giovedì 16 luglio 2009
GIUSEPPE BAIOCCO, "DAL CERVELLO ALLA CREATIVITÀ POETICA"
1. In questo articolo si cercheranno di descrivere i meccanismi cerebrali alla base dei processi creativi poetici e del rapporto tra questi e la loro comprensione psicologica.
Le attuali conoscenze scientifiche del problema ci consentono di affermare che uno dei due emisferi in cui il cervello è suddiviso (quello di destra) entra in azione quando un soggetto ascolta della musica, osserva il viso, la mimica, la gestualità di una persona; l'altro invece esamina la realtà secondo modalità logiche, deduttive ed analitiche. Ciò significa che è in grado di cogliere il significato dei segni semantici convenzionali (quali appunto sono le parole), di afferrare i nessi logici che legano più proposizioni, di recepire i singoli passaggi di un discorso (mentre la comprensione globale ed il senso è afferrato dall'altro emisfero, detto anche musicale, che è portato a fare le sintesi, a cogliere le analogie associando le idee in base a legami emotivi, a procedere per induzione).
Nel presente studio si cercherà di discutere se sia ipotizzabile che la poesia, pur essendo basata sulla forza espressiva della parola, utilizzi a livello cerebrale modalità operative e di linguaggio di quella parte di cervello che in teoria non avrebbe "competenza" su di essa. È probabile che in ciò consista la straordinaria esperienza soggettiva prodotta dall'ascolto di un brano poetico. Si cercherà ora di approfondire meglio il discorso.
E' possibile che nel cervello del poeta avvenga l'esatto opposto di quel che avviene nella materia grigia di un pianista professionista. Studi condotti con sofisticate metodiche elettroencefalografiche computerizzate hanno evidenziato che se un soggetto appassionato di musica ascolta un brano d'opera, è la parte destra del suo cervello ad essere stimolata, ma se è un pianista ad ascoltare la musica che egli stesso suona, accade l'opposto. Anche in questo caso entra in azione l'emisfero "sbagliato". Ciò avverrebbe perché il musicista professionista elabora l'esperienza interna della musicalità a partire dalla "lettura" delle note sul pentagramma e non dalle immagini mentali dei suoni. La sua prestazione artistica parte dall'analisi di segni convenzionali (le note) che "legge" sullo spartito; per questo motivo la parte del suo cervello attivata è la sinistra, come avviene in un qualunque individuo intento nella lettura delle parole sulle righe di un libro.
Si è ipotizzato che nel nostro cervello esista un centro di smistamento capace di discernere i segnali verbali da quelli non verbali: in condizioni di veglia vigile all'emisfero destro arrivano i suoni ed i rumori umani, le vocali, la musica ed i segni non verbali del linguaggio, mentre al sinistro arrivano le parole, le consonanti, le cifre. In particolari situazioni quali l'estasi, la meditazione trascendentale, l'ispirazione creativa, i due emisferi riceverebbero contemporaneamente entrambe le categorie di stimoli, realizzando quello stato fisiologico e mentale definito "pensiero divergente", che potrebbe corrispondere all'esperienza soggettiva dello stato creativo, mistico o immaginativo. Sappiamo che alcune droghe, come i derivati dell'acido lisergico, eccitano le capacità creative e mistiche di un individuo.
In questa particolare condizione, i messaggio smistati dalla parte destra verso quella di sinistra non sono analizzati e trasdotti in linguaggio digitale (basato cioè sulle parole):è come se la parte sinistra del cervello e la sua modalità operativa venissero eclissate da un'esuberanza funzionale della parte "musicale." Nell'emisfero destro, "domina l'immagine e dunque anche l'evocazione di immagini appartenenti al ricordo e le sensazioni che a ciò si ricollegano" (Watzlawick).
A differenza di quanto avviene nella percezione visiva del mondo nelle ordinarie condizioni mentali, le immagini interne si associano in base a quello che nel lessico psicanalitico viene definito "processo primario": ecco perché la poesia fa continuamente ricorso alla similitudine, che è una figura poetica prodotta da un pensiero strutturato per categorie primarie. Vale la pena di spiegare brevemente questo concetto. Il "processo primario" è un tipo di pensiero caratterizzato dal rapportarsi con la realtà in base a schemi affettivi primordiali ed arcaici basati sulla paleologica. Quello della paleologica è un mondo in cui, perché l'identità fra due soggetti sia soddisfatta, è sufficiente che essi abbiano un particolare affettivamente pregnante in comune (ad esempio il predicato) perché siano considerati uguali. Facciamo un esempio: "Il passero solitario" può essere il poeta stesso in quanto egli ha in comune con esso il predicato "solitudine". Infatti il Passero è solo - Leopardi è solo: Leopardi ed il Passero sono soggetti sovrapponibili eseguendo l'operazione logica di identità a livello del predicato "solitario". E' questo un modo di organizzare il pensiero basato sulle categorie primarie. Nel caso citato all'interno della categoria "solitudine" si possono ritrovare infatti sia i poeti che gli uccelli, purché "soli". Il processo primario sarebbe collegato con le modalità operative dell'emisfero destro (Arieti).
Per chiarire meglio i concetti espressi, ricordiamo che, in condizioni di veglia, una persona in uno stato fisiologico di coscienza svolge i normali processi del pensiero in base alla logica comune detta anche "aristotelica" (termine che corrisponde al concetto psicanalitico di "processo secondario"). Sappiamo dalla filosofia classica che le operazioni che un essere pensante fa per valutare la validità dei suoi enunciati sono basate sui principi di identità, non contraddizione e del "terzo escluso". Cioè un uomo sano nel pensare riconosce come valide solo le identità fondate sui soggetti(esempio: Io posso essere solo Io, Io non posso essere contemporaneamente Io ed un altro). Se invece un individuo esegue operazioni di identificazione a partire dalle qualità ("predicati") della sua persona, come precedentemente abbiamo fatto parlando del Leopardi e della sua qualità "solitudine", allora operiamo secondo meccanismi di logica arcaica (paleologica).
La differenza essenziale sta nel fatto che lavorando con le categorie (pensiero secondario), un gatto può essere identificato solo all'interno della classe dei "felini", mentre se utilizziamo le "qualità", esso può essere identificato con qualunque altra cosa, essendo teoricamente infiniti i "predicati" possibili a lui attribuibili (baffi, fiocco, occhi, ecc.).
Questo secondo tipo di logica è sostanzialmente differente da quella "aristotelica", anche perché le associazioni vengono fatte in base a caratteristiche emozionali che ognuno attribuisce alle qualità del soggetto a seconda delle sue condizioni psicologiche (quindi anche di salute psichica).
Per inciso, questo modo di operare è tipico di diverse malattie cerebrali caratterizzate dall'incapacità di organizzare il pensiero in forme di linguaggio coerente, sequenziale, logico (schizofrenia paranoidea, sindrome alogica di Reich, afasia di Wernicke, ecc.).
Anche nel sonno REM (cioè quando si sogna), la produzione onirica segue il processo primario, a differenza di quanto avviene nei sogni non-REM (che avvengono nel sonno cosiddetto "a onde lente"), in cui questi hanno caratteristiche logiche dette "pensiero-simile". E' esperienza di tutti noi l'assurdità dei sogni effettuati nella fase REM; in modo particolare spesso siamo colpiti dal fatto che una certa persona entrata nella trama della nostra attività onirica abbia contemporaneamente le caratteristiche di un altro individuo (manifestando così una rottura del principio di non contraddizione, del tutto "fisiologica" nel sogno).
Ricordiamo infine che un'ulteriore caratteristica funzionale di questo emisfero è quello di operare secondo il principio della "pars pro toto". Questa funzione, collegata con modalità di pensiero induttivo, ci consente di risalire dal particolare all'universale, permettendoci ad esempio di riconoscere un individuo da un suo particolare significativo, come avviene in certi giochi enigmistici. Una delle più classiche figure poetiche, la sineddoche, trova certamente in ciò la sua base cerebrale di funzionamento.
Ma torniamo a parlare del nostri stati emozionali e di come questi, in particolari condizioni cognitive, possano entrare a far parte del vissuto creativo del poeta. Un'emozione può essere avvertita sia attraverso la sua componente viscerale (il cuore che "s'ingrossa", la pelle che si accappona, ecc.), sia psicologicamente, attraverso la produzione di immagini che hanno la caratteristica di presentarsi con la vividezza di un film la cui pellicola scorre non nel senso della temporalità ma della spazialità psicologica: in questo caso infatti le scene non hanno "un prima ed un dopo", sono cioè puntiformi riguardo al tempo, si sovrappongono fra loro in un'istantanea comprensione della totalità e globalità di tutte le immagini visualizzate. E' come se i fotogrammi di un film, anziché scorrere l'uno dopo l'altro sullo schermo(aspetto logico-sequenziale), fossero proiettati tutti insieme, simultaneamente, essendo stati fra loro sovrapposti come le carte di un mazzo (aspetto sintetico-temporale). In questo modo le dimensioni e lo spessore visuale di tali rappresentazioni interne sono psicologicamente talmente dense da occupare tutto lo" spazio mentale" dell'individuo còlto da una forte emozione. Ciò avviene nella cosiddetta "memoria panoramica" delle crisi epilettiche del lobo temporale e nello stato psichico alterato di una persona sana che si trova improvvisamente in immediato pericolo di vita; i soggetti che hanno vissuto tale esperienza raccontano di aver rivisto in pochi secondi "eterni" tutta la loro vita.
Ma torniamo ora agli aspetti cognitivi fin qui descritti, che sono tra loro del tutto differenti ma che hanno in comune il fatto di vedere coinvolto la parte destra del nostro cervello. Questi stati corrispondono ad esperienze endocettuali (cioè a materiale psichico ancora amorfo e grezzo, non comunicabile con chiarezza semantica per via verbale).Tutti noi abbiamo esperienza di come le immagini prodotte mentalmente siano sfuocate, prive di sfondo, di profondità di campo e siano sbilanciate riguardo l'equilibrio compositivo della figura: la visualizzazione cioè è ingigantita in alcuni suo particolari ed è priva di altri.
Da diversi autori viene riportato che certi schizofrenici (come anche i ciechi nati che acquistano la vista da adulti), non riescono ad organizzare la visione nella sua totalità e globalità. Questo disturbo è collegato ad un'alterazione della parte destra del cervello, la cui funzione è quella di far sì che l'insieme di input percettivi "in entrata" venga elaborato in modo totale e globale; altrimenti i singoli percetti attiverebbero le aree cerebrali della visione in modo così frammentario da polverizzare l'unitarietà psicologica dell'esperienza visiva.
Altre regioni del cervello invece, hanno il compito di fungere da analizzatori della percezione, fondendo i segnali in ingresso arrivati in frazioni di tempo diverse, rimontandoli in un processo visivo simultaneo cosicché il tempo psicologico del "vedere" risulti unico.
Questi meccanismi di adattamento cerebrale alla componente cognitiva del processo visivo saltano nelle allucinazioni oniriche della fase REM del sonno, in cui la pregnanza affettiva di alcuni percetti fa sì che questi siano più "salienti" rispetto ad altri che rimangono, per così dire, "in ombra".
C'è quindi una similarità tra le caratteristiche delle immagini mentali della veglia e del sonno e la percezione distorta degli schizofrenici (malattia caratterizzata, tra l'altro, da un cattivo "dialogo" fra le due parti cerebrali). Ciò potrebbe significare che i due tipi di distorsione percettiva siano il prodotto degli stessi meccanismi arcaici di funzionamento psichico cerebrale. A differenza dello psicotico, però, nell'individuo sano questi fenomeni avvengono solo in particolari e ben definite condizioni di regressione, fra le quali appunto vi sono la creatività, il sogno, l'ipnosi, gli stati mistici. In questi casi si verificano delle modificazioni cerebrali che permettono la riduzione della distanza Io-non Io (concetto ben esemplificabile con la frase "sogno o son desto?"), l'attualizzazione dei ricordi, la liberazione delle immagini mentali, l'accesso al mondo della paleologica; si costituisce così lo stato mentale necessario per la messa in moto dell'out-put espressivo .
2. Tramite il linguaggio la coscienza interpreta il mondo esterno ed interno traducendo non solo gli oggetti, ma anche le emozioni, in parole. Nella comunicazione ordinaria la condensazione significato- significante (cioè la fusione in un unico simbolo verbale della cosa in sé e del termine che convenzionalmente la definisce in una data lingua), conserva il valore di strumento operatorio del pensiero logico-digitale. Lo scollamento di tali componenti viene poi operato al momento dello smistamento dell'input tra i due emisferi (ad esempio, il nome è riconosciuto a sinistra mentre il volto della persona cui quel nome corrisponde viene riconosciuto a destra).
È ipotizzabile dunque che nella poesia la parola sia "trattata" dal cervello come nel linguaggio non verbale; deve perciò essere disincarnata del suo valore semiotico e caricata dei contenuti del vissuto emotivo del quale forma il contenitore semantico. Solo così tali contenuti possono venire trasmessi e comunicati con un tipo di linguaggio che ne rispetti integralmente l'aspetto puntiforme, endocettuale, paleosimbolico, atemporale. La poesia cerca così di comunicare per segni verbali, mantenendo però la spazialità, l'immediatezza, la globalità dell'esperienza "interna" che l'ha prodotta e che è intraducibile in linguaggio digitale. Per questo motivo quando si cerca di spiegare un verso ci si accorge che mancano le parole per decifrarlo completamente.
Il problema centrale della poesia è infatti la trasmissione di espressioni verbali usate sia come segni dotati di valore semantico, sia come aggregati di suoni capaci di indurre rappresentazioni mentali, endocetti, immagini, emozioni. Questo perché un verso poetico non può essere costituito semplicisticamente da suoni onomatopeici, ma deve esser fatto di parole, le quali, in quanto segni significanti, sono prive di per sé di risonanze emozionali, che possono però essere acquisite grazie all'amalgama con gli "artefatti analogici" (rime, metrica, allitterazioni, prosodia, ritmo, pause, assonanze, sonorità, ecc.).
Questa fusione, momento tecnicamente molto delicato e "magico", costituisce il passaggio dall'"oggetto interno" informe del momento ispirativo, alle forme semanticamente strutturate del verso compiuto, il quale appoggia il suo "corpo verbale" sugli "artefatti analogici" dei quali costituisce l'impalcatura fonemica, riuscendo così a restituire al lettore la forza visionaria dell'emozione concepita a partire dal versante espressivo dell'atto creativo. Si decompongono così le "forme", cioè il linguaggio logico-verbale ed i suoi segni significanti che fanno da supporto comunicativo ai contenuti della poesia, fino a scomporle, discioglierle, fluidificarle, liquefarle per ottenere un magma omogeneo trasmissibile come contenuto immediatamente, globalmente, simultaneamente, totalmente, percepibile. Una vocale cessa di essere lettera per divenire grido, gemito, sussurro, vento.
Ecco quindi che la poesia nello spostarsi sempre più sul versante analogico della comunicazione riduce di molto la "distanza" fra il significato ed il segno ad esso adeso (cioè la parola che lo denota). Infatti nel linguaggio verbale rimane sempre una deconnessione, una scissione, fra significato e parola, ed in particolare tra emozione e simbolo.
Così il processo tutto mentale della visualizzazione trascende in suoni semanticamente strutturati, costituiti da sonorità in modo tale che l'immagine visuale da essi evocata si sovrappone, incarna, riveste quella sonora al punto che la parola con la sua "rumorosità" può divenire un tutt'uno con l'immagine visiva che incarna. In questo modo il vissuto emotivo viene veicolato tramite segni semantici nei circuiti comunicativi di tipo non verbale, che a questo punto sono gli stessi dell'emisfero "musicale".
3. In sintesi possiamo quindi affermare che anche fenomeni psichici appartenenti alla sfera del "trascendente", rappresentano in realtà il frutto della imprevedibile e continua interazione dinamica tra patrimonio cromosomico, cervello ed ambiente, contribuendo a dar corpo psicologico al vissuto dell'individuo, alla sua storia ed al suo "processo di individuazione" (Jung).
In ognuno di noi avviene una mescidazione universalmente unica e irripetibile di esperienze ed elaborazioni cognitive che coinvolgono la Coscienza, il suo Io e le strutture diacroniche della personalità (cioè il "film" della storia della nostra vita). Scopo di questo lavoro è stato anche quello mostrare come una lettura biologica delle emozioni e dell'arte di esprimerle (la poesia) sia tutt'altro che deterministica e prigioniera di un riduzionismo da "psichiatria molecolare".
Giuseppe Baiocco
"Il presente del silenzio: l’'ora crepuscolare' in 'Elegia' di Sergio Corazzini", di Elisabetta Brizio
“Provincia del linguaggio”, in certo modo, il silenzio: limite ombroso ed immoto avvicinandosi al quale le parole, i suoni, le voci si diradano, si fanno via via più rari, e insieme più puri – allo stesso modo che il nulla, il vuoto, l'abbandono, l'oblio, l'opacità crepuscolare sono “provincia dell'essere”. E in ciò, forse, precisamente in questo rapporto, in questo dilatato e dolente intervallo/ferita, fra la voce e il silenzio come fra l'essere e il nulla, sta, oltre che l'attualità perenne del crepuscolarismo, anche l'essenza del genere elegiaco modernamente (e variamente) rivisitato, dal D'Annunzio delle Elegie romane («Tacciono i venti sopra: non fremito corre le cime; / non, nel profondo incanto, giungon da l'Urbe voci. // Nascere dal silenzio paiono tutte le cose / come le salienti nubi dal mare. (...) // Soli i lauri con lieve tremito incessante / dan tra la selva indizio de la nascosta vita») al Rilke delle Duinesi («ma ascolta il soffio del messaggio eterno / che dal silenzio si forma, e che ti giunge / dai morti prematuri. / (...) E abbandonare anche il proprio il nome / come un giocattolo spezzato»). Ma già l'elegia latina (si veda Properzio, IV, 7: «Cynthia namque meo visa est incumbere fulcro, / murmur ad extremae nuper humata viae. / (...) Inter complexus excidit umbra meos»), esplorava quello spazio “tendente a zero”, sottile ed infinito, minimo ma insieme colmo di risonanze sconfinate, che divide la parola dal silenzio, la vita dal nulla.
«E sarà dolce non seguirne il senso». Le vecchie canzoni, le parole logorate, stinte, affiochite dalla lontananza fino al limite dell'evanescenza e del dileguo, emblematizzano la condizione nuda e indifesa, essenziale ed insensata, della vita ormai protesa alle soglie del nulla e del vuoto. La soglia, il limen della morte (il leopardiano «supremo scolorar del sembiante», il momento estremo in cui “non si sente nulla”, o, precisamente, “si sente il nulla”, delle mummie di Federico Ruysh) rende l'uomo presente e vigile alla propria nullità, alla propria quasi essenzializzata e ontologizzata
nihilitas; allo stesso modo che, sul piano della stilizzazione metatestuale, il bianco, il vuoto, il silenzio che avvolgono e velano la parola la riconducono al cuore luminoso della sua fragilità, al tesoro splendente della sua mortalità che è preludio di rinascita. (M. V.)
that shows us bright blankness
Dead in Time
You’re dead already
What’s a little bit more time got to do
whit it
sing sound silence
of my sound
In perfetta convergenza tra misure prosodiche e dettato interiore, nell’articolazione strofica di Elegia (Frammento), pubblicata in una plaquette a parte senza indicazione della data nell’intervallo intercorso tra l’uscita del Piccolo libro inutile e del Libro per la sera della domenica (entrambi del 1906), Corazzini svolge il motivo della malinconia crepuscolare attraverso un emblematico - e funzionale - rallentamento del discorso poetico enfatizzato dal frequentissimo uso della virgola, ma senza per questo stravolgere quella continuità sentimentale che lungo i versi è percepibile nell’iterazione assidua e ossessivamente marcata di alcuni gruppi semantici.
Stabilito come eminente connotatore del testo, il campo onomasiologico relativo al pianto - leit-motiv incontrastato e debordante dell’opera - assegna una definitiva uniformità di ispirazione tanto a una tonalità emotiva fatta di rassegnazione regressiva che al nucleo tematico fondamentale: il quale gravita intorno al tema, già pascoliano (ma privato delle pascoliane implicazioni) del compianto per l’infanzia ignara, spazio dei sogni e delle illusioni della vita. La coerenza tematica di Elegia emerge nella quarta strofe, attraverso l’equivalenza semantica di “triste” e “dolce”, i due aggettivi di derivazione jammesiana che nelle rimanenti strofe, nonché negli altri testi corazziniani, si mantengono nei limiti della loro pur impercettibile differenza di significato, laddove il “forse” - come ha fatto notare Stefano Jacomuzzi - non ha valore restrittivo, ma di estensione e di dilatazione dell’attesa vana:
sarà come se tu cantassi una
preghiera incomprensibile, per lungo
volger di tempo, in fin che una sera,
forse più dolce e triste, all’improvviso
t’avvenisse, così, senza sapere,
di comprenderla intera.
Nella seconda strofe alla nozione di un passato pieno di dolcezza (“Ti sarebbe / dolce un imaginare di lontani / giorni che la tristezza esiliò / con le favole”) fa riscontro un presente di malinconica tristezza (“quelle povere favole soavi / senza amarezze e pure, adesso, tanto / tristi che, quasi, piangi per averle / in cuore, tutte”). E a un presente di tristezza, individuabile ancora all’inizio della terza strofe (dove l’autore sembra quasi catalogare alcuni degli oggetti del repertorio crepuscolare):
Piangi pur anche la malinconia
mortale d’una piccola bottega
nera, di vecchi mobili, di vecchi
abiti, in una triste via, nell’ora
crepuscolare, e tutte quelle cose
imagini che siano per morire
in uno specchio, simili a dei fiori
obliati in un vaso?
dovrebbe succedere, inusualmente in Corazzini, un futuro che, come il rifugiarsi nel passato, si riserverebbe di offrire al poeta la tristezza di una felicità evanescente e improbabile:
Sorriderai: se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore?
Analogamente, più avanti:
Tu vedrai; la bella
Vita imagineremo in una chiara
morte. Come se tu fossi, ogni giorno,
per giungere ad un mio primo convegno
Definita (al verso 52) l’equivalenza semantica dell’abusatissima coppia corazziniana “triste” e “dolce” il poeta può procedere all’identificazione tra passato e futuro, pervasi di congetturali dolcezze, in un presente che appare piuttosto gravato da una disillusa estenuazione. Né la felicità trascorsa, intrisa di immagini e cose periture, e come tale falsamente rassicurante, né quella ipotizzata per il futuro, sono dunque idealizzate dal poeta come resolubili ad alternativa allo stato attuale. È piuttosto in questo che tali presunte felicità convergono in rapporto di equivalenza, fino a dare la definizione della loro inesistenza reale come dolcezze avvenute o solo astrattamente idealizzate, e del loro essere un presente dilatato che si prolunga in quella configurazione del tempo quale si mostra alla coscienza quasi infantilmente regressiva del poeta, senza una precisa scansione temporale. Apparenze nel tempo presente (seppure, statisticamente, il tempo presente venga contraddetto nel testo dalle innumerevolissime e preponderanti forme verbali che - a partire dalla zona conclusiva della terza strofe - sono quasi costantemente coniugate al futuro, mentre si nota la grande scarsità di verbi al passato, ridotto a pura evocazione di possibilità), il poeta e la sua “cara anima” sorella (nonché figura femminile assorta, silenziosa e languente come nelle contemporanee esperienze figurative dell’Art Nouveau), ma apparenze certe pur nell’astensione e nell’implosione, sostanze verbali d’invocazione e di attesa. Il dualismo tra passato (evocato in termini di un ritorno del represso) e futuro (che è pura allegoria e finzione) si risolve in un rassegnato qui ed ora inalterabile, in perpetua dilazione, che media e incorpora il tempo trascorso insieme a quello a venire. Il poeta sa che è vano cercare un varco che trasmuti in dolcezza la tristezza per la fine delle cose. La regressione verso il passato diventa allora il segno di una volontà di perseverare nel presente della vita, avvertita come proroga nel segno della stasi e della passività, nella perplessità - per dirla con Gozzano e Corazzini - dell’”ora crepuscolare”. Azzardando una interpretazione figurale, il poeta, nella sua storicità, è figura del presente, laddove passato e futuro ne costituiscono l’adempimento.
La coerenza elegiaca, nell’estensione ininterrotta nel tempo di un languore mortale, si situa nell’insistenza sull’idea del pianto, sulla incontrastata prevalenza di parole-immagini diminuite della loro dimensione empirica-sensoriale. Sono quasi del tutto assenti in Elegia qualsiasi idea di concretezza, l’incisività della parola, il ricorso a un linguaggio fonosimbolico e a un uso cromatico della lingua e qualsivoglia variazione emotiva dalla monocorde intonazione elegiaca e lacrimosa. L’impossibile rifugio nelle favole infantili - e in un futuro alla stregua di favola - è reso lievemente, nell’inevidenza delle immagini e delle evocazioni, in un ritmo lento senza dissonanze e interferenze discordanti, in un continuum dell’elegiaco e dell’ontologico reso in un bianco insonorizzato, un bianco opaco silenzio, tale da suggellare in questi versi il trionfo della malinconia crepuscolare nello sfumare del colore e del tempo:
Cento volte
passeremo per quella via che più
diletta a non so che malinconie
nostre avremo. Lungo i chiari fiumi
canteremo le più vecchie canzoni
e sarà dolce non seguirne il senso.
In endecasillabi sciolti (l’endecasillabo pascoliano, in particolare quello dei Conviviali, più che un’intrusione letteraria pare profondamente assimilato da Corazzini), la scomparsa della rima e l’incessante ricorso all’enjambement che è prolungamento per definizione, nonché l’inconclusione finale allusa dai puntini di sospensione, esemplificano un desiderio di abbandono senza fine, di infinitare il senso di dimissione, di dismissione e di rinuncia. La stessa particolarissima versione grafica di Elegia (riprodotta in versi esageratamente spaziati, quasi a dare una maggiore risonanza a ciascuno di essi in una versificazione, nondimeno, che mantiene un andamento narrativo nel momento stesso in cui allude all’impossibilità del divenire delle due anime), la sproporzione che invade i bianchi margini in alto e in basso, distanze minime rispetto ai larghi spazi vuoti che corrono tra un verso e l’altro, potrebbero concorrere a una visione d’insieme della fissità del tempo, quando al contrario gli intervalli grafici tra i versi di solito orientano diversamente il cosiddetto tempo della lettura; la poesia di Corazzini, che ha già assistito alla dissoluzione delle rigorose forme tradizionali, ritorna qui con un endecasillabo che si sottrae a ogni rimarchevole spezzatura e che esclude enjambement prolungati o “clamorosi”, con un andamento da invocazione sempre uguale, senza progressione ritmica ascendente o discendente. Nondimeno, tale poesia enfatizza lo spazio bianco mentre paradossalmente lo depriva del suo valore di pausa.
Pur pubblicata separatamente, Elegia è un testo non eccentrico rispetto agli altri libri di versi di Corazzini: stessa è la vena crepuscolare, stessa è l’apparente aproblematicità dei contenuti, così come l’autoreferenzialità di un “tu” tutt’altro che relazionale, che è al contempo colloquio con l’anima ed eminente mascheramento di un monologare senza interlocutori, al di qua del limitare del sogno. Stesso è l’ambito fenomenologico essenzialmente solipsistico e di chiusura al mondo esterno: l’ennesimo non luogo dell’anima nell’inviolabile aura in cui si svolge il colloquio del poeta con sé stesso. Ricorrono inoltre l’idea di reclusione, di omissione e privazione, di sospensione del tempo, l’estraneità a una temporalità dispiegata, uno stile antilirico al grado zero, in un codice dimesso e quotidiano, quella totale assenza di scarto tanto stigmatizzata da Gianfranco Contini, e che costò a Corazzini l’esclusione dalla continiana Letteratura dell’Italia unita. L’écart dal livello medio della lingua, il cosiddetto salto stilistico, si verifica assai di rado in Corazzini, soprattutto perché il suo discorso si compie al di fuori di una configurazione tragica, e non cerca alcuna giustificazione storica ma avviene in una tonalità minore, quella, avrebbe detto Guido Gozzano, dell’”esilio” e della “rinuncia volontaria”. La vocazione a una identità, l’aspirazione al possesso della propria esperienza e memoria, paiono frustrate fin dall’inizio in versi in cui Corazzini significa la mancanza di legame con il proprio passato: una volta nominato, il passato svapora nell’assenza di senso e di possesso.
C’è un senso fondamentale dal quale discendono informazioni e motivi: una fenomenologia limbica (e l’atmosfera quasi conventuale che fa da sfondo sottolinea questo straniamento del e dal tempo) descrive due vite congetturali che non riescono a pervenire a compimento, che pare vogliano resistere alla vita e indugiare in perpetuo sbigottimento in uno stato intermedio, in una enfatizzazione dell’hic et nunc: qui l’autore mostra solo disillusione senza resistenza, codifica con l’inaridimento della poesia l’elegia dell’impossibile realizzazione dell’umano. Il soggetto lirico staziona ai confini del tempo nel tentativo di dilazionare il presente per aggirare questa ad infinitum sperimentata assenza di una prospettiva futura verso la quale ogni slancio propulsivo è votato al fallimento. Il poeta vive un secondo tempo: porta in sé ciò che è scomparso alla stessa maniera in cui prefigura le tracce di quello che sarà. E il presente è il secondo tempo quale segno dell’incertezza della vita che adombra la sua sparizione, è estensione e risaltare del silenzio mediante la diminuzione (“un poco”, “piano”, “piccola”, “povero”, “chiara”, “parole bianche”), l’evanescenza anche per mezzo di locuzioni privative (“ombra”, “senza amarezze”, “siano per morire”, “quasi bianchi”, “senza dirti nulla”, “senza sapere”, “non seguirne il senso”, “quasi più”, “senza sapore”, “senza senso quasi”), la lontananza (“addio”, “favola antica”, “lontani giorni”, “vecchi abiti”, “obliati”, “vecchie canzoni”, “verrà la pace”, “avrà tempo”).
Attraverso questa convergenza dei vari tempi dell’esperienza Corazzini non scarta del tutto l’idea di una trasmutazione letteraria - di una metaforizzazione - del proprio allontanamento dalla vita e ci restituisce il suo penultimo travestimento, prima delle soluzioni ironiche o pseudo-ironiche di Dialogo di marionette e di Bando e del sontuoso simbolismo introdotto in La morte di Tantalo, il quale peraltro finirà per sancire l’eternità della vita come eterno nulla non diversamente che in Elegia, che sotto certi aspetti ne costituisce il preludio. Ma senza la forza del pronunciamento dei corazziniani versi estremi, quasi l’ostensione di un privilegio sovrano e solitario. In Elegia la voce del poeta è sommessa, udibile appena e anche le parole hanno perso la loro forza allusiva, perché la poesia crepuscolare è silenzio poetico, è una semantica della sparizione, codificazione del vuoto e della vacanza. Non resta allora che l’assumibilità del silenzio - nella e oltre la scrittura -, paradigma, fato e destinazione del poeta contemporaneo. Quasi paradossalmente, in Elegia Corazzini sembrerebbe dire, con il Kerouac di Mexico City Blues:
mentre leggi questo
è lo stesso del vuoto
dello spazio
proprio ora
e lo stesso del silenzio che odi
dentro il vuoto
che è là
dovunque
Elisabetta Brizio
Luglio 2009
sabato 27 giugno 2009
"LA VIA CRUCIS DI FABIO GRIMALDI, TRA LE PAROLE DEL VANGELO E LO SMARRIMENTO DEL POETA", di Patrizia Garofalo
Ciò deve valere (a giudicare, di riflesso, dalla nota interpretativa e dai versi originali che esso ha suggerito a Patrizia Garofalo, e che qui riportiamo) per il libro (attraversato fin dal titolo dalla tensione spasmodica e dolente del paradosso e dell'antitesi) Via gloriosa, via dolorosa di Fabio Grimaldi, edito nell'elegantissima collana di poesia delle Edizioni del Leone.
La scrittrice, certo in sintonia con la poetica sottesa alla sua stessa scrittura originale, coglie nei versi del poeta lo sforzo originario, mitopoieico della parola che esce - "scavata come un abisso" diceva Ungaretti - dal silenzio che la contorna e la assedia e che, nel contempo, la fascia, la protegge, la fa esistere e consistere, librata nel vuoto, come le pause fra le note del canto, e gli spazi fra i respiri delle arcate.
"Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco? / Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?", si chiede, nella Via Crucis di Luzi, Cristo incamminato sul Calvario. "Qui termina veramente il cammino. / Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità. / Ma tu sai questo mistero. Tu solo". Ci troviamo, qui, immersi nel gorgo buio e silenzioso del paradosso ultimo e primo, del "segno di contraddizione" che non ammette riconciliazioni. Analogamente, i versi della Garofalo si muovono, risuonano e respirano nella cava dilatazione, nella nullificante ferita, del vuoto e dell'assenza.
M. V
Assistiamo ad un parlato in versi dalla Via Crucis, riportata testualmente dai Vangeli, allo sbigottimento del poeta che in modalità spezzate da singhiozzi percepiti, vince il silenzio nel quale la parola resterebbe imprigionata, esterrefatta e vuota.
Al silenzio di chi non si difese, ancora più forte appare la forza brutale della crocifissione mista di carne e sangue, dolore e perdono, trascendente persino a se stessa. La grafia diversa segna una linea ideale di demarcazione tra la storia dell’Uomo dei Vangeli e la sensibile percezione della perdita del “sé”. Fabio Grimaldi apre il verso alla pietà, alla cosmicità del dolore, alla vita come attraversamento doloroso, necessario, inevitabile.
Alle quattordici stazioni della Via Crucis altrettanti nomi di vie altamente simboliche all’ultimo viaggio dell’Uomo, nominate come in una mappa colposa, dolorosa, pietosa, lacrimosa, ansiosa, luminosa, ripudiosa, premurosa, vittoriosa, decorosa, gloriosa. Gli aggettivi connotano le soste alla fatica dell’ascesa ed ad ognuna il poeta depone un breve voto d’amore:
“ lieve brezza, delicato fiore/ attimi/ sollievo ormai lontano/”;
“ incommensurabile misericordia/ azzera le colpe/ dona luce/”;
“ un’ombra/ pietosamente/ condivide la croce/”.
Nelle via scorrono ferite, sangue, vergogna, pietà, sbigottimento:
“incommensurabile misericordia/ azzera le colpe / dona luce/”,
“in verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso” (Luca 23, 39-43).
In silenzio il corpo scivola piano fra braccia materne e si aprono ai nostri occhi infinite immagini di “Pietà”, anche quella meno nominata dall’arte sublime dei creatori, quella più vicina a noi, quella del dolore di una fine che non ha riscatto nei dipinti, che si cela magari a due passi da noi in un mondo dove neanche la Crocifissione è riuscita a rassicurare l’uomo dell’eternità dopo la morte, né a porre “corone di rose”.
DI ROSE CORONATO
Solo, davanti alla morte
neanche l’angelo ti recò conforto…Uomo…
Un nodoso ulivo, curvato
raccolse le tua agonie di terra.
Il corteo che seguì
ti fissò nella metopa del tempio,
piansero per primi gli Dei
e
morirono nel tuo silenzio.
La rivelazione
è parola che denuda, strazia e lacera,
suprema vergogna
preda l’inerme
senza arrestarne il volo
Inginocchiarsi
è ludibrio
ma lo sputo e le percosse
come maschere di cera
si sciolsero.
Il sole non ne raccolse l’anima.
Il mondo conobbe lo smarrimento del “senza”
Simone di Cirene fu
ombra, della pietà dispersa
“non piangete per me, ma per voi”
troppo basso il tono della voce , dal dolore
di Uomo
dalla pelle sbranata, chiamasti donna
tua madre
cantasti per lei
l’amore del suo seno vuoto
il tuo andartene
il suo permanere donna madonna dolorosa e pregna.
La strada indicata per il Golgota
confonderà
polvere e sangue
dolori e disattese.
Ineludibile l’amaro retrogusto della viltà.
Nessun marchio impedì l’infinitezza
neanche a chi rimase senza fede
ma ancora ti cerca di carne, nell’amore.
La veste tirata in sorte
firmava, per chi si contava vivo,
la maschera della morte del tutto
Pietoso Uomo
copristi, le loro carni
in luoghi che solo Tu hai benedetto e pianto
“In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”
All’eclisse del vero
atterriscono gli umani
“padre nelle tua mani consegno il mio spirito”
Scompare il sole.
Il vuoto
aprirà un abisso di
cadute e, attraversamenti
sfoceranno a delta su tutti i fiumi
per riportare a mare
il viaggio verso Itaca.
Un lenzuolo pietoso
si farà silenzio.
Attende le nostre parole
coronate di rose.
Fabio Grimaldi è nato a Macerata nel 1968 ed è laureato in Lettere moderne.
Esordisce nel 1989 con la raccolta Il vero della vita, presentata da Mario Luzi e segnalata al premio Montale.
Ha pubblicato diverse plaquettes poetiche, ultima delle quali “Invisibili bambini”.
Ha curato l’antologia Con gioia e con tormento, che raccoglie poesie autografe dei più significativi autori italiani contemporanei.
Interessato all’opera di Mario Luzi, ha inoltre pubblicato La stella della semplicità. Conversazione con Mario Luzi e curato Vita fedele alla vita. Autobiografia per immagini di Mario Luzi.
Recentemente è uscita la raccolta di poesie per bambini Il gallo canta in rima.
venerdì 26 giugno 2009
UN PUNTO OLTRE L'ORRORE. LA POESIA DI DANIELE MENCARELLI
Si potrebbero fare vari nomi - Primo Levi, il Calvino della Giornata di uno scrutatore, il Solgenytsin di Padiglione cancro - anche se qui non c'è nessuna implicazione ideologica, solo un impegno etico teso fino allo spasmo doloroso.
Ma si erge, su tutto - al di là di ogni consonanza e di ogni parallelo, oltre i limiti della letterarietà -, quella che si potrebbe chiamare la nostalgia dell'umano - di un'umanità autentica proprio perché vilipesa, oscuramente redenta proprio quando appare, in tutta la sua evidenza, l'inesplicabilità, ma non necessariamente l'insensatezza, anzi forse il segreto, oltreumano significato, del suo sterile martirio che non salva nessuno, almeno qui e ora: tutte realtà che l'odierno patinato edonismo tende ad esorcizzare (un tabù, oggi, la sofferenza e la morte, mentre in passato lo era il sesso, oggi al contrario esibito e gridato), e che invece la poesia si assume qui la tragica e sacrale missione di riportare alla luce, di enunciare.
Si potrebbe citare, per un raffronto non privo di contrasti, certa letteratura della crudeltà, della sofferenza, del corpo lacerato, della carne piagata e scossa dagli spasmi (Sade, Lautréamont, Artaud, fino al Benn di Morgue – ma già l'Inferno dantesco rinserra l'eternità della pena senza redenzione né “speranza di morte” nella circolarità angosciosa, cupamente liturgica, oscenamente rituale, dei gironi).
Il dolore, l'orrore, la malattia, il disfacimento, la luce gelida ed impietosa del tavolo settorio sono qui mostrati, a tratti, con un'evidenza, un'immediatezza e una naturalezza che si vorrebbe definire quasi “pornografiche” - nel senso in cui Carmelo Bene definiva pornografica, alla fine del Processo, la sequenza in cui Josef K. è condotto a morte, ormai inerte, rassegnato, abbandonato all'impossibilità di capire il senso di un destino inflessibile ed impenetrabile.
A suo modo, per certi aspetti, una poesia “crudele”, che sa parlare senza timore (e con un grado ben più alto ed intenso di autenticità rispetto alla tanta letteratura minimalista, pulp e splatter che spaccia per realismo il fumettistico compiacimento dell'orrido) di volti divorati dal male, di corpi devastati dall'infezione, di membra sezionate; eppure, una poesia che riscatta il dolore, che lo redime alla luce di un'umanità assoluta, protesa, per così dire, al di là di ogni ideologia, di ogni religione, di ogni etica: uno sguardo levato al di là di tutto, a fissare "un punto oltre l'orrore" - e quel punto è alonato e racchiuso proprio dalla luce impalpabile - lo si può dire senza enfasi - del Verbo poetico.
Si potrebbe citare ancora Benn (anche se qui - in quest'aria resa più spirabile dal tenue bagliore di una speranza riposta nel qui ed ora come nell'oltre, in questo spazio esistenziale colmato di senso dalla muta testimonianza degli eroi senza nome che parlano proprio attraverso queste pagine come tanti ebrei attraverso quelle di Levi - non c'è ombra del suo nichilismo): “... nel verso / esorcizzare le cose con la parola. (...) Nel verso / il monologo delle ore e della notte”.
(M. V.)
*************
Ed è da quando ti ho incontrato,
“Bambino Gesù”, ospedale pediatrico,
che il pregarti quasi mi vergogna,
io come l’altra fortunosa umanità
ad invocarti per la più vana delle miserie,
ignari di quanti nel pieno del supplizio
cerchino tua voce col poco fiato rimasto
o i tuoi lineamenti nel buio della stanza.
Se valgono questi versi una preghiera
dai giorni, anni, a questi uomini futuri,
ora bambini che forse non vedranno
la fine di questa sera di settembre.
***********
I primi orrori le facce funestate
agli inizi mi lasciavano di pietra,
gli altri operai rassicuranti,
“pure te ci farai l’abitudine”.
Il tempo ha continuato il suo dovere
ora per i nuovi sono io l’esperto
ma non so bene come aiutarli,
forse dovrei semplicemente dirgli:
“pure voi ci farete l’abitudine”,
vi abituerete ai piccoli malati
al pianto dei padri e delle madri
alle teste dei nati prematuri
ai corpi ordinati dentro le casse bianche.
(Padiglione S. Onofrio)
***********
Passarci mi tocca ogni mattina
di fronte a quella porta verde,
quante volte è stata spalancata
piena di parenti a farsi forza,
e come non capire chi tra quelli
fossero padre e madre fino a poco prima,
lo si capisce dal vuoto degli sguardi
persi in un punto che gli altri non vedono.
Ogni mattina che mi tocca di passarci
vorrei esaudito l’impossibile desiderio,
di vederla sparita, anzi mai esistita,
un muro di cemento al posto della porta,
in nessuno al mondo l’ombra di un ricordo
che gliela faccia mai più rivivere.
(Camera Mortuaria)
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Una mattina come tutte le altre
sole e piccioni freschi in cielo,
“prima o poi doveva capitarti”,
così gli altri operai mi dissero.
Non ho ricordi ad aiutarmi
tranne il tavolo d’acciaio bucherellato,
gli arnesi riposti nelle vetrate
l’odore pungente della formalina.
Ancora pago quell’attimo
quell’unico attimo d’innata curiosità,
ricordo barattoli e niente altro,
più che altro niente voglio raccontarti,
se non lo specchio al lato della stanza
che rifletteva uno frenetico a spazzare
a finire il prima possibile il suo dovere,
sudato zuppo con gli occhi vitrei allucinati.
(Pio XII, sala autopsie)
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Lo attraversammo quasi di corsa
il reparto degli infetti
reietti perfino dalla vista,
dalla medicheria arrivarono grida
impossibile non alzare lo sguardo,
vedemmo solo un corpo scarnito
passato da mille tubi trasparenti
e ancora l’atroce dolore urlato.
Uscimmo all’aria aperta
come riemersi dall’abisso,
di noi il più anziano mi si girò contro:
“tu che tanto speri e tanto credi
spiegami una possibile giustizia
di quell’agonia morte futura”.
Non risposi ma una voce
si alzò alta dalle viscere
“per questo credo di più ancora”.
(Padiglione Spellman)
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Non lo finirai il tuo tatuaggio,
le rose bianche, verdi le foglie e gli steli,
t’avrebbe preso quasi metà braccio
dicevi fiero al primo abbozzo,
e noi draghi alle tue spalle
dicendo fosse più giusto un diavolo
o Lucifero in persona
inciso sulla tua pelle.
Solo i gambi e le prime foglie
verranno con te sotto la terra,
le rose bianche, insieme fiorirete altrove.
(Stefano Scalise, operaio)
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Avevo un pavimento da lavare
io che prendo tutto come una missione
anche questo lavoro da tanti disprezzato,
affrettai ancora di più la marcia
sul corridoio di marmo lucidato.
Andavo incontro a due ragazzi
il figlio in braccio mi dava le spalle
loro ci giocavano e lui rideva,
gli fui davanti proprio mentre si girava,
perdonami per la durezza delle parole,
di un bambino aveva il corpo
ma il viso quello di un mostro
sotto gli occhi niente naso niente bocca
solo buchi di carne viva.
Non so se fu più forte
la pietà o forse il disgusto,
quasi correndo abbassai la testa,
ma già avevo la certezza
che di lì a poco l’avrei rivisto
per quel passaggio a me obbligato.
Persi tanto tempo nelle mie faccende
prima di andare mi augurai la loro assenza
poi via sul corridoio di marmo lucidato;
il caso me lo presentò ancora di spalle
ancora preso dai suoi giochi divertiti,
a farlo ridere così di gusto
non erano stavolta i genitori
ma un’anziana suora
distante un palmo dall’orribile viso,
vidi il sorriso di lei e le sue parole:
“ma quanto sei bello, che bel bambino sei”.
Per giorni m’accompagnò il dubbio
non riuscivo a crederla bugiarda,
poi una chiarezza si fece strada,
quegli occhi opachi di vecchia devota
guardavano un punto oltre l’orrore,
lì c’era solo un bambino che giocava.
(Padiglione S. Onofrio)
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Fra gli scaloni eterno è l’andirivieni
padri intenti a far la guardia ai passeggini
accenti sconosciuti che salutano famiglie
raggiungibili solo per una linea di telefono,
tutta una normalità risaputa sembra,
invece poi vedi la signora altolocata
correre ad abbracciare la zingara di strada,
chiederle se la bambina è un po’ ingrassata
se quella medicina ancora la disturba,
poi è la rom ingioiellata e scura
a voler da lei notizie sul figlio malandato,
ed intanto l’abbraccio si ripete,
parlano i loro sguardi che si fanno
a vicenda sembrano dirsi:
“anche tu resisti ancora, anche tu
sopporti la disgrazia con coraggio”.
Mesto l’ultimo loro saluto si alza:
“ci rivedremo tanto, di sicuro”.
(Padiglione Pio XII)
giovedì 25 giugno 2009
MINIMI E INUTILI SGUARDI SUL MONDO
Eppure, resta una libera scelta quella di trascorrere un pomeriggio al centro commerciale anziché in pinacoteca (quelle di Imola e di Faenza, per inciso, sempre deserte, sono spendide).
Al centro commerciale (non solo lì invero) tutti o quasi biascicano il chewing-gum, sbattendo in faccia al prossimo il proprio disprezzo e la propria noncuranza.
Masticare per masticare, senza nutrirsi (con la fandonia di miracolose sostanze che preserverebbero i denti, la cui perdita inevitabile è simbolo dell'aborrita vecchiaia, dell'ignominioso declino fisico stigmatizzato e colpevolizzato dalla cultura del fitness).
L'esatto contrario della virtuosa e sapiente ruminatio delle Sacre Scritture praticata dai monaci medievali.
Masticare per masticare, così come si compra per comprare, si consuma per produrre - "si vive per vivere, senza sapere di vivere", come diceva Pirandello lettore di Schopenhauer.
Homo ruminans: l'ultima mutazione antropologica. E il chewing-gum fa americano, è parte integrante della american way of life.
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A me (e certo non a me solo) è accaduto spesso di pensare che la libertà d’espressione sia, per così dire, il prezzo che il sistema capitalistico paga in cambio della diffusione onnipervasiva della sua alienante e reificante logica.
L’aspetto negativo dell’ordine capitalistico è certo rappresentato, appunto, da quella che un tempo si chiamava alienazione (termine che oggi sa di intellettualismo, ideologizzazione, dottrinarismo, ma che designa purtroppo una realtà dolorsamente e angosciosamente esistente, tangibile, vissuta).
L’aspetto positivo, se c'è (accanto alle comodità e agli agi, fra cui lo stesso strumento che ora stiamo usando per comunicare e riflettere, e ai quali nessuno, indipendentemente dalle sue convinzioni, saprebbe o potrebbe più rinunciare, a meno che non si voglia ricadere nel mito, molto borghese, del primitivismo), consiste appunto nella libertà d’espressione, che consente di manifestare e di lamentare quello stesso stato di alienazione, cosa che in un regime totalitario porterebbe (e porta) alla messa al bando per disimpegno politico, sentimentalismo borghese, tendenze antisociali, se non alla prigionia.
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La Cina (stando almeno all’impressione, molto parziale, e forse deformata o amplificata dai media, che se ne può avere da qui) mostra un esempio di capitalismo con tutti gli aspetti negativi (materialismo, consumismo, inquinamento, degrado morale, accentuazione delle sperequazioni) senza il risvolto positivo (elezioni democratiche, libertà di espressione e di culto).
Forse i cinesi non cercano e non cercheranno mai la libertà, perché hanno ormai raggiunto, nelle città, un relativo benessere, e nelle campagne sono narcotizzati e paralizzati da una rassegnazione millenaria (né hanno mai attraversato, come l’Occidente, il tirocinio delle “rivoluzioni borghesi”, che se da un lato posero le basi dell’ordine capitalistico, dall’altro abbatterono definitivamente quello nobiliare e feudale, ancor più oppressivo).
Insomma la realtà capitalistica non è la panacea di tutti i mali, ma è forse, allo stato attuale delle conoscenze, il male minore (essendo la socialdemocrazia scandinava difficilmente applicabile altrove).
*********
L’idea dell’assoluta “disponibilità” della vita umana, del completo arbitrio bioetico riconosciuto al singolo, non rischia forse di rappresentare, per l’appunto, il trionfo ultimo dell’individualismo postmoderno, l’approdo estremo dell’egoismo e dell’individualismo borghesi?
E' solo un dubbio. Io non ho risposte. Da un lato la sacralità della vita, dall'altro la libertà del singolo e l'habeas corpus. Due istanze contrapposte e, su basi e per motivi differenti, entrambe irrinunciabili. Un'aporia che non trova soluzione, se non in una scelta ideologica o confessionale che costringe, per definizione, a "mettere fra parentesi", almeno in parte, il proprio senso critico - o nell'approdo, vincolante, cogente e insieme rassicurante, per certi aspetti rasserenante, ad una morale assoluta, trascendente, rivelata.
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E’ ovvio - contrariamente ad uo dei tanti slogan di moda già da anni, e non solo a destra - che la scuola non può essere un’azienda, se non altro (al di là di ogni sottile questione culturale e pedagogica) per il semplice motivo che non vende nulla, e che gli studenti non ricevono un salario.
Nè bisogna scaricare sulla scuola responsabilità eccessive. Le “agenzie formative” principali sono e restano la televisione (ahinoi), il gruppo di amici e la famiglia (”agenzie” che esercitano un potere persuasivo incomparabilmente maggiore).
Quanto all’”educazione estetica dell’uomo”, come la chiamavano i romantici, che viene ancora invocata con abbondante spreco di enfasi e d retorica…. Molto dipende dalla società in cui viviamo, nella quale non si viene certo apprezzati per la sensibilità e la cultura.
C'è da chiedersi, poi, quanto e fino a che punto la sensibilità estetica e culturale possa essere infusa dall’esterno, attraverso l’”inculturazione” esercitata dalle istituzioni. Credo che un ruolo decisivo sia giocato dalla predisposizione individuale, dall’ambiente familiare, dalle condizioni di vita e di lavoro (chi torna, stremato, da dodici ore di pronto soccorso o di fabbrica difficilmente si metterà a leggere Virgilio o Heidegger, ma sarà pronto ad ingoiare due ore di grande fratello).
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Paradosso delle democrazie capitalistiche, che da un lato (attraverso l’industria culturale, dunque sempre a fini di produzione e di consumo) mettono potenzialmente a libera disposizione di tutti un patrimonio sterminato e quanto mai variegato di espressioni, ideologie, visioni del mondo, dall’altro sottopongono l’individuo ad un processo di alienante massificazione, che rischia di porlo, di fatto, nell’incapacità di recepire, assimilare e far proprio quel patrimonio, o anche solo di trovare in sé la motivazione e la determinazione ad avvicinarvisi…
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Eppure, non si può che continuare, al di là delle ideologie, a credere - ostinatamente, assurdamente, disperatamente, contro tutto - nell’uomo, nella sua libertà e nella sua volontà.
Ma anche questa - direbbe l'amaro e disincantato Renato Serra - è letteratura.
M. V.
venerdì 19 giugno 2009
ALVARO VALENTINI, UN SEMINARIO SULLA METAFORA
M E T A F O R A
Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea
(Prof. Alvaro Valentini)
Anno Accademico 1980-81
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi
di Macerata
LA METAFORA secondo Aristotele
«La metafora consiste nel trasferire a un oggetto il nome proprio di un altro, e questo trasferimento avviene o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o da specie a specie, o per analogia.
Secondo me, un traslato dal genere alla specie si ha in questo esempio: “Ecco, la mia nave è ferma”, perché “essere ancorato” è una specie del generico “essere fermo”. Esempio di traslato dalla specie al genere: “Migliaia di gloriose imprese ha Ulisse compiute”, dove “migliaia” sta per “molte”, in luogo di cui è stato usato. Esempio di traslato da specie a specie: “avendogli attinta la vita col bronzo” e “coll’imperituro bronzo avendo l’acqua tagliato”, dove “attingere” sta per “tagliare” e “tagliare” per “attingere”; e ambedue i vocaboli sono specie del generico “portar via”».
Per rapporto di analogia intendo quando di quattro termini, il secondo sta al primo come il quarto sta al terzo; e infatti si potrà usare il quarto per il secondo e il secondo per il quarto, e qualche volta anche aggiungere il termine in rapporto col quale sta la parola sostituita dalla metafora. Esempio: il termine “coppa” sta a Dioniso come quello di “scudo” sta ad Ares; il poeta dirà che la coppa è lo “scudo di Dioniso” e lo scudo “la coppa di Ares”. Oppure: la vecchiaia sta alla vita come la sera al giorno. Il poeta chiamerà la sera “vecchiaia del giorno” o, come Empedocle, la vecchiaia “sera” o “tramonto della vita”».
Aristotele, La poetica, Milano 1956, cap. XXI, pp. 98-99.
Sul modello di Aristotele, Quintiliano dirà (Inst. Or., 8, 6, 9): «In totum autem metaphora brevior est similitudo, eoque distat quod illa comparatur rei quam volumus exprimere, haec pro ipsa re dicitur»
(Aristotele aveva recato, infatti, l’esempio: Achille balzò come un leone (similitudine); (con il balzo di Achille, si può dire che) balzò un leone (metafora).
LA METAFORA nel trattato Del Sublime
«Ad ogni modo, pur nello svolgimento dei luoghi comuni e nelle descrizioni, nulla reca tanto significato quanto un continuo succedersi di tropi. Per tale mezzo (…) l’anatomia del corpo umano (è dipinta) divinamente da Platone. Rocca del corpo questi chiama il capo, e fra capo e petto dice costruito un istmo, cioè il collo, e sotto fissate come a piani le vertebre. Il piacere è per gli uomini l’esca del male e la lingua è pietra di paragone del gusto. Il cuore nodo delle vene e sorgente del sangue che circola impetuoso; collocato lì al posto di guardia. Le diramazioni dei canali le chiama sentieri (…). E la sede della cupidigia egli la chiama gineceo o appartamento delle donne, e quella dell’ira appartamento degli uomini; la milza asciugatoio degli organi interni, per cui, riempiendosi delle impurità, appare grossa e tumefatta (…). E quando sopravviene la morte, dice che dell’anima si sciolgono le gomene, come d’una nave, e ch’essa è lasciata libera (cfr. Platone, Timeo, 69 d sgg.).
Queste e altrettali espressioni sono lì di seguito infinite; ma bastano gli esempi citati a mostrare come sia grande per sua natura il linguaggio traslato, e come concorrano al sublime le metafore, e che di esse, per lo più, si compiacciono i luoghi patetici e descrittivi».
Del Sublime, a cura di Augusto Rostagni, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947, cap. XXXII, pp. 95-99 passim.
LA METAFORA BAROCCA
Sono presenti alla memoria di tutti due metafore celebri: “Ridono i prati” di Petrarca e “prata biberunt” di Virgilio. Questi, che per i due poeti rappresentavano due lampi, due illuminazioni, per i poeti barocchi, e per i trattatisti dell’età barocca, sono appena i primi anelli di una catena. Per Emanuele Tesauro (Il Cannocchiale aristotelico, Valvasente, 1688, pp. 71-73; le citazioni sono tratte da questa edizione) se i prati ridono possono anche piangere, in quanto le gocce di rugiada possono essere intese come “lacrimae” che “cadunt gaudio”. Attribuita ai prati una “facies” umana, che può anche essere “pulcherrima”, i prati conoscono la canizie delle nevi, salutano festosi la loro età novella, “pereunt hyeme”, e, sulla scia della loro umanizzazione, finiscono col mutare i loro fiori in “oculi micantes”.
Si potrà anche dire che “ridentibus pratis falx dira supervenit”. O anche che “prata lugent” nel caso che siano sterili. Dalla umanizzazione dei prati nasce la catena delle metafore. “Prata rident” poiché “laeta sunt”. E posso giocare, quindi, su una espressione siffatta: “Tam effuse rident prata ut roscidas exprimant lachrimas”, poiché quelle lacrime “cadunt gaudio”.
Stabilita la possibilità di vedere antropomorficamente i “prata”, niente vieta di dire che essi “Boream pavent”.
Le espressioni appassionate che possono essere dedotte, svolgendo l’argomento, sono infinite: Tellus benefica, Ingratum solum, prata nivibus canescunt, oppure, in primavera conoscono la loro “nova aetas”… Il Tesauro chiama tutte queste espressioni “simboli ingegnosi” e giunge ad immaginare una Terra che, per la sua amenità, possa essere vista come una “giovane ridente, vestita a verde e trapuntata di perle come rugiade, con le chiome di frondi…". E “per contrario simbolo” aggiunge che si può rappresentare la Terra sterile “in guisa di Vecchierella piangente, pallida, rugosa, scarna, con le chiome al modo di sfrondati rami”.
Come si vede la dialettica sillogizzante è messa al servizio della fantasia inventrice; e la poesia barocca vuole esprimere gli stati d’animo con mezzi razionali.
LA METAFORA E LA POESIA SECONDO VICO
«Partendo da quest’ultima ipotesi (le figure hanno un’origine “naturale”1), si possono distinguere ancora due tipi di spiegazioni. La prima è mitica, romantica, nel senso largo del termine: la lingua “propria” è povera, non basta a tutti i bisogni, ma vi supplisce l’irruzione d’un altro linguaggio, “quel divino sbocciare dello spirito che i greci chiamavano Tropi; oppure (Vico ripreso da Michelet), dato che la Poesia sarebbe il linguaggio originale, le quattro grandi figure archetipiche sono state inventate nell’ordine, non da scrittori, ma dalla umanità nella sua età poetica: Metafora, poi Metonimia, poi Sineddoche, poi Ironia: in origine esse erano impiegate naturalmente. Come son potute diventare delle “figure di retorica”? Vico dà una risposta assai strutturale: quando è nata l’astrazione, vale a dire quando la “figura” s’è trovata in una opposizione paradigmatica con un altro linguaggio.
La seconda spiegazione è psicologica: è quella di Lamy e dei classici: Le figure sono il linguaggio della passione. La passione deforma il punto di vista sulle cose e costringe a parole particolari: “Se gli uomini concepissero tutte le cose che si presentano al loro spirito, semplicemente, come sono in sé e per sé, ne parlerebbero alla stessa maniera: gli studiosi di geometria tengono quasi tutti lo stesso linguaggio” (Lamy). Questa prospettiva è interessante, perché se le figure sono i “morfemi” della passione, attraverso le figure possiamo conoscere la tassonomia classica delle passioni, e specialmente quella della passione amorosa, da Racine a Proust. Ad esempio: l’esclamazione corrisponde al brusco furto della parola, all’afasia emotiva; il dubbio, la dubitazione (nome d’una figura) alla tortura delle incertezze di comportamento (Che fare? questo? quello?), alla difficile lettura dei “segni” emessi dall’altro; l’ellissi, alla censura di tutto ciò che turba la passione (…).
Si comprende allora meglio come il figurato possa essere un tempo naturale e secondo: è naturale perché le passioni sono nella natura; è secondo perché la natura esige che queste stesse passioni, per quanto “naturali”, siano distanziate, poste nella regione della Colpa; ed è perché, per un classico, la natura è “cattiva”, che le figure di retorica sono ad un tempo fondate e sospette».
ROLAND BARTHES
(La Retorica Antica, Bompiani,
Milano 1979, pp. 106-107)
1) «A la ville, à la cour, dans les champs, à la Halle, l’éloquence du coeur par les tropes s’exhale» (F. Neufchateau)
«Basta ascoltare una lite tra le donne della condizione più vile: quale abbondanza nelle figure! Esse prodigano la metonimia, la catacresi, l’iperbole, ecc.» (J. Racine)
REALTA’ PSICOLOGICA DELLA METAFORA
«La metafora è per noi molto più di una semplice operazione di transfert di significato: essa è un modo di approccio e di conoscenza della realtà ed in quanto tale deve essere riscoperta e rivalutata. Se da un punto di vista operazionale la metafora consiste nella decontestualizzazione e ricontestualizzazione di un elemento (questo infatti viene dissociato da quello che è il suo contesto abituale per essere associato ad un nuovo contesto), da un punto di vista psicologico la metafora, che pur si avvale di tale operazione, consiste essenzialmente nella creazione di nuova realtà, di nuove esperienze che non sarebbero altrimenti designabili.
La metafora è contemporaneamente magica e logica, soggettiva e oggettiva, interiore e comunicativa, e la sua forza sta proprio nel fatto che in essa si conciliano poli differenziati. Se da un lato la metafora esprime ciò per cui il linguaggio denotativo è insufficiente, la sua funzione non si esaurisce in questo ma consiste essenzialmente nell’evocazione di una nuova realtà e nella reificazione dei suoi significati. In questo senso la metafora ha una forza magica, consistente nel suo potere di creare e di imporre nuove “presenze”.
I segni “cielo” e “fazzoletto” hanno un significato letterale nella lingua italiana, stabilito da una certa convenzione d’uso dei medesimi. Nel momento in cui vengono associati, per esempio nella frase “il turchino fazzoletto dei cieli”, si verificano due fenomeni semantici complementari che interessano non soltanto il linguista ma anche lo psicologo. Se da un lato infatti la parola “fazzoletto” non può essere interpretata nel suo significato convenzionale, dall’altro lato anche il significato della parola “cielo” viene ampliato oltre ciò che stabilisce la convenzione. Le due parole assumono significati diversi da quelli abituali per un fenomeno di reciproca induzione semantica…
…La metafora presenta una duplice realtà psicologica: in senso lato e in senso stretto. In quanto modo inconsapevole di approccio con il mondo, che non si avvale della riflessione ma che si fonda essenzialmente sulla sintonia dell’io con la realtà esterna, delle cose con le cose, su una fusione sincretica di polo soggettivo e oggettivo, la metafora presenta una realtà psicologica in senso lato: essa appartiene al mondo magico, le cui leggi sono quelle della partecipazione, del sincretismo e della diffusione, In quanto invece mezzo intenzionale e comunicativo di conciliazione dei due poli soggettivo e oggettivo, di superamento del già noto, essa presenta una realtà psicologica in senso stretto ed è demandabile alle capacità combinatorie del pensiero divergente (…). Ci sembra di poter individuare un “mondo metaforico”, diverso da mondo fisico obiettivo, che è compito della metafora fare emergere dalla coscienza (…). Il mondo metaforico è quindi essenzialmente un mondo di partecipazione in cui il soggettivo e l'oggettivo sono indifferenziati: esso sta alla base di quella conciliazione creativa e consapevole dei due poli che si verifica nella metafora».
Fonzi – E. Negro Sancipriano, La magia delle parole: alla riscoperta della metafora, Einaudi, Torino 1975, pp. 3-6 passim.
LA VERITA’ DELLA METAFORA
«… Le mie conclusioni sono che nel leggere metafore: 1) ci si presentano delle immagini; 2) tali immagini non sono libere; 3) tali immagini sono esperienze quasi sensuali; e 4) tali immagini sono contemplate secondo una loro propria finalità, sicché non corrispondono necessariamente o al mondo fisico o alla “realtà”.
(…) Ora si può distinguere la metafora da quegli elementi che nella poesia sfruttano il suono, quali la rima e il ritmo, per il fatto che la prima utilizza immagini “viste” e “sentite” mentre i secondi approfittano di impressioni sentite per davvero. Tuttavia non si è ancora distinta l’essenziale unicità della metafora dalle descrizioni che nella poesia funzionano ironicamente. Per esempio, in questa strofa da The Waste Land:
Dopo il lume delle torce rosse sui volti sudati
Dopo il gelato silenzio nei giardini
Dopo l’agonia in luoghi petrosi
Il clamore e il compianto.
(Th. S. Eliot, The waste land, vv. 322-25),
il primo verso è altamente immaginistico, seppure non è metaforico. Eliot ha uno speciale talento per far sì che il lettore “veda”, “senta”, “odori”, “gusti” e “tocchi” attraverso le sue descrizioni. La metafora, tuttavia, implica un ulteriore elemento essenziale.
La metafora non implica solo simili descrizioni iconiche, ma implica la relazione intuitiva di “vedere come” fra parti della descrizione. Nella metafora di Shakespeare: “Il Tempo porta, o mio signore, una bisaccia sul dorso/ Dove egli ripone elemosine per l’oblio,/ un gigantesco mostro di ingratitudine” (Troilo e Cressida, III, 3, vv. 145-147), non c’è solo una descrizione iconica del tempo e di un mendicante, ma del tempo visto come un mendicante. La metafora non implica solo un tenore e un veicolo, per usare la terminologia del Richards, messi insieme a una frase, ma la relazione positiva di “vedere come” fra tenore e veicolo"
N. Hester, The Meaning of Poetical Metaphor, The Hague-Paris, Mouton, 1967, pp. 146-150 e 169-70 passim, citato da E. Raimondi-L. Bottoni, Teoria della letteratura, Bologna 1975.
UNA PROSPETTIVA FREUDIANA PER LA METAFORA
Freud non si è occupato della metafora in senso stilistico e retorico, ma dalla sua Interpretazione dei sogni (nonché dalla Psicopatologia della vita quotidiana e dal Motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio) si possono ricavare utili proposte per leggere la metafora in chiave psicanalitica.
Scrive Freud (L’Interpretazione…, in Opera, III, Torino 1967, p. 257): «Pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere segni e regole sintattiche, confrontando l’originale con la traduzione».
L’interpretazione del sogno può ritenersi analoga, quindi, all'operazione di riduzione della metafora. Come il sogno si spiega in relazione a tutta la vita mentale del sognatore, così il funzionamento di una metafora esige un processo di astrazione paradigmatico che interessa tutto il sistema della lingua o di un testo particolare.
Può essere di qualche utilità il seguente schema per un parallelismo tra sogno e metafora, secondo Freud:
S O G N O M E T A F O R A
1) Contenuto latente termine di partenza
2) Contenuto manifesto termine di arrivo
3) Condensazione sovrapposizione o addizione
4) Spostamento doppia metonimia o doppia sineddoche
5) Immagini Parole
Per spostamento, in Freud, si deve intendere che la rappresentazione del sogno è spostata verso elementi periferici; nel processo retorico si ha una metonimia (ala per uccello): ma la metafora, secondo Henry, sarebbe una doppia metonimia e per gli autori della Rhétorique générale il prodotto di due sineddochi.
Per condensazione si deve intendere che, nel sogno c’è un processo di sovrapposizione di più immagini dietro una sola immagine; nella metafora si ha la sovrapposizione di due campi semantici.
(Riduzione da G. Sàvoca, Introduzione allo studio della metafora, Bonaccorso, Catania 1976, pp. 48-67).
M E T A F O R A
«Tradizionalmente la metafora è considerata una similitudine accorciata, similitudo brevior (Quint. VIII, 6, 8). Ad esempio, Achille è un leone deriva da Achille combatte come un leone; Tizio è una volpe è la condensazione di Tizio è furbo come una volpe.
La metafora designa un oggetto attraverso un altro che col primo ha un rapporto di similitudine. Quando diciamo “capelli d’oro” vogliamo intendere “capelli biondi come l’oro”.
I moderni studi di retorica hanno abbandonato la definizione della metafora come similitudine abbreviata e si sono proposti di approfondire la genesi linguistica del traslato.
In effetti, “si dice che una metafora è una parola usata al posto di un’altra per rendere un referente con un significato diverso (Berruto, La semantica, Bologna, 1975, p. 117). In "capelli d’oro" la metafora d’oro non indica come è ovvio un referente, ma un significato traslato, cioè diverso da quello letterale. La metafora, come la metonimia e la sineddoche, opera uno spostamento di significato: ma secondo quali regole?
“La spiegazione del meccanismo di trasferimento di significato, cioè delle regole secondo cui una parola sostituisce quella “propria” in un certo significato, è fondata su una parentela di somiglianza in base alla ‘catena’: la parola x, usata propriamente per designare il referente x, viene usata per designare il referente y (al quale può o non corrispondere una parola ‘propria’); che rapporto c’è fra parole, significati e referenti? La risposta è che si ha metonimia quando tra i significati c’è una relazione di contiguità logica e/o materiale: per es., causa ed effetto ("lavoro" per "opera compiuta" in "il quadro che hai terminato è proprio un bel lavoro"; materia ed oggetto ("ferro" per "spada" o "arma"); contenente e contenuto (bicchiere per "un po’ di vino" in "ho bevuto un bicchiere di Chianti"); astratto e concreto ("inseguimento" per "inseguitori" in "è sfuggito all’inseguimento"), ecc.
Si ha sineddoche quando tra i significati c’è una relazione di maggiore o minore estensione (in termini tecnici, diremmo di iponimia), o di parte e tutto: "macchina" per "automobile", "bocche" per "persone" in "tante bocche da sfamare", ecc.” (Berruto, op. cit., p. 116 sgg.).
Nella metafora il meccanismo di spostamento semantico può avvenire tramite un termine intermedio che accomuna proprietà inerenti ai due termini che sono il punto di partenza e il punto di arrivo della metafora (X e Y). Ad esempio, la metafora "il dente della montagna" verte sulla traslazione ‘cima’ - ‘dente’ (rispettivamente X e Y), resa possibile dal termine intermedio ‘aguzzo’, ‘appuntito’ che accompagna il cosiddetto ‘veicolo’ della metafora (X) al ‘tenore’ (Y).
1. Metafora e metonimia secondo Jacobson. Jacobson afferma che “Lo sviluppo di un discorso può aver luogo secondo due differenti direttrici semantiche: un tema conduce ad un altro sia per similarità sia per contiguità. La denominazione più appropriata per il primo caso sarebbe direttrice metaforica, per il secondo direttrice metonimica, poiché essi trovano la loro espressione più sintetica rispettivamente nella metafora e nella metonimia.” (Jacobson, Saggi di linguistica generale, Milano 1966, p. 40).
Si tenga presente che per Jacobson la metonimia comprende anche la sineddoche: nella metafora sono confrontati due termini che hanno fra loro un rapporto paradigmatico, di somiglianza: l’espressione capelli biondi può essere associata all’idea dell’oro, per cui si ha la metafora capelli d’oro (i due elementi sono esterni l’uno all’altro); nella metonimia il rapporto tra i due termini è sintagmatico, di contiguità (intrinseco): fra vela e nave (in ho visto una vela partire), sudore e lavoro (in si guadagna la vita col sudore della fronte), corona e re (in discorso della corona) c’è un rapporto interno perché la prima parola (metonimia-sineddoche) è una parte dell’altra, una sua causa o reificazione ecc.
Aristotele (Poetica, 1457 b, Retorica, 1407 a) dice che tra la vecchiaia e la vita c’è lo stesso rapporto che tra la sera e il giorno: “il poeta dirà dunque della sera, con Empedocle, che è la vecchiaia del giorno, o della vecchiaia che è la sera della vita o il tramonto della vita.
Qui la scelta paradigmatica vecchiaia-sera è sottesa da un rapporto analogico strutturabile in uno schema che spiega il “meccanismo sublinguistico” (Henry) operante a livello profondo:
vecchiaia = sera
vita = giorno
Dagli enunciati:
La vecchiaia è la fine della vita
La sera è la fine del giorno
derivano l’analogia distesa
3. La vecchiaia è la fine della vita come la sera è la fine del giorno
e la metafora
4. La vecchiaia è la sera della vita.
L’equiparazione vita-giorno comporta l’equiparazione vecchiaia-sera e la possibilità del transfert semantico con l’eliminazione del termine comune ai due enunciati profondi.
2.Morfologia della metafora secondo Henry.
“Nella metafora - sostiene Henry – l’intelletto sovrappone i campi semici di due termini appartenenti a campi associativi diversi (e talvolta assai lontani l’uno dall’altro), finge di ignorare che vi è un solo tratto comune (raramente ve ne sono di più) e opera la sostituzione dei termini (Henry, Metonimia e metafora, Torino, 1975, p. 88).
Così in capelli d’oro si hanno due campi semici - quelli relativi a capelli e oro – con tratti o componenti o semi assai diversi, salvo uno, il colore, che può permettere lo spostamento semantico:
oro: colore “giallo” (e non “bianco”)
capelli: colore “biondo” (e non “nero”, “rosso”, ecc.)
Il tratto comune giallo-biondo permette la formazione della metafora:
capelli - giallo -oro -biondo
La metafora può essere espressa in varie forme grammaticali (nomi, verbi, aggettivi prevalentemente). La metafora nominale ha diverse strutture:
la sostituzione di un solo nome: è nata una stella (=diva del cinema)
la copula: il mare in certi giorni / è un giardino fiorito (Cardarelli)
l’apposizione: e l’eco che non tace, amica dei deserti (Quasimodo)
la costruzione col genitivo: non c’erano trombe di mitraglia (De Libero)
la catena di due o più nomi: voci di tenebra azzurra (Pascoli)
La metafora verbale può riguardare il solo verbo ("Osservare tra frondi il palpitare / lontano di scaglie di mare", Montale) o il nesso sostantivo-verbo ("Trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un’immagine ride", Montale). Gli aggettivi metaforici sono comunissimi anche nel linguaggio standard: barba d’argento (=argentea), mani bucate, sguardo angelico, attacco fulmineo.
Secondo Henry occorre distinguere le metafore non sulla base della loro forma grammaticale, ma in rapporto al numero dei termini espressi, cioè quattro, tre, due e uno. La metafora a quattro termini è costituita dal rapporto di equivalenza a/b = a1/b1 (si ricordi l’esempio aristotelico).
Una metafora a tre termini è rappresentata dal verso di Hugo: "La vita è lo spaventoso viale delle sfingi", in cui si ha l’analogia:
viale = vita
sfinge = problemi
con i termini espressi a, b, a1 (b1 è contestuale).
Molto comune la metafora a due termini (a, a1, oppure a, b1). Ad esempio il sintagma il fuoco dell’amore ha come schema sublinguistico l’equivalenza
fuoco = amore
ardore = passione
Così le nevi della testa si analizza nello schema
nevi = capelli bianchi
montagna = testa
(con termini espressi a e b1).
La metafora a un termine richiede l’aiuto esplicatore del contesto, come quando diciamo: Arriva la mummia! per riferirci a una persona piuttosto silenziosa e appartata. Per capire il valore di forbice=’tempo’ nel montaliano Non recidere, forbice, quel volto… è necessario ricorrere al contesto della poesia (e al sistema tempo-memoria che percorre tutta la produzione di Montale).
3. Altre interpretazioni della metafora. Gli autori della Retorica Generale (1970 c, tr. ital., 1977, p. 161 sgg) ritengono che la metafora risulti da due operazioni di base: addizione e soppressione di semi (v.) e come tale sia il prodotto di due sineddochi, una particolarizzante secondo il modulo Π e una generalizzante secondo il modulo Σ [v. Sineddoche: generalizzante (Σ, mortale per ‘uomo’; Π uomo per ‘mano'), particolarizzante (Σ, zulù per ‘nero’; Π vela per ‘battello’)]. Ad esempio, la metafora "La betulla è la fanciulla dei boschi" si realizzerebbe secondo lo schema X-P-Y riformulato con le etichette P-I-A (termine di partenza, termine intermedio, termine di arrivo):
p- I-A,
dove P sarebbe fanciulla, A betulla e I ‘flessibile’: il percorso P-I è una sineddoche generalizzante Σ e il percorso I-A è una sineddoche particolarizzante Π (il primo modulo è esemplificato da mortale per uomo, il secondo da vela per nave).
Anche Eco (Le forme del contenuto, Milano 1971, p 95 sgg) ritiene che la metafora sia una catena di metonimie. Così, nella metafora barocca di Artale: "il crin s’è un Tago, e son due Soli i lumi", la connessione fra fiumi e capelli sarebbe metonimica, perché il sema ‘fluenza’ unifica i due sememi.
Nella sua più recente opera, Eco sembra aver rettificato questa interpretazione. Accentuando l’impostazione di Jakobson, secondo cui la metafora è una sostituzione per similarità e la metonimia una sostituzione per contiguità, afferma giustamente che la «similarità non riguarda una relazione tra significante e cosa significata, ma si presenta come identità semica» (Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, 1975, p. 348: l’esempio citato e domini canes = i domenicani, ‘cani del Signore’).
La metonimia, in cui è inglobata anche la sineddoche, rappresenta un caso di interdipendenza semica (e non di identità), che può essere di due tipi: a) una marca (cioè un sema) sta per il semema cui appartiene (vela per nave); b) un semema sta per una delle sue marche (uomo per mano; Eco cita l’esempio: Giovanni è proprio un pesce per ‘nuota molto bene’, ma sbaglia perché pesce è metafora). In conclusione «la connessione tra due semi uguali sussistenti all’interno di due diversi sememi (o di due sensi dello stesso semema) permette la sostituzione di un semema con un altro (metafora), mentre lo scambio del sema per il semema costituiscono metonimia» (Eco, op. cit. 1975, p. 352 sgg.).
L’assunto che la metafora sia il prodotto di due sineddochi (o di due metonimie) è criticato da Bertinetto (in Henry, op. cit. 1975, p. VII sgg.) che lo ritiene inadeguato a spiegare una locuzione metaforica del tipo Cassius Clay è una roccia sottesa da una duplice predicazione: Cassius Clay è forte, la roccia è dura. Lo schema sublinguistico di Henry mostra invece che la metafora è resa possibile dall’analogia fra i due termini ‘forte’ e ‘dura’.
La metafora è, sostanzialmente, un caso di anomalia semantica che, secondo la linguistica generativa, deriverebbe dalla violazione di determinate regole di selezione, e più esattamente le restrizioni di selezione che comandano la combinazione dei lessemi. Nella frase "Il sole ride" la metafora nasce dalla violazione del sema / + umano / che è una delle restrizioni di selezione del verbo ‘ridere’. Ancora meglio, si potrà dire che lo straniamento metaforico deriva dalla violazione delle presupposizioni referenziali. Ad esempio, in "Finalmente la mummia ride" (per indicare una ragazza chiusa, silenziosa) la normale presupposizione di ‘mummia’ = / cadavere imbalsamato / è violata dal riferimento a un tratto / + umano vivente /.
E' ciò che Weinrich (Metafora e menzogna, la serenità dell’arte, Bologna, 1976, p. 89) chiama “controdeterminazione”. Se il significato di una parola consiste essenzialmente in una certa aspettativa di determinazione (ad es. paesaggio), la metafora, trasferendo il senso del referente ad un altro (la vostra anima è un passaggio eletto), delude l’aspettativa e crea una sorpresa; il senso è provocato dal contesto. «Chiameremo questo processo “controdeterminazione” perché la determinazione effettiva del contesto avviene in direzione contraria all’attesa di determinazione della parola. Con questo concetto possiamo definire la metafora come una parola in un contesto ‘controdeterminante’» (Weinrich, op. cit. p. 89).
Etim.: dal greco metaphérein = portare oltre
ANGELO MARCHESE
(Dizionario di retorica e di stilistica. Arte e artificio
nell’uso delle parole, Mondadori, Milano 1978, pp.
158-163)
METAFORA LINGUISTICA E METAFORA ESTETICA
«La metafora, che ha attirato l’attenzione dei teorici estetici e dei retori fin da Aristotele, è stata esaminata negli ultimi anni anche dai teorici della linguistica. Il Richards (Philosophy of Rhetoric, London 1936; trad. it. Milano 1967) ha protestato energicamente contro il modo di considerare la metafora come una deviazione dalla norma pratica linguistica invece di esaminarne le possibilità caratteristiche e indispensabili. La ‘gamba’ della sedia, il ‘piede’ della montagna e il ‘collo’ della bottiglia sono tutte forme che applicano, per analogia, nomi di parti del corpo umano a parti di oggetti inanimati. Queste estensioni di termini, tuttavia, sono state assimilate nella lingua e per solito non sono più avvertite come forme di metafora neppure da chi sia particolarmente sensibile alle cose letterarie e linguistiche, e divengono allora metafore sbiadite o logore e morte.
Dobbiamo distinguere la metafora come “onnipresente principio del linguaggio” (Richards) dalla metafora specificamente poetica. George Campbell affida la prima al grammatico e la seconda al retore. Il grammatico giudica le parole dalle etimologie e il retore dalla capacità o meno di produrre “un effetto di metafora sull’ascoltatore (…). H. Conrad contrappone la metafora “linguistica” alla metafora “estetica” e fa notare che la prima (ad esempio: la gamba del tavolo) sottolinea il tratto dominante dell’oggetto, mentre la seconda tende a dare una nuova impressione dell’oggetto, a “immergerlo in una nuova atmosfera”».
(R. Wellek A. Warren, Teoria della Letteratura, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 267-268)
DALLA METAFORA ALL’ANALOGIA
L’analogia è “una sorta di estensione della metafora ai più diversi ordini sensibili” (S. F. Romano, La poetica dell’Ermetismo, Firenze 1942). Essa “consiste in una trasposizione di significato, risultante dalla comparazione di due diversi ordini di emozioni: è un metaforico avvicinamento di termini diversi per rappresentare nell’immagine che ne risulta, uno stato d’animo o un sentimento” (Idem).
“Mentre nella metafora, o passaggio di un termine ad altro ordine di sensazioni, si serba una qualche affinità, sia pure esteriore, con l’ordine originario, nell’analogia il legame di affinità è molto più lato ed è intuito come rapporto affatto nuovo dalla fantasia creatrice” (M. Petrucciani, La poetica dell’Ermetismo italiano, Torino 1955).
ESEMPI DI INDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN UNGARETTI
Decrescente luna, / piuma di cielo.
Morte, arido fiume…
Fratelli / Parola tremante / Nella notte / Foglia appena nata
E’ il mio cuore / Il paese più straziato
Col mare / mi sono fatto / Una bara / Di freschezza
Morte, muta parola / Sabbia deposta come un letto / Dal sangue
ESEMPI DI IDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN MONTALE
Scordato strumento / cuore
Mia vita è questo secco pendio, / mezzo non fine, strada aperta a sbocchi / di
rigagnoli, lento franamento
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida / scorta per avventura tra
le pietraie di un greto
Felicità raggiunta… / agli occhi sei barlume che vacilla, / al piede teso ghiaccio
che s’incrina…
Il cavo cielo se ne illustra ed estua / vetro che non si scheggia…
ESEMPI DI IDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN QUASIMODO
Ma il tuo viso è un’ombra che non muta…
Sui tuoi muri ch’erano a sera / un dondolio di lampade
In me si fa sera: / l’acqua tramonta / sulle mie mani erbose.
Spesso il processo analogico si realizza attraverso il come: ma esso non ha valore di comparazione, bensì di identificazione soggettiva:
Noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo (Montale)
Come questa pietra / del San Michele / … è il mio pianto (Ungaretti)
La neve, muta a guisa del pensiero / cade… (Pascoli)
Ma Pascoli, col suo linguaggio impressionistico ed analogico fa pensare a giochi più complessi nei quali ha tanta parte la sinestesia:
Lo strepere nero d’un treno
Passero azzurro
Un bianco sorriso di cieco
Voci di tenebra azzurra
Questo impressionismo visivo e fonico produce una profonda unità dei sensi. E benché la sinestesia che ne risulta non sia da confondere con la metafora o con l’analogia, è sempre una di quelle arditezze espressive che vengono catalogate, globalmente, nel parlar figurato o metaforico.
L’analogia (vera) è invece - come scrive il Flora – la sostituzione d’un rapporto d’identità a un rapporto di comparazione. Al riguardo, Mariani (Poeti della terza generazione del Novecento, Roma 1963) ci offre, traducendolo da Claudel, questo brano esplicativo: «La mia anima è come un uccello che… Poi è venuto il simbolo che, nel suo vero senso, è un trasferimento di un’immagine in un’altra: la mia anima è un uccello… Sopprimendo il “come” il poeta afferma più nettamente l’identità tra la sua anima e un uccello. Questa identità (…) gli è apparsa in un lampo di intuizione così vivo, così evidente che egli non ha temuto di affermare che esiste tra la sua anima e un uccello non soltanto un rapporto, ma una vera partecipazione». Il poeta in oggetto era Rimbaud, a proposito del quale Claudel scriveva: «Chez ce puissant imaginatif, le mot comme disparaissant, l’hallucination s’installe et les deux termes de la métaphore lui paraissant presque avoir le même degré de realité…”
Mediante la metafora il poeta rinnova e reinvergina il suo mondo, spezza vecchi schemi stilistici, sorpassate cristallizzazioni e apre nuove vie, impensati sbocchi al suo linguaggio. (G. Mariani)
…L’attività metaforica non fa che rispecchiare nel campo specifico del lessico il meccanismo tipico di tutto il linguaggio, inteso come attività simbolizzatrice dell’intelletto, che per esprimere le proprie intuizioni e percezioni e renderle comprensibili, le formalizza in immagini, nelle quali più o meno rinnova, con la propria impronta personale, la materia linguistica che la tradizione gli offre. (C. Schick)
"On crée, au contraire, une forte image, neuve pour l’esprit, en rapprochant sans comparaison deux réalités distantes dont l’esprit seul a saisi les rapports" (P. Reverdy).
Alla metafora, dunque, è necessariamente legato un inganno. Ma questo è un inganno del tipo della menzogna? Certamente no. Infatti, si tratta soltanto un inganno di una spettativa, quindi in realtà è piuttosto una delusione che un inganno. Avevamo ormai preso per sicurezza la verosimiglianza, e ora ci sentiamo scossi nella nostra tranquilla attesa. Ma una volta che la determinazione metaforica ha avuto luogo, in maniera diversa da ciò che ci saremmo attesi, in un primo tempo, tutto torna di nuovo alla normalità e l’intendimento della metafora è strettamente circoscritto, preciso, individuale e concreto come qualsiasi altro intendimento (H. Weinrich).
SULLA METAFORA
“La metafora è di regola chiamata a chiarire il pensiero, cioè a renderlo più perspicuo e prontamente comunicabile con il confronto e la similitudine. È un aiuto pedagogico alla logica del discorso”. (F. Ferrarotti)
“La metafora rende il pensiero innaturale, sterile (non cresce insieme) e alla fine vuoto di pensiero.” (F. Nietzsche)
“La metafora, a sua volta, … ha ormai rivelato appieno il suo valore conoscitivo. Perché, se l’universo dell’uomo è il linguaggio, l’esperienza e il linguaggio si confrontano, e una buona metafora è un’ipotesi, e un’ipotesi è una domanda che esige una risposta che vuole essere verificata… messa sotto stato d’assedio, espugnata, nella sua struttura, con il microscopio e il laser”. (G. Celli)
“Comparer deux objets aussi éloignés que possibile l’un de l’autre, au, par toute autre méthode, les mettre en présence d’un manière brusque et saisissante, demeure la tâche la plus haute à laquelle la poésie puisse prétendre… Plus l’élement de dissemblance immédiate paraît fort, plus il doit être surmonté et nié”. (A. Breton)
La metafora «è così piacevole perché rappresenta più idee in uno stesso tempo (…). E però ancora si raccomanda al poeta (ed è effetto e segno nobilissimo della sua vena ed entusiasmo e natura poetica e facoltà inventrice e creatrice) la novità delle metafore» (G. Leopardi).
Metafora nuova, ovviamente, vuol dire metafora ardita, cioè non «presa sì da vicino che le idee, benché diverse, pur quasi si confondano insieme» (G. Leopardi).