sabato 16 aprile 2011

ELISABETTA BRIZIO, "GUIDO GOZZANO - UNA NUOVA INTERPRETAZIONE"




Scriveva Marzio Pieri che non sarebbe cosa conveniente arrestare Gozzano alla fase dell’antidannunzianesimo: non lo è, e in particolar modo per quel che riguarda il suo rapporto con l’arte e, nello specifico, con la letteratura. Per Gozzano la fusione, o meglio la dialettica e variegata interazione di vita e letteratura, di esistenza e parola, di esperienza e mise en page, si palesano e si snodano sul terreno concreto e operativo della versificazione, del labor limae, del “gioco di sillaba e di rima”, dell’“accordo di sillabe”, in una parola, degli artificia che scandiscono e ristrutturano il tempo vissuto nel succedersi di eventi accentuativi e di epifanie immaginifiche, i quali racchiudono, essenzializzano, eternizzano, e in certa misura essi stessi sono, oltre a evocare, a un tempo l’esperienza stessa e la sua cristallizzazione, l’oggetto e l’immagine riflessa, l’emblema e la sua sparsa disseminazione. E talmente complessa è la sua visione della letteratura che a stento riesce di definirla in uno schema univocamente configurante. Innegabilmente, egli è al di là di ogni visione della poesia come fondazione di un luogo superiore rispetto a quello della comune esperienza. Semmai, falsificando nel suo tempo primo ogni sua ragione avantestuale, ci rende un’immagine della poesia come evasione, migrazione dalla storia, osservazione di un soggetto che sembra partecipare del mito di Narciso e che descrive il diagramma dell’inseguimento dell’istante favorevole e infattibile nel quale l’io coglie totalmente sé stesso. Altrettanto infattibile, e in rapporto di mutua esclusione, è il miracolo poetico, sicché la poesia dovrà limitarsi, e con il ricorso all’artificio, alla proiezione verbale dei vari statuti dell’io.

In posizione diadica, la polarità schermo-fuga – condizioni che di fatto vanno incontro alla loro elisione, giacché anche l’evasione rientra nella modalità del rifugio – assegna alla letteratura il carattere di un sogno “non immune d’artifizio” e la cognizione dei pretesti estetici finisce per enfatizzare quell’artefatta artificialità di un’esistenza spesa a in sillabe e in rime (e la rima stessa è stata a lungo considerata un artificio, una forzatura che limita e pone delle condizioni alla sincerità dell’ispirazione) che Gozzano finirà per censurare lungo tutti I colloqui. Più corretta e accettabile – in prospettiva ironizzante o meno – appare la posizione del “commesso farmacista” nel testo omonimo, il quale riconosce apertamente: “faccio versi… non me ne vergogno”. E malgrado le sue “rime rozze” e le sue “nefandità da melodramma”, Gozzano invita a non irridere all’estemporaneo verseggiatore: oltre ad avere la sua voluptas dolendi un referente vitale, egli non inscena alcuna narcissica spettacolarizzazione dei propri versi, tentando, come Gozzano stesso ammette di fare, “il sogno per piacere agli altri”.

Non si rida alla pena solitaria
di quel poeta; non si rida, poi
ch’egli vale ben più di me, di voi
corrosi dalla tabe letteraria.

Letteratura è desiderio di inconsapevolezza, una imperfezione dell’esistenza, un limite etico da superare. In quanto tale, l’esercizio poetico è da disapprovare, come dichiarato nel terzo dei Sonetti del ritorno:

O Nonno! E tu non mi perdoneresti
ozi vani di sillabe sublimi,
tu che amasti la scienza dei concimi
dell’api delle viti degli innesti!

E siamo al momento cruciale, decisivo: l’espressione “sillabe sublimi”, di per sé intrinsecamente ironica, è fatalmente rimante con “concimi”, per irriverente analogia (“Troppo m’illuse il sogno di Sperelli, / troppo mi piacque nostra vita ambigua”, A Massimo Bontempelli). La letteratura così versificata viene sconsacrata e auraticamente pregiudicata. Perseverare nell’intrattenersi con essa sarebbe pertanto una consuetudine deprecabile. Ma anche per contrasto: meglio il nonno, dedito a una vita operosa anziché ad “ozi vani”, o meglio il “buon mercante inteso alla moneta (…) ma vivere di vita”. Per cui al poeta non resterà che convenire: “Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!” (Felicita). Pur essendo egli consapevolissimo di esserlo, ma per non rischiare di esser preso sul serio. Inoltre, se la letteratura così detta “sublime” aveva come referente la declinazione dannunziana – vale a dire un vistoso travisamento sia dell’arte che della vita – può legittimamente essere designata una tabes, e come tale essere assimilata alla compagna di rima, il “concime” (un caso esemplare di come una sola rima possa significare un’intera strofe e una visione del mondo insieme). Ovvero, come accade in Nemesi, “divino” potrà rimare con “intestino”. La corrosione e il dissolvimento del dannunzianesimo – eletto a pretesto quale orizzonte poetico illustre, nonché quale segno, avrebbe detto Sanguineti con Foscolo, della “qualità dei tempi” – avviene dunque segnicamente, ricorsivamente ed eufonicamente: per tramite di rimandi criptati, di messaggi subliminali, di isotopie sonore e di citazioni diluite in prospettività lungo versi anche non immediatamente contigui.

Con Gozzano si verifica una irriguardosa inosservanza delle attribuzioni finora accordate alla letteratura e una sua relativizzazione (“accordavo le sillabe dei versi / sul ritmo eguale dell’acciotolio”, Felicita), come negli ormai proverbiali versi appartenenti a L’altro, che rimandano alla diversa poetica crepuscolare che più o meno esplicitamente, e non senza settarietà, postula enunciati prosaicizzanti e in dimessità di accento, alla stregua di pronunciamenti di un vate minore:

Buon Dio, e puro conserva
questo mio stile che pare
lo stile d’uno scolare
corretto un po’ da una serva.

Al di là di funzionali dichiarazioni di poetica (ed è davvero singolare come in pochissimi versi vengano insieme demitizzati l’identità di Dio, le sue finalità sovrane e l’essenza della poesia, la quale poi in tono tra l’ironico e il blasfemo riacquisirebbe la dignità di una richiesta da inoltrare a Dio), Gozzano è il primo a non prender troppo sul serio la letteratura. Esperire di essa come esistenza parallela alla vita reale equivarrebbe a confondere la vita con l’arte e all’assegnazione di una presenza a una realtà fittizia, circostanze che rischiano di ingenerare una patologica inclinazione verso l’astrazione dalla vita, e, peggio ancora, di promuovere l’emulazione di gesti e di visioni del mondo. L’essere coscienti della divaricazione tra vita e letteratura ci immunizza dal contagio della degenerazione del sublime letterario: la dimensione della tabes è oltrepassabile, ma solo in un’ottica in cui la vita e l’arte vengano concepite come due sfere incomunicanti delle quali si riesca ad avvertire lo scarto. “Sappiamo anche troppo bene chi sono i poeti, e ne sorridiamo, come di amabili giocolieri” scrive Gozzano nel noto articolo giornalistico del 1911, Intossicazione, dove commenta il volgare delitto di cui il giovane Stefano Ala, in seguito a una “intossicazione letteraria”, si era reso colpevole per aver presi alla lettera certi infingimenti poetici non criticamente assimilati. Un’opera letteraria in particolare, Postuma di Lorenzo Stecchetti (uno degli pseudonimi di Olindo Guerrini), ha sortito degli effetti su di lui, quasi fosse stato un essere vivente a persuaderlo fino al segno di riuscire, dice Gozzano, “ad armare sul serio la mano di un montanaro adolescente”. Se si afferma che padroneggiare il fatto estetico distolga da quel pericoloso attaccamento a una realtà illusoria la cui qualità astrattiva finirebbe per soppiantare e vincolare la vita vera, non è un controsenso che Gozzano seguiti a intrattenersi con la letteratura praticata come controcanto alla propria esistenza o come suo visibilizzarsi? In cosa consisterebbe allora la sua “fede letteraria”? Intanto, in un consapevolissimo esotismo spirituale tra vie antérieure e invitation au voyage, ma nell’altrettanto persuasa cognizione di star bluffando anche con la vita. Poi, e soprattutto – scriveva Sanguineti nelle sue fondamentali indagini e letture gozzaniane – nella scoperta dell’autonomia dell’estetica: nel disingannato orizzonte della modernità, la vita è un fatto e versificare è sogno; ne conseguono la nostalgia per quel tempo in cui la vita possedeva l’autorità di attingere, con mimesi vera e non fraudolenta, allo splendore dell’arte e la coscienza dell’insanabile secessione tra la vita e l’arte, “l’impossibilità per la vita di raggiungere il sublime dell’arte, l’impossibilità per l’arte di istituire un sublime autentico”.

Il rapporto vita-letteratura è vissuto da Gozzano antiteticamente, perlomeno assume una configurazione oltremodo diffratta. Ora, se anche egli è egualmente convinto, sulla scorta di Oscar Wilde, che fosse la vita ad imitare l’arte e non viceversa (“Non la vita foggia la letteratura: la letteratura foggia la vita. Di questo mimetismo siamo un po’ vittima tutti”, scrive Gozzano in Intossicazione; e in Torino d’altri tempi: “le cose non esistono se prima non le rivelano gli artisti”), non esita ad attraversare l’antinomia dell’inversione dei valori insita nella gradazione dell’esteticità dell’esistenza. E in una delle prose indiane (La Torre del silenzio), dopo aver puntualizzato che non si sta argomentando del “titolo di un volume di versi decadenti”, Gozzano racconta che le Torri esistono da tempo immemorabile, “intatte” come il resto di quell’India britannica che appariva proprio “come nei libri e nelle oleografie”. La questione fondamentale, posta in termini anche non strettamente estetici, è allora misurarsi con questa realtà ormai letteraturizzata, di fronte al cui assetto, egli dice, “il letterato è esposto di continuo al rammarico acuto, al dispetto indefinibile che si prova quando la realtà imita la letteratura”. Forse perché, in ultima istanza, l’arte anziché la vita imiterebbe la morte? “Non c’è altra salvezza – continua Gozzano nel racconto indiano – che uscire dall’albergo senza guida e senza amici, perdersi nella vasta metropoli luminosa” incontro alla vita e alle novità della strada.

L’India, per l’ultimo, estremo Gozzano (quasi come per Forster e per Pasolini), fu arte e morte, evasione e dissoluzione, aspettativa di ritrovare la propria vita, di rinnovarla dal profondo tornando alle origini della civiltà e, insieme, avversione, estraneità e straniamento rispetto a un mondo così remoto, vividissimo eppure congelato dal tempo e dalla memoria storica, e ormai stilizzato e cristallizzato da un immaginario culturale (Marco Polo come Pierre Loti) che inevitabilmente precede e condiziona ogni diretta esperienza. Esperienza fortemente persuasa, come sempre, dalla letteratura, se Gozzano stesso asserisce, circa l’isola di Goa: “Mi spinge verso di lei un sonetto di De Heredia”. Taj Mahal, il grandioso monumento alla morte e all’immortalità, al disfacimento illusoriamente scongiurato, o pietosamente celato in tenebre devote, e all’amore che si voleva eterno, alla passione terrena e insieme all’elevazione mistica, è ancora e sempre arte, artificio, simulazione. E la danza della devadasi, la prostituta sacra, divina, sacredotale, rito pervaso anch’esso, insieme, di sensualità e misticismo, appare tuttavia contemporaneamente, agli occhi dell’occidentale, alonata da un’aureola di estraneità, di lontananza, di alterità incolmabile. L’arte compie e invera la vita, e, insieme, la morte, emendandole e colmandole di significato; ma proprio per questo le rende lontane da noi, dal nostro vivo e vero sentire: in un certo senso, le reifica, le aliena, le strania. Da questa ambiguità Gozzano non seppe o non volle mai liberarsi del tutto. E forse proprio in questa perpetua indecidibile e ipnotica oscillazione sta l’opaca e polverosa vitalità ed esemplarità del suo dire. L’arte è, e al contempo non è, persona viva: vita sì, ma conversa in non-vita, e come tale avvertita, respinta e insieme vagheggiata e presentificata. Nella prospettiva gozzaniana, il velo della nostalgia e dell’ironia scongiura ed esorcizza, almeno esteriormente e fino a un certo segno, questo intimo conflitto dal divenire angoscia e tragedia.

“L’effetto delle opere è spesso quello delle persone morte” – leggiamo al paragrafo “evocazione” in un fondamentale e fondante lavoro di Maurizio Ferraris sull’ontologia dell’arte, La fidanzata automatica. Dove di seguito si afferma che “avere a che fare con la morte” significa “avere a che fare con l’arte, e viceversa”. In particolare, l’opera – sebbene entità fittizia – è vocata a suscitare delle emozioni e dei sentimenti autentici, contiene e proemana qualcosa di magico tanto da assomigliare a una persona, è un produttore di segni e comportamenti che si pone quasi come un essere dotato di volontà e natura proprie e fattive: in altre parole, dice Ferraris, l’opera d’arte finge di essere un soggetto che emette propri messaggi e veicola emozioni, ma solo nella prospettiva del fruitore, perché essa non reclama né corrisponde i sentimenti che è atta a generare. Opere e citazioni che fittamente trascorrono nei versi di Gozzano – versi che emblematicamente Giuseppe Villaroel (poeta obliato, ma sensibilissimo, classico-moderno) definiva a mosaico – sono molto prossime a questa vista: il loro linguaggio evoca trame quintessenziali e suscita in lui delle emozioni alla stregua di autentiche interlocutrici. Ma a differenza del giovane e ingenuo Stefano Ala, Gozzano, a suo dire, è un “cittadino evoluto e raffinato”, nonché immunizzato dal suo stesso ambiente, e in grado di dominare il paradigma dell’assimilazione opera-soggetto, che si ridimensiona nell’avvertimento della finzione e della, ovvia, indifferenza dell’opera verso di lui. D’altro canto, anche i grandi ritratti gozzaniani producono su di noi un analogo effetto: Felicita, Carlotta, Totò Merúmeni, la cocotte sono tipi memorabili da farsi passare per persone, benché non opere, ma parti di opere, figure attanziali del discorso letterario.

Quando non hanno statuto parodico, gli inserti o mosaici riferiscono nella lavorazione dei versi un peculiare linguaggio che Gozzano sente come rivolto a lui: le opere letterarie sembrano esprimersi a lui, che reagisce come fruitore con la complice contestualizzazione di una risposta intimamente implicata con la propria esperienza. Non siamo dunque di fronte a dei plagi o a un citazionismo parossistico, oppure a parassitismo letterario, né, in fondo, la pratica del cesellare versi mirerebbe a uno sterile recupero di forme archeologiche. La memoria dà luogo a madeleines letterarie, e anche attraverso la ricezione delle rivelazioni delle opere può avvenire la decifrazione del tempo e di frazioni dell’esperienza, insieme al propedeutico rinvenimento dell’io profondo – quell’io che fa astrazione sia dal soggetto sociale che da quello biologico – non solo dell’arte. Tanto che Gozzano avrebbe potuto dire, con il Proust del Tempo ritrovato, che “la vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta, è la letteratura”. Nel rapporto arte-vita egli mostra infatti di essere – se la cosa fosse stata possibile – molto più proustiano che wildiano. Cos’erano il tempo anteriore e l’esperienza, per Gozzano, prima di ritrovare la pattinatrice di Invernale o la cocotte?

La poesia di Petrarca è quella che in Gozzano più incide la sua autentica ispirazione: Petrarca è l’emblema dell’artifex che si sente soverchiato dalle istanze strumentali della contemporaneità (“il suo Petrarca!”, quello di Totò Merúmeni, la cui vita “si ritolse tutte le sue promesse”, dove il “ritogliere” è un mot-clef del Canzoniere: “Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro”, “Dio, che sì tosto al mondo ti ritolse”, per fare qualche esempio). Statisticamente preponderanti, gli inserti danteschi vengono ricontestualizzati a libito dello scriba in un dettato che oscilla tra adesione, blasfemia e transfunzionamento. Ma Dante risuona nelle Farfalle trattenendo i suoi significati originari che concorrono a definire la gozzaniana posizione nei confronti del mistero della metamorfosi, alla cui delineazione cooperano Pascoli, D’Annunzio e, eminentemente, Maeterlinck.
Parla appassionatamente a Gozzano la storia di Paolo e Virginia (rifusa in versi che non piacquero alla Guglielminetti per il loro freddo “virtuosismo”, o forse perché tramitanti l’ennesima ammissione, da parte del poeta, della propria interdizione sentimentale) del romanzo popolare di Bernardin di Saint-Pierre: quest’opera sembra davvero rivolgersi a lui. Indipendentemente dalla intonazione alcyonia, e comunque dannunziana, l’attacco “Io fui Paolo già” ci introduce in una dimensione in cui l’opera d’arte si atteggia a persona fino a promuovere un’empatia nel contemplante “chino su quelle pagine remote”, una sua intima partecipazione che sconfina nell’immedesimazione, nel destinarsi in Paolo:

Splende nel sogno chiaro
l’isola dove nacqui e dove amai;
rivedo gli orizzonti immaginari
e favolosi come gli scenari,
la rada calma dove i marinai
trafficavano spezie e legni rari…
Virginia ride al limite del bosco
e trepida saluta…
Risorge chiara del passato fosco
la patria perduta
che non conobbi mai, che riconosco…

Ma con l’intervento del successivo, adulto e consapevolissimo, riconoscimento della distanza, che nella strofe conclusiva del testo si qualifica anche come relegamento nel déjà vu vetrificato di una irripetibile possibilità di amare. Interdizione inoltre allusa dalla disposizione seconda, letteraria, con cui viene evocata la tempesta che travolge la nave di Virginia: “una tempesta bella e artificiosa / come il Diluvio nelle vecchie tele”. E l’elenco delle esemplificazioni in tale direzione potrebbe continuare.

L’arte si accorda con la morte anche perché, nella visione gozzaniana, della vita non potrebbe indicare che orientamenti via negationis. Allora, l’arte stessa, oltre che vera vita, è vera morte, forse vera vita-morte, vera vita in quanto vera morte: epifania essenziale di quella mortalità, di quella condizione mortale che è, con tragico paradosso, essenza dell’essere nel mondo. Con la sua immutabilità, la sua compiutezza, la sua staticità non modificabile che dal materiale, cosale disfacimento, dalla disgregazione, dalla corrosione del tempo (quella da cui sono avvolte, segnate e minacciate anche le “buone cose di pessimo gusto”), con il suo pirandelliano, fisso e quasi inebetito, per quanto possa a volte essere sublime, “silenzio di cosa”, l’arte rappresenta, per usare un’espressione montaliana, “la vita quale essenza”, la vita al suo grado più alto di essenzialità emblematica, anzi quasi una più che vita, mehr als Leben diceva Simmel, proprio in quanto cristallizzazione estrema e postrema della mortalità e della fine. L’oraziano monumentum è anche sepolcro, e il ritratto consentirebbe al poeta di restare “sempre ventenne” proprio in quanto inerte, inorganico, nato-morto e nato dalla morte, dalla medusea vampirizzazione del soggetto, e perciò non sottoposto al divenire e al disperdersi.



(Elisabetta Brizio, da I Am Waiting: “yacht: cocottes”, alterità e discronia nei versi di Guido Gozzano, in Gozzano dopo cent’anni. Antologia delle opere per l’anniversario dei Colloqui, Nuova Provincia, Imola 2011)


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domenica 20 marzo 2011

Versi di Giselda Pontesilli per un nuovo umanesimo



Ho il piacere di presentare alcuni versi di Giselda Pontesilli, i quali, con uno stile melodioso e insieme colloquiale, profondamente triestino, e in un'ottica memore del grande umanesimo italiano di matrice petrarchesca, tratteggiano l'utopia, in questi tempi un poco grigi, di un possibile nuovo umanesimo, di una humanitas intesa come spazio cordiale e civile di dialogo e di pacato confronto, di tiepida, serena e rinfrancante dimestichezza.
Questo sentimento fondamentale e unificante accomuna e fonde le tre sezioni, apparentemente eterogenee, del testo: una dimensione di identità e di appartenenza che può essere rinvenuta nel dialetto triestino (lingua d'adozione, eppure lingua del cuore, dell'umanità e del comune sentire) o nei luoghi ancora vivi dell'infanzia così come, con eguale intensità, ma su scala più vasta e remota, nell'eredità culturale petrarchesca: humanitas, dunque, nelle sue sfaccettature e sfumature più diverse, dalla soggettività esistenziale fino alla più nobile e impegnativa matrice culturale.


I


Ci si ricrea ancora qui in Italia

grazie a conforti minimi, ma umani

non si può stare senza stare ora

qualche volta

come una volta

era naturale:

in modo, come dire! colloquiale

ma lo possono fare

solo persone rare, ora,

provate, eredi delicate

delle tante ricchezze

del passato: di chi è stato

cioè umanamente risplendente

e ora è,

e è ricordato.


Ho constatato questo

anche recentemente,

a Roma, giorni fa,

dove anni fa c’era sempre un conforto

normale, naturale nel negozio

mio di mio padre, che è chiuso ora,

e invece c’è ancora

perché qualche persona

che veniva allora al negozio

ci viene, come dire! anche ora:

qualche signora ora viene a stare

a casa, da mia madre,

dopo pranzo, o prima, o la mattina

prima di andare al forno, o in chiesa,

o al mercato.


E se io torno qui qualche giorno

è bello per me, è essenziale

trovare queste signore

a parlare, sentirmi

riconoscere, salutare,

chiamare, umanamente,

per nome.


II


Dice Petrarca: “Questo nostro tempo

mi è sempre dispiaciuto”.

“Giovani” –dico- “giovani

intelligenti d’Italia:

non dispiace anche a noi, il nostro tempo?


- dunque in questo, siamo come Petrarca,

senza ancora saperlo?


E sappiamolo! ora, prendiamo esempio

dal suo cercare amici tra gli antichi:

amici vivi, antichi

di due tipi: classici e medievali,

ma è un solo tipo, in fondo,

ce ne rendiamo conto con Petrarca

che li ha uniti,

come prima di lui li unì Agostino,

come li uniamo noi, oggi,

ci uniamo!


E solleviamo! questo nostro tempo

che ci dispiace tanto!


perché è capace! un giovane, di stare:

- come è stato Petrarca, come Agostino -

se ha un amico vicino:

e un solo amico! con lui –pochi


ma che pensino ora, fiduciosi


a Valchiusa, in Brianza, ad Arquà

si rifà in pochi, in due, l’unità:

noi

con Petrarca –e Agostino

-e gli antichi”.


E quando è, una cosa

non c’è cosa che le resista

quando è una ad Arquà

vola in Europa

e solleva riposa.


III


Oggi ho parlato, per la prima volta,

dialetto triestino:

come lo parlano tra loro i professori,

al liceo dove insegno

e la preside anche, familiarmente,

come lo parla la gente nei negozi

o per strada, e proprio adesso –li sento-

operai

sul tetto di questa casa,

e anche Elisa lo parla, la mia vicina

con l’architetto Cervi al quarto piano,

così anch’io l’ho parlato, finalmente:

spontaneamente, senza farci caso

ma guarda caso

con nessuno di loro mi è riuscito

solo con uno, solo, con uno solo

d’un tratto, ho parlato:

con un uomo all’antica, molto anziano


che sta seduto muto, smemorato

in un suo negozietto

piccolissimo, spoglio,

dove nessun cliente ho mai trovato

io l’ho trovato

perché devo e amo

camminare in salita

è necessario è salutare andare

per me, oggi e ogni giorno,

in questa strada ripida verso San Giusto

dove c’è il suo negozio

e correre, quando arrivo in cima,

lungo viale della Rimembranza,

ogni giorno di più, più facilmente,

per poi fermarmi a lungo a guardare

una lapide bianca, speciale

in cui tra tanti nomi io distinguo

tutti


con quello di Scipio Slataper.

mercoledì 2 marzo 2011

UN AMORE NELLO SPECCHIO DELLA LETTERATURA: GUIDO GOZZANO E AMALIA GUGLIELMINETTI



(ritratto di Marco Reviglione)



Riproduco, per iniziativa e con la collaborazione di
Elisabetta Brizio, una lettera
di Guido Gozzano ad Amalia Guglielminetti,
che del poeta dei Colloqui fu amante
sfuggente, confidente finissima, in certa
misura (malgrado l'estetismo dannunziano
da cui ella, a differenza dell'amico, non
seppe mai svincolarsi del tutto) compartecipe
di un destino letterario.

Destino non solo intriso di letteratura, ma
addirittura in essa quasi integralmente
risolto, compiuto, dissolto, riflesso anche
dalle missive (esse stesse squisitamente
letterarie ed estetizzanti, ricolme di
reticenze, allusioni, ammiccamenti,
incompiuti e tronchi aneliti, tracce
vibranti eppure opache di un desiderio
affidato alla parola e alla carta nella
misura in cui, quasi lucrezianamente, non
poteva trovare pieno appagamento
nell'intreccio delle membra, nell'unione
dei respiri), le quali, quasi come in un
carteggio umanistico, non sanno mai scindere
l'autenticità (se mai vi fu) del sentimento
dalla finzione, dalla stilizzazione,
dall'infingimento, dalla posa artistica.

Si coglie l'occasione per riportare alcune
liriche della Guglielminetti, alla quale
non ha certo giovato l'etichetta di dannunziana
estetizzante, e che si rivela invece,
ad una lettura attenta e immune da preconcetti,
voce di rilievo nel panorama dell'estetismo
e del simbolismo italiani, capace
di concettualizzare e stilizzare
con notevole lucidità, nella lirica
omonima, il “silenzio”, la reticenza,
l'indicibile, il muto e raffinatissimo
velo della censura psichica, che
fascinosamente e torbidamente avvolgevano
pulsioni irrisolte, e per l'epoca
inconfessabili a chiare lettere.

In pari tempo, la fantasmagoria di gemme,
gigli, perle, veli e guanti filigranati,
il mormorio ombroso di mute armonie,
preghiere sussurrate, segreti auspici,
l'intrico ingegnoso e quasi mai goffo
delle analogie e delle metafore, gli audaci
desideri non detti, ma ancor più intensi,
amplificati, nell'indiretta e remota
evocazione, rivelano una frequentazione
non banale, e abilmente dissimulata nel
gioco allusivo, della moderna
poesia francese, da Baudelaire a Mallarmé.
(M. V.)





GUIDO GOZZANO AD AMALIA GUGLIELMINETTI


Vi siete mai domandata ciò che succederebbe se io non
dovessi esiliarmi? Io sì. Succederebbe più o meno questo.

Un giorno, un bel giorno, io sarei a casa vostra,
nel vostro salotto, con Voi.
Sarebbe un crepuscolo, un crepuscolo
della prima primavera, in febbraio, mettiamo.
Da molte ore io sarei con Voi; avremmo
parlato molto, avremmo esaurito ogni
pretesto non volgare di conversazione. Da qualche
istante si tacerebbe. L'ombra si
farebbe più densa. Voi vi alzereste per
accendere il lume. Io vi pregherei di no,
vi tratterrei seduta col gesto. Si farebbe
notte, più notte, nel quadrato della
finestra, rabescato dalle cortine, il
vostro profilo apparirebbe appena.
Solo a tratti, l'asta scintillante
d'un carrozzone elettrico illuminerebbe la
penombra per un secondo. E in quel
secondo il vostro volto apparirebbe e
scomparirebbe come una visione non sostenibile.
Allora io, che avrei le vostre mani
nelle mie mani, crederei di sognare, e
inconscio irresponsabile come in un
sogno, mi chinerei sulle vostre dita,
salirei lungo le falangi con le labbra, fino
a mordervi le vene del polso. Voi mi
sollevereste la fronte, dicendomi con rampogna
indulgente: Siamo savi!
Ma, per un evento sciagurato, il mio
volto sollevandosi si troverebbe all'altezza
della vostra spalla; io, nell'ombra,
non me ne accorgerei: e credendo di
abbandonare la guancia contro la
spalliera del divano, incontrerei
invece la mollezza d'una trina o il gelo
d'una catenella. Istintivamente, sempre come
in sogno, la mia bocca si troverebbe
dietro il vostro orecchio, alla radice dei
capelli fini, e vi morderei alla nuca
(il morso è il mio vizio preferito).
Allora voi vi alzereste di scatto, accendereste
il lume: e due cose potrebbero
accadere. O mi fareste accomiatare dalla
vostra donna, come nelle commedie,
col tradizionale “accompagna il Signore”.
E resterei male.
O mi perdonereste dopo lunghe condizioni.
E resterei male, ugualmente.


(12 novembre 1907)



POESIE DI AMALIA


L'ANTICO PIANTO

Quindi prosegua per cammini ombrosi,
a fior di labbro modulando un canto
che per me l'altra notte mi composi.

Poiché talor non piango io il mio pianto,
lo canto, e qualche mia triste canzone
fu come il sangue del mio cuore infranto.

Tempo fu che le mie forze più buone
stremai in canti a' piedi d'un Signore
che m'arse di ben vana passione.

Io piangevo così note d'amore,
come la cieca in sul quadrivio, volta
al sole, canta il suo buio dolore

e non s'avvede che nessun l'ascolta.


AL MARE

Al mare getta un dì sogni ed amori
come l'altra sua amante solitaria
gli getta fra due nubi fiori ed ori.

E ride con la sua anima varia,
mentre le spume in favolosi aprili
fioriscon gigli fatti d'acqua e d'aria.

Ella getta nel mar tutti i monili
dei quali, per piacere a sé, si para
la stoltezza dei cuori giovanili.

E ride ancora, ma con bocca amara.
Sul bene ch'ella non possiede più -
sembran le spume i fiori d'una bara

e un poco di sé stessa è ormai laggiù.


UN ADDIO

Folle è lasciarci, tutti accesi ancora
di desiderio, ancor pronti a godere
di tutto ciò che l'un dell'altro ignora.

La volontà che tiene prigioniere
le nostre giovinezze le flagella,
per farle in solitudine tacere.

Ma più le volge incitatrice a quella
gioia non mai gioita, che la morte
pur ci farebbe nel suo riso bella.

Più dolce sorte è la comune sorte :
darsi con umiltà l'un l'altro, ciechi.
Abbandonarsi al vortice più forte

e dirsi dopo un breve addio, senz'echi.


SILENZIO

Ogni pensosa vergine si cinge
del suo silenzio, come d'un velario,
e d'ombre un ondeggiar tenue e vario
con fantasia sottile vi dipinge.

O vi s'impietra, irrigidita sfinge
in muto enigma. O al suo cuor solitario
ne tesse inviolabile sudario,
fra aromati d'oblio ve lo costringe.

Grave è il sudario del silenzio, e il cuore
che vi si avvolge desiosamente
più non si desta da quel suo sopore.

Pur, se a scoprirlo, con ben caute dita,
ella s'attenti, ancor vede il dormente
gemere sangue dalla sua ferita.

mercoledì 9 febbraio 2011

Intergruppo-Singlossie, "Ultimi tattili ai margini della memoria" - audiovisivo di Vira Fabra






Presento, per gentile concessione, il film Ultimi tattili ai margini della memoria, della compianta Vira Fabra, valente pensatrice, teorica del Movimento "Singlossie" (noto anche come Antigruppo, e/o Intergruppo, Siciliano), che, nel contesto variegato e convulso delle avanguardie degli anni Sessanta e Settanta, si proponeva, a di là delle etichette e degli schieramenti, e sulla scia del Libro assoluto e totalizzante sognato da Mallarmé, di abbracciare e far interagire immagine e parola, esteriorità e significato, facendo propri, con mediazione critica e disgregante, ma insieme con lucida volontà costruttiva, modalità e linguaggi della comunicazione di massa, traslati però, e piegati, a nuove, stranianti significazioni.

All'avanguardia si è spesso rimproverato di non aver prodotto opere all'altezza degli intenti, delle teorie, dei proclami-programmi. Nel caso dell'Antigruppo Siciliano, questa dicotomia perde significato. Non c'è più distinzione fra teoria e pratica, fra riflessione estetica e lavoro artistico. Anzi, il discorso sull'arte è esso stesso arte, o addirittura più-che-arte, arte contemplata, e insieme doppiata e sovrastata, dalla più alta autocoscienza; la prosa in cui si esprime la concezione teorica è essa stessa genere della letteratura (la scrittura di Vira Fabra era, ed è, prosa splendida, iperdotta, fittamente citazionistica e insieme altamente suggestiva ed evocativa). Semmai, il gesto artistico è occasione, o pretesto nel senso più nobile e fattivo, per il discorso teorico, in cui l'arte stessa trova compimento e culmine.

Di tutto ciò è dimostrazione proprio il film che presento. Immagini immobili (ma spesso pervase da un'interna dinamicità cromatica, da un'implicita tensione vitale e creativa), accompagnate dalla voce fuori campo, pacata e ferma, che, interagendo a tratti con un sottofondo di free jazz - musica indeterminata, contaminata e fluttuante come la scrittura e l'immagine dell'avanguardia -, conferisce alle immagini stesse, impercettibilmente, palpito, pulsazione, vibrazione. Un modo di fare cinema (e insieme di decostruire, di ripensare, di rimettere in discussione dall'interno, il discorso filmico) che può riallacciarsi, mi pare, a certe tecniche del cinema situazionista di Guy Debord e dell'underground italiano (ad esempio Clodia-Fragmenta di Franco Bròcani), facendo interagire parola, suono, immagine, rifiutando le logiche della spettacolarità superficiale e sollecitando, al contrario, brechtianamente, le facoltà critiche dello spettatore.


Matteo Veronesi

mercoledì 29 dicembre 2010

MARIA GRAZIA LENISA, "ALTRA ANNUNCIAZIONE"

Maria Grazia Lenisa, una delle esponenti di primo piano, negli Anni Cinquanta, del Realismo Lirico, movimento fondato da Aldo Capasso con l'intento di recuperare una meditata e armoniosa naturalezza classica, lontana sia da certi eccessi di cerebealismo ermetico, sia dal realismo più crudo, corposo, materico, sviluppò poi, nel corso degli anni, una sua vicenda critica e poetica che non si esita ad annoverare fra le più vive e complesse del secondo Novecento italiano, segnata da un'assidua volontà di ricerca espressiva e dal ripensamento di una variegata serie di modelli, da Rimbaud a Luzi a Zanzotto - per un discorso che fondesse riflessione, narrazione, lirismo, epica, frammento, per un verbo poetico che fosse davvero, come voleva Rimbaud, "accessible à tous les sens", a tutte le sfumature percettive, così come aperto a tutte le possibili risonanze di significato.
La poesia che riprendo qui pare riassumere tutta una costellazione di temi e motivi, altissima e limpida: l'impregiudicata, assoluta identità, umana ed intellettuale, di donna libera in sé, fiera e viva della propria libertà, eppure immersa, per ciò stesso, nell'archetipo della Grande Madre (qui rivisitato in una chiave sia cristiana che pagana, fra la maternità verginale ed universale, la seduzione impalpabile e sorvrumana, di Maria e l'evocazione, remota, delle Ninfe delle fonti, datrici di purezza e di vita); e, in parallelo, i suoi due numi tutelari, Capasso e Bàrberi Squarotti, pronti e vigili il primo nel cogliere l'ispirazione idillica, naturalistica, più schiettamente classica e lirica, della prima stagione, il secondo nel sottolineare l'evoluzione in senso narrativo, sperimentale, anche iconoclastico, delle opere più mature e più vaste (cui i versi sotto riportati appartengono), in cui, un po' come in Luzi o, diversamente, in Zanzotto, due suoi punti di riferimento, il nucleo lirico originario, pur non rinnegato, si complica e si dispiega in misure poematiche, eppure frammentarie (totalità nel frammento, e viceversa).




ALTRA ANNUNCIAZIONE

Calda di gioco,
piedi nudi al sole,
ebano d'occhi lucidi nell'olio
di lampada innocente, t'arde
dentro un fuoco vivo.

Fremito
e fermento, ordinato in preghiera
per la luna, per il sole che avviva
la tua bruna pelle di cotto, anche
per la polvere ch'è cipria
dei tuoi piedi avventurosi.
Dio tra i cespugli si fa uomo,
ha l'occhio di un ragazzo rapito
a contemplarti, già studia un modo
nuovo d'accostarti.

Perchè tanto
frastuono, accatastare ali pesanti
d'uccello immortale?

Smette le ali
l'angelo dell'uomo, Maria sorride,
è voce dell'infanzia la familiare
loquela del gioco. Poi s'assicura
d'essere cercata dal dio nascosto
che la vuole intoccata.

Giuseppe è antico, stanco, senza corpo,
Maria beata la pianta da frutto.

Al primo mese il seme è goccia d'acqua
poi pesciolino palpita nell'acqua
del ventre. Mette i capelli al quinto mese
e brucia la bocca dello stomaco di luce.
Il ventre avanza, erompono le acque
ridenti della roccia. Porta del cielo
si è fatta donna...



…La prodigiosa Fanciulla di Udine è tante volte assorbita dalla sua personale angoscia (la inimicizia verso il tempo, la prescienza così precoce di tutta la potenza distruttiva del Tempo), e tante volte assorbita dalla sua consolazione principale, il contatto con la Natura, amata con una sana fresca innocente sensualità (che talora mette in moto nelle sue vene presagi e desideri d'amore, vissuti con non minore sanità e naturalezza).


[A. Capasso, Prefazione a Il tempo muore con noi]

Il discorso poetico lenisiano continua a stupire con l’emergere a poco a poco di valenze religiose, seppure al di fuori degli schemi, ne “L’Acquario ardente” e ancor più marcatamente con “L’agguato immortale”. Si parte dal “…tentativo supremo … d’incarnare davvero il nome di Dio nel mondo dei sensi…” per approdare allo “…spostamento dell’orfismo … verso le più ardue sorgenti, cioè come ricapitolazione della storia umana … dalla creazione alla tentazione … fino al nodo decisivo del riscatto in Cristo, cioè nella sofferenza, nel sacrificio, nella morte, ma vista nella luce di un amore che, come in tutte le esperienze di poesia mistica, ha forti impronte di carnalità.” Emerge un’idea della morte che ritornerà anche nei testi successivi, più dichiaratamente collegabili all’esperienza ambivalente, d’immersione totale eppure di distacco artistico, vissuta dalla poetessa in lotta contro il tumore al seno. Si tratta, appunto, di uno “sdoppiarsi della persona in chi scrive e vede e descrive la morte, e chi è nella morte, sì, inerte ormai, ma con dentro ancora il lievito immortalmente creatore della poesia…”. Segnala oltretutto il critico “ …alcuni testi dedicati a Maria che sono fra i più alti, nella loro estrema difficoltà e nella loro perigliosa audacia, di tutta la poesia alla Vergine, scritta fino ad oggi…”

(da Verso Bisanzio; passi delle prefazioni di Giorgio Bàrberi Squarotti)

sabato 25 dicembre 2010

UN NUOVO LIBRO DI SAGGI, DA GIOVANNI LINDO FERRETTI A MASSIMO SCRIGNOLI, DA D'ANNUNZIO A LUZI, FRA DECADENTISMO, ESISTENZIALISMO, DOCUMENTALITA'



Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio

Heptaplus. Quattordici esercizi di bibliomanzia, Gruppo L'Espresso, Roma 2010.

Quattordici saggi, disposti a dittico, su letteratura e filosofia, dall'antichità al postmoderno, fra semiologia, esistenzialismo, ontologia, ermeneutica.

Il titolo e il sottotitolo, in apparenza arcani, di questo libro alludono, da un lato, all'idea rinascimentale della coscienza culturale come settimo giorno della creazione, dell'autocoscienza o coscienza riflessa come compimento ideale dell'universo, come vasto silenzio in cui la realtà e il pensiero vedono ed inverano se stessi nello specchio della riflessione; dall'altro, all'antica (ma anche moderna: D'Annunzio «estremo de' bibliomanti») arte della bibliomanzia, della conoscenza profonda, in certo modo profetica, che si ricava, o che ci si illude (ma quanto vitale e salutifera illusione) di ricavare, dallo scrutare e dall'auscultare, senza schemi preconcetti (e anzi concedendo al mistero, all'engima, all'imponderabile, ciò che a sé rivendicano nel percorso della vita, della conoscenza e della creazione), la selva di segni della scrittura e del testo.

La cultura in questa società mediatica e frenetica, che venera la superficie e l'effimero, e che sembra andare serenamente, con un sorriso ebete, verso il niente che già vive senza rendersene conto, e anzi idolatrandolo come assoluto e come cosa salda, nell'insensatezza della politica, della burocrazia, della famiglia, dei riti, dei rapporti, di tutto non può che essere religione della Parola e del Libro, anche se ormai demistificata, senza approdi metafisici, o sfociante in un Essere-Nulla, in un'insensatezza che si ostina ad essere illusione del senso (fosse pure, quest'ultimo, luminosa e numinosa, e a suo modo preziosamente sapienziale, rivelazione di quella stessa insensatezza, di quello stesso vuoto sottostante, sub-stanziale).

Ideale eptacordio o flauto silvestre, erma bifronte e diffratta di un pensiero duplice ed unitario, discorde e concorde, divergente eppure ancorato ad un comune sentire, ad un verbo preverbale, ad un etimo ipofenomenico, noumenico (intreccio ordito tessuto di testi e di intertesti ove le parole «s’allument de reflets réciproques comme une virtuelle traînée de feux sur des pierreries»), questo esile libro, nato con discrezione, a margine di letture antiche e moderne, quasi “pensando ad altro” (ma anche e proprio questo è il senso del dire letterario come alieniloquium, della pronuncia poetica e filosofica come discorso altro, lontano, straniato, perduto e risonante dalla e nella provincia dell'essere), si pone, se si vuole, come sorta di arido e sterile atto di fede, come attestazione di una sfiduciata, eppure in certo modo segretamente, quasi disperatamente sentita, religio litterarum, come, infine, laico culto della parola, di un verbo non incarnato se si vuole, qualcosa di simile al discorso del Cristo morto e risorto che dubitava, in una delle allucinatorie prose di Johann Paul Richter, dell'esistenza di Dio.


M. V.


Il viaggio - come lo intende Ferretti - si delinea come metafora della vita: per definizione è un attraversamento contemplativo, le cui acquisizioni avvengono negli intervalli, nel lento soffermarsi, nell’indugiare, nel riflettere sulle presunte ovvietà, nel “perder tempo per trovare altro”, e non nel procedere direttamente e con lo sguardo distratto verso la destinazione. Anche gli esseri che incontriamo lungo la nostra esistenza, alla stessa maniera dei paesaggi (arcaici e talora quasi giotteschi, quelli ferrettiani, nella loro essenzialità archetipale), suscitano intimità o estraneità, anch’essi sono oggetto di un continuo rinvenimento, visto che “non tutti i viaggi si misurano in chilometri”. Reduce è anche (come effigiato nella circolarità disegnata dal cavallante nel manifesto di cui si diceva all’inizio) un resoconto spirituale dei viaggi che hanno incrementato l’esperienza di Ferretti: in Algeria, in Iugoslavia, in Russia, in Terra Santa. Ma soprattutto in Mongolia. Il viaggio in Mongolia costituisce la demarcazione, e ne colma il divario, tra l’esperienza punk e il ritorno al cattolicesimo. Il paesaggio mongolo è ora meridiana della consapevolezza e spazio germinale della decisione, per ciò che esso svela e per quel che di non effabile continua a nascondere:


La Mongolia somma il mio luogo più lontano e più intimo. Taglio profondo tra il prima e il dopo, non ferita ma punto di sutura tra tutto ciò in cui sono venuto al mondo e ciò che, nascosto, invece di seccare è germogliato. Da lì ho reimparato quello che ero sotto ogni incrostazione cumulata.

Mongolia è madeleine del fertile fondale dell’infanzia - età che trattiene tutta la ricchezza della vita: “infanzia, colta semina / germoglia disgelandosi” - e icona destinale della spettralità di un paesaggio dell’anima, solo in parte, e unicamente sotto il profilo materiale, perduto. Ora, se il tempo è irreversibile, c’è in noi qualcosa di perdurante che ci lega all’origine: “tutto passa e tutto lascia traccia”, dirà lo stesso Ferretti. Lì i ritmi di vita differiscono da quelli del nostro Occidente attuale e si rivelano retrospettivanti: lì risovvengono a Ferretti la nostalgeia, la pulsione non più differibile a tornare alla propria patria, auraticamente qualificata da tempi lenti e dal contatto con lo spessore della spazialità. Ma chi l’aveva creata, la Mongolia? Qui Ferretti esperisce di un tempo arrestato, quasi immobile, e di un iperpaesaggio emblema o paradigma, come fosse stato appena creato: e non può evitare di interrogarsi suo creatore. Evidentemente, decontestualizzando, “così vanno le cose, così devono andare” (Fuochi nella notte).

Ricordate quell’intervista del lontano 1984 - riportata da Pier Vittorio Tondelli in Un weekend postmoderno - ai CCCP-Fedeli alla linea in cui viene chiesta la ragione del loro schieramento a Est? La risposta era questa: “Scegliamo l’Est non tanto per ragioni politiche quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale preferiamo il duraturo; alla plastica, l’acciaio; alle discoteche preferiamo i mausolei, alla break dance il cambio della guardia.” Quindi una questione morale - già allora si ricercava una opzione possibile rispetto al tramonto dell’Occidente - oltreché di stile. Allora Ferretti parlava di “duraturo” da contrapporre a “effimero”, poi sarà la cultura asiatica a essere assunta a alternativa. In Mongolia steppe e paesaggi - arcaiche distese di perpetuità più che di desolazione - divengono luoghi assoluti dove anelare ad andare a finire la propria esistenza. La Mongolia viene esperita come plaga paradisiaca, per la vastità dei suoi spazi e per la presenza consustanziale degli animali, quello spazio ideale e non più precario che Ferretti reduce ha infine ritrovato nella propria terra di origine e nei valori perenni di un “natio borgo” eletto a ipostasi di uno status. In Reduce ritorna dunque anche la ferrettiana invariabile coerenza interiore: quel suo “campare” di parole, riflessioni su sé stesso e sui propri cambiamenti, la fiducia accordata alla matrilinearità come percorso di redenzione, il suo profondo sentirsi partecipe dell’esperienza dell’essere umano. La convinzione, inoltre di aver vissuto la propria infanzia in una età tardo medioevale alla quale è succeduta la devastante età moderna, nella quale già si insinua una arrogante e fatiscente post modernità. Rispetto agli anni Ottanta si delinea qui l’immagine di una esperienza individuale che si semplifica e si circoscrive, funzionalmente progredisce regredendo, e si fissa entro i confini di acquisizioni essenziali.


(da Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio, Heptaplus, Gruppo L'Espresso, Roma 2010)

Per ordinare il libro:

http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=558929


lunedì 29 novembre 2010

Giselda Pontesilli, "Nota su Fedele D’Amico" (con un articolo dimenticato sul linguaggio e i pericoli della televisione)


Colpevolmente, conoscevo l'opera di Fedele D'Amico quasi solo per sentito dire. Proprio per questo, tanto più mi è gradita la rivelazione offerta a me, e spero anche a qualche sparuto e volenteroso lettore, da questa preziosissima, essenziale e sentita nota della sua allieva Giselda Pontesilli, e dallo scritto di D'Amico riprodotto per gentile concessione. Scritto la cui data non può non sbalordire, e che non può non apparire straordinariamente, e per certi aspetti tristemente, premonitore e profetico rispetto ad alcune tendenze della società di massa, la quale sembra accordare la vera, ancorché effimera e superflua, esistenza solo a ciò che passa sullo schermo televisivo. Ben prima di Pasolini (le cui celebri pagine sulla televisione come strumento di narcosi della coscienza critica e di assoggettamento delle masse al "centralismo della società dei consumi" sono posteriori di un decennio) e, con tutta probabilità, indipendentemente da McLuhan, D'Amico era riuscito a cogliere, con puro genio e acuminata precisione definitoria ed argomentativa, l'essenza di uno strumento in cui mezzo e messaggio coincidono, in cui il messaggio si risolve, infine, nel puro e vacuo fascio di luce che veicola le immagini e che finisce per porre se stesso,la propria sostanza indefinibile, incorporea e fredda, come valore assoluto, acritico, quasi dogmatico, disgiuntamente e indipendentemente da qualsiasi contenuto, pensiero, esperienza, verifica, vaglio. E, considerando la faziosità e le opposizioni preconcette, e spesso pretestuose, che lacerano il mondo della cultura, non si può che restare ammirati e sedotti dall'impegno lungimirante di un intellettuale che, pur schierato a sinistra, chiamava a raccolta, al di là di ogni ideologia, tutti gli uomini di cultura in un'impossibile (e persa in partenza, ma pur sempre degna e necessaria) lotta alla banalità, alla volgarità e agli stereoripi del consumismo e dell'edonismo di massa.

(M. V.)


È
importante, di Fedele d’Amico (Roma, 1912-1990) - lo si vede sempre più col passar del tempo -, l’intero corpo del lavoro svolto.

A partire dagli scritti giovanili; tra cui, apparsi su “La Rassegna musicale” di Gatti: “Petrassi e il suo Salmo” (1938, V-VI), “Nota sulla lirica di Pizzetti” (1940, IX-X), “Ragioni umane del primo Malipiero” (1942, II-III); nonché la recensione a Classicismo e romanticismo nella musica di Damerini (seguita da una lunga risposta a obiezioni del Salvi –1942, VIII e XI), in cui d’Amico, con interessantissime argomentazioni a tratti quasi fenomenologiche si distanzia dalla critica musicale di stampo crociano.

Ci fu poi la militanza politica (nel ‘43-’44 egli fu direttore di “Voce operaia”, settimanale del Movimento cattolici comunisti), riepilogata nell’intenso “Perché ci occupiamo di politica” (Mercurio, 1945, n.6).

Ci furono le voci di primo piano nell’Enciclopedia dello Spettacolo, da lui diretta, per la sezione Musica e danza, con leggendaria professionalità e rigore; le splendide dispense universitarie (su Rossini, Mozart, Beethoven, le Poetiche musicali del ‘900), per le quali i suoi studenti si sentirono indelebilmente stupefatti, gratificati d’essere oggetto di una tale cura; le recensioni settimanali su “L’Espresso”, tutte “necessariamente” ristampate nel 2000 dall’editore Bulzoni; gli scritti su riviste: “miniature”, “collezione di gioielli” - li definisce Rudolf Arnheim nell’altrettanto esemplare epistolario, durato oltre cinquant’anni (dal ’38 al ’90), tra lui e d’Amico, epistolario di cui il prefatore, Franco Serpa, sottolinea “immediati e quasi allo stato puro i tratti di una energia spirituale rara tra gli intellettuali italiani, quella che nasce dall’identità tra intelligenza critica e fede civile, refrattaria a qualsiasi compromesso” (1).

Ci furono ancora l’edizione critica degli scritti di Busoni2; le traduzioni in versione ritmica italiana di molti libretti d’opera; i programmi di sala -perfetti, attesi- di balletti, opere, concerti; e tante altre cose, tutte fatte con estrema cura, tutte da poter studiare.

Un lavoro non sistematico quello di d’Amico, normalmente vòlto all’esegesi, alla “descrizione” (musicale, storica, biografica, morale) di un’opera concreta, d’un artista in cui egli si cala interamente, umilmente, senz'ombra di teorie preconcette o tesi a priori, per svelarne, articolarne nelle più intime fibre, l’intrinseca, libera individualità, finalità (paradigmatiche le sue acquisizioni di Rossini (3), Berlioz (4) , Manuel da Falla (5), Strawinsky (6)… E, “innanzitutto”, il ritratto -e forse arcano “autoritratto”- di Bruno Barilli (7).

E però al tempo stesso un lavoro non frammentario, non empirico, sempre unitario, “sistematicamente” sostanziato da un fondamento - che pure andrà ben studiato e accuratamente compreso - coerente, costante.

Di fronte ad esso, il breve scritto qui riproposto, d’argomento apparentemente “estrinseco”, sociologico, potrebbe sembrare (anche se in sé bellissimo), non adeguatamente indicativo, forse anche, per qualcuno, fuorviante.

Ma è stato scelto e col gentile permesso della famiglia ristampato, perché indica la peculiare militanza e incorruttibilità intellettuale dell’autore: il suo impegno assoluto, innanzitutto verso i non privilegiati, il popolo, di cui sostenne strenuamente e con dialettica inattaccabile l’emancipazione sociale, cioè culturale, il diritto inalienabile alla cultura vera (8).

E s’infuriò per questo, scappava furibondo davanti agli auditori, ai teatri in cui l’esecuzione si prospettava “teletrasmessa” (fu stupendo vedere quei furori, quella fede: “Che le ire, e perfino i paradossi, di d’Amico fossero seri, e talvolta veementi atti di fede, l’abbiamo sempre sospettato” –scrive ancora il Serpa nella citata prefazione); e cercava, come si vede in questo stesso scritto -e non trovava- alleati, comprensione: allibito dalle posizioni di Ugo Spirito come da quelle delle sinistre.

“Ma tu sei stato combattente fin da quando ti ho conosciuto” – scrive Arnheim a d’Amico nell’ultima lettera dell’epistolario. “Combattente solitario” – lo definì Masolino d’Amico nell’incontro in ricordo del padre, avvenuto a Trieste nel 2000 presso il Circolo della cultura e delle arti.

E tuttavia, in quell’incontro, dalle parole dei relatori, Giorgio Vidusso, Luigi Bellingardi, Franco Serpa, emerse inequivocabilmente, quanto sia chiara, per alcuni, la consapevolezza del valore di quelle battaglie, quel pensiero.

E fu chiara altresì a Roma negli anni settanta, per alcuni studenti, alcuni giovani, che, pur non occupandosi prioritariamente di musica, bensì di poesia e filosofia, solo in lui trovarono un maestro, un’indicazione di percorso, una guida.

Le sue solitarie, acutissime disamine della dodecafonia, della neo-avanguardia (per certi aspetti analoghe a quelle di Ansermet in Les fondements de la musique dans la conscience humaine (9) -più tardi meritoriamente stampato in italiano da Campanotto); la sua confutazione sovrana dei dogmi storicistici ed evoluzionistici contemporanei; la persona di lui nel suo complesso che autenticava qualunque cosa dicesse, perfino una, soprattutto una: - che ancora oggi, malgrado tutto oggi, l’artista, “attraverso una dialettica rinnovatrice” (10), doveva e poteva fare Arte come s’è sempre fatta - diedero loro strumenti insostituibili per districarsi dalla confusione, dall’epifenomenicità dell’arte contemporanea.

E gliene furono per sempre vivamente grati.

1 Fedele d’Amico, Il teatro di Rossini, Il Mulino, Bologna, 1992.

2 Ferruccio Busoni, Lo sguardo lieto. Tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di Fedele d’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977.

3 Rudolf Arnheim – Fedele d’Amico, Eppure, forse, domani -Carteggio 1938-1990, Archinto, Milano, 2000, pp.11-12.

4 Fedele d’Amico, Berlioz cent’anni dopo, in Un ragazzino all’Augusteo. Scritti musicali 1962-1988, a cura di Franco Serpa, Einaudi, Torino, 1991, pp.111-138.

5 Fedele d’Amico, Manuel de Falla, in I casi della musica, Il Saggiatore, Milano, 1962, pp.469-476.

6 Fedele d’Amico, Stravinsky: oggettivismo, neoclassicismo, musica al quadrato, in Poetiche musicali del Novecento e loro antecedenti, corso universitario, Roma, 1974-75, pp.79-91.

7 Fedele d’Amico, Barilli, o la caducità del miracolo, ora in Bruno Barilli, Il paese del melodramma, Adelphi, Milano, 2000, pp.133-155.

8 Da notare che “cultura vera” non è solo, per d’Amico, come si potrebbe affrettatamente inferire, musica, arte, poesia “classiche”, ma proprio, letteralmente, “il contrario della pappa scodellata sul video”, “a qualsiasi livello”: anche la canzone popolare autentica è cultura, ma mai lo è la finta canzone popolare imposta dall’industria “culturale”, “giacché diversamente da quanto la canzone ha sempre fatto, quella di San Remo non rispecchia i miti d’un ambiente bensì impone all’ambiente dei miti prefabbricati, dittatorialmente, fingendo la spontaneità” (cfr. “In che senso la crisi dell’opera”, in Un ragazzino all’Augusteo, op. cit., p.90.

9 Nella lettera del 2 Aprile 1969, d’Amico scrive ad Arnheim: “Ho rallentato all’infinito un lavoro a cui tenevo in modo specialissimo –una riduzione italiana dei Fondements de la musique dans la conscience humaine di Ansermet, che nell’originale è terribilmente lungo, e difficile, ma secondo me è un libro importantissimo –e adesso Ansermet è morto, e la faccenda diventa anche più difficile”, in Eppure, forse, domani, op. cit., p.71.

10 Fedele d’Amico, La musica contemporanea non è una, in I casi della musica, op. cit., pp.507-513. E, a p.506, a conclusione di Adorno e la nuova musica, si legge: “Di fronte a una dittatura mercantile che corrompe tutti i valori riducendoli silenziosamente alla propria ideologia, rendere le forme in cui quei valori si esplicano corresponsabili della corruzione significa accettare l’identificazione imposta e arrendersi alla provocazione senza condizioni. Una cultura d’opposizione trova invece la sua giustificazione storica solo in quanto rifiuta quell’identificazione e s’impegna a liberare quei valori in quanto tali, cioè non soltanto in quanto portatori d’un ’ideologia di segno contrario: operazione al limite della quale è il superamento concreto d’ogni ideologia”.


La televisione e il professor Battilocchio

di Fedele d’Amico

Un mio stretto parente m’invitò non molto tempo fa a festeggiare l’anniversario del suo matrimonio. C’erano solo dei familiari, forse una dozzina: persone, tutte, a me carissime, e che purtroppo non frequento quanto vorrei. La prospettiva d’una serata fra loro era dunque promettente. Ma quando arrivai, alle nove e mezzo, era aperta la televisione; e durò implacabile non so fino a quando: certo era ancora aperta quando me ne andai, poco prima dell’una. I numero più vari si erano succeduti sull’apparecchio: belli o brutti, che importa? La gran maggioranza degli intervenuti li accettò in bianco, come al solito, non se ne lasciò sfuggire uno. Bisognava vederli, poveretti, come non riuscivano neanche a godersi la cena in piedi, tanto dovevano trafficare con la coda dell’occhio. E la serata sfumò, inutile.

Leggere un libro vuole una disposizione attiva: iniziativa, concentrazione durevole, impegno intellettuale. Lo stesso, ascoltare un dramma; perché un dramma è assai più parola che visione, implica una consecutio di concetti e giudizi che va seguìta. Già al cinema invece, dove la parola per lo più è cartiglio esplicativo d’un linguaggio d’immagini abbastanza ovvio, un’attitudine fondamentalmente passiva è sufficiente. Bello o brutto, un film mette in moto il cervello assai meno che una commedia, bella o brutta: conta piuttosto su suggestioni periferiche alla riflessione e al concetto. Ancora meno esigente, incomparabilmente meno esigente è la televisione. Che a questo appunto deve il suo trionfo, la sua capacità di dissuadere con dolce violenza la gente dal libro, dal teatro, dal cinema e dalla frequentazione dei propri simili; perché anche giocare a scopa, o chiacchierare del processo Fenaroli, domanda uno sforzo maggiore che l’amplesso col video.

Finché fu muto, il cinema cercò di stilizzare il gesto. Nel vero, il gesto non esaurisce l’espressione semantica, perché agisce a complemento della parola; costretto però a esprimersi senza la parola, il cinema fu obbligato a stilizzare, enfatizzare, elaborare il gesto, per renderlo autosufficiente, e così a riprendere la tradizione dell’arte pantomimica. Ma questo impegno con l’invenzione del parlato decadde; per quanti residui potessero restarne qua e là. E la stilizzazione cedé il campo alla semplice riproduzione del vero.

D’altronde il cinema non è il teatro, costretto a fingere ambienti colla cartapesta, sulle rime obbligate di un palcoscenico, a mantenere gli attori in una certa artificiosa collocazione rispetto al pubblico, eccetera; il cinema può portare sullo schermo qualunque ambiente, e farci muovere dentro gli uomini come nella realtà, senza mediazioni convenzionali. Così nel cinema l’arte è solo nella disposizione, nell’organizzazione di elementi che di per sé non vengono elaborati ma dati come “veri”: muniti dunque di sex appeal, di quella carica irrazionale e inconfutabile che solo la verità còlta sul fatto possiede.

Donde la forza del cinema: la sua facilità, accessibilità, non problematicità. Qui è la sua funzione essenziale: ratificare il vero, persuaderci che tutto, al mondo, è bellissimo. Sono belle le città antiche e quelle nuove, le automobili, i palazzi, le catapecchie, i signori, i pezzenti, il frac, i blue-jeans; basta fotografarli. E qui è il suo limite: non poterci mai rappresentare una realtà in evoluzione, una prospettiva d’avvenire. Il cinema conosce solo ciò che è attualmente visibile. Anche il film di sinistra non può fare del proletariato, che un essere amabile così com’è, hic et nunc. E noi ce ne innamoriamo talmente, di questo proletariato così com’è, che a un certo punto non comprendiamo più perché dovremmo desiderare che progredisca, ossia che cambi.

Anche la televisione è riproduzione, ratifica del vero; ma a un grado incomparabilmente più misero ed elementare, a un grado puerile. Al cinema, si va a vedere un film: nella speranza di trovare comunque un organismo compiuto. Alla televisione si cerca unicamente la televisione, poco importa in quali aspetti s’incarni strada facendo: attualità, notizie, quiz, canzoni, commedie, opere liriche, film, partite di calcio. Un libro, chi non gli piace, non lo legge; una commedia che non piace si recita a teatro vuoto. Lo stesso un film. La televisione invece, tutti dicono che i suoi programmi sono repellenti, ma tutti la guardano. Non guardano i programmi infatti, guardano la televisione. Anche una commedia o un film alla televisione non sono più una commedia o un film: sono la riproduzione d’una commedia o di un film nelle proporzioni del balocco. Ciò che si cerca nella televisione è questa riduzione a balocco: in casa, senza fatica, girando un bottone.

Anni fa, nell’era pretelevisiva, mi capitava di passare davanti agli uffici d’un grande quotidiano, da una finestra dei quali pendeva uno schermo su cui si proiettavano scene dal vero della specie più banale: il traffico nella via d’una grande città, per esempio. Un traffico identico si poteva godere guardando cinque metri più in là, nel vero; tuttavia nessuno guardava cinque metri più in là, mentre una piccola folla sostava regolarmente davanti a quello schermo. Il perché, lo capii soltanto dopo l’esperienza della televisione. La realtà, osservata direttamente, sembra casuale e confusa, non interessa; e d’altra parte la realtà rielaborata (dall’arte, dalla scienza, dalla storiografia) non è accessibile senza un minimo di partecipazione attiva, critica. Invece la realtà semplicemente riprodotta non esige alcuna fatica in chi l’osserva; e d’altro canto assume misteriosamente un aspetto di necessità, un valore apodittico che la sottrae alla critica. Da quella riproduzione l’uomo sente avallare il mondo che lo circonda, è certificato di trovarsi nel migliore dei mondi possibili, o almeno in un mondo a cui non esiste alternativa. E questo mondo si giustifica con la semplice esibizione dei suoi frammenti spiccioli, dei suoi particolari presi a caso; non c’è neanche bisogno di ricomporli, di sistemarli formalmente secondo un ordine qualsiasi.

Avete mai pensato all’assurdo dell’annunciatore visibile? In un film, gli “annunci” sono titoli consegnati alle lettere dell’alfabeto; sarebbe bella che in loro vece apparisse sullo schermo un essere umano dal sorriso Durban’s con un foglio in mano, a leggerci: “La Lux Film presenta…” Ma appunto questo succedeva fino a poco tempo fa alla televisione. I risultati del campionato di calcio, quanto più comodo leggerli sul video, in modo da poterli, eventualmente, rileggere. Invece ce li recitava un tale in carne e ossa, lanciandoci ogni tanto un’occhiata inesplicabile. Come mai questo ridicolo procedimento era accettato come normale? Perché qualunque cosa, qualunque persona appaia sul video offre interesse: per il solo fatto di apparire sul video. La futilità della sua presenza è garanzia sufficiente della sua necessità, e viceversa.

Tutti guardano dunque il balocco. E nella coscienza di essere tutti. Quasi nessuno lo guarderebbe, infatti, se non fosse certo che tutti, contemporaneamente, lo guardano. Tutti così collaborano docilmente a costituire il suo gran miracolo, che consiste nel creare valori puri, cioè vuoti di attributi concreti, indifferenti al loro contenuto originario. Questa operazione rientra nel consueto obbiettivo della civiltà mercantile, che com’è noto è la sostituzione del valore di scambio al valore di consumo; e non è se non un’applicazione della tecnica pubblicitaria, consistente nel persuader tutti ad acquistare un certo prodotto in base al solo argomento che, appunto, lo acquistano tutti. Ma è un’applicazione, qui, talmente perfetta da poter valere come paradigma, come simbolo ideologico..

Niente infatti uguaglia la televisione nella capacità di spolpare automaticamente ogni realtà dei suoi valori effettivi per trasformarla in entelechia della Notorietà pura. Ogni personaggio, ogni trasmissione che la televisione decida di collocare al luogo opportuno, sale immediatamente e indifferentemente ai cieli della Fama, e solo per questo diventa significativo. Nelle entità così canonizzate tutti si riconoscono, indipendentemente da ogni contrasto di gusti. Perché non la concordanza di gusti importa, importa solo non perdere i contatti con ciò che tutti venerano, e che gl’ideali di tutti simboleggia e realizza nella sua disponibilità assoluta.

Comunque sia giudicato dagl’individui, l’ente canonizzato diverrà segno di riconoscimento, veicolo d’un’ omertà perinde ac cadaver.

Siete mai capitati in un normale teatro quando lo spettacolo è “teletrasmesso”? Non è comodo per lo spettatore. I riflettori vi accecano, gl’intervalli si allungano, l’illuminazione della scena stabilita dal regista è distrutta, qualche volta cambia il programma annunciato. Ma nessuno protesta. Al contrario, i volti s’irradiano, gli animi si tendono a una mistica solidarietà. Il deus absconditus è lì a due passi, la sua grazia sta per investirci. E una voce interiore ci ammonisce alla solennità dell’ora, la stessa voce che guida ogni giorno i passi dei dirigenti, degli operatori, degli artisti, degl’impiegati, dei sacerdoti insomma e dei chierichetti della Telereligione: “Da quegli obbiettivi, sedici milioni d’imbecilli vi guardano”.

D’accordo, dicono certuni. La televisione è un disastro. Ma non dimentichiamo che per tanti, fino a ieri esclusi dalla cultura, è comunque il solo mezzo utile a procurarsene qualche briciola. Sarà pur sempre meglio di niente. Le brodaglie di Buchenwald erano quello che erano; pure sono bastate a far sopravvivere qualcuno.

Il paragone non è allegro; ma soprattutto è sbagliato. Perché la cultura non è un oggetto materiale, una questione di calorie e vitamine. Si possono avere le opinioni più diverse su quale e quanta cultura si possa e debba diffondere fra tutti i cittadini. Ma una cosa dovrebb’essere pacifica: non che la Fenomenologia dello spirito, neanche le quattro operazioni si possono iniettare con la siringa. Cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività: il contrario della pappa scodellata sul video. Sì che l’argomento va tranquillamente rovesciato. La televisione potrà magari riuscire innocua, o poco dannosa, a chi pratichi abitualmente le vie naturali della cultura; ma appunto agli analfabeti, ai bambini, ai “finora esclusi” riuscirà letale. Una volta morfinizzati dalla televisione, costoro non apriranno più un libro per tutta la vita, rimarranno definitivamente congelati dalla loro ignoranza. Appunto per questo la virulenza della televisione, in un paese incolto come il nostro, è massima e non minima.

Viene dunque da trasecolare leggendo in questa stessa rivista, a firma nientemeno che di Ugo Spirito l’ammonimento a non “chiudere il televisore con disdegno”, giacché le “espressioni più grandi” della “vera cultura” si troverebbero “soltanto attraverso gli strumenti che abbiano la capacità di raggiungere la massa” (1). Mi domando perché mai il libro non “abbia la capacità di raggiungere la massa”; e donde scappi fuori questo strano dualismo fra la cultura e i suoi “strumenti”. Ci sono paesi in cui i libri dei classici si vendono a decine di milioni di copie: e nella loro forma di libri, cioè non attraverso nuovi “strumenti”. L’escogitazione dei quali raggiunge gli scopi esattamente opposti a quelli che Ugo Spirito si propone, serve cioè solo a perpetuare la divisione fra la cosiddetta élite, che seguiterà a leggere, e la cosiddetta massa, a cui metteremo l’animo in pace spiegandole che guardare un vetro è lo stesso. Cultura per tutti non significa questo: significa scuole per tutti, libri per tutti, teatri per tutti.

E video per nessuno. Invece il video è e resterà per tutti. Abbiamo abolito i flippers, i postriboli, le mosche, il vaiolo: tutte cose molto meno nocive. Non aboliremo le “teletrasmissioni”; perché questo, dicono, sarebbe andare contro il “progresso”, contro la “scienza”.

Argomento falso e ipocrita se mai ve ne fu. Vietare che la cocaina si venda dal tabaccaio non significa impedire lo studio né l’impiego degli stupefacenti. Chiedere l’abolizione della bomba atomica non significa arrestare la fisica nucleare. Che la scoperta della trasmissibilità delle immagini a distanza debba tradursi nella fabbricazione di alcuni milioni di aggeggi capaci di convogliare in tutte le case ciò che alcune persone manipolano in qualche via Teulada non è, “scientificamente”, affatto necessario.

Le vie Teulada esistono soltanto perché ciò produce lucro, e per di più risulta mirabilmente idoneo, in qualunque programma si realizzi, a educare negli utenti un comportamento omogeneo all’ideologia dominante. La televisione rende l’uomo non pensante, passivo, docile, acritico: un compratore ideale di cocacola e di miti piccoloborghesi.

Perciò coloro che credono nella civiltà mercantile difendono la televisione. E gli altri? La difendono anche loro. Dicono di credere al salto dal regno della necessità in quello della libertà, vogliono restaurare il valore di consumo contro il valore di scambio, sottrarre l’uomo alle alienazioni, eccetera. Ma la tentazione di servirsi del mezzo è troppo forte. Perché non tentare di esorcizzarlo, mettendoci dentro le nostre idee?

A vincere nel figlioletto l’invincibile ripugnanza alla scuola, un personaggio di una commedia di Campanile scrittura certo professor Battilocchio, che travestito da ragazzino giochi a palline con lui, insinuandogli abilmente fra un colpo e l’altro le regole della prima declinazione. Ho visto questa memorabile commedia trent’anni fa, ma ancora ricordo Vittorio De Sica in calzoni corti che entrava in scena cantando: “Io sono il professore / di greco e di latin, / insegno a tutte l’ore / le regole ai bambin”.

Le sinistre non combattono la televisione; esse lottano soltanto perché in luogo degli attuali rappresentanti del clericalismo appaia sul video, a declinarci a tutte l’ore sostantivi democratici e socialisti, il professor Battilocchio.

Luglio 1961


1 Cfr. U. Spirito, Cultura per pochi e cultura per tutti, in “Ulisse”, luglio 1961.