Riporto
qui la mia postfazione. Il libro si può scaricare integralmente,
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«COME FOGLIE DA UN CIELO INESISTENTE». PICCOLA NOTA SEMIPOLEMICA PER UN NOVANTIQUO LIRISMO
Ci
si dovrà interrogare, prima o poi, sulle motivazioni che hanno
condotto, negli ultimi anni, alla diffusione (nella letteratura, nella
comunicazione, forse anche nella vita) del cosiddetto minimalismo, vera e
propria "mutazione antropologica" che contrassegna questa nostra ‒ per
echeggiare una citazione abusata ‒ modernità liquida: di uno sguardo,
cioè, curvo verso la terra, ripiegato sull'immediato, sul limitato, o
addirittura sul banale, cieco ai vasti respiri della sensibilità e del
pensiero.
In tutte le sue varie maschere (dalla deformazione
sperimentalistica al piano realismo, dall'ingenua poesia del quotidiano e
dei sentimenti elementari al più crudo realismo “cannibale”
scimmiottato da modelli americani, fino alla “poesia asemantica” che
cancella ogni nesso logico e ogni prospettiva di comunicazione, senza
nemmeno cercare nuove strutture e nuove possibilità espressive) il
minimalismo sembra avere invaso, fino a dominarlo, il campo della
poesia: vuoi per le esigenze dei festival e dei reading, il cui
pubblico, stordito dalle consuetudini spettacolari e mediatiche, non è
particolarmente incline alla concentrazione e allo sforzo
interpretativo, e considera e apprezza più l'esteriorità che il
messaggio, più l'apparenza che l'essenza; vuoi per le necessità, le
aspirazioni o le illusioni dell'editoria, che forse spera di
riguadagnare pubblico e vendite alla poesia proponendo versi di
immediato impatto e facile fruizione, che strappano un sorriso o un
breve pensiero ad un pubblico sempre meno attento; vuoi per la sempre
più frequente mancanza di una specifica e profonda cultura letteraria
anche in chi controlla, guida e giudica il mondo dell'editoria e i
meccanismi dei premi, delle antologie, delle riviste (troppo spesso non
solo il lettore comune, ma anche il presunto specialista bolla come
retorico o manieristico ogni discorso che non sia, nel suo senso
primario, di immediata comprensione, ogni lessico che esuli dalle poche
centinaia di voci del vocabolario quotidiano e televisivo).
Decisamente
inattuale, perché lirica, simbolica, musicale, memore di una tradizione
interiorizzata, fatta propria e intimamente riplasmata, fino a divenire
una seconda, rinnovata natura (uno specchio della natura, o una natura
più pura essa stessa, con le radici del ritmo, le fronde delle sillabe,
gli echi e i riverberi dei canti), è la poesia di Gabriele Marchetti:
lontana dai clamori, dalle luci, dalle logiche di un sistema letterario
che, in modo ancor più insidioso perché, forse, inconsapevole ed
irriflesso, finisce spesso per far propri e ricalcare le forme i tempi i
modi, quanto mai lontani dalla poesia, della comunicazione di massa.
Si
potrebbe ripetere, per l'ispirazione e la motivazione fondamentali
della poesia di Marchetti, ciò che D'Annunzio diceva della genesi di Alcyone: cioè di scrivere, o meglio di cantare, «imitando le aure le acque e le spiche col suono d'una semplice canna, tenui avena».
Ma è, quella semplicità, quella naturalezza, proprio come nella
tradizione bucolica, prima classica, poi rinascimentale, simbolista,
ermetica, non specchio disarmato e nudo di ingenuità, ma al contrario
frutto di uno studio, di una ricerca, di una decantazione e di un filtro
esercitati tramite la consapevolezza stilistica e formale.
Una
figuratività, una visività indefinibili, inafferrabili percorrono i
versi del poeta: si pensa a volte ai macchiaioli (per i contorni e le
figure riconoscibili e insieme sfumati, per la linea del pensiero ‒
della percezione che si fa pensiero ‒ coerente, naturale e insieme
sinuosa e frastagliata), a volte all'allusività simbolica,
all'evocazione ombrosa e svanente, del Van Gogh più cupo, altre volte
ancora addirittura a certe immagini orientali, finissime e cesellate,
aggraziate, apparentemente indifese eppure solide e scolpite come il
diamante (ho in mente, ad esempio, le liriche cinesi tradotte da Onofri,
o quegli haikai giapponesi che furono per Ungaretti modello segreto,
remoto ‒ e rinnegato).
Ma si tratta, a ben vedere, di una
visività (o visionarietà) e di una figurazione immateriali, che
mostrano, o anelano a mostrare, l'invisibile, l'impalpabile eco
psicologica, l'inafferrabile riverbero esistenziale delle scene, degli
oggetti, dei paesaggi, degli stessi ricordi che infine, ricomposti dalla
memoria, sono a loro volta immagini, figurazioni interiori, nutrite
dalla mente e dal cuore: come una sorta di Rimbaud («noter
l'inexprimable», «écrire des silences», «fixer des vertiges») rivissuto,
rivisitato e riattraversato con la voce e lo sguardo di un poeta
profondamente italiano, nutrito e plasmato dai secoli della propria
tradizione (tanto che questa poesia è davvero, nel senso più autentico,
classico-moderna, nella misura in cui anche le radici simboliste della
nostra modernità sono già da tempo diventate, in certo modo, per
l'inevitabile moto ricorsivo della storia, classiche ‒ al punto di
apparire, oggi, datate a molti fautori sia del postmodernismo
frammentario, sia della più ingenua poesia del quotidiano e del
vissuto).
Di fatto, è come se la parola poetica di Marchetti
descrivesse non la realtà, naturale o interiore, ma immaginari dipinti
che la raffigurino; come se la realtà, il vissuto, l'esperienza,
l'emozione (che non è meno intensa, ma semmai ancora più acuta ed
autentica, come avvertita doppiamente, per il fatto di essere riflessa e
moltiplicata nel prisma delle reminiscenze letterarie) fossero già
percepiti attraverso la mediazione e il riverbero di un'esperienza
estetica anteriore, anzi di una catena di esperienze estetiche,
analogicamente interconnesse, che ha costituito e plasmato, nel corso
del tempo (ma da una distanza che si estende al di là del tempo), la
sensibilità, l'io, l'individualità percipiente e creatrice.
Né si
tratta di una figuratività esteriore, ornamentale, barocca, di una
generica analogia o di un parallelismo privo di vero contatto fra
l'immagine implicita e la parola che la dice, o non può dirla, e arriva
solo ad accennarla o ad evocarla; piuttosto, di un comune sostrato
ineffabile che alimenta sia la parola che l'immagine, e che entrambe,
dialogando scambievolmente o specchiandosi l'una nell'altra, sfiorano,
suggeriscono, senza poterlo mostrare appieno.
(Poesia intesa, come la pittura per Leonardo, in una pagina citata splendidamente dal D'Annunzio delle Vergini delle rocce,
quale «cosa mentale», «cosa naturale vista in un grande specchio»: «se
tu conosci che lo specchio per mezzo de’ lineamenti ed ombre e lumi ti
fa parere le cose spiccate, ed avendo tu fra i tuoi colori le ombre ed i
lumi più potenti che quelli dello specchio, certo, se tu li saprai ben
comporre insieme, la tua pittura parrà ancor essa una cosa naturale
vista in un grande specchio»: visione, nel segno del pittore come in
quello del poeta, realistica ma in pari tempo ideale, esperienziale ma
filtrata dall'intelletto, materica eppure platonica ‒ forgiata ed
intrisa, forse, di quella «materia intelligibile» di cui parlava
Plotino).
Tradizione e memoria, si direbbe, come destino, in
qualche modo tracciato e predeterminato dal fatto di scrivere in una
lingua madre che ci preesiste, che ci è stata donata, in cui siamo
caduti, in cui esistiamo ed insistiamo, ma che in certo modo rinasce e
risorge, ricreata, ogni qual volta torniamo a farla risuonare,
nell'anima o sulla pagina: destino, dunque, profondamente e
consapevolmente accolto, vissuto e rivissuto, come in un gioioso amor
fati.
«I giorni spengono, senza un ritorno - / come foglie da un
cielo inesistente». Il noto, quasi in sé consunto, motivo simbolista (ma
già della lirica antica) della feuille morte riceve, dall'improvvisa
illuminazione metafisica (ma si tratta di una metafisica o di
un'ontologia negative, di un Essere-Nulla, di un sostrato privo di
determinazioni, ma da cui tutte le forme traggono origine e
sussistenza), nuovo valore e nuova significazione. Il vissuto cade, per
intermittenze, da un tempo anteriore ‒ allo stesso modo che da una
memoria arcana gocciano, con lento e minuto stillicidio, i simboli, i
segni, le sillabe, i ritmi ‒ e le tinte si raccolgono brevemente a
comporre un'immagine mentale nuovamente dissolta dal bianco della
pagina.
Le interne anomalie metriche, le accentazioni desuete che di tanto in tanto, come nell'Ungaretti di Sentimento del tempo,
intervengono a sollecitare e ad alterare la compagine
dell'endecasillabo, sono espressione di questa stessa sfasatura, di
questo delicato e sottile, ma vitale, straniamento, di questo essenziale
clinamen, ben più efficace e penetrante di qualsiasi rude realismo, o di qualsiasi infrazione chiassosa e provinciale.
«Aspetto
l'attimo che questa vita / si smagrisce nel silenzio distante / che la
fa quasi sembrare infinita». L'oscillazione metrica rimarca la
sospensione temporale dell'istante che dilata il tempo, e che si fa
vuota e pura lontananza, possibilità dischiusa e indefinita, visiva ed
interiore. «La fonte si è gelata, / la terra suona scura / nel silenzio
che molce ‒ / un bisbigliare dolce / di gemme che infiorano / o muoiono
socchiuse». Il settenario non ha, qui, più nulla di quella cantabilità
un poco esteriore, arcadica, ad esso associata: al contrario, la levità
dell'andamento metrico riesce a cogliere in modo insostituibile il
quasi-nulla, il quasi-silenzio, il suono interiore e sognato delle gemme
che muoiono sul nascere, la prossimità di vita e morte nel trapassare
inafferrabile dell'istante ‒ e quel «molce», parola aulica che farebbe
insorgere gli odierni fautori della spontaneità e dell'autenticità e
nemici della retorica e della letterarietà, è invece, in questo
contesto, la spia essenziale di una dolcezza malata, di una soavità che
nasce dall'annullamento: dolcezza, perciò, inquietante e remota, che
viene e sale da profondità lontane (come in D'Annunzio: «passò per le
scaglie e pe' nodi l'odore che il cuore ti molce»).
Sembrano, i
versi di Marchetti, descrivere un mondo passato, d'altro tempo ‒ o forse
un mondo senza tempo, popolato di simboli sospesi, di enigmi fissati e
per sempre irrisolti, come nella pittura metafisica. Eppure, ci si rende
conto che, a ben vedere, nulla di ciò che il poeta descrive o crea è
inimmaginabile nel mondo d'oggi, come in quello di ogni epoca: vite che
finiscono, spesso prima del tempo, o meglio in accordo pacifico e
ras-segnato con un ordine assoluto, fatale ‒ stagioni che si
avvicendano, il lavoro dei campi con i suoi ritmi e le sue fasi ‒ i
giochi eterni, oscuramente sapienti, dei bambini ‒ gli animali e le
piante e i loro nomi che, finalmente riconciliati con una natura
ritrovata, sono di per sé, a volte, fonte di evocazioni poetiche ‒ gli
elementi naturali che tornano essi stessi, con il valore simbolico che
vi è connaturato, a ridefinire e nuovamente circoscrivere lo spazio del
dicibile e dell'indicibile.
«Le ragazze fanno foto nel sole: /
alle spalle resta il verde del prato, / in mezzo ai tronchi il sorriso
dei morti / che luccica, sbiadato». Una foto è una foto, abbia in sé la
patina nostalgica ed ingiallita di un vecchio salotto, la perfezione
gelida e straniante dell'«epoca dell'immagine del mondo» o lo splendore
fatuo ed effimero dell'odierna smaterializzazione digitale: essa è
sempre phos, luce, immagine ricordo inganno simulacro interiore («e m'è
rimasa nel pensier la luce», canta il verso di Petrarca forse più amato
da Ungaretti); allo stesso modo che fra l'erba e i tronchi continua a
brillare non visto, e a risuonare inudibile, il sorriso dei morti (un
verde, questo, fiaccato eppure persistente, insidiato ed eterno, come
nel primo, più pascoliano Quasimodo: «un verde più nuovo dell'erba / che
il cuore riposa»).
Come a dire che la natura è eterna, e con
essa è eterna la poesia con i suoi archetipi, le sue immagini
cristallizzate e fissate per sempre, i suoi emblemi immutabili e sempre
vivi. E il volerle del tutto cancellare, violare o sovvertire (la natura
come la poesia), inseguendo il fantasma del nuovo o l'oggettivazione
illusoria di una presunta, contingente realtà, e idolatrando la
contemporaneità come valore assoluto, non è che una delle tante forme
(forse la più subdola, perché ammantata e mascherata di una modernità e
un rinnovamento necessari) dell'alienazione dell'uomo da se stesso e dal
mondo.
Questa può apparire una visione antimoderna, nostalgica,
retriva, retorica, legata ad un attardato umanesimo di retroguardia.
Forse lo è.
Matteo Veronesi
mercoledì 16 luglio 2014
lunedì 7 luglio 2014
Due poesie sul viaggio
Ripubblico qui due mie poesie apparse sulla rivista elettronica "L'Ombra delle Parole", diretta da Giorgio Linguaglossa. (M. V.)
I
Elegia della memoria e del viaggio
Non
è che memoria ogni viaggio
Diviene
solo
immagine pura, soltanto
un
fantasma tremante ogni meta
come
un'Itaca opaca, un'isola
svanente,
appena
toccata,
e abbandonata –
così
è ogni viaggio, già
tracciato
e concluso, partenza
e
ritorno, nel giro del pensiero –
così
ogni vita, ogni respiro, il verso
che
lacera lo spazio come lama
e
poi di nuovo regredisce al bianco
lunare
deserto dell'origine
E
tutto è parola, visione che vibra
e
vacilla nel suono che la suscita –
picchi
lontani, luminìo di acque
tenui
parole affidate alle foglie
e
sorrisi specchiati dalla neve –
e
ogni viaggio non è che memoria
II
Da una provincia d'Europa
Le
mie città –
il
movimento
e
il risveglio, o la perpetua veglia
che
ho e non ho vissuto
Barcellona
era
un piccolo prato senza nome
nel
divenire del giorno, nel morire
dell'ora
meridiana sulla riga
fra
ombra e luce –
lontano
ma
presente il bisbiglìo dei canti
e
il brulicare dei piaceri, e il porto
dalle
grandi navi ferme, dalle mille
luci
specchiate, in quello strano
gelo
di nuovi marmi –
Parigi
una
notte affondata, una spenta
elegia
su una carta
sbiadita,
il silenzio mattutino
di
una vetrina –
Venezia
il morire delle insegne
sul
tremito delle acque, il lamento senza voce
e
il pianto che mi seguiva come un'ombra –
Roma
e Firenze un serto di rovine
offerta
vana di parvenze mute –
e
Milano la città dei morti
che
vivono sotterra, inseguendo i loro giorni
divorando
le ore
e
amano la notte come larve
Ora
le chiamo, vuoti nomi, le città che ho fuggito
che
non mi hanno chiamato –
vengono
da sole a questo tavolo
al
rogo fioco della lampada
Ardono
più vivi
di
loro i loro spettri
sulla
mia pagina vana, in questo lembo
sperduto
di provincia da cui parlo
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