lunedì 31 ottobre 2011
Poesie di Giuseppe Feola
Del resto, lo stesso autore ha illustrato e argomentato articolatamente la sua concezione della poesia (http://sns-it.academia.edu/GiuseppeFeola/Papers/132887/linguaggio_poesia_conoscenza): la “poeticità” è, per lui, l'efficacia del rapporto fra “espressione linguistica” ed “espressione versificatoria”, e dunque una funzione dell'aderenza, della rispondenza fra le scelte lessicali e sintattiche e quelle metriche: aspetti, questi, che rischiano di passare in secondo piano in certo minimalismo per il quale la poesia sembra non essere che prosa spezzata in righe più brevi, senza alcun senso ritmico, alcun rapporto, alcuna interazione fra significato e versificazione, senza insomma quelle tensioni strutturali e dialettiche che innervano l'essenza del poetico. Analogo, quasi speculare è poi, per l'autore, il rapporto fra ethos ed enfasi: ogni sensibilità e ogni intelletto potenti ed innovativi definiscono e plasmano un ethos, una visione del mondo e una configurazione etica, che si traducono nell'enfasi posta su alcune parole e alcune espressioni, la quale distanzia il dire del poeta dalla piattezza e dall'adeguamento alla convenzione propri del linguaggio comune.
La luce del vespero pare “sondare / i vuoti fra le cose”, interrogare iati ed incoerenze di un mondo che sembra destituito di coesione, di struttura, e dunque di senso. Il “fanciullo che gioca”, archetipo della sapienza greca, segna una nuova, mitopoietica alba del significato, dell'ordine e della creazione.
Il puer aeternus, ridestato o risorto, “pone mano a quelle sponde / cui il mare, che, silente, / di tempo lo nutriva, fa da specchio”. La luce dell'alba creatrice si riflette e si moltiplica nei limpidi specchi di una rinnovata autocoscienza.
Con raro e prezioso equilibrio, la visione mitica, cosmogonica si sposa ad una precisione definitoria, ad una nettezza di linee quasi da chosisme à la Ponge (il mondo come “meccano”, come mechané, come struttura organica ed equilibrata ma, insieme, come possibile inganno, come possibile raggiro dei sensi proprio là dove credono di attingere maggiore certezza e poggiare su di un più saldo terreno).
Eppure, i frammenti del mondo chiaroscurale potranno essere pietre con cui costruire un'ara per nuove consacrazioni, per nuovi sacrifici del senso vòlto alla formulazione di un nuovo significato.
Dal canto suo, il poeta sta sulla riva di un “cupo, ottuso, mare”, a rispecchiarsi “nella sua notte che non vuol passare”. Se l'autocoscienza del dio-bambino creatore è limpida trasparenza, quella del poeta è invece segnata dall'insidia di un'oscurità nebulosa.
Il corpo stesso, in un testo splendido, è, con tutti i segni, tutte le tracce profonde e dolorose che esso reca, “Sigillo del Cielo”, sigla marchio e traccia (una delle infinite possibili) del cosmo, della creazione che essa stessa, dice l'Apostolo, “geme nelle doglie del parto”, e che dunque trova riflesso e parziale ricetto in ogni individualità sofferente.
Taglio chirurgico, ferita primordiale è, del resto, anche l'originaria separazione di Terra e Cielo, e insieme la scansione numerica del tempo e del moto, che turbò l'immobile eternità dell'Uno primordiale.
L'archetipo dell'axis mundi si fonde con il mito della Torre di Babele: l'ordine, il perno, la simmetria paiono dunque contaminarsi con il caos, l'indistinto, l'informe; e da questo Chaosmos, da questo ordine-caos, sembra possano rinascere un nuovo ordine, una uova struttura di senso, un nuovo ethos.
La spuma del mare, da cui nacque Venere, è, con straniamento violento del mito foscoliano, “sperma del Cielo”; fra le due metà divise della monade primordiale può darsi un nuovo, umido e fluido e fecondo, connubio.
Questa ricomposizione della totalità nella Parola, questo ritorno all'Uno è precisamente ciò a cui tende, in modo quasi orfico, quasi onofriano, questa poesia; nella quale, in modo oggi raro, i miti classici ritrovano il loro autentico valore cosmogonico e sapienziale, la loro possibile lettura razionale (che non annulla, ma potenzia, il loro valore arcano, mistagogico), al di là di ogni compiacimento archeologico e di ogni vuoto invasamento.
(Matteo Veronesi)
Il gioco dell’infante (I)1
Lo smembramento di Zagreo
Ma questa luce intinta già di sera
non par che sondi
i vuoti fra le cose?
Un meccano smontato pare il mondo:
un arco, un tronco, un trave, un mezzo ponte;
i pezzi, pochi; e le sue viti esposte
in buon ordinamento
sul pavimento
di una stanza di giochi.
Il gioco dell’infante (II)2
Le cose si dispongono a una a una,
stese o piegate,
per dritto o per traverso,
o disunite o giunte:
quasi spontaneamente a ricomporre
una figura che l’infante sa e
non sa di avere perso.
Il gioco dell’infante (III)3
Dal fondo della culla in cui dormiva
foce, palude, marina o laguna,
o forse un fonte d’acqua sempre viva
la cui onda chiudeva il suo orecchio –
è già risorto agli orli della luce;
ed ora pone mano a quelle sponde
cui il mare, che, silente,
di tempo lo nutriva, fa da specchio.
Il gioco dell’infante (IV)4
Ora controlla il proprio passo e sta
solo un momento a contemplare dove
si trova, dopo tanto tempo: cosa
sono le tracce lì sull’erba? sassi
disposti a caso dal gioco di un bambino?
o mutile rovine che riposano
al ciglio di un sentiero in lenta attesa
della sua sorpresa? o forse ancora lo
strano sito di un nuovo monumento,
di un’ara per sacrare nuove cose?
Solstizio rovesciato5
Intervallo
Ah questo giugno che sembra un settembre
di nuvole tiepide e d’umido Sole!
E queste sere in cadenza, in attesa
di tocchi d’orologi che rallentano
il vento e la venuta di un momento in
cui lo spirito giunga a ciò che vuole.
Le rondini dimorano al solstizio,
la Luna accende il suo viso migliore;
la coda verdeazzurra della gazza
dice “ancora il giorno morto nascerà”;
ma il corvo lento non lascia il proprio ospizio
e l’eburneo circospetto gabbiano
ancora regge il vortice del cielo, e il
suo raglio nero governa le ore.
Il Tempo e la Luna6
Allocuzione
Tu, Tempo, che divori ciò che generi,
non possa la tua forza cancellare
il viso bianco e nero di colei
che tradusse i suoi silenzi in mio parlare.
Fermati, guarda:
del cupo, ottuso, mare abbiamo parte;
quello rispecchia il Sole, da cui nasci;
ed io sto alla sua riva a rispecchiarmi
nella mia notte che non vuol passare.
Il gioco dell’infante (V)7
Respira con la pelle del pensiero
(ci sarà tempo per idee maggiori):
col concetto dell’inizio e con l’intuito.
Non badare alla curva successiva,
ma alla presente o a quella dopo ancora:
per addendo di dispari c’è il pari;
tra primo e terzo scaverai il secondo,
e, da secondo e terzo, quinto e quarto:
prima il quinto del quarto.
In mezzo al guado
rispecchiati sul fondo, per non perdere il
riflesso dei passaggi già compiuti:
il fine apparirà di là dal ponte
da costruir col sasso grande e duro ri-
sparmiato finché avevi sostituti.
Il gioco dell’infante (VI)8
E inevitabilmente
tutto, ecco, rifiorisce così come
era normale infine che accadesse.
Il giallo ragno granchio che si arrampica
sulla curva della bocca di leone
perde la presa, incespica, si appende,
sta, si riprende, pende ma non cade,
calmo riparte fissando i suoi ami:
evitare passaggi scivolosi
o incroci troppo arti, e non scordare
che il fiume evade dalla roccia senza
fretta. Abbi cura di ciò che più ami.
Il Dominio del Tempo / Il Re del Mare9
Piazza dei Cavalieri
La grande scala e la sua scura porta,
le fila di finestre a quaternioni,
la curva che dispiega le visioni
di certi strani segni e quella scorta
di vecchi gentiluomini in corazza
con facce da cinghiali e da segugi,
su quelle nicchie, rifugi di delfini:
tutto parla di tempo e di fortezze
a guardia di maree, che lo scorrere
dei secoli ha insabbïato, e di pensieri
ponderosi, pendoli e galere,
torri che segnano mobili confini,
la cui forza la morbida
carezza delle acque
ha infine consumato.
Nella voglia di un’altra primavera,
nella foia di rinascita e di fango
che ora esplode,
ecco la canna accende il suo germoglio,
al muro cavo il merlo si sospende;
il fiume scava la sua strada antica.
Lì fuori al largo, intanto,
il mare ingoia ancora un altro scoglio;
un altro baluardo
di roccia ora si arrende
in un brusìo di rena e di fatica
che nella notte macina il silenzio
e si mescola alle gocce di sudore
dell’onda vittoriosa10, e
poi al fondo lentamente si distende.
Il Cane11
Ho visto un cane, ieri, nero, docile:
le sue fauci consunte di fatica
parevano gli sterili e puliti
sacri denti di nostra madre morte
a cui altro non serve, per spaurirci,
che la sua familiar presenza antica.
Il Sé / Il Sigillo del Cielo12
Altro non è il mio corpo che una via
intrecciata di tutti i sentieri
che, ere dopo ere, le
spirali della vita hanno tracciato.
La mia carne, il mio sangue, le mie ossa
vivono cieca memoria di tutti i
piaceri, delle noie, dei dolori
che le scosse del tempo alla mia pelle
antica hanno insegnato.
Due tracce parallele
all’inguine sinistro, zigrinate
come la grigia cote dello squalo;
nel fondo del mio fianco
una rete con degli ami; il paziente
malo lavoro al guscio del ginocchio
dell’entropia operosa; al ventre, un foro;
la trasparente luna dell’ustione
sopra i celesti fiumi del mio polso; il
risucchio vorticoso della nascita
alla vertigine del cranio. E sotto
l’erta terra bruciata dei capelli,
sotto la volta del mio cielo, il Sole
candido ha inciso, quasi
a memoria del suo figlio morto,
lo strano marchio di un nuovo Eridano.
Il gioco dell’infante (VII)13
Il Lossia. Incedere in obliquo
Il passo si distende sul selciato,
rotto, come l’obliquo
incedere del Sole
dopo che il taglio grande fu prodotto
dal Figlio che divise Cielo e Terra e
fece il numero, il giorno, la
notte, la guerra e l’alternanza delle ore.
Il passo non si cura delle regole,
salvo quelle del senso e del non senso,
del verso e del non verso.
Il passo non si cura
dell’ego di cui è passo, perché è re
ed obbedisce solo all’universo.
Il passo è un fiume, proprio come il Tempo,
che scava il proprio passo
nella silice più dura
e costruisce i suoi castelli in sabbia,
senza temer la rabbia dell’oceano,
e cementa i suoi templi con l’argilla,
e li riplasma e lima senza cura;
finché non giunga infine a quel momento
in cui debita meta
e compimento e cima li
sigilla e solidifica ed indura.
Babele rovesciata14
Il fondamento della Torre
Mi sono ritirato in
un luogo senza centro, in
un paese che non ha capitale:
una città pensata senza mura,
qual è la casa antica di Asterione,
simile al ventre di un sacro animale;
e lì, dove riposano le ombre
d’ogni cosa che vive e che non dura,
adesso scavo un pozzo,
come dal tronco si ricava il mozzo
ad una nuova ruota di mulino che
si muova e si rimuova
per macinare una fame che dura
da molto. Ed ecco: scaviamo e scaviamo se-
polti alle gambe nel fango più fino;
scaviamo la Babele rovesciata,
la Torre storta dell’Asse del Mondo.
Scaviamo nella tabe della roccia,
scaviamo come goccia il muto letto
del fiume della vita,
sempre più in basso, sempre più in profondo;
scaviamo fino al sasso ri-
sonante della morte, che sigilla
le porte della sorte ripartita.
Scaviamo finché, solo
giunti al fondo, si trovi il basamento
saldo, la chiave del ritorno,
la pietra d’angolo
da cui ricostruir la risalita.
Stella nera15
La stella nera che tu porti in fronte,
nascosta dal candore del sorriso,
risplende muta nel tuo sguardo: fonte
di attoniti silenzi che sigillano
la cautela costante del tuo viso.
Non v’è traccia di grazia di maniera,
né di parole alate salvatrici,
lì dove brilla il nudo dei pensieri,
e il nervo delle cose disigillano
i denti della sorte,
ben saldi alle radici.
Si riscalda di viva fiamma azzurra
e poi si riraffredda
la matrice di tutto l’universo,
quando la parca goccia di veleno o
di sïero, mortale o genitrice,
distilla la felice porta della
mente che tu disserri e
serri, così semplicemente come
quando per caso si trova un sentiero che il
passo aveva perso. Venere buia,
Madonna dei dannati,
Astro del Mare, madre annunciatrice del
Nuovo Sole del quale sei sorella,
tu che di luce fredda le ombre irraggi,
e gl’insensati Inferi consoli,
da’ sostanza alle sembianze di cui
spargi la muta notte del mio spirito:
dài consistenza a queste mie parole.
Taglio sotto il Cielo / La nascita di Venere16
Cynthiæ figuras æmulatur Mater Amorum
(Galileo Galilei)
Come lucente stella che sospira di
tra il velo di zaffìro del tramonto,
il suo sguardo paziente si rigira
tra quei silenzi ombrosi che nascondono
un’anima sottile come Luna
nuova; e riguardosa, come tomba o cuna, del
segreto che ogni vita porta in sé
e scava il suo cammino, come il fiume
ha in sé la gravità che scava il greto.
Più tardo della morte, ch’è impassibile e
non ha fretta perché non può fallire,
più rapido dell’ora scorre il Cielo:
Lui, misura di tutte le misure,
dunque incommensurabile, Lui mero
Ente, archetipo, immagine
neutrale originaria d’ogni cosa
che nasce, muore, dura e si consuma,
matrice universale, stelo parco
di fiori di piaceri, ma fecondo
mulino d’ogni male, e vorticoso
Mare del quale noi siamo la schiuma.
Dalla schiuma che esonda
dal più antico mare, dallo sperma
del Cielo nacque Venere, feroce
parto del chiasmo
originale, intagliato col bisturi
lunare
dal Tempo ormai voglioso di una nascita. E
Tempo e Venere tessero l’ossimoro
di te, tesero il velo
del tuo sorriso simile a uno spasmo
di fatica gioiosa che fiorisce
dall’imo doloroso del mio abisso
sul portentoso lume del tuo viso.
La voce17
Al solstizio d’estate / Eziologia del Mondo
Il pozzo con un sole
inciso sopra il fianco, nel cortile,
mostra la bianca e nera
via della discesa ed ascensione.
Il mozzo della ruota del
decrepito vasaio siderale
ha preso a ridiscendere,
ora giunta alla sua culminazione.
Muta la luce e mutano
le ombre, senza tregua,
da quando l’universo
fece di sé un velo
tra Sé e la Luce dal quale trasse origine,
e l’Uno originale si divise
nei diecimila rivi d’energia
di cui s’innerva il buio siderale
in cui il Suo stampo ormai giace disperso.
Per risalire il corso del disordine,
dell’entropia da cui non v’è ritorno,
crëa sistemi la natura, zone,
regioni d’ordine parziale: vita,
metabolismo, sesso;
senso, dissenso, istinto e percezione;
intorno si strutturano
le cose, plasma ambienti la
muta forza che non si vuole arrendere:
si sospende a una parola, a una casa,
a un tempio, a un segnavia,
a un discorso tra te
e me, che sia un esempio
od uno specchio almeno di quel Primo
stato di pace nuda ed aurorale,
in cui quella tensione
pare si possa infine ridistendere:
l’arco dell’arte, la lira stonata,
discorde, dell’amore, l’amicizia:
la coscienza con tutte le sue corde.
E infine l’intelletto di un principio
a cui sospender, come a un chiodo infisso
nello stipite della sacra porta
d’una felice camera da letto,
la comunione ultima, vivente,
dell’attimo indicibile,
del detto e del non detto.
Questo tu fosti, o almeno questo osai
vedere in te, e nel mio specchio a te
in noi18 fare vedere:
la possibile vera compiutezza
di questi corpi nati per intendere
ed intendersi, conoscere ed amare,
condividere sensi ed intenzioni,
la composta tensione dei due capi
opposti della lira:
non solo ciechi
affetti e grumi sordi19 di emozioni.
Ma tu, più nuda del silenzio
in cui si rispecchiava il Verbo originario,
più sincera dell’Acqua in cui l’Artefice
si guardava sul fiore dell’Abisso,
dicesti: No; chi nudo e solo nasce
solo e nudo morirà; non potrà
cambiare ciò ch’è fisso;
non giunge a perfezione l’imperfetto;
non entra la parola
nel silenzio; il silenzio non
arriva all’espressione.
Nell’antico giardino delle Figlie
della Sera, così simile al luogo
dei miei giochi d’infante,
lì dove il Sole viene
alla sua Foce, lo sciame delle ore
portava all’alveare della mia
coscienza il miele amaro della tua
voce.
Ora di marea20
Alla 3 del Timpano, cella singola con vista Arno
Presta orecchio al discorso che si rompe
e nei suoi versi rompendosi stride:
Ora di marëa, salmastra grazia
per il gabbiano alla posta che ride
sullo specchio dell’acqua
che si divide
in pieghe d’onde
differenti21.
Guarda nel fiume che cade a ritroso:
non ha riguardo
l’amaro padre suo delle sue sponde,
confonde il solco tra le due correnti.
Ora di marëa, groviglio ombroso
di lucidi pensieri22 in cui va perso
del mondo il corso usato;
e l’anima, dimenticata dea,
senza riposo geme
per ogni aspetto, visibile prima,
che adesso il flutto, sull’acido fondo
nero, salino,
salendo ha soffocato.
Sotto le chiuse del Cielo, le nere
bisacce delle nubi che stanotte
scioglieranno dai lacci
il seme della grandine
nei solchi del mio orecchio,
c’è un che d’ineluttabile che preme:
Già questa vita è un sentiero sommerso;
il gioco delle sorti
infine è consumato:
ogni Forma dispare – la contempli
cieco.
E l’odore
che putrido ti asperge
non è che di un’antica
voce la pallida eco,
una crisalide vuota di luce,
un muto messaggero
che cerca la tua porta,
che ha navigato ai tuoi porti, seguendo
la marea, risalendo
sul fiume
dalla foce dei morti.
I custodi del Cielo23
Il discorso della Terra / I gabbiani / Mattinale
I lari antichi ragliano nell’ombra
del cielo di cobalto:
cantano del disperso
seme del Padre.
La Terra, sgombra, ascolta,
chiusa nell’alto sonno che
seguì l’amplesso grande da cui nacque
il Tempo.
« Madre
nostra, che reggi i nostri piedi stanchi,
fessi di piaghe fino alle
midolla delle ossa, luogo fermo
dei punti a cui applicar le nostre leve,
nel nostro muto andare, sede stabile
sempre di tutte le sedi, rispondi: la
Notte e il Giorno che insieme generaste
quando verranno infine a compimento?
quando, infine, potremo riposare? »
Il vino si riversa sull’asfalto,
il fiume delle anime inargenta
la cicatrice impressa da Fetonte
sulle tempie di Urano primitivo.
« Ecco: ogni pietra tende alla sua valle,
al Mare tende l’acqua di ogni fonte;
scava l’onda la roccia d’ogni riva.
Debita fine attende – non temiate –
nervo e tessuto24 di ogni cosa viva:
a tutto sarà data
così la propria requie.
E questo è quanto.
E più non domandate ».
Il tuo/nostro colore25
Spiegel im Spiegel / Endiadi
qaumasto;n ganovwnta, sevba" tote pa'sin ijdevsqai
ajqanatoi'" te qeoi'" hjde; qnhtoi'" ajnqrwvpoi"
(Hom. Hym. Cer. 10-11)
L’azzurro fiore della figlia antica
della Terra, miracolo a vedersi,
lo specchio dello specchio del
Sole, spettacolo celeste, al Cielo
aperta dispiegata meraviglia,
porta in veste il tuo limpido segnacolo:
il lucido e modesto
colore della tua presenza amica.
Lo sai, anzi, sappiamo:
è lo stendardo, il blu, della distanza:
un telo di fulgore
disteso nella sera,
il velo del ricordo e dell’addio,
l’impronta che la luce
lascia, andando via per l’atmosfera;
o, viceversa, l’angelo del giorno,
l’annunciatore impietoso del vero, del
reale inesorabile,
che sorprende l’attonito ubriaco
al suo ritorno ancora sulla via.
Ed è la tinta, pure, della più intima
e colma mescolanza:
di quella vasca di lume ch’è il Cielo,
in cui il Cielo diffonde lo splendore
della sostanza
di Sé sottile
che cuce in fitta trama,
spinta alle estreme
frequenze del vibrare,
frazionandola in fiumi e
sorgenti che s’incrociano,
e fremono,
fili viventi di gocce di luce.
Muta, quasi sorpresa
del tuo strano chiarore, tu percorri,
nel tuo vago crepuscolo,
i trivii ed i viali dell’opaco
labirinto del mondo, il
fondo spesso di fango del
lago della materia
tu stessa materiale,
ma quasi non volendolo:
come la luce nuda, inconsapevole
dello sguardo dell’uomo a cui si tende,
dell’astro che per primo
trapela in occidente,
in un’estate assetata di sera.
Così sospesa sul ciglio del tuo ossimoro,
lì dove la tensione degli opposti
si rispecchia nell’imo dell’abisso
rovesciato dell’alto azzurro Cielo,
per trovare la sua conciliazione,
sei simile alle magre
piccole spighe cerulee, figlie
dei nostri scabri cortili d’asfalto:
consuete e familiari
all’occhio26 del bambino che vi gioca,
e a un tempo così strane;
finché, cresciuto, non vi riconosce,
in un’inutile illuminazione, la
medesima sostanza di cui è fatto:
le stesse spighe da cui è generata,
attraverso migliaia
di anni di muta riproduzione,
la spiga da cui viene tutto il pane
quotidiano che ha
mangiato.
Il Canto dell’Insonne27
jErinuve"
Solo l’insonne sa come i pensieri
dentro la notte hanno veloce il passo.
Risalgono le ripide spirali
dei vortici del sangue, i neri, arti,
viscosi suoi sentieri; indisponenti,
quasi scherzando, arrivano senz’ali
dal ventre e dalla carne fino al forte
castello della mente, al Sasso Grande
del cranio e del cervello che si sporge
nell’ansia dei suoi cieli verticali.
Lì giunti, come donne quando scorgono
il masso scivolare sul cadavere,
alla celebrazione d’una morte,
declamano a gran voce tutti i mali
che gemmano e concrescono in caterva,
come piante sulla sponda d’una fossa,
nel petto, dai suoi cupi penetrali.
L’animo, tra le mura del suo letto,
bianco e nudo di solido sconforto,
che l’intelletto, come un cane esausto,
travolto di stanchezza, non difende,
ascolta e trema, volto verso il basso,
dal soglio della reggia che vacilla,
a udire la scintilla dell’incendio
della rivolta che s’avventa a trarlo
giù dal pallido trono dell’orgoglio,
dai vitrei firmamenti artificiali.
Quando interviene infine il sonno, simile
a un lieve limbo che non dà riposo,
strani sogni ti parlano nell’anima:
figli dell’ombra, spiriti
messaggeri dei Mani, ambasciatori
dei rigidi sovrani d’Oltretomba
in coro cantilenano gli oltraggi:
girano in tondo e battono le mani.
La porta dei sogni28
La digestione del Reale
La ruota della guerra
infine s’è fermata:
i denti della sega che ha fiaccato
i cardini che serrano i
ginocchi, il variopinto
gioco d’acre sudore e dell’ingegno
che s’argomenta al fine suo ostinato:
i fili, l’alluminio, il fuoco, il ferro,
la plastica ed il legno;
la trottola di fumo che frastorna
i sensi ed ingombra l’intelletto: tutto
adesso finalmente è consumato.
Quell’alito dell’aria che ritorna
dal golfo occidentale è come un sonno
in cui affonda la barca della mente:
una promessa di riposo, un solco,
un segno dell’aratro
del tempo nella polvere: il respiro
dell’alba che riporta
il corpo ansioso dell’anima insonne
al sospirato fatidico gioco
nella camera ardente dei suoi sogni.
In una sola notte di malsonno
può ben determinarsi
un rito di passaggio inconsapevole
o forse consapevole (che importa?) – che
sancisce il consumarsi del tizzone
della passione d’una vita; cenere
ne rimane. Che il vento del mattino se la porti
verso il mare, e nel salato silenzio
che mi assisté bambino si disperda,
passi la porta dell’oblio: svanisca,
mai più possa tornare.
Marzo / Le Vie delle Acque Profonde29
The Wind-ow / Giorno d’Equinozio / Il Tempo
Nuvole imboscano nuvole, pioggia
su pioggia che ricade.
mattino
Stasera sarà fosca
la faccia della Luna,
se breve apparirà – l’occhio del vento
ne perderà la traccia
sopra il groviglio delle mute strade.
Tra le radici della città sommersa,
lì dove il Tempo giace alla sua cuna,
s’allunga il giorno, come un fil di luce
tra le dita delle brune tessitrici
che brancolando cercano la cruna.
mezzogiorno
Sospesi in cielo al ciglio delle nubi, tra i
lenti sentieri in cui gravita il tuono,
salgono i gabbïani
e scendono a spirale scale nere
di vento, angeli grigi
guardiani, o messaggeri
di un Re nascosto, o forse prigioniero
in una torre azzurra, nel profondo
altissimo del pozzo rovesciato in
cui il piombo si dirada in bianco argento.
pomeriggio
Nel labirinto d’ali annunciatrici
della festa di spade e d’elementi
cui il Reggente dell’Aria con un cenno,
impaziente dell’attimo che arresta
lo sfogo dello spirito che evade
dalla stretta del gelo,
allenterà la briglia ormai a momenti,
c’è qualcosa che attende
e ancora non accade: sotto il telo
fitto e lento, color dello smeriglio,
che cade dalle nubi,
trapuntato degli aghi di quei lampi,
si prepara la scena di un Evento.
crepuscolo
L’ora veloce veleggia sul diluvio,
dove ogni foglia è un piccolo naviglio;
gonfiando di continuo il loro pelo,
sotto ogni goccia salgono le acque.
Dai piccoli ruscelli, rade piante
ancora corte emergono
di sulla terra spoglia.
Sopra ogni aspetto del mondo fugace
tutta la piana è un infinito velo.
sera
Velo sottile è il volo della nottola,
spalancata alla sera è la sua vista,
così come il suo udito, ch’è sensibile
anche solo al vibrare d’uno stelo:
la figlia del crepuscolo, inudibile,
all’aria bruna allunga le sue dita;
dal Sole per qualche ora seppellito
solo il suo grido ha ereditato il cielo.
vi. notte
Ïo sto qui, seduto
ancora in quella sera,
sulla mia poltrona azzurro-cenere,
da cui s’apre alla vista la distanza
di cose trapassate in questo giorno
che finisce, che scorrono oltre il ferro
di quella zanzariera:
di là dalla finestra spalancata
alla voglia di mare nella notte
del fiume che s’avanza;
oltre la soglia d’una stanza ferma
nel vuoto del ricordo
così come fluïsce
la mia sete di vivere,
o come l’acqua sporca
che scrive la sua ruggine
e scorre da un lavello,
o come quella scorsa dalla porta
d’una conchiglia morta nella rete,
aperta e rovesciata nella rena.
O come defluisce
la forza della vita nel
normale mulinello, o viceversa
dal taglio accidentale, d’una vena.
Il telaio dell’Io30
Il residuo del togliere / La statua interiore
La secca minutaglia dei miei giorni
s’è ora sciolta in un giro di vento:
un vortice ascendente la cattura;
sale sciamando al cielo con gli storni
nell’onda di frastuono del sospiro
dell’avvento di ancora un’altra cura.
L’occhio del cuore ormai s’è fatto acuto:
scorge tra i muri il vuoto; non dà voce
il petto: su me stesso ricaduto,
resto insaziato, torpido e feroce.
La dura e tesa corda della mente,
la cassa armonica del cranio – o ventre –
non si tarla di mal d’evanescenza
come l’estive essenze che la sfiorano
ormai senza potere innamorarla.
Solido e nudo sto, come l’avorio,
l’oro, o il piombo dei pesi d’un telaio,
una moneta che emerge dallo scavo
d’un paese a lungo seppellito,
e parla solo a chi sa interrogarla.
Il gelsomino giallo31
Il gelsomino giallo che fiorisce
nel vano silenzioso del balcone,
al suo apparire, istanzia l’ossessione che
nel concluso chiostro della mente
le sue spire invernali ingigantisce.
Serpi tra loro allacciate alla danza
d’amore le sue fronde
distese ai firmamenti; stelle aperte
nei vortici del flusso universale
i suoi spettrali fiori; e il denso odore,
sacro miele che cola dalla cella
o balsamo che esala dalle sponde
del letto sepolcrale32
d’un re detronizzato o dio del Sole.
Tutto quanto è raccolto dentro l’ombra
del testo in cui riposa la silente
attesa germinale del suo seme,
si manifesta poi,
a tempo stabilito,
in propria successione naturale:
musica delle cose che hanno vita, e
che, nell’estremo tendersi di corde
della natura sua, giorno e notte
fino a notte freme
insieme di caratteri che il dito
della necessità
tracciò con la matita grossolana
del caso, e che la somma degli eventi in
connaturata forma ha poi sancito;
una figura od orma cui le cose
vengon dietro, come i torrenti seguono
il viso delle pietre,
secondo gravità,
e obbedisce la nuvola ai suoi venti.
Così la torma dei miei sentimenti
scorre e riposa
nel letto della vita:
un’anima dà forma,
senso, consecuzione, agli atti manifesti che
rispondono agli stimoli casuali
del mondo e dell’ambiente; l’intelletto
si arrovella nel profondo
a stanare la causa dei miei mali.
Tutto il resto è sorte stabilita.
La foglia33
Questo settembre torrido
che rassomiglia a un maggio, questa strana
palude di calore in cui si ferma
ogni senso del tempo ed impazzisce
la bussola, ed illude
la direzione e il flusso del mio viaggio;
questo incrocio di strade, rotatoria,
od inversione ad U che non si sa
se porti ad un parcheggio in cui si chiuda
questo cieco girare in tondo in cerca
d’una via per cui si possa evadere;
questo sussulto grigio
d’indugi che prelude
alla fine d’una storia;
questo affilar di spade
per i nodi e le Gordio di domani,
questa attesa all’imbarco per salire a
bordo; questo prurito
e sorda voglia di menar le mani:
tutto somiglia al fremer d’una foglia
che esprime i più diversi suoi colori nel
calore occidentale dell’estate
ormai alla fine, e poi nell’incipiente
autunno inesorabile, e compensa
la morte inevitabile
di stagioni transeunti e trapassate
con la consolazione magra d’esser
l’importante e variopinta
guardiana e portinaia del confine.
NOTE
1 Pisa, notte tra venerdì 10 e sabato 11 vi 2011, h. 3 – 3,23. Derivata da un sms inviato a G.T. al tramonto di venerdì 10.
2 Pisa, sabato 11 vi 2011, h. 16 – 16,38.
3 Pisa, sabato 11 vi 2011, h. 20,30 – 20,51.
4 Pisa, notte tra sabato 11 e domenica 12 vi 2011, h. 1 – 1,40.
5 Pisa, notte tra sabato 11 e domenica 12 vi 2011, h. 1 – 1,50.
6 Pisa, notte tra sabato 11e domenica 12 vi 2011, h. 2 – 2,30.
7 Pisa, notte tra domenica 12 e lunedì 13 vi 2011, h. 2 – 2,47.
8 Pisa, notte tra domenica 12 e lunedì 13 vi 2011, h. 2,20 – 2,54.
9 Pisa, notti tra giovedì 16 e venerdì 17, tra venerdì 17 e sabato 18 vi 2011; 18 vi 2011, h. 22,35 – 24. Salerno, notte tra lunedì 8 e martedì 9 viii 2011, h 1 – 4.
10 dell’onda finalmente vittoriosa
11 Pisa, notte tra venerdì 17 e sabato 18 vi 2011, h. 1,00 – 1,40.
12 Pisa, notte tra venerdì 17 e sabato 18 vi 2011, h. 1 – 1,40. Rivista nella notte tra sabato 18 e domenica 19, h. 00,30 – 00,50. Salerno, giovedì 11 viii 2011, h. 18,30 – 19.
13 Pisa, notte tra venerdì 17 e sabato 18 vi 2011, h. 1,00 – 1,40. Salerno, giovedì 11 viii 2011, h. 23,45 – 23,55.
14 Pisa, notte tra domenica 19 e lunedì 20 vi 2011, h. 3 – 3,26. Salerno, notte tra giovedì 11 e venerdì 12 viii 2011, h. 23,55 – 00,05.
15 Pisa, notte tra lunedì 20 e martedì 21 vi 2011, h. 1 – 2; martedì 21, h. 16 – 16,20; notte tra martedì 21 e mercoledì 23, h. 1 – 1,30; notte tra giovedì 23 e venerdì 24, h. 2 – 2,50. Salerno, venerdì 12 viii 2011, h. 00,05 – 00,15.
16 Pisa, notte tra domenica 19 e lunedì 20 vi 2011, h. 3 – 3,26. Salerno, notte tra domenica 14 e lunedì 15 viii 2011, h. 1,15 – 1,45.
17 Ferrara, notte tra mercoledì 29 e giovedì 30 vi 2011, h. 23,30 – 00,30. Pisa, notte tra venerdì 1 e sabato 2 vii, h. 1,50 – 3,50. Salerno, notte tra lunedì 15 e martedì 16 viii, h. 2 – 3,30.
18 in te
19 sordi grumi
20 Pisa, 28 i 1996. Pisa, notte tra 31 i e 1 ii 1996; notte tra domenica 3 e lunedì 4 vii 2011; notte tra lunedì 4 e martedì 5 vii 2011. Salerno, notte tra giovedì 18 e venerdì 19 viii 2011, h. 2,45 – 3,45.
21 sopra lo specchio dell’acqua che si / divide in pieghe d’onde differenti.
22 sentieri
23 Pisa, martedì 5 vii 2011, all’alba; rivista h. 20,55 – 23,25. Salerno, notte tra giovedì 18 e venerdì 19 viii 2011, h. 4,30 – 5,15.
24 tessuto e nervo
25 Pisa, lunedì 5 – giovedì 14 vii 2011; 14 vii 2011, h. 21 – 24; notte tra sabato 16 e domenica 17 vii, h. 23 – 00,42; domenica 17 vii, h. 22 – 22,30. Salerno, venerdì 19 viii 2011, h. 20,15 – 20,45.
26 per l’occhio
27 Incipit: Pisa, 6 – 8 vi 1998. I strofe: Pisa, notte tra mercoledì 20 e giovedì 21 vii 2011, h. 1,54 – 4,03. Sviluppo: notte tra giovedì 21 e venerdì 22 vii 2011, h. 22,05 – 00,50. Correzione: Campagna (SA), venerdì 18 viii 2011, h. 20,45 – 20,55.
28 Salerno, 8-9 vi 1998; 13 vi 1998. Pisa, notte tra sabato 23 e domenica 24 vii 2011, h. 1,30 – 4. Campagna (SA), venerdì 18 viii 2011, h 20,55 – 21,50. Salerno, notte tra domenica 21 e lunedì 22 viii 2011, h. 00,00 – 00,15.
29 Pisa, mercoledì 13 iii 1999; mercoledì 6 vii 2011; notte tra domenica 24 e lunedì 25 vii 2011, h. 00,00 – 2,00. Salerno, notte tra domenica 21 e lunedì 22 viii 2011, h. 1,30 – 4,45. Parte VI: Salerno, martedì 23 viii 2011, h. 19,30 – 20,30; notte tra martedì 23 e mercoledì 24, h. 17,45 – 19,15. Pisa, notte tra mercoledì 31 viii e giovedì 1 ix 2011, h. 1,10 – 1,15.
30 Pisa, 30 ix 1999; 2 x 1997; 5 vii 1998; notte tra lunedì 25 e martedì 26 vii 2011, h. 2 – 2,46.
31 Salerno, 1998. Pisa, notte tra giovedì 28 e venerdì 29 vii 2011, h. 23,30 – 2,20; notte tra sabato 30 e domenica 31 vii 2011, h. 2 – 3,55. Salerno, notte tra lunedì 22 e martedì 23 viii 2011, h. 2 – 3.
32 del sepolcro
33 Pisa, notte tra sabato 3 e domenica 4 ix 2011, h. 1,30 – 4.
mercoledì 26 ottobre 2011
Elisabetta Brizio, “'Ceci n’est rien, Ceci n’est pas rien'. Nota a 'Sei sestine su nulla' di Matteo Veronesi"
Ermetiche, ipnotiche, di difficile caratterizzazione, stranianti fin dal titolo, queste Sei sestine su nulla si snodano in sei enigmatiche sestine, ognuna delle quali presenta, come da regola, un congedo di tre versi. Ossessivamente, lungo tutti i versi risuonano le stesse parole-rima – che per la loro ricorrenza assumono valore di parole-chiave: «nulla», «morte», «silenzio», «tempo», «fine», «vuoto» – in ordine variato secondo la retrogradatio cruciata. Ma al parallelo fonico non consegue l’istituzione del corrispettivo semantico, nel senso che intendimento dell’autore non sembrerebbe quello di voler moltiplicare la risonanza dei termini pseudo-emblema o di fissarne le diverse gradazioni attraverso una ossessiva ripetizione, come potrebbe accadere anche con un prolungatissimo calembour. Né le parole-chiave sono connotatori del testo, ma topoi niente affatto archetipali e solo graficamente mutanti di una nihilitas senza ulteriori implicazioni, denominazioni straniate, dunque svincolate tanto dall’emblematismo segnico che da ogni loro nesso referenziale.
Quello che fa apparire inconcepibile quest’opera, benché concepita, è in primo luogo l’incongruenza tra il titolo – in particolare, tra la preposizione «su» che figura nel titolo – e il testo, un testo altamente strutturato, di duecentotrentaquattro versi che con disposizione tutt’altro che antisistemica si intrattengono esasperatamente sul labilissimo consistere del non luogo, del non tempo e del non senso. Instabile essere che l’autore sembra formalmente esaustivare e far evolvere secondo una logica strutturale, vista la rigorosa ripartizione dell’opera in versi regolarissimi, come pure il suo svolgimento nell’avvicendarsi di componimenti che esteriormente paiono tematizzare ognuno un’idea a sé (malgrado i singoli titoli figurino, emblematicamente, tra parentesi, a rimarcare la assoluta marginalità e la fallacia di ogni variante di trama), dato che è un’opera titolata, pertanto vettorizzata verso qualcosa che tuttavia alla fine si elide e non si rivela: non c’è elemento che sfugga alla unitonale Stimmung di questa verseggiatura che elude ogni possibilità di focalizzazione.
Sei sestine su nulla non traduce l’intenzione di solennizzare la bella morte, né costituisce un’ode letificante al nichilismo o una allusione a una fondazione estetica non attuabile in pieno, o il documento di un itinerario orfico privo di speranza di retrocessione. Le parole qui non parlano di nulla, ma parlano – senza categorizzarlo – del nulla, e dal nulla, dall’altezza oscura del non essere – de nihilo, de nihilitate loquuntur. E il punto di vista inevitabilmente non trattiene quasi alcunché di umano, sebbene alcuni lemmi od occasionali locuzioni, tendenzialmente sempre sul segno di smaterializzarsi e di uscire dai confini del soggettivismo verbale, rimandino alla vita e a un soggetto lirico evanescente, sofisticato, esitante sofista di facciata, abissalmente distante dall’esperienza, stuporoso in false anafore e naufragato nella pervasività uterina e oceanica di un nulla che si fa argomento. Un io lirico non egoriferentesi e carente di consistenza identitaria, ma con ciò non del tutto estromesso ed eclissato (giacché esordisce quale soggetto della volontà, si percepisce in qualche isolato possessivo e in sequenze dialogizzanti, per poi estinguersi insieme al testo), seppure scarsamente identificabile, il quale – in assenza di determinazioni ideologiche o psicologiche che lo qualifichino – attraverso il suo accortissimo oblio umanizza lievemente, già dal suo esordio, il contesto falsamente epico-cosmogonico con un argomentare di remote arcanità che perde irrevocabilmente spessore negli anticlimax dei congedi.
Evidenti sono l’indeterminazione e la conseguente svalutazione dei dati sensibili e degli eventi laterali, in virtù dei limitatissimi riferimenti esterni, i quali rientrano peraltro nella dimensione accessoria dello sfondo; scarso risalto e pressoché alcun rilievo cromatico assumono gli essenzialmente aniconici referti iconografici, deprivati della loro pregnanza a vantaggio della condizione dell’inorganico, fattori che non concorrono comunque alla delineazione di una forma di essere declinante nel nulla, e meno ancora paiono esser assunti per l’edificazione di un testuale differimento omofonico. E nel discorso monologico di un soggetto lirico che si autosorveglia nessuna risposta – o unicamente qualche simulacro di riscontro, o una ipotesi di risposta formulata nel corpo della stessa domanda – ricevono le interrogazioni che compaiono nella terza sestina, che con qual certa indifferenza si volgono alla ricerca di un contenuto e di una trama plausibili, quasi stupefatte rivelazioni tautologiche, che restano sospese e si dissolvono nel glaciale silenzio del complessivo milieu estensivamente nullificante.
L’idea di fondo è quella di verbalizzare una paradossale ciclicità, una circolarità del nulla, la vacuità del pensiero prigioniero di sé stesso, che ruota intorno o dentro il proprio nucleo fatto di vuoto e di darkness, facendo riecheggiare virtualmente e virtuosisticamente lo stesso lemma, lo stesso onnipresente nucleo semantico (i quali, del resto, sono nulli, sono anch’essi nulla), con definizioni dissimili che assumono uguale valore di equazione.
Veronesi utilizza parole sempre diverse e variamente distribuite (non figura un verso identico a un altro) per esprimere, anziché uno scarto di senso, lo stesso fondale di silenzio e di senso, o di non senso; e la stessa parola, lo stesso verbo non dicibile e non sondabile, decurtato del suo potenziale di disvelatezza, «non pronunciante ancora e impronunciato», come in Eliot tradotto da Montale, traspare – si adombra, si manifesta in forme sempre parziali – nella varietà dei versi e delle strofe senza tuttavia dar luogo a un processo di evoluzione atto a incrementarne la componente semantica. Se la retorica come repertorio di ornamenti si avvale della attitudine linguistica a traslare o a ripetere la stessa cosa con espressioni differenti, qui non si sta comunque allegorizzando su nulla, e neppure sul nulla. Ogni denominazione, non solo le parole-chiave, è simbolo fallace, indizio che non informa – pur essendo essa marcatamente aggettivata, oggetto di una pulsione, di un discorso, di un intento in apparenza descrittivo o evocativo, non già performativo – e una volta proferita perde in densità semantica e assume una valenza inerte, finendo per vanificarsi nella gradazione della dilatazione cosmica della non esistenza.
Chi legge, e ancor meglio chi ascolta, ha la sensazione di sentir ripetere invariabilmente lo stesso suono, o addirittura la stessa sillaba, vale a dire lo stesso principio generatore in cui l’io (il Moi pur di Valéry) si è deliberatamente e consciamente annullato, estinto; ma senza riuscire a sceverare distintamente, nel mormorio continuo delle figure etimologiche, di che parola si tratti. Parole, dunque, quelle chiave, non eteroriconducibili, non simbolizzanti, mai individualmente caricate di un qualche valore, se non emblematico o valutativo, perlomeno assertivo, ma rinvianti a un nulla onnipervasivo e latamente lessicalizzato.
I protagonisti di queste sestine sono allora linguaggio e forma, che preesistono al soggetto, ma che il soggetto adotta, sostenta e fa sussistere all’interno del proprio pensiero nel momento stesso in cui ne viene ispirato, instradato, vissuto, detto, sostantivizzato. E lo trasvaluta attraverso l’espressione. Qualcosa di analogo accade della realtà, della natura, del mondo esterno: dentro (come percezione), e insieme fuori (come effettualità e realtà tangibile) di noi; l’uomo è parte di una natura che a lui preesiste, dunque è egli stesso natura – ma anche natura umana, autocosciente proprio in virtù del linguaggio e del pensiero, contrapposta alla coscienza non riflessa, istintuale, trasmessa e declassata della natura esterna e fenomenica, di tutto ciò che non siamo noi.
La regola aurea che ispira l’autore è l’attenersi a una configurazione che potrebbe reiterarsi all’infinito, essendo sempre inarcata su sé stessa, a sé stessa incatenata, connessa e rinviante, là dove ogni punto d’interruzione risulterebbe illegittimo. Come in uno spazio riemanniano, in un nodo di Moebius. Questo benché il sei abbia un valore simbolico, anzi, una multiversa molteplicità di valori simbolici verso i quali il lettore potrebbe orientarsi; come l’Hexameron, i giorni della creazione, cui segue il silenzio del riposo. In ogni sestina figurano sessantasei sillabe moltiplicate per sei, cui si aggiungono le trentatré del congedo (non compaiono versi tronchi, né sdruccioli). Quattrocentoventinove sillabe in ogni sestina, duemilaseicentocinquantaquattro sommando tutte e sei le sestine. Quindici e diciotto, sommando, rispettivamente, sono le singole cifre che compongono ognuno dei due numeri appena menzionati. Multipli di tre, dunque, che producono particolari effetti, come nelle serie numeriche che governavano e scandivano la struttura del Templum Salomonis.
Una caratterizzazione euritmica, un edificio che canta, per dirla ancora con Valéry. Come se la triade potesse – come infatti può – essere infinitamente moltiplicata, e dunque infinitamente celebrata, pur nella corona di nulla che la cinge, nell’orlo di tenebre che la alona. Altro è allora il tempo: dissidio tra una temporalità non frazionabile e la frammentarietà di una nihilitas multivocamente nominata, pervasiva e che si svolge nel tempo, stilato qui perlopiù quale dilatazione dell’infinito e dell’indicativo presente, forma verbale, quest’ultima, talora propria della pulsione a recuperare il tempo attraverso una emendazione retrospettiva, o dell’inconscio che si riattualizza, ma che soprattutto dà la misura del genere dello status-nulla come inattuazione, presenza mancante o non raffigurabile.
Il riferimento alle Variazioni su nulla di Ungaretti è evidente. «La mano in ombra la clessidra volse, / E, di sabbia, il nonnulla che trascorre / Silente, è unica cosa che ormai s’oda / E, essendo udita, in buio non scompaia». L’esistenza non è nulla, non è nihil, cioè nessuna cosa. È non-nihil, qualcosa, non-nulla, magari cosa inconsistente e impercepibile, emancipazione dalla prospettiva dell’hoc nihil est per quella dell’hoc non est nihil.
Ma, appunto, un «nonnulla», qualcosa di ineffabilmente essente, un’essenza esilissima, una voce precaria, fragilissima, appena un tono al di sopra del nulla – una essenza che non può definirsi che in relazione a quel vitale e oltreumano nulla cui è congenita e consustanziale –, un quasi silenzio, un tenuissimo assiduo mormorio che scandisce il fluire e lo sfaldarsi dei giorni, già di per sé tesi e destinati al nulla.
L’effetto della lettura può essere quello di una ebbrezza dionisiaca, emotiva, delirantemente intellettuale – un mindfield, un po’ alla Gregory Corso, con tutt’altre motivazioni ed esiti –, cerebrale, che può tradursi però non in estasi, ma piuttosto, se così è possibile dire, in sbornia nauseabonda, in sordo e ottuso stordimento, simile a un occhio di bestia spalancato. Non solo sfilano ossessivamente le medesime parole-adombramenti ogni volta lievemente o solo apparentemente mutanti di senso, ma anche lemmi diversi che si equivalgono o fanno capo alla dominante – non designabile in senso proprio – nomenclatura dell’essere nulla. Una imitazione dell’immobilità, della permutabilità fallace di una modulazione viceversa inibita, arrestata, della non entità in un contesto sfumato ancorché fittamente sinestesico. Una sospensione insensata, o un vertige fixé (come scriveva Gérard Genette a proposito di Alain Robbe-Grillet), un divenire, che la ripetizione di termini interscambiabili evoca, eternamente gravitante intorno a sé stesso senza, per l’appunto, divenir niente, senza trasmutare in esperienza.
L’esaurimento, lo svuotamento della forma, che alla fine si annichila essa stessa, assimilandosi alla omocronia di un’onda ritmica non orientabile che potrebbe andare avanti all’infinito senza altro aggiungere (anzi, affermando e risillabando un nulla come apostrofe e paradossale compensativo, dettato intenso e quasi irridente) riflettono quelli, analoghi, del soggetto e del linguaggio, e specularmente del linguaggio nel soggetto, del soggetto nel linguaggio. Ma si tratta, attraverso il meccanismo letterario, di un nulla consapevole di essere tale, di un nihil cogitans – mentre il nulla di tanta comunicazione contemporanea è persuaso, o dà per scontato, di essere qualcosa, quando non di essere dogmaticamente tutto. Qui, al contrario, il fattore di somiglianza tra le parole (e la somiglianza ha eminentemente a che fare con il pensiero), in assenza di un riscontro significativo, dà luogo a una messa in opera di un quasi provocatorio non pensiero. Alla insensatezza e alla vacuità di un nulla – del mondo e della parola – come agone, reificato ed entificato, ibridato con autentica merce o materia che si danno come realtà, talora come l’unica realtà possibile, condizione suprema e significante, viene messa di fronte la compiutezza del nulla, la configurazione critica del pleroma di una nullità svelata a sé stessa per via di autocoscienza.
Alla catena di sestine – che in fondo è immagine mobile dell’infinito, imago aeternitatis non meno che imago nihilitatis, giacché potrebbe non fermarsi mai e ogni punto qualsivoglia in cui la si arresti è comunque arbitrario – sembrerebbero esser correlati un destino scelto, un amor fati, una autoimposizione, come un sacro voto, o una maledizione, o la decisione di morire, o quella di continuare a vivere, o di riprodursi, eternizzarsi, o al contrario di troncare con sé e in sé, illusoriamente, la catena della vita, la continuità naturale dell’umano. Ovvero, una coazione, in senso freudiano, a ripetere quelle sei parole-chiave che sono esse stesse nuclei e segmenti di verità essenziale, coaguli semantici, per così dire, di essere e nulla, di esistenza e morte, di un nulla pervasivo e contaminato di altri adombramenti di senso propri di denominazioni singolarmente non significanti e molto prossime alla sinonimia. «Essence is like absence of reality, / Just like absence of non-reality / Is the same essence anyhow», scriveva Jack Kerouac.
Una sestina esatonica – congiungimento di calcolo e indeterminatezza, forma e nebula, predeterminazione e associazione casuale, come nei simbolisti – tra i cui versi, o al di sotto di essi, si avvertono o si intuiscono anche i lineamenti di una struttura musicale che può richiamare il Bach dell’Arte della fuga, o la musica dodecafonica con le sue serie: ricordiamo la Lamentatio Doctoris Fausti – non a caso con caratterizzazioni nichiliste – nel romanzo manniano, là dove il protagonista Adrian Leverkühn restituisce ordine e normatività compositivi a una musica come folgorazione soggettiva attraverso una riorganizzazione sub specie seriale del paradigma temporale.
La musica – con i suoi accordi, battute, tempi, frasi – è scandita da immateriali e spirituali rapporti aritmetici, forse da qualcosa di simile all’algebra spiritualis di Gioacchino da Fiore; ovvero, come pressappoco diceva Leibniz, essa è un occulto esercizio di aritmetica eseguito dall’anima non consapevole di numerare. Nella maggior parte dei casi la musica è fondata sulla programmatica casualità delle scelte, ma che esse stesse per negationem evocano e presuppongono la norma, che è attesa e aspettativa nell’ascoltatore, nel momento stesso in cui la sovvertono, e che, soggiacenti a una fatale casualità così come la poesia formale lo è alle strutture, al metro, alla rima, non sono affatto più libere: sempre vincolate, non alla norma, ma appunto alla imprevedibilità, e forse più schiave ancora, dal momento che la norma, in qualità di realtà condivisibile, è in ogni caso l’esito di scelte del tutto umane, e muta e può mutare nel tempo e nella storia, mentre il caso è ab initio, ed eterno, e sempre sul punto di coercire, sempre riaffiorante, infinitamente uguale e infinitamente diverso.
Paradossalmente, allora, proprio la forma chiusa impone a volte deliberazioni fortuite – ma di una casualità entro certi limiti programmata, contemplata e prevista dall’artificio metrico –, dettate dalla forma stessa in misura almeno uguale a quella in cui a promuoverle e stabilirle è il pensiero poetico; che comunque è diverso, e uguale, per ciascuna delle sestine, come esplicitano – o non esplicitano – i loro titoli: (Specchio del nulla), (Canto del vuoto), (Parola del silenzio), (Il canto che perdura), (Parola morta), (Parola risorta e rimorta).
Al lettore-collaboratore che sia attento e partecipe l’incarico di proseguire questo criptico e vertiginoso discorso poetico essenzialmente incompiuto e condotto bifrontalmente, con illogica grammaticalità, con metodicissima perizia sillabica e di metrificazione espropriata di telos, la vigile ecolalica deriva di un soggetto lirico di per sé euritmicamente proiettato verso l’infinito – un infinito in miniatura, schema a priori di una infinita serie.
Elisabetta Brizio
Civitanova Marche, settembre 2011
Il testo delle Sei sestine può essere gratuitamente scaricato da questo collegamento.
domenica 2 ottobre 2011
LA POESIA FRA LIRISMO E SPERIMENTAZIONE
Riprendo qui un intervento altrove occasionato da un cortese commento di Leopoldo Attolico: un poeta di valore, capace di conciliare lo sperimentalismo stilistico, brioso, a volte quasi beffardo, con la consistenza ontologica, rivelatrice, quasi sapienziale, della poesia. Scriveva, ad esempio, nella sua raccolta d'esordio, che la poesia è «una comunione con l’ultima ruga d’ombra nascosta / di una navata: la “sua” navata la poesia / effusiva e gelida; / tormentata da un’unghia d’angelo / che non è mai cresciuta». Insomma una parola capace di illuminare e di dire, di portare alla luce dell'espressione, la piega nascosta del reale, l'intercapedine indicibile ed inafferrabile in cui si nasconde il senso delle cose, come inafferrabili, quasi immateriali sono, nella natura, i costituenti minimi della materia.
Che cos'è la poesia pura? Che cos'è la lirica? E l'antilirica? Il lirismo e l'autonomia della letteratura escludono forse a priori la narrazione, la contaminazione, il riferimento al reale, la sperimentazione sitlistica? Certa poesia riduttivamente ed ostentatamente impura, indistinta da una prosa appena scandita e ritmata, si risolve in un minimalismo asfittico, senza luce e respiro.
Ma il minimalismo, nella misura in cui è poeticamente valido, è un minimalismo lirico. Guardiamo alla lirica greca: essa abbraccia Saffo, Alcmane, ma anche Archiloco: in ogni caso, lirismo come espressione autocosciente della soggettività creatrice, sia nella forma dell'idillio naturalistico che in quella dello sfogo violento, dell'invettiva, del realismo più crudo. La poesia o è pura e lirica, o non è poesia. Si rischia, certo, di tornare, in questo modo, a quella tautologia in cui in fondo finì per risolversi il crocianesimo (poesia e non-poesia: e certo banalizzo manualisticamente, per brevità, il pensiero di Croce).
Ma, piuttosto, l'idea è quella di avvicinarsi alla religio litterarum dei Vociani: che leggevano, con uno spirito non dissimile (sempre basato sul valore assoluto della parola come ricerca, mediazione, interiorizzazione trasfigurante e metamorfosante del dato esperienziale ed esistenziale), Dante e Petrarca, l'impuro e il puro, la molteplicità inesauribile dei registri stilistici e dei piani di realtà così come la sublime monotonia, il soavissimo mormorante monologion, del soggetto dolente e poetante. Su questa base si potrà forse superare la preconcetta, spesso pretestuosa o interessata, contrapposizione fra una poesia lirica, neo-simbolista o neo-ermetica, e una, invece, realistica, straniante deformante, violenta.
Vi è, a tratti, lirismo in Sanguineti, ed è forse il Sanguineti migliore e più duraturo ("ma vedi il fango che ci sta alle spalle, / e il sole in mezzo agli alberi, e i bambini che dormono: / i bambini / che sognano (che parlano, sognando); / (ma i bambini, li vedi, così inquieti); / (dormendo, i bambini); (sognando, adesso):": un lirismo sommesso, da berceuse, quasi pascoliano, pur permanendo la frammentazione sintattica, la versificazione basata sulle unità logiche più che sulle sillabe); e possono esserci realismo e asprezza in Luzi ("Muore ignominiosamente la repubblica. / Ignominiosamente la spiano / i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti. / Arrotano ignominiosamente il becco i corvi nella stanza accanto").
La poesia è poesia: ma, oggi (tanto sul versante sperimentale che su quello neo-simbolista), non più come intuizione lirica o come sintesi a priori, bensì, al contrario, come coscienza critica che il poeta ha del linguaggio e del proprio operare.
M. V.