Iniziamo, con questo pregevole e partecipe profilo di Remo Pagnanelli, poeta e critico marchigiano prematuramente e tragicamente scomparso (profilo redatto da Guido Garufi, che con lui condivise anni di appassionata militanza culturale), quello che vorrebbe essere un discorso circa l'identità culturale marchigiano-romagnola, le cui radici affondano nell'humus della cosiddetta "scuola classica" sette-ottocentesca, e che ebbe in certo Leopardi la sua eredità e il suo esito più alti e duraturi. Un classicismo, o meglio una classicità, che pure, al pari della pur modernissima coscienza poetico-critica di Pagnanelli, esploravano le cave e risonanti profondità della terra, dell'origine, del primordio, dell'Heimat, del Grund fondato sull'Ab-Grund, dell'epifenomeno che lascia intuire, se non vedere facie ad faciem, l'oscurità del gorgo e dell'intreccio di vita e morte, genesi ed annientamento, che vi sono sottesi, ed inesplicabilmente, enigmaticamente lo sorreggono.
Negli Idilli di Mosco prima Virgilio, poi Leopardi trovavano il suono, la voce stessi della natura, la sua vitalità assidua, sorda, fonte e ragione ed esito di se medesima, perennemente fasciata dal silenzio, o da una cortina di soffi aliti e sussurrii levati poco al di sopra della quiete assoluta, imperturbata, ultima e prima: "Allor sicura, e salda / Parmi la terra, allora in selva oscura / Seder m’è grato, mentre canta un pino / Al soffiar di gran vento", come pure l'onnipresenza arcana, cupamente risonante, della morte che pervade il grembo stesso della natura, la fibra sostanziale dell'esistere, dell'essere nel mondo, il severo monito fatale dell'et in Arcadia ego: «in tuon lugùbre / Or vi dolete, o piante; or vi sciogliete, / Oscure selve, in teneri lamenti». La voce della natura può cullare il sonno («saepe levi somnum suadebit inire susurro»), allontanare con un velo di suoni lievi e di ineffabili mormorii il fragore doloroso del tempo e della vita - ma può anche preannunciare, ed accompagnare, l'ombra della morte. E la parola del traduttore-esegeta-ricreatore, del poeta-critico, la tensione espressiva del discorso critico-creativo, discendono fino al cuore di questo luminoso mistero naturale, di questo innato "mistero in piena luce", assecondando le vie tortuose ed opache del linguaggio.
In questa meditazione della morte, in questa ininterrotta variazione su un quasi-silenzio, su una sorta di latente ed ascoso "rumore bianco", risiede forse l'essenza stessa di ogni moderno classicismo, la matrice di quel "desiderio vano de la bellezza antica" che ne sta alla base e lo motiva. Non a caso, su «Hortus», nel dicembre dell''87, Pagnanelli accennava, a proposito della matrice profonda dei poeti marchigiani, eredi (lo volessero o meno) di Leopardi, per ragioni storiche non meno che paesaggistiche, a un "classicismo non classicista", aperto all'ascolto della parola poetica come Voce dell'Origine, alla possibilità di un ritorno della, e alla, antiqua Mater, di una «risurrezione tragica della Madre Morta», di «una riemersione del sacro, pur nell'alveo dela materia», senza uscire dunque dalla matrice del linguaggio, e perciò da una sorta di storicità trascendentale, definita per via di continuità e di eredità diacroniche e nondimeno tesa ed ancorata a valori superiori, ad invarianti adamantine (si pensi allo Scataglini di Rimario agontano e di El Sol, che nel suo eruditissimo, e insieme popolare, comune ed universale, vernacolo, nella sua lingua vergine, e insieme satura di tempo e di memorie, ascolta il «sussurro del niente», «el senso inaudibile», il «recesso mentale / d'una domanda elusa»).
Pagnanelli stesso - pur "assolutamente moderno", vicino alle correnti più vive del dibattito ideologico e metodologico contemporaneo, e anzi sostenitore fino alla morte, fino al sacrificio, fino ad una disperazione tesa, fiera ed eroica, di un ideale di rigore metodologico e di coerenza etica e culturale inj un'era dominata dall'effimero, dal vano, o da un tecnicismo e da una professionalità gelidi, disanimati, inumani - non fu lontano da questo spirito: lui che, nei postumi Preparativi per la villeggiatura (quasi un lucidissimo e raggelato testamento spirituale), cantava la «mitezza limbale / di un eterno e immoto volto», il «sonno senile d'un soffio d'acqua / la cui voce tace»; lui che, in veste di critico (ad esempio in Sereni: il silenzio creativo, «Punto d'incontro», VIII, 1986, n. 10), sapeva captare e fissare sulla pagina tutte le risonanze e i perturbanti chiaroscuri della lacaniana beanza, della defaglianza, del Vide mallarmeano, della sereniana "vacanza", insomma della ferita e dello iato ceh dividono, in modo lacerante, la parola dall'essere, e il soggetto da mondo - e «fissare costantemente», sulle orme del suo Sereni, «il colore del vuoto», «toccare e alitare il silenzio» con l'ala della poesia (come con le oraziane e foscoliane «fredde ali» della morte) - infine opporre, almeno fino a quando gli fu possibile, o ebbe ai suoi occhi ancora un senso, un'amara e distante ironia, scevra di false certezze o consolanti illusioni, alla fissità gelida e tentante della disperazione e del nulla.
Non è casuale che Paganelli abbia trovato prima un amico, poi un interprete fedele e simpatetico, in Guido Garufi, che nel suo luziano Canzoniere minore scriveva, cogliendo l'essenza del messaggio, della testimonianza, del testamento che la parola poetica si ostina a gettare verso la posterità: «Con timidezza e con pietà / la lettera brilla dalla pagina / con l'augurio di una voce impossibile / lascia il segno lo scriba». Proprio questa "voce impossibile", che continua a risonare, e per così dire a risplendere, dall'opacità e dalla bruma di un'era disattenta ed immemore, ancora ci parla e ci parlerà, attraverso il prisma e lo schermo, multiformi ed amplificanti, della sintonia intellettuale ed umana e dell'impegno ermeneutico. Nemmeno la morte può spegnere questo mentale, tormentoso scintillio. Anche i frantumi di uno specchio continuano a papitare di luce, come suggeriscono i versi di Un posto di vacanza, il poemetto di Sereni tanto caro a Pagnanelli. «Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli».
Con lucidità e chiarezza, senza orfismi specialistici, Garufi coglie il duplice nesso (a sua volta, per così dire, ravvolto e ripiegato su se stesso), di vita e letteratura da un lato, poesia e critica dall'altro, e in parallelo. Poesia e critica legate l'una all'altra perché entrambe specchi dell'esperienza esistenziale; vita che si specchia nella letteratura, e viceversa - e l'una e l'altra, insieme, nel prisma della riflessione metaletteraria.
Nell'era della superficialità, dell'effimero, dell'insensatezza (nel tempo della povertà, diceva il filosofo), e, anche nel campo degli studi umanistici, del tecnicismo vuoto, dell'erudizione insensata, del conformismo metodologico, dello spesso pretestuoso apriorismo ideologico, Remo pagò questo suo impegno raro e vitale con l'estremo sacrificio. Sotto certi aspetti, si può dire senza eccesso e senza retorica che fu un martire (proprio nel senso di "testimone", di portavoce e di incarnazione di valori perenni in un'era bestialmente avvinghiata, direbbe Nietzsche, al "piuolo dell'istante").
Come Michelstaedter, come Pavese, come Bianciardi, come Giorgio Cesarano. Martire dell'autocoscienza, dell'impegno, della sollecitudine pensosa, della devozione alla Parola che salva e redime (anche a prescindere da qualsiasi prospettiva religiosa nel senso tradizionale e confessionale). Continuare a rievocare e a far risuonare le sue parole è un modo per prolungare ostinatamente questa sua testimonianza, questo suo martirio - a protrarre e perpetuare indefinitamente la sua vita nel momento stesso in cui si prolunga, in qualche modo, la sua morte, così satura di significati e di enigmi.
M. V.
Remo Pagnanelli. Il ruolo della poesia
Nel panorama del secondo Novecento Remo Pagnanelli rappresenta indubbiamente un punto di riferimento significativo sia nell'ambito della poesia che in quello più generale della critica letteraria.
Un grande lettore di testi, un lettore trasversale si potrebbe dire, proprio nel senso che i suoi interessi abbracciano territori eterogenei, da quelli più strettamente critici e storiografici, al campo della filosofia e dell'ermeneutica. Ed è proprio in tale direzione che si può leggere l'unicità della figura di questo autore.
L'accanimento frenetico, la curiosità, l'empatia nei confronti della scrittura, costituiscono per Remo Pagnanelli un'asse e un orizzonte fondamentale, fin dai primi studi, a partire da una importantissima monografia su Vittorio Sereni del quale fu amico.
Vita e letteratura, diario giornaliero e pagina, si intersecano in modo vitale e indissolubile, il pensiero dominante della funzione del ruolo della poesia e del poeta, la riflessione "politica" sulla stessa genesi e funzione del testo (in questo senso, appare eccezionale il contributo critico della monografia pubblicata per Franco Fortini).
Insomma, chi ha conosciuto Remo da vicino, conosceva questa doppia valenza, questa doppia forza che agiva costantemente in lui, incessantemente. E proprio dentro questa dinamica di incessante movimento e metamorfosi si deve leggere Pagnanelli.
Non a caso, insieme ad alcuni amici marchigiani, è uno dei promotori, verso la fine degli anni ‘70 e metà degli anni ‘80, di convegni e di meeting. Fonda, insieme a Guido Garufi, la rivista di critica letteraria " Verso”, all'interno della quale giungono contributi importanti. Se si scorrono i titoli dei numeri, ci si accorge immediatamente da quale "scuola " provenisse il suo modo di operare, un modo che vorrei chiamare "umanistico": la rivista non era una semplice collazione di recensioni ma, al contrario, in ogni numero, dibatteva un tema monografico, come ad esempio il tempo, la storiografia, la traduzione, il grande stile.
Il che la dice lunga sul suo modo di intendere la poesia e, più in generale, quella che per comodità viene chiamata attività letteraria : una sorta di "problema", vale a dire un "oggetto" intorno al quale parlare e dibattere, un oggetto importante, non un insignificante dopolavoro o una semplice ricreazione. Una serietà, allora, nell'affrontare i testi, nell' approcciare i problemi. Le griglie critiche che Remo Pagnanelli usa nei suoi studi sono, come le sue letture, griglie polivalenti, dallo strutturalismo alla psicoanalisi, dall’ estetica alla critica stilistica e simbolica.
Manca, nell'attuale panorama italiano, un critico di questa caratura. La poesia procede dalla prima piccola plaquette Dopo fino a Preparativi per la villeggiatura, pubblicato postumo e dedicato al suo secondo grande amico, Giampiero Neri.
Elemento strutturante di tutte le raccolte è una sorta di domanda, che sta tra invocazione e dialogo con una mancanza, non con una assenza. In una parte delle raccolte il "tu" dei poeti è una donna alla quale non viene destinata la funzione liberatoria o cristòfora, come accade di leggere per esempio in Montale, quanto una sorta di dissolvenza e nebbiosità e struggente elegia presente invece nel "suo" Sereni.
Da questa partenza che produce una inversione apparente dello Stilnovismo, Pagnanelli procede nelle altre raccolte concentrandosi sul tema del tempo e dell'oltranza, di un altro mondo che tuttavia lascia, o meglio imprime, forti "rispecchiamenti" nella geografia naturale, con grande preminenza, anzi con imperativo primato della simbolica dell'acqua (si può notare la foltezza della citazione acquatica, dal fiume alla lacrima, fino al "fondamentale" mare).
C'è in Pagnanelli questa sorta di mitologia della "vacanza", o euforia della vacanza, di labile derivazione adorniana, ma, in verità, lascito centrale, ancora, del "suo" Sereni, ad esempio quello che scrive quel famoso verso-emblema:“ solo vera è l'estate".
Pagnanelli è come se volesse trovare nella natura una ragione, una “ numinosità”, per usare un suo termine, e in qualche modo tenta questa strada, tenta cioè di scovare il linguaggio della natura. Si deve leggere, a tal proposito, un importante contributo critico sul tema poesia-natura in Leopardi, un piccolo e concentrato saggio di altissima penetrazione che certamente chiarisce o comunque fornisce una lente adeguata per la ulteriore lettura delle sue raccolte.
Non a caso questo paesaggio e questa natura si animano di segnali e forze misteriose, di voci, di "entità", tutti elementi attraverso i quali si tenta il recupero di una qualche metafisica che Pagnanelli distende o meglio articola sul paesaggio. Ad una lettura più attenta si può scorgere come questa attenzione derivi, per chi lo ha conosciuto e per chi ha letto i saggi critici, da una pluralità di testi teorici anche di area teologica, che in qualche modo costituiscono una "energia" riflessiva che poi si traduce nei versi. In numerose interviste ha dichiarato che il "poetare" è molto vicino al martirio, proprio nel senso radicale ed etimologico. La poesia è testimonianza, è agonistica e antagonistica, è, come andava ripetendo ancora da Sereni, un "organismo vivente". Non si creda tuttavia che l'antagonismo di cui si parla sia semplicemente da includere nello stretto perimetro di una dialettica tutta interna al fatto letterario, quanto invece, anche, dentro il ruolo che la poesia giocherebbe nel campo più generale della vita, una poesia capace di essere anche " passione e ideologia", poesia che tenga conto delle ragioni espressive e del grande e inevitabile asse semantico. Una poesia capace di "argomentare".
La rarità di questa posizione che Pagnanelli incarnò nella doppia funzione di poeta e di critico, è davvero esemplare, ancora di più oggi, dove si segnala un eccesso di "scrittura" che sembra provenire più o da un abile (ma senza echi letterari) laboratorio o, nel peggiore dei casi, da "ganci" o "pretesti" meramente tematici, una scrittura, insomma, certamente lontana da quella idea di poesia e di letteratura nella quale Pagnanelli credeva e per la quale è indubbiamente vissuto. Non tuttavia una posizione decadente, più precisamente vita che si identifica nella letteratura, ma più semplicemente, la vita e la letteratura in un unico cammino: “ nel mare allora andando in un'oscurità maggiore\ sogna l'alito di Dio e vedine la chiarità che salva".
Guido Garufi
Nota biografica
Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato nel 1955 a Macerata, dove è morto nel 1987.
In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell'esistere. Lettura dell'opera poetica di Vittorio Sereni (Milano, Scheiwiller, 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Latina, Di Mambro, 1985), Fortini (Ancona, Transeuropa, 1988), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste (come «Alfabeta», «Otto/Novecento», «Letteratura Italiana Contemporanea»), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Milano, Mursia, 1991). Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forlì, Forum, 1981 e Musica da Viaggio, Macerata, Olmi, 1984), due raccolte (Atelier d'inverno, Treviso, Accademia Montelliana, 1985, Preparativi per la villeggiatura, Montebelluna, Amadeus, 1988), e postumo Epigrammi dell'inconsistenza (Grottammare, Stamperia dell'Arancio, 1992). II tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (Ancona, il lavoro editoriale, 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale «Poesia Aperta» Milano (1990).
II suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi, sono confluiti presso I'Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze.
La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della "frontiera" (come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni) che lo separava dall'utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci, con la loro immagine, di metabolizzare l'eternità.
La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l'estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d'avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non abbia la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai "dilettanti allo sbaraglio "; e proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole " pedagogica", Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell'anima e della società.
martedì 31 marzo 2009
mercoledì 25 marzo 2009
La città della poesia, fra terra e cielo
Riprendo qui un mio intervento apparso su "Universo Poesia" (www.universopoesia.splinder.com), il ricchissimo sito, prezioso punto di riferimento, di Matteo Fantuzzi, nell'àmbito di un'inchiesta sulla funzione e il ruolo della città della poesia d'oggi.
Non credo si possa dire che, in genere (salvo qualche eccezione: l’Atene di Pericle, la Firenze medicea, la Ferrara dei poeti estensi, che nella sua struttura, classica e insieme medievale, configuratasi dopo l’”addizione erculea”, pareva quasi riflettere il microcosmo freneticamente premeditato, e insieme manieristicamente illusivo, della Gerusalemme liberata), i poeti abbiano trovato facile accoglienza in qualsiasi struttura sociale e civile organizzata in modo sistematico e gerarchico: quasi che, emblematicamente, la peculiare “razionalità” della poesia, di cui parlava Adorno (una razionalità dinamica, fluida, proteiforme, e dunque non normativa e prescrittiva, non strumentale), potesse difficilmente adattarsi a quella, invece, ideologicamente e politicamente connotata, ed eterodiretta da finalità di controllo sociale o di esibizione del potere e dell’ordine, che presiede, in genere, ai piani urbanistici, e configura la forma urbis – il “viso di pietra scolpita”, direbbe Pavese, della città.
I poeti, dice il Corano, vagano per i deserti, e dicono cose che poi non fanno. Il pragmatismo operativo, coercitivo, a volte autoritario e violento, della “città degli uomini” mal si accorda con la “finalità senza scopo”, con l’operare incondizionato, del poeta; egli stesso, certo, a suo modo homo faber, fabbro e architetto delle parole, disegnatore della mappa inafferrabile del testo, eppure avulso da qualsiasi applicazione pratica, da qualsiasi uso strumentale o immediata applicazione: il che lo rende sospetto, se non risibile, agli occhi del senso comune, dell’opinione corrente, del sentire condiviso ed unanime, che trovano nella città, nell’agorà, la propria voce collettiva, la propria corale risonanza.
Platone ed Agostino (pur se per ragioni ideali, più che pratiche, e nondimeno legate ad un, per quanto utopistico, progetto politico, peraltro non privo di pericolose ambiguità, e non del tutto immune da possibili strumentalizzazioni autoritarie) concordano nel guardare con sospetto ai poeti: il primo considerandone l’opera copia della copia, di tre gradi lontana dalla verità, e potenziale, insidioso alimento e fomite di passioni incontrollate; il secondo scrutando con preoccupazione i velamina, i veli allegorici, in cui i poetae theologi avvolgevano i misteri del sacro, lasciandone scorgere forme fuggevoli, parziali, insidiosamente ambivalenti.
Forse la città dei poeti è ancor più astratta ed inafferrabile di qualsiasi utopia, di qualsiasi non-luogo. Una città mentale talmente immateriale, avulsa e remota da non potersi assolutamente tradurre, neppure nei sogni più veementi e più pericolosi (forse con l’eccezione del Savonarola cantore, in una lauda, di “Cristo re”, o con quella, diametralmente opposta, del D’Annunzio fiumano, e poche altre), in alcun terrestre inveramento, in alcuna realizzazione sociale e politica.
Eppure, proprio perché del tutto inutile, e anzi di fatto inesistente, o esistente – al di là del tempo, oltre, o viceversa al di qua, della storia – solo nella mente, nel’anima, nell’incorporeità intellettuale e segnica del testo, la città dei poeti è del tutto innocua, assolutamente innocente. Non la si può nemmeno incolpare di non avere agito efficacemente sul corso, così spesso iniquo e sanguinoso, della storia, per il semplice fatto che – città quant’altre mai indifesa e disarmata, seppure dal territorio sconfinato – non ne aveva i mezzi, non aveva le armi e le mura.
La poesia, diceva Montale al momento di ricevere il Nobel, è assolutamente inutile. Ma, almeno, non è nociva. Il che non si può sempre dire della – pur per molti versi utilissima, e oramai innegabilmente trionfante – civiltà della scienza e della tecnica, dalla quale la città postmoderna - ormai cablata, smaterializzata, avvolta e travolta da un pulviscolare ed insonne vortice di quanti d’informazione – è inesorabilmente e dispoticamernte dominata, risultando dunque – ma non è una novità – affatto inospite per i poeti.
Per la poesia, le città di questo mondo possono fare ben poco – ancor meno, forse, di quel quasi nulla che il poeta può fare per esse. Tutt’al più, per quel che può valere, dedicare un giorno una piazza o una via a quanti di noi verranno giudicati (a torto o a ragione: si sa “il giudicio uman come spesso erra”) più “storicamente significativi”.
Il nostro regno non è di questa terra. La nostra città è ovunque e in nessun luogo, come il Dio medievale e rinascimentale del Liber de causis, di Cusano, di Bruno. O forse, ammesso che sia da qualche parte, è qui, nello spazio sconfinato ed onniavvolgente, proteifome ed invisibile, incorporeo eppure onnipresente, della rete.
Quanto a me, le mie città sono Bologna, in cui sono nato, non ho mai abitato ma ho ricevuto una parte della mia “formazione culturale”, e Imola, in cui sono quasi sempre vissuto.
Da un lato la pianta longobarda dell’antica Felsina, con quel centro da cui si dipartono a raggiera, come gli arti difformi e contorti di un immenso, orrendo insetto, le vie principali, che potrebbero indefinitamente prolungarsi – e poi, negli irregolari ed obliqui interstizi, nelle scalene “zone”, di questa anomala ed asimmetrica centuriazione, dedali di vie e viuzze in cui, diceva l’oggi tanto bistrattato Carducci, è effettivamente meraviglioso “sperdersi pensando”.
Non proprio “città brulicante, città piena di sogni”, come la Parigi di Baudelaire – eppure essa stessa non avara, nel suo piccolo, di epifanie subitanee, folgoranti, che coinvolgono e travolgono per un attimo gli sguardi, i sensi (gli “spirti”, avrebbe detto Guinicelli): due frecce conficcate da secoli nella trabeazione lignea di un porticato; uno sportello che si apre d’improvviso, e mostra lo scorrere lutulento e derelitto dell’Aposa, lasciando brevemente trapelare all’aria e alla luce un intrico insondabile di canali sotterranei che avrebbe affascinato e frastornato anche Eugène Sue; il mercato di piazza Aldrovandi, che ammaliò, con la sua selva pastosa, quasi palpabile, fragrante e nauseabonda, di voci, odori, corpi, colori, Umberto Saba, avvezzo alla “scontrosa grazia” della sua Trieste, e desideroso di confondersi con la “calda vita di tutti gli uomini di tutti i giorni”; il ghetto ebraico, in cui nacque mio padre – il ghetto, tenebrosa ed ignominiosa metastasi, angolo della città che Piero Camporesi immaginava brulicante, come la Parigi di Suskind, di odori, voci, parole, di volti lingue memorie, di storie esuli, erranti, disperse, e che ancora reca, nella sua cabalistica e criptica toponomastica, i segni discontinui e vagolanti di un sapere arcano e remoto – le schegge e i frantumi, diremmo con Kafka e con Derrida, delle Tavole della Legge.
Dall’altro lato, Imola provinciale ed opaca, sbeffeggiata da Tassoni e da Leopardi, nominata di sfuggita da Hemingway come un verde, remoto paradiso dei socialisti, gremito di alberi, di giardini e di fontane, la “zité di zent urt” stilizzata, un po’ oleograficamente, da Luigi Orsini, la “zité di mett” in cui trovò asilo Dino Campana, e di cui si incontra una menzione addirittura in Pirandello, afflitto dalla “moglie pazzerella”.
Eppure, la città dei matti sembra avere a priori esorcizzato, quasi giocando d’anticipo, ogni sussulto e ogni ombra del’irrazionale, serbando con assoluta limpidezza la centuriazione romana, fregiandosi della geometrica, idealizzante, e insieme minuziosa, mobile e viva (“i fiumi scherzano nella pianura”, dice una postilla) mappa di Leonardo (forse la prima “mappa zenitale”, noi imolesi possiamo dirlo con orgoglio, nella storia della cartografia), infine rivestendosi, con il Neoclassicismo, di una sorta di lapideo manto, di una veste e un apparato di marmi arcate scalee (certo meno sgargianti di quelli, solenni e garbati, fini e preziosi, della vicina Faenza, città molto più bella della nostra, e che non possiamo non invidiare); senza che ciò impedisca l’affiorare, di tanto in tanto, della città cristiana e medievale, nella forma ora di un capitello paleocristiano che fa lampeggiare la simbologia fitomorfa e sacrificale di un dionisismo riplasmato, ora di un portale gotico come quello, splendido e malnoto, della Chiesa di San Domenico, ora di affreschi mariani che risorgono da un polveroso intonaco, tenui, virginei e insieme scintillanti e preziosi, ora (come è accaduto, recentemente e sorprendentemente, nel tanto controverso, ma in fondo necessario, sventramento della piazza centrale) di un’antichissima sepoltura affrescata.
Le città italiane, con la loro anima una e molteplice, antica, medievale, rinascimentale, sono selve di analogie, compressioni e fusioni spaziali e geografiche di piani temporali diversi e lontani, di suggestioni disparate, multiformi, variamente codificate dal tessuto urbano e altrettanto variamente decodificabili dallo sguardo itinerante che su di loro si posa, che amorosamente le percorre e le penetra.
In questo senso (che è anche, in partenza, storico, geografico, sociale, ma che poi sorpassa e trascende tutti questi àmbiti e piani per ergersi immateriale ed intemporale), la città può essere ancora sede, dimora, e in qualche modo teatro, della poesia. Il cui tessuto, fitto di echi, tracce, memorie, tessere, simboli, consapevolmente o meno riemersi da un passato storico e insieme individuale ed esistenziale, culturale e insieme psicologico nella misura in cui la formazione e l’identità culturali, e l’eredità che le plasma, sono parte integrante e fondante dell’individualità creatrice, del complesso della persona, è, idealmente (ma in un senso evidentemente diverso da quello in cui Bukowski diceva, in versi troppo noti, che “una poesia è una città piena di strade e tombini / piena di santi, eroi, mendicanti, pazzi”), una forma urbis, un volto urbano dalle mille ombre, e dalle pieghe antiche, dai sorrisi segreti e lontani, dagli indecifrabili sguardi sempre rivolti e alludenti ad un altrove.
“La creta, la selenite e l'arenaria / Di qui nasce il colore di Bologna / Nei tramonti brucia torri e aria […] A che punto è la città? / La città è lì in piedi che ascolta. […] A che punto è la città? / La città si nasconde le mani”. Così scriveva, nel veleno e nel sangue degli anni Settanta, un poeta pur ideologicamente impegnato come Roberto Roversi. La luce pura, il fuoco fervido eppure innocente della poesia scorporano la città, la elevano al cielo, la confondono con le nubi, i lampi, le parvenze cangianti e senza peso – anche nella militanza e nell’impegno. Scrive oggi Roversi, in pagine apparse su “Bibliomanie”: “Gli anni di Goethe o di Carducci sono tutti alle spalle, e non tornano più; / disperse le orme fra le onde del mare e del tempo. / Si può allora dire, come in una favola della memoria e dell’affetto, c’era una volta Felsina, Boiona, Bononia, Bologna”. “Madre che non dorme. Madre città. Antica tellus. (…) Madre città, dunque, da cui mai e poi mai dovremmo sentirci abbandonati” (http://www.bibliomanie.it/bolognabologna_roversi.htm).
E’ nell’antico e nell’eterno, sul terreno fecondo della loro intersezione e della loro fusione (nel ciclo perenne di morte e rinascita, nel “desiderio vano della bellezza antica”), che la città-poesia, il luogo-parola (forse non ancora del tutto dissolto in non-luogo indifferente e mercificabile) possono sperare di risorgere e di protendersi verso un futuro che ha ancora i confini e le forme malcerti della bruma – ma, forse, anche la luce madreperlacea e tremula di una nuova alba. “Non tanto il vincolo con il presente”, dice ancora Roversi, “un presente cupo e avido. Non con il carro del presente, ma il brivido, un brivido freddo, col nuovo mondo che, sia pure a fatica, sta cercando di comporsi”.
E – mi si perdoni l’accostamento così ardito – ogni città, nel momento in cui diviene poesia, è in fondo, con D’Annunzio, “città del silenzio”, chiusa nell’eterno sepolcro, nella quiete perenne, della parola e della pagina, che chiamano ed attendono lo sguardo sollecito, la voce interiore e spirituale, il soffio pneumatico, la caritatevole e vigile attenzione, dell’anima e della mente di un lettore. Fino ad allora, la bellezza di una città, una volta trasposta, e deposta, nel verso e sulla pagina, è e resterà una bellezza “deserta”.
Matteo Veronesi
Non credo si possa dire che, in genere (salvo qualche eccezione: l’Atene di Pericle, la Firenze medicea, la Ferrara dei poeti estensi, che nella sua struttura, classica e insieme medievale, configuratasi dopo l’”addizione erculea”, pareva quasi riflettere il microcosmo freneticamente premeditato, e insieme manieristicamente illusivo, della Gerusalemme liberata), i poeti abbiano trovato facile accoglienza in qualsiasi struttura sociale e civile organizzata in modo sistematico e gerarchico: quasi che, emblematicamente, la peculiare “razionalità” della poesia, di cui parlava Adorno (una razionalità dinamica, fluida, proteiforme, e dunque non normativa e prescrittiva, non strumentale), potesse difficilmente adattarsi a quella, invece, ideologicamente e politicamente connotata, ed eterodiretta da finalità di controllo sociale o di esibizione del potere e dell’ordine, che presiede, in genere, ai piani urbanistici, e configura la forma urbis – il “viso di pietra scolpita”, direbbe Pavese, della città.
I poeti, dice il Corano, vagano per i deserti, e dicono cose che poi non fanno. Il pragmatismo operativo, coercitivo, a volte autoritario e violento, della “città degli uomini” mal si accorda con la “finalità senza scopo”, con l’operare incondizionato, del poeta; egli stesso, certo, a suo modo homo faber, fabbro e architetto delle parole, disegnatore della mappa inafferrabile del testo, eppure avulso da qualsiasi applicazione pratica, da qualsiasi uso strumentale o immediata applicazione: il che lo rende sospetto, se non risibile, agli occhi del senso comune, dell’opinione corrente, del sentire condiviso ed unanime, che trovano nella città, nell’agorà, la propria voce collettiva, la propria corale risonanza.
Platone ed Agostino (pur se per ragioni ideali, più che pratiche, e nondimeno legate ad un, per quanto utopistico, progetto politico, peraltro non privo di pericolose ambiguità, e non del tutto immune da possibili strumentalizzazioni autoritarie) concordano nel guardare con sospetto ai poeti: il primo considerandone l’opera copia della copia, di tre gradi lontana dalla verità, e potenziale, insidioso alimento e fomite di passioni incontrollate; il secondo scrutando con preoccupazione i velamina, i veli allegorici, in cui i poetae theologi avvolgevano i misteri del sacro, lasciandone scorgere forme fuggevoli, parziali, insidiosamente ambivalenti.
Forse la città dei poeti è ancor più astratta ed inafferrabile di qualsiasi utopia, di qualsiasi non-luogo. Una città mentale talmente immateriale, avulsa e remota da non potersi assolutamente tradurre, neppure nei sogni più veementi e più pericolosi (forse con l’eccezione del Savonarola cantore, in una lauda, di “Cristo re”, o con quella, diametralmente opposta, del D’Annunzio fiumano, e poche altre), in alcun terrestre inveramento, in alcuna realizzazione sociale e politica.
Eppure, proprio perché del tutto inutile, e anzi di fatto inesistente, o esistente – al di là del tempo, oltre, o viceversa al di qua, della storia – solo nella mente, nel’anima, nell’incorporeità intellettuale e segnica del testo, la città dei poeti è del tutto innocua, assolutamente innocente. Non la si può nemmeno incolpare di non avere agito efficacemente sul corso, così spesso iniquo e sanguinoso, della storia, per il semplice fatto che – città quant’altre mai indifesa e disarmata, seppure dal territorio sconfinato – non ne aveva i mezzi, non aveva le armi e le mura.
La poesia, diceva Montale al momento di ricevere il Nobel, è assolutamente inutile. Ma, almeno, non è nociva. Il che non si può sempre dire della – pur per molti versi utilissima, e oramai innegabilmente trionfante – civiltà della scienza e della tecnica, dalla quale la città postmoderna - ormai cablata, smaterializzata, avvolta e travolta da un pulviscolare ed insonne vortice di quanti d’informazione – è inesorabilmente e dispoticamernte dominata, risultando dunque – ma non è una novità – affatto inospite per i poeti.
Per la poesia, le città di questo mondo possono fare ben poco – ancor meno, forse, di quel quasi nulla che il poeta può fare per esse. Tutt’al più, per quel che può valere, dedicare un giorno una piazza o una via a quanti di noi verranno giudicati (a torto o a ragione: si sa “il giudicio uman come spesso erra”) più “storicamente significativi”.
Il nostro regno non è di questa terra. La nostra città è ovunque e in nessun luogo, come il Dio medievale e rinascimentale del Liber de causis, di Cusano, di Bruno. O forse, ammesso che sia da qualche parte, è qui, nello spazio sconfinato ed onniavvolgente, proteifome ed invisibile, incorporeo eppure onnipresente, della rete.
Quanto a me, le mie città sono Bologna, in cui sono nato, non ho mai abitato ma ho ricevuto una parte della mia “formazione culturale”, e Imola, in cui sono quasi sempre vissuto.
Da un lato la pianta longobarda dell’antica Felsina, con quel centro da cui si dipartono a raggiera, come gli arti difformi e contorti di un immenso, orrendo insetto, le vie principali, che potrebbero indefinitamente prolungarsi – e poi, negli irregolari ed obliqui interstizi, nelle scalene “zone”, di questa anomala ed asimmetrica centuriazione, dedali di vie e viuzze in cui, diceva l’oggi tanto bistrattato Carducci, è effettivamente meraviglioso “sperdersi pensando”.
Non proprio “città brulicante, città piena di sogni”, come la Parigi di Baudelaire – eppure essa stessa non avara, nel suo piccolo, di epifanie subitanee, folgoranti, che coinvolgono e travolgono per un attimo gli sguardi, i sensi (gli “spirti”, avrebbe detto Guinicelli): due frecce conficcate da secoli nella trabeazione lignea di un porticato; uno sportello che si apre d’improvviso, e mostra lo scorrere lutulento e derelitto dell’Aposa, lasciando brevemente trapelare all’aria e alla luce un intrico insondabile di canali sotterranei che avrebbe affascinato e frastornato anche Eugène Sue; il mercato di piazza Aldrovandi, che ammaliò, con la sua selva pastosa, quasi palpabile, fragrante e nauseabonda, di voci, odori, corpi, colori, Umberto Saba, avvezzo alla “scontrosa grazia” della sua Trieste, e desideroso di confondersi con la “calda vita di tutti gli uomini di tutti i giorni”; il ghetto ebraico, in cui nacque mio padre – il ghetto, tenebrosa ed ignominiosa metastasi, angolo della città che Piero Camporesi immaginava brulicante, come la Parigi di Suskind, di odori, voci, parole, di volti lingue memorie, di storie esuli, erranti, disperse, e che ancora reca, nella sua cabalistica e criptica toponomastica, i segni discontinui e vagolanti di un sapere arcano e remoto – le schegge e i frantumi, diremmo con Kafka e con Derrida, delle Tavole della Legge.
Dall’altro lato, Imola provinciale ed opaca, sbeffeggiata da Tassoni e da Leopardi, nominata di sfuggita da Hemingway come un verde, remoto paradiso dei socialisti, gremito di alberi, di giardini e di fontane, la “zité di zent urt” stilizzata, un po’ oleograficamente, da Luigi Orsini, la “zité di mett” in cui trovò asilo Dino Campana, e di cui si incontra una menzione addirittura in Pirandello, afflitto dalla “moglie pazzerella”.
Eppure, la città dei matti sembra avere a priori esorcizzato, quasi giocando d’anticipo, ogni sussulto e ogni ombra del’irrazionale, serbando con assoluta limpidezza la centuriazione romana, fregiandosi della geometrica, idealizzante, e insieme minuziosa, mobile e viva (“i fiumi scherzano nella pianura”, dice una postilla) mappa di Leonardo (forse la prima “mappa zenitale”, noi imolesi possiamo dirlo con orgoglio, nella storia della cartografia), infine rivestendosi, con il Neoclassicismo, di una sorta di lapideo manto, di una veste e un apparato di marmi arcate scalee (certo meno sgargianti di quelli, solenni e garbati, fini e preziosi, della vicina Faenza, città molto più bella della nostra, e che non possiamo non invidiare); senza che ciò impedisca l’affiorare, di tanto in tanto, della città cristiana e medievale, nella forma ora di un capitello paleocristiano che fa lampeggiare la simbologia fitomorfa e sacrificale di un dionisismo riplasmato, ora di un portale gotico come quello, splendido e malnoto, della Chiesa di San Domenico, ora di affreschi mariani che risorgono da un polveroso intonaco, tenui, virginei e insieme scintillanti e preziosi, ora (come è accaduto, recentemente e sorprendentemente, nel tanto controverso, ma in fondo necessario, sventramento della piazza centrale) di un’antichissima sepoltura affrescata.
Le città italiane, con la loro anima una e molteplice, antica, medievale, rinascimentale, sono selve di analogie, compressioni e fusioni spaziali e geografiche di piani temporali diversi e lontani, di suggestioni disparate, multiformi, variamente codificate dal tessuto urbano e altrettanto variamente decodificabili dallo sguardo itinerante che su di loro si posa, che amorosamente le percorre e le penetra.
In questo senso (che è anche, in partenza, storico, geografico, sociale, ma che poi sorpassa e trascende tutti questi àmbiti e piani per ergersi immateriale ed intemporale), la città può essere ancora sede, dimora, e in qualche modo teatro, della poesia. Il cui tessuto, fitto di echi, tracce, memorie, tessere, simboli, consapevolmente o meno riemersi da un passato storico e insieme individuale ed esistenziale, culturale e insieme psicologico nella misura in cui la formazione e l’identità culturali, e l’eredità che le plasma, sono parte integrante e fondante dell’individualità creatrice, del complesso della persona, è, idealmente (ma in un senso evidentemente diverso da quello in cui Bukowski diceva, in versi troppo noti, che “una poesia è una città piena di strade e tombini / piena di santi, eroi, mendicanti, pazzi”), una forma urbis, un volto urbano dalle mille ombre, e dalle pieghe antiche, dai sorrisi segreti e lontani, dagli indecifrabili sguardi sempre rivolti e alludenti ad un altrove.
“La creta, la selenite e l'arenaria / Di qui nasce il colore di Bologna / Nei tramonti brucia torri e aria […] A che punto è la città? / La città è lì in piedi che ascolta. […] A che punto è la città? / La città si nasconde le mani”. Così scriveva, nel veleno e nel sangue degli anni Settanta, un poeta pur ideologicamente impegnato come Roberto Roversi. La luce pura, il fuoco fervido eppure innocente della poesia scorporano la città, la elevano al cielo, la confondono con le nubi, i lampi, le parvenze cangianti e senza peso – anche nella militanza e nell’impegno. Scrive oggi Roversi, in pagine apparse su “Bibliomanie”: “Gli anni di Goethe o di Carducci sono tutti alle spalle, e non tornano più; / disperse le orme fra le onde del mare e del tempo. / Si può allora dire, come in una favola della memoria e dell’affetto, c’era una volta Felsina, Boiona, Bononia, Bologna”. “Madre che non dorme. Madre città. Antica tellus. (…) Madre città, dunque, da cui mai e poi mai dovremmo sentirci abbandonati” (http://www.bibliomanie.it/bolognabologna_roversi.htm).
E’ nell’antico e nell’eterno, sul terreno fecondo della loro intersezione e della loro fusione (nel ciclo perenne di morte e rinascita, nel “desiderio vano della bellezza antica”), che la città-poesia, il luogo-parola (forse non ancora del tutto dissolto in non-luogo indifferente e mercificabile) possono sperare di risorgere e di protendersi verso un futuro che ha ancora i confini e le forme malcerti della bruma – ma, forse, anche la luce madreperlacea e tremula di una nuova alba. “Non tanto il vincolo con il presente”, dice ancora Roversi, “un presente cupo e avido. Non con il carro del presente, ma il brivido, un brivido freddo, col nuovo mondo che, sia pure a fatica, sta cercando di comporsi”.
E – mi si perdoni l’accostamento così ardito – ogni città, nel momento in cui diviene poesia, è in fondo, con D’Annunzio, “città del silenzio”, chiusa nell’eterno sepolcro, nella quiete perenne, della parola e della pagina, che chiamano ed attendono lo sguardo sollecito, la voce interiore e spirituale, il soffio pneumatico, la caritatevole e vigile attenzione, dell’anima e della mente di un lettore. Fino ad allora, la bellezza di una città, una volta trasposta, e deposta, nel verso e sulla pagina, è e resterà una bellezza “deserta”.
Matteo Veronesi
Etichette:
Agostino,
arte,
Bologna,
città,
D'Annunzio e Fiume,
Imola,
Le città del silenzio,
origini,
Platone,
poesia,
Roberto Roversi,
storia,
utopia
lunedì 16 marzo 2009
Neil Novello, "Morte di un intellettuale fanciullo"
Riproduco, con il gentile consenso dell’autore, uno scritto già apparso su un settimanale bolognese, in cui veniva rievocata la figura di Riccardo Bonavita, giovane intellettuale, studioso di Leopardi e della Shoah, morto ancor giovane, di propria volontà.
“Provincia dell’essere” è, certo, anche il confine – forse più esile, precario e tremulo di quanto a prima vista non paia – fra vita e morte, luce ed ombra, razionalità e accecamento: quel confine che (con un gesto quasi sovrumano, apparentemente folle e in realtà, spesso, sovranamente e spaventosamente lucido) il suicida viola e valica. E provincia («torrido regno da cui nessuno è mai tornato», per citare il Sinisgalli dei Nuovi Campi Elisi) è la dimora stessa, esangue e diafana, dei trapassati, di chi non è più – Ade, non-visione e non-conoscenza, luogo remoto e nascosto, dominio di chi è stato orbato della luce, di chi non può più vedere, né essere visto.
Non è certo un caso che l’essenza della personalità e dell’opera di Bonavita venga còlta (con quella fedeltà che nasce proprio dall’appassionata immedesimazione, dalla soggettività creativa ed esistenziale, ben più che dall’aberrante e fuorviante miraggio di un’impossibile asettica impersonalità) proprio da Neil Novello, che tanto come poeta (in Rosa meridiana) quanto come cineasta (in Mutterland) ha fatto del ritorno all’origine, della discesa nel buio grembo delle madri, della rituale ciclica circolarità di vita e morte, di essere ed annullamento, di pienezza e privazione, uno dei cardini del suo discorso.
Né casuale è che venga avanzato, in questa pagina lucida ed emozionante, il nome di Celan, la cui celebre, ipnotica e atroce, Fuga sul tema morte fu certo uno dei testi su cui più profondamente e dolorosamente Riccardo dovette meditare. «La fine fa fede / al nostro inizio, // dinanzi ai maestri / che ci avvolgono nel loro silenzio, / nell’indifferenziato, si afferma / lo stento / lucore», si legge in alcuni di versi di Dimora del tempo, la raccolta celaniana dell’ultimo anno, edita postuma. Fine ed inizio, apocalitticamente, si ricongiungono; la voce prende forma dal vuoto, la luce esile ed affaticata trapela e si staglia dallo spettro opaco del nulla. «Scenderemo nel gorgo muti», dice Pavese, altro luminoso fantasma che Novello rievoca.
La condizione di anomia, di contrasto – di inespresso, forse represso, conflitto con la realtà e la società – che starebbe, per alcuni, alla base del suicidio finiva per avere, nel caso di Riccardo (come in quello di Michelstaedter), il valore di un profondo messaggio umano ed intellettuale: il rifiuto dell’inautentico, la reazione – nel campo degli studi – ad uno specialismo e ad un tecnicismo che rischiano di scindere del tutto la ricerca dall’impegno etico, e ideologico nel senso più alto e più nobile, trasformandola – per effetto di quella che Ortega Y Gasset chiamava la “barbarie dello specialismo” – nella mera, inerte e disanimata, applicazione di protocolli metodologici, di gerghi specialistici, di ottuse ed anestetiche categorizzazioni.
Non è causale che proprio Leopardi e gli scrittori della Shoah – capaci, l’uno e gli altri, di affondare uno sguardo lucidissimo e tagliente nell’abisso del Male, nell’«arcano mirabile e spaventoso» dell’esistenza insensata ed assurda e del dolore sacrificale proprio perché senza colpa e senza spiegazione, fino a disvelare, a presentificare e a notomizzare, in tutta la sua devastante pienezza (penso al Cantico del gallo silvestre), la condizione apocalittica e talmudica di un possibile disfacimento universale, di una possibile catartica ed onniavvolgente deflagrazione del tutto – rappresentassero, per lo studioso, un assiduo termine di confronto e di meditazione.
Riccardo pagò forse con la disarmonia, con la sofferenza, spinta fino all’estremo sacrificio, proprio il suo anelito generoso e raro alla totalità e alla complessità dell’umano, alla sintesi e alla pienezza di pensiero ed esistenza, di esperienza intellettuale e coerenza etica – in un mondo che sembra fare di tutto, in nome di una scientificità malintesa e reificata, per recidere questo vitale legame. (M. V.)
È morto Riccardo Bonavita. Con lui ho progettato, dialogato, scritto, con lui ho amato la letteratura. L’ho amata poiché con Riccardo ho litigato per la letteratura, segno che tenevamo a noi e alla letteratura. È difficile ammetterlo, ma noi e la letteratura contavamo ben poco per Riccardo, evidentemente. Per noi Riccardo doveva contare di più. Tutti noi dobbiamo contare di più. Perché noi e Riccardo siamo di più. Il suicidio di un uomo è un atto così profondamente inculturale da riflettersi culturalmente come un gesto profondamente umano. Questo dell’intellettuale fanciullo, anche. Ma Riccardo è un uomo di cultura, lo erano Michelstaedter e Pavese, lo era Celan. Il gesto di Riccardo mi ha raggiunto in Calabria, da lontano ho smesso di essere lontano ed ho iniziato a scrivere per essergli vicino. Ecco rivelata la mia e la nostra colpa: il ritardo dell’affetto. Ero in una pausa delle riprese del mio film. Appena dopo la notizia, il pensiero, evidentemente ozioso e disperato, è corso alla povera vita di un uomo che pure era passato dalle parti del filosofo di Gorizia, aveva impiegato tempo leggendo l’autore di Verrà la morte, conosciuto il poeta di Cernowitz. Riccardo era un uomo che certamente aveva riflettuto a fondo sulla pagina amara e aurorale dedicata a Porfirio e Plotino dal suo amato Leopardi. «Eppure…» dirà la gente di Riccardo.
È chiaro che l’inculturalità del suicidio impone di leggere l’atto sul piano della natura e dell’umanità, di leggere la vita di Riccardo all’insegna dell’umanità, se poi la cultura e la ragione non hanno piegato dalla loro parte la follia e l’irrazionalità del «levar la mano su di sé» – secondo quanto avrebbe scritto Améry, un altro suicida –. In chi tra noi che l’ha conosciuto s’è prodotto il sospetto che l’umanità stesse poco alla volta prendendo il sopravvento sulla cultura? In chi tra noi Riccardo ha iniziato ad andarsene e non ha veduto e non ha agito? Chi ha veduto deragliare l’umanità in catastrofe? Aveva Riccardo vergogna della vita degli altri, vergogna, forse, della propria vita? Non il perché, bensì il per chi è morto Riccardo occorrerebbe comprendere. Come è potuto accadere che il più apollineo degli uomini in un attimo si sia fatto Dioniso di se stesso? Perché Riccardo è apollineo, è accanito, è viscerale, è umano, perché Riccardo è un uomo vivo. Ora il groviglio esistenziale di Riccardo s’è sciolto nell’amara delibera di essere un uomo che nel ricordo se n’è andato così duramente, di rimanere un uomo che rifiutandosi ha scritto con la propria storia, con la propria carne, d’aver rifiutato il resto del mondo. Riccardo merita il perdono perché Riccardo ha chiesto sempre perdono, perché il suicidio implora il perdono, l’assoluzione integrale di un uomo che, al contrario, non si è perdonato e proprio per questo merita che il mondo che ha conosciuto non perpetri contro di lui un ultimo tradimento, un fallo che apparirebbe inammissibile.
“Provincia dell’essere” è, certo, anche il confine – forse più esile, precario e tremulo di quanto a prima vista non paia – fra vita e morte, luce ed ombra, razionalità e accecamento: quel confine che (con un gesto quasi sovrumano, apparentemente folle e in realtà, spesso, sovranamente e spaventosamente lucido) il suicida viola e valica. E provincia («torrido regno da cui nessuno è mai tornato», per citare il Sinisgalli dei Nuovi Campi Elisi) è la dimora stessa, esangue e diafana, dei trapassati, di chi non è più – Ade, non-visione e non-conoscenza, luogo remoto e nascosto, dominio di chi è stato orbato della luce, di chi non può più vedere, né essere visto.
Non è certo un caso che l’essenza della personalità e dell’opera di Bonavita venga còlta (con quella fedeltà che nasce proprio dall’appassionata immedesimazione, dalla soggettività creativa ed esistenziale, ben più che dall’aberrante e fuorviante miraggio di un’impossibile asettica impersonalità) proprio da Neil Novello, che tanto come poeta (in Rosa meridiana) quanto come cineasta (in Mutterland) ha fatto del ritorno all’origine, della discesa nel buio grembo delle madri, della rituale ciclica circolarità di vita e morte, di essere ed annullamento, di pienezza e privazione, uno dei cardini del suo discorso.
Né casuale è che venga avanzato, in questa pagina lucida ed emozionante, il nome di Celan, la cui celebre, ipnotica e atroce, Fuga sul tema morte fu certo uno dei testi su cui più profondamente e dolorosamente Riccardo dovette meditare. «La fine fa fede / al nostro inizio, // dinanzi ai maestri / che ci avvolgono nel loro silenzio, / nell’indifferenziato, si afferma / lo stento / lucore», si legge in alcuni di versi di Dimora del tempo, la raccolta celaniana dell’ultimo anno, edita postuma. Fine ed inizio, apocalitticamente, si ricongiungono; la voce prende forma dal vuoto, la luce esile ed affaticata trapela e si staglia dallo spettro opaco del nulla. «Scenderemo nel gorgo muti», dice Pavese, altro luminoso fantasma che Novello rievoca.
La condizione di anomia, di contrasto – di inespresso, forse represso, conflitto con la realtà e la società – che starebbe, per alcuni, alla base del suicidio finiva per avere, nel caso di Riccardo (come in quello di Michelstaedter), il valore di un profondo messaggio umano ed intellettuale: il rifiuto dell’inautentico, la reazione – nel campo degli studi – ad uno specialismo e ad un tecnicismo che rischiano di scindere del tutto la ricerca dall’impegno etico, e ideologico nel senso più alto e più nobile, trasformandola – per effetto di quella che Ortega Y Gasset chiamava la “barbarie dello specialismo” – nella mera, inerte e disanimata, applicazione di protocolli metodologici, di gerghi specialistici, di ottuse ed anestetiche categorizzazioni.
Non è causale che proprio Leopardi e gli scrittori della Shoah – capaci, l’uno e gli altri, di affondare uno sguardo lucidissimo e tagliente nell’abisso del Male, nell’«arcano mirabile e spaventoso» dell’esistenza insensata ed assurda e del dolore sacrificale proprio perché senza colpa e senza spiegazione, fino a disvelare, a presentificare e a notomizzare, in tutta la sua devastante pienezza (penso al Cantico del gallo silvestre), la condizione apocalittica e talmudica di un possibile disfacimento universale, di una possibile catartica ed onniavvolgente deflagrazione del tutto – rappresentassero, per lo studioso, un assiduo termine di confronto e di meditazione.
Riccardo pagò forse con la disarmonia, con la sofferenza, spinta fino all’estremo sacrificio, proprio il suo anelito generoso e raro alla totalità e alla complessità dell’umano, alla sintesi e alla pienezza di pensiero ed esistenza, di esperienza intellettuale e coerenza etica – in un mondo che sembra fare di tutto, in nome di una scientificità malintesa e reificata, per recidere questo vitale legame. (M. V.)
È morto Riccardo Bonavita. Con lui ho progettato, dialogato, scritto, con lui ho amato la letteratura. L’ho amata poiché con Riccardo ho litigato per la letteratura, segno che tenevamo a noi e alla letteratura. È difficile ammetterlo, ma noi e la letteratura contavamo ben poco per Riccardo, evidentemente. Per noi Riccardo doveva contare di più. Tutti noi dobbiamo contare di più. Perché noi e Riccardo siamo di più. Il suicidio di un uomo è un atto così profondamente inculturale da riflettersi culturalmente come un gesto profondamente umano. Questo dell’intellettuale fanciullo, anche. Ma Riccardo è un uomo di cultura, lo erano Michelstaedter e Pavese, lo era Celan. Il gesto di Riccardo mi ha raggiunto in Calabria, da lontano ho smesso di essere lontano ed ho iniziato a scrivere per essergli vicino. Ecco rivelata la mia e la nostra colpa: il ritardo dell’affetto. Ero in una pausa delle riprese del mio film. Appena dopo la notizia, il pensiero, evidentemente ozioso e disperato, è corso alla povera vita di un uomo che pure era passato dalle parti del filosofo di Gorizia, aveva impiegato tempo leggendo l’autore di Verrà la morte, conosciuto il poeta di Cernowitz. Riccardo era un uomo che certamente aveva riflettuto a fondo sulla pagina amara e aurorale dedicata a Porfirio e Plotino dal suo amato Leopardi. «Eppure…» dirà la gente di Riccardo.
È chiaro che l’inculturalità del suicidio impone di leggere l’atto sul piano della natura e dell’umanità, di leggere la vita di Riccardo all’insegna dell’umanità, se poi la cultura e la ragione non hanno piegato dalla loro parte la follia e l’irrazionalità del «levar la mano su di sé» – secondo quanto avrebbe scritto Améry, un altro suicida –. In chi tra noi che l’ha conosciuto s’è prodotto il sospetto che l’umanità stesse poco alla volta prendendo il sopravvento sulla cultura? In chi tra noi Riccardo ha iniziato ad andarsene e non ha veduto e non ha agito? Chi ha veduto deragliare l’umanità in catastrofe? Aveva Riccardo vergogna della vita degli altri, vergogna, forse, della propria vita? Non il perché, bensì il per chi è morto Riccardo occorrerebbe comprendere. Come è potuto accadere che il più apollineo degli uomini in un attimo si sia fatto Dioniso di se stesso? Perché Riccardo è apollineo, è accanito, è viscerale, è umano, perché Riccardo è un uomo vivo. Ora il groviglio esistenziale di Riccardo s’è sciolto nell’amara delibera di essere un uomo che nel ricordo se n’è andato così duramente, di rimanere un uomo che rifiutandosi ha scritto con la propria storia, con la propria carne, d’aver rifiutato il resto del mondo. Riccardo merita il perdono perché Riccardo ha chiesto sempre perdono, perché il suicidio implora il perdono, l’assoluzione integrale di un uomo che, al contrario, non si è perdonato e proprio per questo merita che il mondo che ha conosciuto non perpetri contro di lui un ultimo tradimento, un fallo che apparirebbe inammissibile.
Iscriviti a:
Post (Atom)