’amplesso consolatore. Nella dialettica «adulto-adulterato» di cui parlava Ruffilli, fa la sua comparsa una terminologia ostile al «respiro della vita», emerge la constatazione amara che l’altro appartenga a sé solo, e abbia una vita propria non sondabile. All’abbandono all’amore subentrano la diversione, la noia, il senso di esclusione, l’umore depressivo, l’autocontrollo, la percezione di sentirsi oggetto di distrazione, di una passione che con il tempo viene amministrata «per quantità e per date», anziché svolgersi, incondizionatamente, nel «sogno / di unione più totale». E il sogno di amarsi «in nome del passato», congetturando su quel che poteva verificarsi diversamente. La sensazione, inoltre, di essere l’obiettivo di un investimento emotivo tendenzialmente strumentale, epigonico e condizionato («Parli di lui», dice l’amante; «Se solo fossi lui!», gli dice l’amata) o di carattere prevalentemente cerebrale: «Ma tu ti lasci / guidare dalla testa / mentre credi / di affidarti al cuore».
Anche l’io lirico smette di abbandonarsi e diventa quasi sedizioso protagonista della propria «guerra di posizione» (Guerre di posizione è il titolo della terza sezione del libro, dove una forma di amore senza amore finisce talora per sconfinare nella collisione erotica), e comincia a misurare e a riflettere sulla natura, sulla «causa di tanto desiderio». Questa ossessione amorosa fa parte di un meccanismo difensivo, sorge quale antidoto alla paura della vita, o costituisce un tentativo di «arginare il vuoto»? Giacché, come dichiarava lo stesso Ruffilli qualche anno fa, ciò che si teme veramente non è tanto la morte quanto la vacuità dell’esistenza. «Come trovano conforto i sospiri degli amanti?» Nella ricerca condivisa di un oblio, sembrerebbe rispondere Ruffilli. O amare è il modo di eludere una inadeguatezza individuale, o l’opportunità suprema per non riconoscere la verità di amare solo sé stessi: «che non sia proprio, / questo, il modo / per vivere davvero / dentro di sé il resto»? Su tutto, nondimeno, si staglia l’idea immanente dell’agnizione del proprio destino, «l’idea di un infinito / perfino quotidiano». Il motivo dello specchio riflettente – evocato in Misurazione –, tradizionalmente paradigma della moltiplicazione dei punti di vista, e dunque di disorientamento, è qui eminentemente un fattore che fa emergere particolari finora inavvertiti. Il soggetto lirico pensa di sé («Penso di me», ripete nell’anafora di Abbraccio), al proprio istinto di conservazione, là dove un solo dettaglio può divenir atto a prefigurare qualcosa di necessario, di vitale: traccia svanente e localizzazione di un nesso con il proprio destino. Come nei versi appartenenti a La traccia.

Solo il dettaglio,
nel farsi oggetto
e luogo circoscritto
ai nostri sensi,
rende presente
e non più astratto
né più evanescente
o spento e vano
l’istinto a opporre
al tempo un’immanenza
fingendosi un istante
eterno il mondo
prima che la traccia
slitti via
cadendo a fondo.

Benché il testo di chiusura della quarta sezione (Al mercato dell’amor perduto), e del libro, renda – alla maniera ruffilliana – l’impressione di un risalimento alla nostalgia per gli appassionati testi di esordio, quelli inerenti all’abbandono erotico non cosciente (e al suo imprimersi nella memoria alla stregua di un calco), non controllato, immediato e irriflessivo, antecedente all’istituirsi della dialettica intimità-estraneità, qui il tema amoroso viene perlopiù trattato come cosa pensabile dalla quale trarre conclusioni cui rimettersi con disposizione altra e incertamente riepilogativa («Solo a toccarci / e a stringerci abbracciati / sapremo tutto / delle nostre storie, / del vuoto che ha lasciato / qualcun altro»). La passione amorosa «riempie il vuoto / che ci avvolge, / rompe il muro / indifferente / e vince sempre senza conquistare», lasciando un indelebile segno quando il tempo avrà risanato le lesioni dell’amore. «Un segno / che si incide / e resta addosso», dice Ruffilli – dove la voce «addosso», rispetto allo spirito delle prime sezioni, scrive il senso della stratificazione dell’esperienza. Se è il sentimento di sconfitta che finisce per prevalere («la combinazione / che ci unisce / è quella che ci esalta / e ci punisce»), tuttavia, come nelle parole di Hermann Hesse in esergo al volume, anche per Ruffilli gli eventi fallimentari restituiscono tutto il valore dell’esistenza, tutto il coefficiente affermativo che comunque ne è venuto. Assunto che comporta il ribaltamento di certa retorica sentimentale, per la quale spesso si afferma che il vero oggetto del nostro rimpianto non sarebbero tanto le persone amate perdute lungo la vita quanto la frazione di noi stessi svanita con loro. In altri termini, nella prospettiva di Ruffilli, non potremmo rimpiangere la così detta parte di noi dissoltasi insieme agli esseri amati, essendo proprio la stessa parte che ha contribuito a promuovere un potenziamento della nostra esperienza.

Elisabetta Brizio