martedì 18 dicembre 2012

Una conferenza di Giselda Pontesilli sulla "competenza dei poeti" tenuta alla Casa della Poesia di Milano

Sono qui per esporre un mio breve scritto, “La competenza dei poeti”, in cui sostengo che i poeti, in qualità di competenti, cioè di massimi conoscitori della lingua, possono -e debbono- agire per riuscire concretamente a cambiare la non-lingua, la lingua degradata a linguaggio, dell'informazione televisiva;
per ottenere, quindi, concretamente, che si faccia in Italia (e poi in Europa) un cambiamento linguistico dei telegiornali.
I) Ma perché si dovrebbe agire proprio riguardo all'informazione -della televisione, e non riguardo alla sua pubblicità, o ad altri suoi programmi?
Ecco, innanzitutto per un motivo strategico: perché è più facile, meno contestabile, iniziare a scalfire il linguaggio mediatico partendo dall'informazione.
Infatti, a differenza dell'informazione, la pubblicità è, in qualche modo, intoccabile, poiché si sostiene -come fosse un dogma- che essa sia necessaria per finanziare tutto il resto.
E riguardo agli svariati altri programmi, chiamati, a volte, programmi-spazzatura, si sostiene, altrettanto dogmaticamente, che c'è molta gente a cui piacciono e che dunque, proprio in nome della democrazia, del rispetto di tutte le opinioni, non si possano, anch'essi, toccare.
L'informazione è, dunque, strategicamente, il terreno meno impervio da affrontare, soprattutto perché i poeti, quali specialisti della lingua, non chiederanno di cambiare i contenuti dell'informazione, bensì la sua non-lingua, il suo linguaggio.

Ma, ancora una volta:
perché non si dovrebbe chiedere, invece, di cambiare i veri e propri contenuti del telegiornale?

Ecco, prima di tutto, perché si incorrerebbe nella stessa impasse, nello stesso sbarramento di prima: cioè, alcuni vorrebbero determinati contenuti, altri contenuti diversi, a seconda delle differenti mentalità, interessi, tendenze politiche ecc... Dunque, non ci sarebbe alcun accordo sull'azione da fare.
Poi, perché, correggere il linguaggio dell'informazione, significa correggerne l'impostazione di fondo, il modo, lo stile, l'atteggiamento che contiene tutti i contenuti, su cui inevitabilmente tutti i contenuti si modellano, e questo:
1) è un fine ben più fondamentale che cambiare i singoli contenuti;
2) è un fine su cui tutti, di qualunque scuola, o tendenza, o gruppo, o generazione possono essere immediatamente d'accordo;
3) ed è un fine specifico, intrinseco al compito del poeta.

Esaminiamo, dunque, un attimo, il linguaggio dell'informazione televisiva: nel mio scritto, cioé “La competenza dei poeti”, io dico

http://nuovaprovincia.blogspot.it/2011/07/giselda-pontesilli-la-competenza-dei.html

che sono sbagliati linguisticamente:

i singoli termini;
le frasi;
i contesti in cui le frasi sono inserite;
i rapporti tra le frasi (i discorsi) e il modo di dirle;
i rapporti tra le frasi e le immagini.

Esempi di singoli nomi sbagliati (cfr. “La competenza dei poeti”):
suggestivo” al posto di “raccapriciante”;
eminente” al posto di “efferato”;
immortalato” al posto di “inchiodato alle proprie responsabilità”.

Esempio di un tipo di frase sbagliata che è molto frequente, perché riguarda la causa di un fatto:
Un uomo di cinquant'anni ha ucciso sua madre; la scientifica ha accertato che la causa del decesso è stata dovuta alla perdita di sangue per le sette coltellate riportate (quattro al torace e tre all'addome) non singolarmente letali, ma divenute tali per mancanza di soccorsi immediati”.
Ecco, questa frase è disorientante, fuorviante, sbagliata: infatti, attribuisce in definitiva la morte di questa persona a una sola causa, la causa materiale, che è una con-causa, non la causa principale.
Sarebbe come se io dicessi: la causa di questo tavolo è il legno; o come se dicessi che Socrate è in carcere perché ha mosso le gambe, teso i muscoli, camminato -insomma- e così è arrivato in carcere.
Sì, certo, per andare in carcere ha dovuto muovere le gambe, ma, come dice egli stesso nel “Fedone”, da tempo quelle sue gambe sarebbero a Megara e non in carcere se lui avesse ascoltato quanti gli proponevano di fuggire e non la voce della coscienza, che gli aveva fatto scegliere di andare in prigione.
Quindi, la causa principale per cui lui è in carcere è di tipo morale, è un pensiero, una scelta.
Allo stesso modo, quando si dà notizia di una tragedia familiare, o dell'omicidio di una studentessa da parte forse di suoi coetanei, non si può unicamente, ossessivamente insistere sui rilievi del DNA, sulle tracce organiche presenti negli indumenti, sull'arma del delitto, sull'ora precisa e la causa clinica del decesso, sui frammenti di capelli trovati sotto le sue unghie, perché questo brutalizza, disorienta, umilia chi ascolta, il quale vorrebbe, istintivamente -direi- capire le cause principali, umane, intellettive.
L'errore si aggrava ancor più quando osserviamo i contesti in cui le frasi e i discorsi sono inseriti: le notizie riportate vengono disposte senza alcun criterio, casualmente, senza nessuna mediazione, le une accanto alle altre, per cui si passa direttamente da una tragedia all'imminente uscita di un nuovo film, al dibattito politico, dal disastro nucleare, allo sport.
Questo rende tutto uguale, equivalente, tutto assurdamente e poi banalmente, sordamente, anesteticamente normale.
Tanto più che tutto viene pronunciato con lo stesso tono di voce, la stessa espressione del viso, lo stesso ritmo.
E' chiaro che il significato di qualsiasi cosa noi diciamo, dipende moltissimo dalla prosodia, dai modi prosodici con cui lo pronunciamo.
Ora, nell'informazione televisiva la prosodia è assente, poiché l' espressione facciale o gestuale, il tono e il volume della voce, il ritmo, le pause con cui si danno le notizie sono sempre uguali, sia che si parli del clima, o si parli di situazioni umane complesse, dolorose, tremende.
Le frasi esclamative ( che esprimano stupore, compianto, turbamento, condanna, compatimento, simpatia) non esistono.
Le interiezioni sono abolite.
Tutti parlano in modo asettico, “oggettivo”, come se tutto ciò di cui si parla possa essere trattato allo stesso modo.
Quando si sente un'eccezione, sembra di stare in un altro mondo.
Io ricordo, per esempio, una frase, di un poliziotto, un finanziere, che doveva parlare di una truffa riguardante le mense scolastiche.
Quest'uomo concluse così: “E' veramente indecente che si speculi in questo modo persino sui pasti dei bambini dell'asilo”.
Fu un caso rarissimo di umanizzazione, di umanità, di congruenza tra la cosa detta e il modo di dirla.
Generalmente, ripeto, c'è incongruenza, grave contraddizione tra la notizia e il modo di dirla, per cui si parla allo stesso modo, con lo stesso tono con la stessa velocità e lo stesso viso di spettacoli e di tragedie, di calcio e di morti sul lavoro.
L'ultima incongrenza che io rilevo nel mio scritto è quella fra ciò che si dice e le immagini che accompagnano la notizia.
Infatti, molto spesso le immagini sembrano contraddire quello che le parole sembrano sostenere.
Ad esempio, si parla di un processo penale in corso per l'avvenuto sfruttamento di una minorenne e contemporaneamente, ossessivamente si mostra l'immagine di questa persona.
Oppure, si denuncia -sempre nel solito non-modo meccanico e asettico- la violenza e contemporaneamente si fa violenza, mostrando immagini sempre più brutali che diventano, proprio perché mostrate così, normali e “banali”.

In conclusione, noi ci troviamo oggi -a mio avviso- di fronte a una emergenza analoga a quella ecologica, disastrosa e catastrofica ancor più di quella; ci troviamo di fronte a una urgente rinnovata “questione della lingua”.
II) I momenti in cui, attraverso i secoli, la “questione della lingua” è stata posta in Italia dai poeti, sono almeno tre: il Cinquecento, l'Ottocento, e il Novecento.
Nel '900, nel 1964, la “nuova questione della lingua” -come di lì a poco fu definita- fu sollevata da Pasolini, che, dopo averla esposta con una conferenza in varie parti d'Italia, pubblicò questa conferenza su Rinascita.
Questa “nuova questione della lingua”, posta da Pasolini, è quella cronologicamente a noi più vicina e ci è anche particolarmente vicina perché è la sola che affronti, come -secondo me- anche noi dobbiamo fare, il linguaggio televisivo.
Vale la pena ricordare che la televisione nasce ufficialmente in Italia solo dieci anni prima dello scritto di Pasolini: cioè, nel 1954, a Milano.
Essa si deve principalmente al progetto di un gruppo di cattolici fortemente impegnati nel sociale (che si ricollegano alle teorie di Felice Balbo, alla rivista “Terza generazione” e al vivo dibattito sorto intorno alle tesi del personalismo francese).
Tutti questi intellettuali pensano la cultura, non come luogo elitario di “coltivazione intellettuale”, bensì come riscoperta di valori incarnati in una civiltà, come riappropriazione di un originario, comune, tessuto di valori e tradizioni, espressi in particolare nella “cultura contadina”; la TV sembra loro costituire finalmente il nuovo “mezzo”, popolare, unificante e alfabetizzante, per promuovere in modo efficace una tale cultura e presa di coscienza.

C'è quindi un intento pedagogico in questa prima televisione:
ci sono programmi riguardanti i vari costumi, le tante ricchezze e differenze italiane -come ad es. “Campanile sera” che si propone di rivelare l'Italia all'Italia con la “sfida” settimanale tra due paesi diversi;
c'è una vera e propria “via italiana”, “via nazionale alla tv”, con i documentari storici, con i “romanzi sceneggiati”;
c'è Carosello, un'altra invenzione italiana, “un modo originale e non invasivo di fare pubblicità”.
(Si tratta, insomma, di una televisione ben diversa da quella degli anni Ottanta, con l'invasione di programmi stranieri fino a quel momento inconcepibili per la RAI, con le frequenti e ripetute interruzioni pubblicitarie, con l'importazione dei prodotti seriali dalla tv commerciale americana ecc.)1

Eppure Pasolini, non lasciandosi ingannare, con grande preveggenza, capisce e denuncia subito che il linguaggio televisivo in realtà è, in sé, la cancellazione di tutti i valori e di tutte le tradizioni umanistiche.
Altrettanto preveggente era stato il critico musicale Fedele d'Amico, che ancor prima di Pasolini, nel 1961, in un suo lapidario scritto, “La televisione e il professor Battilocchio”
http://nuovaprovincia.blogspot.it/2010/11/giselda-pontesilli-nota-su-fedele.html, afferma che il linguaggio televisivo è, in sé, il contrario della cultura, perché “cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività”, mentre la televisione, “in qualunque programma si realizzi,” “rende l'uomo non pensante, passivo, docile, acritico”.
D'Amico perciò, in questo scritto, contesta sia i cattolici che le sinistre, in quanto entrambi si illudono di poter strumentalizzare la televisione, di veicolare, attraverso il nuovo mezzo, dei contenuti, i propri -ideologici- contenuti, e non capiscono che la televisione è, comunque, mistificatrice e azzeratrice di qualunque contenuto, è comunque letale per la “cosiddetta massa” .

Pasolini chiama il linguaggio televisivo “orrido”, “feroce”, dice che “praticamente in televisione non può essere pronunciata nemmeno una parola in qualche modo vera”.

Dopo il suo primo scritto, “Nuove questioni linguistiche”, più tardi ristampato in “Empirismo eretico” (con l'aggiunta delle sue risposte a vari interlocutori ) il pensiero di Pasolini, riguardo al linguaggio televisivo, e al neocapitalismo che esso incarna, si radicalizza sempre di più:
il linguaggio televisivo è -lui dice del resto già fin da del 1964- “la lingua della produzione e del consumo” “-e “non la lingua dell'uomo-” esprime “lo spirito tecnologico” “ossia lo spirito della scienza applicata, che tende a sostituire i propri dati a quelli della natura, e quindi a una trasformazione radicale delle abitudini umane”.
Rimeditando, oggi, la sua ben nota posizione, si arriva, secondo me, a capire che lui sostiene in definitiva questo:
prima” -cioè prima della televisione, che è -lui ripete- “il più repressivo totalitarismo mai visto”,
non c'era, materialmente, una lingua parlata unica, ma, malgrado ciò, c'era una sostanziale unità linguistica, una unità addirittura transnazionale (c'erano civiltà -lui dice- “tutte molto analoghe tra loro”), perché i popoli, pur parlando i propri tanti volgari eloqui, i propri dialetti, dicevano in fondo le stesse cose, avevano analoghi, autentici valori etici, condividevano lo stesso senso della vita e della natura.
Con l'arrivo dell'italiano televisivo, c'è materialmente un linguaggio unico (perché esso raggiunge, con la televisione, tutti i paesi e tutte le case) ma finisce l'unità linguistica autentica e inizia l'omologazione imposta, l'edonismo consumistico coatto, la riduzione di tutto a “produrre e consumare”, la fine della cultura, la catastrofica “mutazione antropologica”.
In sostanza, quali sono gli esiti del discorso di Pasolini?

Innanzitutto, c'è una visione apocalittica del presente (che provocò il suo sostanziale isolamento, come pure l'isolamento di Fedele D'Amico: e in effetti, diciamo, le loro drastiche posizioni non potevano essere accettate negli anni '60, cioè negli anni del boom economico e della “ingenua”, ancora possibile speranza nella scienza e nel progresso);

Poi, c'è la consegna ai poeti di un nuovo mandato: combattere per l' “espressività” -come lui dice- della lingua, non estraniandosi però, non coltivandola rimanendo lontani dalla barbarie mediatica, bensì facendosi carico, in qualche modo, del nuovo linguaggio subìto e coattivamente parlato senza distinzione, ormai, da tutti;
già nel 1964, lui scrive: “In seno a questa nuova realtà linguistica, il fine della lotta del letterato sarà l'espressività linguistica, che viene radicalmente a coincidere con la libertà dell'uomo rispetto alla sua meccanizzazione”.

Infine, c'è il lascito, ai poeti -e a tutti- di un prezioso tesoro: l'appassionata coscienza, viva, profonda, anche se non esplicitata, non -filosoficamente, direi- ricercata, argomentata fino in fondo, che l'unità linguistica vera non coincide con l'unità linguistica materiale (e quindi l'unità linguistica televisiva non è assolutamente di per sé una conquista culturale);
perché, la vera unità linguistica è quella sostanziale, di chi, pur esprimendosi magari con idiomi diversi, parla la stessa lingua in quanto ciò che dice corrisponde alla verità, a qualcosa di autentico, di libero, di moralmente giusto, di bello; parla la lingua di “nobilissimo intendimento, d'Amore, di gentilezza, di potenza” che ci dice Dante.
Questa lingua vera, veramente una e unificatrice “manda in ogni luogo il suo profumo e in niun luogo appare” -come dice Dante- proprio perché non consiste in parole, bensì “è un fatto intellettivo”, morale, “è soprattutto virtù”2.

Ora, io penso, che noi siamo in grado, oggi, pienamente, di riprendere la questione della lingua impostata da Pasolini, sia rispondendo alla consegna, al mandato che Pasolini ha fatto ai poeti, sia valorizzandone e fondandone speculativamente al massimo la profonda coscienza della lingua.

Riguardo alla consegna di combattere per l' “espressività” della lingua “partendo” dal linguaggio televisivo, noi lo possiamo e -come lui dice- lo dobbiamo fare; in che modo? Cercando di ottenerne il concreto cambiamento.

-Oggi, questo è, a mio parere, un obiettivo realistico, perché non siamo più negli

anni '60, bensì in un tempo di crisi, di sfiducia nel progresso, di riflessione ormai generale, ampia sui disastri morali e materiali del consumismo, della manipolazione della natura, dell'industrializzazione: e possiamo dunque sperare di trovare consenso, appoggio da parte di molti.

-Oggi, il modello sociale basato sulla produzione in serie e sul consumo di massa

è in crisi e quindi può finalmente entrare in crisi anche “la lingua della produzione e del consumo”, come Pasolini definisce il linguaggio televisivo.

-Quindi, direi, che tutti, oggi, possono con relativa facilità capire che il linguaggio televisivo è disumanizzante, alienante, e possono mobilitarsi al fine di chiederne il cambiamento
(come ci si mobilita a favore dell'ambiente, dei diritti umani, contro la mafia, per il lavoro, per la scuola).

Riguardo poi alla profonda coscienza pasoliniana di cosa sia veramente l'unità linguistica, io penso che noi possiamo molto lavorare al riguardo, cominciando dal chiederci quando, dunque, l'Italia, finora, è stata più autenticamente unita linguisticamente, cioè unita nella sostanza culturale, intellettiva, morale.

Penso che non possano esserci dubbi al riguardo, che ciò sia accaduto nel Trecento, con Dante, Petrarca e Boccaccio.
Da loro, dunque, noi possiamo oggi trarre ispirazione, esempio, idee per ricomporre davvero un'unità, una cultura.
In che modo?
Innanzitutto, facendo come Petrarca stesso ha fatto con i classici antichi.
Lui, opponendosi al proprio tempo, tralasciandolo del tutto, con un salto drastico, si è rivolto direttamente agli antichi, in modo vivo, urgente, vitale: non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si era perduto, perché vedeva nel passato qualcosa di massima importanza per il presente, per il risveglio culturale e morale del presente.

Come ha fatto Petrarca con gli antichi, così noi possiamo fare con lui e con Dante.

Possiamo considerare in modo nuovo, diretto, vitale, il loro lavoro.
E così scopriremo innanzitutto che loro due, nella sostanza, sono del tutto concordi e simili, non antitetici, come ci tramanda la critica letteraria. (Pasolini, in un saggio di “Empirismo eretico”, cioè “La volontà di Dante a essere poeta”, parla, anche lui, di somiglianza tra Dante e Petrarca...)

III) Dante è il primo che pone la questione della lingua, con il “De vulgari eloquentia”. Perché lo fa?
Perché -dice- vuole cercare “di giovare alla lingua della gente volgare” ;
perchè vede “come appunto una tale eloquenza sia a tutti sommamente necessaria”;
perché, infine, vede che se non lo fa lui, non c'è nessun altro che sembra avere intenzione di farlo: nessuno ha ancora “svolto alcuna dottrina intorno alla eloquenza volgare”.

E' proprio quello che noi possiamo -e dobbiamo- fare oggi: un analogo, rinnovato, aggiornato “De vulgari eloquentia”.

Anche noi dobbiamo cercare di “giovare alla lingua della gente volgare”: questa lingua, però, oggi, è, o meglio sembra essere, il linguaggio di tipo televisivo;

al tempo di Dante, invece, la lingua della gente volgare erano i vari e “veri” -aggiungerei con Pasolini- idiomi dialettali.
La gente non era linguisticamente manipolata, non era indotta a parlare in un certo modo, parlava liberamente, naturalmente, la propria lingua naturale.
E Dante sostiene che questi idiomi dialettali, cioè la lingua volgare, quella che apprendiamo, appena nati -si può dire- dalla madre, è più nobile di quella letteraria, “grammaticale”, perché:
1) è la prima che sia il genere umano che i bambini usano (e cioè, prima, gli uomini, naturalmente, la parlano, poi, basandosi su di essa, elaborano quella grammaticale);
2) è fruita da tutto il mondo, benché divisa in tante forme e vocaboli;
3) la riceviamo dalla natura.

Che vuol dire quest'ultimo punto: è più nobile perché la riceviamo dalla natura? Vuol dire che la riceviamo da un ordine ontologico da cui l'uomo non può mai prescindere.

-E' per questo, in definitiva, che Pasolini chiama “immensa” la cultura contadina, perché essa, che ha avuto -lui dice- “circa quattordicimila anni di vita”, era naturale, cioè fondata su quell'ordine necessario, imprescindibile, cui l'uomo partecipa, lo esprimeva, lo rispettava-

Dante dice che il poeta, partendo da questo volgare naturale, lo rende illustre, elevandolo a una coscienza chiara, compiuta di quell'ordine, di quella natura, di quella giustizia, che è “l'apriori cui l'uomo è sottoposto”3.


Ora, noi non abbiamo più davanti a noi la lingua naturale della gente volgare, bensì un linguaggio, nato appunto dal non riconoscere più alcuna reale essenza stabile, alcun essere indipendente, non manipolabile, alcuna norma, alcun oggettivo Logos.

Ma è proprio questa, oggi, la lingua della gente volgare: non-lingua, linguaggio imposto, inculcato, reso apparentemente potentissimo dalla tecnocrazia mediatica; ed è questo che noi dobbiamo sollevare, correggere, cambiare, così come Dante diceva che il poeta doveva fare con i dialetti naturali.

E perché devono fare questo, oggi, i poeti?
Perché -come dice Dante- non c'è nessuno che lo fa, e dunque i poeti devono rispondere a questa estrema emergenza e necessità, altrimenti non sono necessari e, se sono -come oggi sono- emarginati, cancellati, è perché non assolvono al loro compito, che è quello di essere
una guida morale e intellettuale per tutti gli uomini”4.


Ecco, Dante dice questo della lingua, e Petrarca lo comprende e ne prosegue l'opera con il suo ontologico umanesimo, che viene compreso, e diventa l'umanesimo italiano (e poi europeo).
Come Dante scrive, ritiene necessario scrivere, non solo la “Divina commedia”, ma anche dei trattati filosofici: il “De vulgari eloquentia”, il “De monarchia”, il Convivio”, così Petrarca scrive, non solo il “Canzoniere”, ma anche veri importantissimi trattati di pensiero, dove mostra la sua profonda, rigorosa, meditazione filosofica: il “De ignorantia”, le “Invettive” , il “De vita solitaria”, il “De otio religioso”.
Entrambi, visto che altri (a parte Santa Caterina da Siena) non lo fanno, scrivono lettere ai prìncipi, ai popoli, all'imperatore, al doge, al papa;
entrambi, prendono sempre coraggiosamente posizione, ma sempre, al di sopra, al di là di ogni fazione, di ogni partito, di ogni istituzione.
Se ripercorriamo le loro vite come le loro opere, restiamo sorpresi dal constatare quanto puntualmente, precisamente questo accade.
Non a caso, Wilkins, massimo conoscitore del “Canzoniere” e sommo biografo di Petrarca, lo definisce nella prefazione alla sua “Vita del Petrarca”, “l'uomo più grande del suo tempo”: l' “uomo”, non il “poeta”.
O meglio: il poeta, che proprio in quanto veramente tale, vuole, deve essere strenuamente responsabile, moralmente, intellettivamente.
Per questo! Dante e Petrarca sono, ritengono necessario essere, anche pensatori politici, e sono profondamente filosofi;
ma la loro conoscenza della filosofia è dimostrata non tanto da dotti ragionamenti, da erudite argomentazioni e citazioni, quanto essenzialmente dal loro rinnovato mettersi in cammino, dal loro sostanziale riprendere ad agire, dal concepire, socraticamente, il Vero, come ricerca, impegno morale, non come un oggetto, che si possa cogliere positivamente, definire, limitare, possedere.
Per aver fatto questo, essi sono per noi, oggi (come per loro lo erano stati gli antichi), “l'appello urgente alla nostra libertà affinché essa riviva per il suo stesso interrogarsi”.
Sì, in questo, oggi, noi li possiamo imitare.
Sì, perché nella poesia italiana, dopo di loro, è spesso mancato questo scambio, che in loro è essenziale, tra poesia e filosofia, questa fusione, naturale in loro, tra poesia e filosofia.
Lo stesso Pasolini, autoanalizzando in “Nuove questioni linguistiche”, il proprio discorso, la propria “prosa enunciativa” -come la chiama- dice che essa utilizza contributi linguistici della sociologia, della psicoanalisi, ecc., ma non nomina la filosofia.
E c'è un grande critico del Novecento, Carlo Bo, che ha una coscienza davvero articolata, acuta di questi “difetti” della poesia italiana; in un suo saggio del 1962, “L'eredità di Leopardi”, Carlo Bo dice che questa mancanza di discorso, di interrogazione profonda, di fusione tra poesia e filosofia è sempre stata “una condizione negativa della nostra letteratura”;
e in un altro suo veemente e attualissimo saggio “Una cultura senza nome”,
scrive che “sarebbe opportuno dare finalmente la sensazione che non si gioca, non si ripete né tanto meno si bara ma che ci sono degli intellettuali disposti a pagare per le loro parole, degli intellettuali disposti ad assumere in pieno la propria responsabilità”.

E dice anche: “L'Italia della Voce sembra sepolta per sempre...”

Ecco, io credo che oggi sia particolarmente urgente una, così intesa, “ricerca filosofica”.
E quindi, cercando di ricercare fino in fondo: qual è la pur sorda, pur inconsapevole, non più indagata, visione del mondo, che sta sotto l'informazione televisiva?
Io direi quella del positivismo ottocentesco, della sua riduzione naturalistica, del suo considerare l'uomo, la società, un oggetto identico agli oggetti naturali, da indagare e da trattare con lo stesso metodo, gli stessi scopi che hanno le scienze naturali.
-Aggiungendo, che queste scienze naturali indagano la natura a partire da una concezione meccanicistica di essa, cioè considerandola una macchina, inanimata, inerte -e anche questa concezione, nata coi moderni, mostra ormai la corda di fronte ai disastri che la natura subisce e, ribellandosi, provoca;
-e aggiungendo in più che ormai la scienza non è più “realista”, come lo era Galileo, cioè non crede più di scoprire come le cose veramente sono, ma è congetturale, ipotetica, in quanto alla realtà, perché venga -come oggi si vuole- completamente dominata, non si può riconoscere nessuna consistenza; essa, e l'uomo con lei, è ormai soltanto: l'infinitamente manipolabile).
Ora, quando Pasolini, quando noi inorridiamo davanti a questo modo di trattare l'uomo, a questo linguaggio televisivo, su quale visione filosofica ci basiamo, quale pensiero sottendiamo necessariamente, anche se non lo indaghiamo?
Ecco, lo dobbiamo sapere infine, lo dobbiamo indagare, dobbiamo trarre tutte le conseguenze dal nostro intuitivo, istintivo -direi- dissenso.
Noi dissentiamo da questo linguaggio, perché, infine, non riconosce qualcosa che è un mistero evidente: l'essere.
E' almeno da Cartesio in poi che è iniziato l' “oblio dell'essere”; è stato un cambiamento radicale, inaudito di paradigma, che oggi non ci sembra più tanto ovvio:
Hannah Arendt, in “Vita activa”, lo trova assurdo: lei dice: gli antichi partivano da un'evidenza assoluta: l'essere, e dallo stupore, thaumazein, di fronte al mistero del suo esserci; da Cartesio in poi si parte dal dubbio, dal sospetto; Cartesio, andando contro “il mondo della vita”, il senso comune, l'evidenza più originaria (ma recependo così la moderna scienza galileiana), dice: vedo, intorno a me le cose, l'universo? Ma chi mi dice che esistano davvero?5
Ecco, noi oggi forse siamo più propensi a un nuovo paradigma, un paradigma che ripristini lo stupore, che ci sembra più fondato, più giusto: lo stupore di fronte al mistero, all'essere.
C'è una grande svolta che è necessaria, e che dei grandi filosofi hanno già iniziato a fare: Husserl, Heidegger, l'immenso Patočka (con il suo fondamentale “platonismo negativo”, con il suo “Platone e l'Europa”) e in Italia Emanuele Severino, Gennaro Sasso.
Loro sono riusciti, stanno riuscendo a declinare di nuovo, in modo nuovo, adeguato a noi, l'antico; è sorprendente con quale pazienza, sottigliezza, “eroismo della ragione”, Husserl, Patočka, (ma anche Guido Davide Neri, che è ancora in Italia considerato il massimo studioso di Patočka) riescano a trovare modi nuovi, adatti a noi oggi, cioè -oggi- inoppugnabili, di risollevarci, di ricordarci, di mostrare un senso che sia di nuovo assoluto e allo stesso tempo accessibile all'umanità, proprio perché non dogmatico, continuamente ricercato, problematico.
E di tutto questo lavoro, anche noi, con la nostra ricerca, possiamo essere parte.


1 Cfr. Leandro Castellani,“La TV italiana ha cinquant'anni”, in IL VELTRO, 3-4 anno XLVIII -maggio-agosto 2004, pag. 275-286
2Cfr. GinoScartaghiande, “La gloria della lingua”, in La parola ritrovata, Ultime tendenze della poesia italiana a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio 1995, pag.153-161
3Ibidem pag. 153
4Cfr. Giancarlo Pontiggia, “Che cosa si deve chiedere oggi ai poeti”, in La parola ritrovata, op. cit. pag. 128-131
5Cfr. Hannah Arendt, “Vita activa”, Milano, Bompiani 1966, pag. 203

mercoledì 31 ottobre 2012

Un libro di saggi su Paolo Ruffilli



Pentacordo per Paolo Ruffilli. Con un saggio di Remo Pagnanelli e tre inediti del poeta. A cura di Elisabetta Brizio e Matteo Veronesi, Nuova Provincia, Imola 2012

Un libro a più voci che analizza i vari aspetti dell’opera in versi e in prosa di uno dei massimi scrittori italiani contemporanei. Ne emerge l’immagine di un autore attento ai diversi aspetti del reale, concreti così come simbolici, alle vicende individuali così come ai contesti epocali.

Questa la successione dei contributi:
«Breve introduzione a Paolo Ruffilli e ai suoi interpreti», di Matteo Veronesi
«Il “distacco” e il “vuoto intorno”. Riflessione per un asse Leopardi-Gozzano nella poesia di Ruffilli», di Luciano Benini Sforza
«Ombra densa per le ortensie di Trouville… Su Paolo Ruffilli lirico e narratore», di Elisabetta Brizio
«Su Affari di cuore» e «Della leggerezza: Paolo Ruffilli», di Giorgio Linguaglossa
«Parola e realtà nel mondo poetico di Paolo Ruffilli», «Metafore dell’Aids» e «Minima nota sullo stile di Ruffilli», di Matteo Veronesi
Appendice I: «Remo Pagnanelli, Nota su Piccola colazione»
Appendice II: «Tre inediti di Paolo Ruffilli», introdotti da Matteo Veronesi

Informazioni sul volume

domenica 21 ottobre 2012

Postludio ad "Hexapla"



Hexapla furono dette, a partire dalla tarda antichità, le Bibbie che riportavano il testo in sei diverse versioni, in diverse lingue. Su una di queste Bibbie che mostravano, quasi visualizzavano, la vitalità molteplice, magari contraddittoria, di un testo, anzi del Testo per eccellenza, nel prisma delle diverse interpretazioni, trasposizioni, metamorfosi – Giacomo Leopardi apprenderà, nella solitudine della biblioteca paterna, il greco e l'ebraico a partire dal latino. 
 
La Sizigia è, invece, una diade inscindibile, una coppia di elementi che si esplicano e si illuminano e si integrano e si intersecano vicendevolmente, una duplicità scaturente da un'unità, che in quella duplicità non si annulla, ma si compie e si conferma.

Dualità, e dunque germe ed etimo ed accenno della molteplicità, nell'unità – nell'eguale e nel diverso, nel regolare e nell'anomalo, nel pari e nel dispari, tanto più che l'hexaplum sottende la disparità del tre, primo gnomone, numero perfetto che in esso è racchiuso attraverso la mediazione della diade, ed invoca l'esito dell'Heptaplus, del settimo giorno in cui la creazione giunge a compimento, e l'interpretazione della Parola originaria nella materia e nel vivente si fa nuovo testo da interpretare, nuovo fenomeno da scrutare – è ciò che questo libro (il quale riunisce studi di Elisabetta Brizio e di Matteo Veronesi) vorrebbe racchiudere.

Libro in cui, su di un comune fondo ontologico, su di un comune substratum materiato di Essere, o Nullla, e Linguaggio, tra Fenomenologia, Esistenzialismo e Decostruzione, si alternano traduzioni, commenti, recensioni, osservazioni sull'attualità culturale e indagini erudite su aspetti meno noti, apparentemente marginali, della tradizione letteraria occidentale, fin dai suoi archetipi in senso lato classico-cristiani, sacri e profani, o addirittura decisamente pagani – e dunque fin dal principio duali, e insieme identitari. 
 
Ma, a ben vedere, fra l'atto della traduzione, quello dell'interpretazione, e quello della scrittura, del passaggio dal silenzio musicale del pensiero al muto suono del segno lasciato sulla pagina, vi è una distinzione più esteriore che sostanziale, più di tempi o di gradi che di natura ed essenza. 
 
Tutto è traduzione, tutto è transizione e metamorfosi, poiché sia l'interpretazione del proprio pensiero prima di metterlo in carta, sia del testo altrui per interpretarlo, commentarlo o trasporlo in altra lingua, sia, infine, la rilettura del proprio pensiero sulla propria pagina – e dunque del sé come altro, quasi del proprio viso su uno specchio ricoperto di neri segni, fino al ritorno del pensiero in sé e su di sé dopo essere uscito, ek-staticamente, da se stesso –, e la trasmutazione della percezione in concetto, del pensiero primario in pensiero riflesso, della coscienza in autocoscienza – tutto ciò, dicevamo, comporta un passaggio, una trasmigrazione, una traslazione di codici, forme, situazioni, attitudini. 
 
Traduzione, o, come si usa dire in certi gerghi odierni, “riverbalizzazione” del pensiero e della parola altrui, è, a ben vedere, anche l'intervista, genere letterario (vero e proprio “genere”, rimontante forse al dialogo platonico, e poi al con-filosofare dei Romantici tedeschi – per arrivare fino alle inchieste letterarie tardo-ottocentesche di Huret in Francia e di Ojetti in Italia, alle interviste ai poeti di Ferdinando Camon, o a piccoli gioielli di autoesegesi come l'Intervista immaginaria di Montale, o, ancora, ai libri-intervista di Luzi) che in casi come questo, quando cioè non sia effimera e superficiale registrazione, o addirittura non travisi tendenziosamente il pensiero dell'interlocutore, diviene preziosissima testimonianza culturale – pur restando, anzi pur continuando a danzare, proprio perché tale, sempre sul crinale del possibile, fecondissimo travisamento che apre, fra le pieghe del dialogo stesso, nei silenzi fra domanda e risposta, nelle illuminazioni e nelle reticenze della risposta stessa, voragini oscure e risonanti di significati. 
 
Tutto è traduzione. E perciò tutto, forse, è tradimento. E tutto disfacimento e tramonto. “Traslare” il senso come “traslare” le spoglie: spolia, prede tolte al nemico, e dunque “vittoria”, ma anche “oggetto di spoliazione”, e dunque segno di una sconfitta: ultima meta, ultimo orizzonte e porto, sempre, l'Essere-Nulla da cui tutto proviene, pur nel tripudio versicolore delle forme – le quali nondimeno hanno, devono avere e ricevere, un senso, fosse pure quello stesso, disperato e disperante, del loro assiduo in ogni istante venir meno, nel fuoco vivo ed effimero dell'attuale, della Moda amica e sorella, gaia e irridente, della Morte, così come nella nebulosa, nella luminosa tenebra, dell'originario Nihil Aeternum


                                                           (M. V.) 








 

martedì 11 settembre 2012

«La cosa del nome ». Breve nota a «Parabola d’amore» di Nina Nasilli



Il tema di questo singolarissimo libro è il desiderio, peculiarmente la fenditura di desiderio tra il sogno e la sua realizzazione, quel «non-luogo-nel-non-tempo» dove vive la parte migliore di noi e da dove ha origine il resto, afferma Nina Nasilli nell’originalissimo prologo a Parabola d’amore, «Racconti in versi per il teatro pensando a Marina C. e a Rainer Maria R. nell’anno del fato 1926» (Book Editore 2012). La perentoria originalità delle pagine introduttive si irradia su tutta la struttura del libro, scandita dall’avvicendarsi delle diverse parabole dell’esistenza. Drammatica ma fattiva è la condizione dei due soggetti-oggetti del desiderio inappagato («questi sguardi cupidi di carpire un segreto»… «non sanno che il segreto è nei loro occhi che stanno a guardare?»), la loro spasmodica tensione in una lontananza concepita e vissuta quale scarto dall’ordinarietà in vista della significazione letteraria, della soddisfazione dell’esigenza del dire. La rinuncia al possesso del desideratum ha dunque un nesso con l’accesso allo spazio dell’arte («in questo modo / mi aprirai anche le gambe / della fantasia»): proprio in virtù di questo spiraglio tra desiderio e atto, tra ideazione ed espressione (paragonabile, scrive la Nasilli, a «quel momento di respiro profondo che precede un’immersione»), del senso del limen-limes, della soglia-confine – soglia del dire e soglia della dimora, della parola «corposa senza corpo» sede dell’essere – intesa come scampo alla desertificazione, del margine come limite e insieme implicita possibilità di un fluire scambievole, di un passaggio, di una fusione. Solo qualora il desiderio si consumi in una configurazione di attesa, e in particolare nella valorizzazione del difettare, cioè di quella mancanza da cui lo stesso desiderio trae origine:

sparsa l’attesa che nutre
il suo desiderio vaga nell’aria
da un tempo ad un altro
da un trascorso che se è lontano pare remoto
e se è vicino pare lontano
fino a un avvento che è bello
perché è sempre incerto
ed è remoto lo stesso…

Composta per integrare idealmente l’epistolario di Rilke e la Cvetaeva, quest’opera afferma la lucida constatazione che solo nella dimensione dell’imposseduto sarà possibile una testualizzazione del condizionale, il nominare tanto l’amore (che vediamo qui progredire in «amore poetico») che tutto ciò che non si è mai stati nella sfera illimitata dell’immaginario – in quella bi-sfera, quella sfera che eccede e paradossalmente avvolge se stessa, di cui si è parlato a proposito della spazialità del Paradiso dantesco. Non altrettanto, nella prospettiva della Nasilli, si verificherebbe nella declinazione dell’«amore coniugato», che finirebbe per annullare soggetto e oggetto in una fusione consumata fino in fondo, in una fiamma che potrebbe non lasciare altro la cenere amara del deludersi per l’infinito lambito soltanto. «Transformase o amador na cousa amada» («si trasmuta l’amante in ciò che ama»), dice un sonetto del platonico e ficiniano Luis de Camoens. Questa trasformazione – che consente al soggetto amante e desiderante di divenire altro da sé senza svanire, di entrare e di essere nell’altro e per l’altro senza venirne incorporato ed eliso – è mediata e resa possibile dalla distanza, sia dell’amante dall’amato che del soggetto da se stesso – la «fessura intra-coscienziale» degli esistenzialisti – al momento dell’assunzione di autocoscienza:

tu sai:
è il pensiero di te che mi forma il contorno
dell’ombra
sulle strade del mondo
che vado ogni giorno
attraversando

Più che la prospettiva (quella canonizzata) dell’«agogno» gozzaniano, che traduce un desiderare non intenzionalizzato, o comunque intenzionalizzato verso qualcosa che già in partenza si sapeva precluso al soggetto desiderante (di qui la rima ricorrente «agogno:sogno», l’identificazione del desiderare con l’inconsapevolezza), nei versi della Nasilli si percepisce una vaghissima eco di La morte di Tantalo di Sergio Corazzini. «O dolce mio amore, / confessa al viandante / che non abbiamo saputo morire / negandoci il frutto saporoso / e l’acqua d’oro, come la luna». «Non moriremo mai del tutto / noi che tanto abbiamo amato» (benché in absentia, e nell’ottica di una intrinseca compiutezza del desiderio), dà l’impressione di replicare la Nasilli. Nel crepuscolare romano l’inconsumato era l’aspirazione fatalmente trasgredita, pena la condanna a un accesso insostanziale alla nozione della cosa: «andremo per la vita / errando per sempre». E la distanza era quella essenziale e immedicabile dell’estinzione imminente, o meglio di una morte forse sognata e mai attinta come liberazione ultima dalla desolazione dell’esistere. Ma forse – nello sfalsamento delle parti recitanti di Parabola d’amore – il nesso amore-morte («Hai mai provato / nel tempo dei giochi senza malizia / a pensare alla morte?») si spiega anche con la distanza necessaria all’amore, con quel deserto minimo e infinito che deve pur aprirsi e sussistere tra due anime e due corpi perché possano, attraverso di esso, in quella trasparenza abbacinante, riconoscersi, desiderarsi e muovere l’uno verso l’altro.
Ma l’altro, amato e desiderato in quanto altro, è figura o riflesso dell’altro sostanziale, dell’alterità assoluta: quella del divino come della morte, di un delirio che può essere quello dell’estasi e della passione o quello dell’agonia, di una smemoratezza come orgasmo o come annullamento. La possibilità smaterializzata, non sperperata e sognata dell’amore è la stessa possibilità essenziale della morte. E l’attuazione è sempre dissoluzione («sublime / in terra / non esiste»), concretizzazione della possibilità ma, contemporaneamente, anche suo svanimento in quanto possibilità. Tuttavia, attraverso la diffusa simbologia naturalistica già inscritta nella tradizione letteraria, la Nasilli esibisce gli emblemi della introversione del desiderio, i quali, mentre si accordano con il moto ascendente e con quello discendente della vita, designano e configurano le icone della metamorfosi, illuminando e scandendo la transizione perenne di ciò che si estingue e risorge. Perché – è scritto nel risvolto di copertina – «anche l’amore vive in natura».


Elisabetta Brizio

martedì 10 luglio 2012

Ut pictura poesis. Giselda Pontesilli per Lorenzo Lotto, attraverso Berenson (pittura, etica e idealità nel Rinascimento)




 

In genere, l'aforisma oraziano dell'”ut pictura poesis” viene interpretato in senso estensivo, e dunque un poco generico. Nei versi di Giselda Pontesilli che ho il piacere di pubblicare esso ritrova, invece, la sua valenza originaria e precisa. Gli elementi della figurazione artistica, linee colori chiaroscuri, si dispongono e si intrecciano sulla tela come le parole del poeta sulla pagina, e in questo contesto, in questa mise en place trovano il loro vero valore semantico e semiotico.

E le immagini del dipinto, fermate per l'eterno, paiono essere eternamente e dall'eternità preesistite, predestinate, fermatesi in forma sensibile attraverso la mediazione (pur consapevole e tecnicamente meditata) dell'artista. Le cose, che l'arte rivela, invera, porta alla luce, sono universali ante rem mutati in entità percettibili. Come diceva Leonardo (pur così fenomenico e vicino alla natura, eppure, anzi per ciò stesso, accesamente visionario, quasi esoterico) nel Trattato della pittura, ciò che il pittore raffigura risiede prima nella mente che nelle mani; la pittura è «cosa mentale», «discorso mentale», al pari (e anzi, per Leonardo, addirittura più) della poesia

Ma l'arte ha anche un valore umano, sociale, civile quasi, tanto perenne da riverberarsi, puro, d'eco in eco, fino a noi. Come scriveva Berenson proprio di Lotto: «In realtà , le persone che egli ritrae sembrano condividere molti dei nostri modi di sentire, molti dei nostri ideali etici e sociali, e certamente erano offese e addolorate dai crimini che venivano perpetrati allora, non meno di quanto lo siamo oggi dagli scandali e dagli orrori che si verificano spesso in mezzo a noi. In esse avvertiamo una spontanea e genuina gentilezza d'animo e quel bisogno di vincoli affettivi e di umana solidarietà , che noi stessi proviamo. Così lo spirito caritatevole del Lotto ci dà del Cinquecento italiano un concetto più sano e certamente più valido di quello diffuso dai romanzieri alla moda, i quali, a partire da Stendhal, si sono dedicati esclusivamente al suo lato tenebroso. Era, senza dubbio, il lato più appariscente; ma un dubbio generoso ci faceva sospettare l'esistenza anche di altri aspetti, e Lotto ci aiuta a ristabilire quell'equilibrio di valori umani, senza il quale l'Italia cinquecentesca risulterebbe un vero sabba infernale".

L'empireo prenatale delle idee-valori lampeggia anche fra le spesse, e talora sanguinose, cortine del tempo, della materialità e della storia (e mi piace ora ricordare, fra quei romanzi alla moda citati da Berenson, uno che non è forse, oggi, fra i più noti, Then and now, ambientato in una fosca e deformata, scenografica e grottesca Imola rinascimentale e sforzesca, in cui gli sfarzi del carnevale si mescolano alle bambocciate dolorose e contratte, ai ghigni spasmodici e sinistri e sadicamente rimirati, dei patiboli).

All'autoritratto di Lotto e alla poesia di Giselda segue un breve documentario che si riferisce alla recente, persuasiva identificazione di un altro autoritratto del pittore. Quest'ultimo dipinto può essere visto, a sua volta, come una sorta di allegoria dell'atto poetico e della sua autocoscienza, di raffigurazione del creatore allo specchio, che si vede, quasi narcisisticamente, nell'atto di creare e di crearsi. Ma non può rappresentare, e anzi nasconde, la mano che dipinge.

Come a dire che l'essenza, la cima, il tramite sostanziale, intimo, apicale della creazione non possono rappresentarsi, non possono essere rappresentati, dalla creazione stessa. Anche la metapoesia, l'arte che parla di se stessa, continua a celare un istante di transizione dall'inesistente all'esistente, dall'indicibile al detto; una eterea paratia, un imene esilissimo, quasi impalpabile ("un hymen [...] entre le désir et l'accomplissement", dice Mallarmé), fra il mondo del pensiero e quello della manifestazione, fra l'alone del noumeno e quello, più denso ed impuro, del fenomeno.

E quel sottile ineffabile limbo, di cui non si può parlare, su cui si deve tacere, è forse il limite invalicabile, e forse lo sconfinato, ma invisibile e precario, sublime ed infero, fondamento, di ogni creazione, di ogni autocoscienza creatrice.

Neppure quando nomina e ritrae e rispecchia se stessa nell'atto del suo farsi l'arte può davvero parlare di se stessa, dire con altre parole e altre forme il processo e il divenire del proprio prender corpo. Per farlo dovrebbe uscire da sé, divenire altra, altro, alienarsi, sdoppiarsi, o dissolversi.

E lo stesso può forse dirsi della stessa umanità lacerata, divisa fra essere e dover essere, fra l'autenticità dell'esistenza e i rispecchiamenti spesso deformanti della sua autocoscienza.

Come il passe-partout, i marges de la peinture di cui parla Derrida: l'immagine, i riverberi e le reincarnazioni dell'immagine, non sono che continuo spiazzamento, fantasma diveniente che rinvia sempre ad altro, proprio quando si cerchi di fissarne il fondamento e l'essenza.

(Matteo Veronesi)


GISELDA PONTESILLI




Con Bernard Berenson e Guerrino Lovato


- Mi trovo simile anch'io

 a Lorenzo Lotto:

perché ne amo con voi

il pensiero: la vita

e perché, sopra a tutto,

imitarlo vorrei

fare soltanto -ora- come lui,

quadri sacri e ritratti




e poi il ritratto che è qui a Venezia

che guardo:

l'Autoritratto, penso, con al fianco

questa perfetta, dritta lucertolina

questi dolenti petali di rosa.

- Ma dovrei fare, prima,

un'altra cosa:

subito, ora,

non da sola! qualcosa.

Qualcosa: forse, all'Abbazia di Farfa?


Perché a Farfa c'è ora un abate

come secoli fa, concretamente


e un monaco

che mi ha mostrato un sarcofago

romano, mi invita ancora lì

per studiare.



- Sì, quest'estate

ci vorrei proprio andare

così, ogni mattina d' ogni giorno

all'aperto

o nell'orto o nel chiostro

noi parleremmo degli universali

quelli “ante rem”,

platonici, reali,

che oggi servono molto urgentemente

che c'è urgenza

di redintegrare.





Dopo, da quest’ intesa,

rinasceranno, a un tratto,

lucertola,

rosa.










mercoledì 27 giugno 2012

PER IDOLO HOXHVOGLI, SCRITTORE AL DI LÀ DELLE PATRIE



 

Gilles Deleuze parlava, a proposito di Kafka, di “letteratura minore”: non già, ovviamente, nel senso di una letteratura di rilievo e valore trascurabili, né di una letteratura che si esprimesse in una lingua minoritaria; ma, al contrario, nel senso di una letteratura che esprimeva, all'interno e dall'interno di una grande lingua nazionale, maggioritaria, solenne, consacrata, legata al “grande stile” di una tradizione secolare, un punto di vista particolare, defilato, straniero, allotrio, ma proprio per questo libero e rivelatore.
È il caso di Idolo Hoxvogli (Introduzione al mondo, Scepsi e Mattana, Cagliari 2011), nato in Albania ma da sempre italiano, per cultura e formazione, eppure connotato, nella sua esperienza e nella sua visione, dallo sguardo errante, dalla gamma cangiante di percezioni e di significati, dal wandering meaning direbbe Harold Bloom, dello straniero, anche se straniero nella sua stessa patria, d'adozione eppure essenzialmente, quasi archetipicamente originaria.
Come in Kafka, e come nella “letteratura minore”, l'autore adotta una prosa limpida, nitida, esatta, e nel contempo, a tratti, evocativa, baluginante, epifanica, segnata da una pregnanza che la stessa esattezza della scrittura fa maggiormente risaltare, come risonanza segreta che salga dall'abissale profondeur de la surface.
Del resto, «le radici sono nel futuro». La tradizione e l'identità, invertendo, anzi accelerando, il corso del tempo, sono collocate non in un passato mitico, o in un elusivo e forse mistificante eterno ritorno, ma in un oltre, un'ulteriorità, un dover essere (o dover-divenire). «Civiltà e barbarie», creazione e distruzione, nell'ambiguo e spesso cruento crogiolo della storia, possono coesistere (si pensa alle riflessioni di Thomas Mann sulla Kultur, spietatamente istintuale, opposta alla freddamente razionalistica civilizzazione). «Agli sconfitti rimarrà il proprio cadavere violato, ai vincitori un arco di trionfo che tramanderà la memoria».
«Tutti apparteniamo a un'altra riva, e questo ci unisce». L'identità è alterità; il noi si precisa e si definisce in rapporto all'altro, e viceversa.
«Ora che si conosce il prezzo di tutto e il valore di nulla, proprio ora questa vita in equilibrio fra nulla e nulla, proprio questa vita sembra essere nulla».
«Il nulla nulleggia», si direbbe con Heidegger.
L'essenzialità della scrittura qui, però, fitta di bisticci e di paronomasie ‒ riflette la reificazione del mondo, e nel contempo la notomizza e la strania. Una frenetica e vacua ed ebete «Allegria», un insensato entusiasmo (come l'autore rivela in diagrammi a tutta pagina che fanno pensare alle parolibere futuriste ‒ e proprio il Futurismo, è stato osservato, con la sua ossessione della materia e della macchina, prelude alla logica del postmoderno) alimentano la multicolore, sterile ed insensata parata del consumismo.
Ogni redenzione sembra impossibile. Come scrive l'autore echeggiando Benjamin, «Macero è il legno della croce. L'anima del Messia non è arroventata dalla fiamma divina».
Introduzione al mondo, è il titolo del libro. Ciò parrebbe suggerire ‒ pur se, chiaramente, in un'ottica ironica, distopica, antifrastica ‒ la presenza di una delle cosiddette “opere-mondo”, ormai tramontate ed impossibili; di uno di quei vasti ed organici, per quanto polifonici o dissonanti, sguardi gettati sull'immenso ed entropico regno dell'umano e dell'esistente.
Ma la stessa interpretazione, la stessa visione di quel mondo è tremula, cangiante e sfaccettata come la superficie del mare; non è uno specchio uniforme e piano, ma piuttosto un prisma labirintico e cangiante. «L'indeciso spicchio di mare da che parte deve volgere le onde? (...) Lo spicchio di mare ‒ l'interpretazione ‒ deve essere fatto proprio». «La barca deve essere buttata a riva, o naufragata, affinché possa essere ammirata interamente».
Lo spicchio di mare che rappresenta lo specchio, traslucido e insieme diffratto, dell'interpretazione è quell'esile lembo d'Adriatico che divide l'Italia dall'Albania (e, per l'autore, la sua vera patria culturale dall'origine prima, remota, dalla quasi prenatale Arché donde sgorga il suo indelebile nome che è essenza e destino, quasi nomen omen) ‒ quel millenario immateriale ponte di venti e d'acque attraverso cui, forse, in un passato fra storia e mito, i Pelasgi recarono con sé le radici della civiltà italica.
Ma, come detto, le radici sono nel futuro. E nel futuro soltanto potrà forse ricomporsi e ridefinirsi un'identità polifonica, nel dialogo, rivelatore e insieme straniante, definitorio e insieme alienante, del Sé e dell'Altro. 
 

Matteo Veronesi 


Per acquistare il libro:

http://www.ibs.it/code/9788890237188/hoxhvogli-idolo/introduzione-mondo-notizie.html