Sono
qui per esporre un mio breve scritto, “La competenza dei poeti”,
in cui sostengo che i poeti, in qualità di competenti, cioè di
massimi conoscitori della lingua, possono -e debbono- agire per
riuscire concretamente a cambiare la non-lingua, la lingua degradata
a linguaggio, dell'informazione televisiva;
per ottenere,
quindi, concretamente, che si faccia in Italia (e poi in Europa) un
cambiamento linguistico dei telegiornali.
I)
Ma perché si dovrebbe agire
proprio riguardo all'informazione -della televisione, e non riguardo
alla sua pubblicità, o ad altri suoi programmi?
Ecco, innanzitutto
per un motivo strategico: perché è più facile, meno contestabile,
iniziare a scalfire il linguaggio mediatico partendo
dall'informazione.
Infatti, a
differenza dell'informazione, la pubblicità è, in qualche modo,
intoccabile, poiché si sostiene -come fosse un dogma- che essa sia
necessaria per finanziare tutto il resto.
E riguardo agli
svariati altri programmi, chiamati, a volte, programmi-spazzatura, si
sostiene, altrettanto dogmaticamente, che c'è molta gente a cui
piacciono e che dunque, proprio in nome della democrazia, del rispetto di
tutte le opinioni, non si possano, anch'essi, toccare.
L'informazione è,
dunque, strategicamente, il terreno meno impervio da affrontare,
soprattutto perché i poeti, quali specialisti della lingua, non
chiederanno di cambiare i contenuti dell'informazione, bensì la sua
non-lingua, il suo linguaggio.
Ma, ancora una
volta:
perché non si
dovrebbe chiedere, invece, di cambiare i veri e propri contenuti del
telegiornale?
Ecco, prima di
tutto, perché si incorrerebbe nella stessa impasse, nello stesso
sbarramento di prima: cioè, alcuni vorrebbero determinati contenuti,
altri contenuti diversi, a seconda delle differenti mentalità,
interessi, tendenze politiche ecc... Dunque, non ci sarebbe alcun
accordo sull'azione da fare.
Poi, perché,
correggere il linguaggio dell'informazione, significa correggerne
l'impostazione di fondo, il modo, lo stile, l'atteggiamento che
contiene tutti i contenuti, su cui inevitabilmente tutti i contenuti
si modellano, e questo:
1) è un fine ben
più fondamentale che cambiare i singoli contenuti;
2) è un fine su cui
tutti, di qualunque scuola, o tendenza, o gruppo, o generazione
possono essere immediatamente d'accordo;
3) ed è un fine
specifico, intrinseco al compito del poeta.
Esaminiamo,
dunque, un attimo, il linguaggio dell'informazione televisiva: nel
mio scritto, cioé “La competenza dei poeti”, io dico
che
sono sbagliati linguisticamente:
i singoli termini;
le frasi;
i contesti in cui le
frasi sono inserite;
i rapporti tra le
frasi (i discorsi) e il modo di dirle;
i rapporti tra le
frasi e le immagini.
Esempi
di singoli nomi sbagliati
(cfr. “La competenza
dei poeti”):
“suggestivo”
al posto di “raccapriciante”;
“eminente”
al posto di “efferato”;
“immortalato”
al posto di “inchiodato alle proprie responsabilità”.
Esempio
di un tipo di frase
sbagliata che è molto frequente, perché riguarda la causa di un
fatto:
“Un
uomo di cinquant'anni ha ucciso sua madre; la scientifica ha
accertato che la causa del decesso è stata dovuta alla perdita di
sangue per le sette coltellate riportate (quattro al torace e tre
all'addome) non singolarmente letali, ma divenute tali per mancanza
di soccorsi immediati”.
Ecco,
questa frase è disorientante, fuorviante, sbagliata: infatti,
attribuisce in definitiva la
morte di questa persona a una sola causa, la causa materiale, che è
una con-causa, non la causa principale.
Sarebbe come se io
dicessi: la causa di questo tavolo è il legno; o come se dicessi che
Socrate è in carcere perché ha mosso le gambe, teso i muscoli,
camminato -insomma- e così è arrivato in carcere.
Sì,
certo, per andare in carcere ha dovuto muovere le gambe, ma, come
dice egli stesso nel “Fedone”, da tempo quelle sue gambe
sarebbero a Megara e non in carcere se lui avesse ascoltato quanti
gli proponevano di fuggire e non la voce della coscienza, che
gli aveva fatto scegliere di andare in prigione.
Quindi,
la causa principale per cui lui è in carcere è di tipo morale, è
un pensiero, una scelta.
Allo
stesso modo, quando si dà notizia di una tragedia familiare, o
dell'omicidio di una studentessa da parte forse di suoi coetanei, non
si può unicamente, ossessivamente insistere sui rilievi del DNA,
sulle tracce organiche presenti negli indumenti, sull'arma del
delitto, sull'ora precisa e la causa clinica del decesso, sui
frammenti di capelli trovati sotto le sue unghie, perché questo
brutalizza, disorienta, umilia chi ascolta, il quale vorrebbe,
istintivamente -direi- capire le cause principali, umane,
intellettive.
L'errore
si aggrava ancor più quando osserviamo i contesti in cui le
frasi e i discorsi sono inseriti: le notizie riportate vengono
disposte senza alcun criterio, casualmente, senza nessuna mediazione,
le une accanto alle altre, per cui si passa direttamente da una
tragedia all'imminente uscita di un nuovo film, al dibattito
politico, dal disastro nucleare, allo sport.
Questo
rende tutto uguale, equivalente, tutto assurdamente e poi banalmente,
sordamente, anesteticamente normale.
Tanto
più che tutto viene pronunciato con lo stesso tono di voce, la
stessa espressione del viso, lo stesso ritmo.
E'
chiaro che il significato di qualsiasi cosa noi diciamo, dipende
moltissimo dalla prosodia, dai modi prosodici con cui lo pronunciamo.
Ora,
nell'informazione televisiva la prosodia è assente, poiché
l' espressione facciale o gestuale, il tono e il volume della voce,
il ritmo, le pause con cui si danno le notizie sono sempre uguali,
sia che si parli del clima, o si parli di situazioni umane
complesse, dolorose, tremende.
Le
frasi esclamative ( che esprimano stupore, compianto, turbamento,
condanna, compatimento, simpatia) non esistono.
Le
interiezioni sono abolite.
Tutti
parlano in modo asettico, “oggettivo”, come se tutto ciò di cui
si parla possa essere trattato allo stesso modo.
Quando
si sente un'eccezione, sembra di stare in un altro mondo.
Io
ricordo, per esempio, una frase, di un poliziotto, un finanziere, che
doveva parlare di una truffa riguardante le mense scolastiche.
Quest'uomo
concluse così: “E' veramente indecente che si speculi in questo
modo persino sui pasti dei bambini dell'asilo”.
Fu
un caso rarissimo di umanizzazione, di umanità, di congruenza tra la
cosa detta e il modo di dirla.
Generalmente,
ripeto, c'è incongruenza, grave contraddizione tra la notizia e il
modo di dirla, per cui si parla allo stesso modo, con lo stesso tono
con la stessa velocità e lo stesso viso di spettacoli e di tragedie,
di calcio e di morti sul lavoro.
L'ultima
incongrenza che io rilevo nel mio scritto è quella fra ciò che si
dice e le immagini che accompagnano la notizia.
Infatti,
molto spesso le immagini sembrano contraddire quello che le parole
sembrano sostenere.
Ad
esempio, si parla di un processo penale in corso per l'avvenuto
sfruttamento di una minorenne e contemporaneamente, ossessivamente
si mostra l'immagine di questa persona.
Oppure,
si denuncia -sempre nel solito non-modo meccanico e asettico-
la violenza e contemporaneamente si fa violenza, mostrando
immagini sempre più brutali che diventano, proprio perché
mostrate così, normali e “banali”.
In
conclusione, noi ci troviamo oggi -a mio avviso- di fronte a una
emergenza analoga a quella ecologica, disastrosa e catastrofica ancor
più di quella; ci troviamo di fronte a una urgente rinnovata
“questione della lingua”.
II)
I momenti in cui, attraverso i secoli, la “questione della
lingua” è stata posta in Italia dai poeti, sono almeno tre: il
Cinquecento, l'Ottocento, e il Novecento.
Nel
'900, nel 1964, la “nuova questione della lingua” -come di lì a
poco fu definita- fu sollevata da Pasolini, che, dopo averla esposta
con una conferenza in varie parti d'Italia, pubblicò questa
conferenza su Rinascita.
Questa
“nuova questione della lingua”, posta da Pasolini, è quella
cronologicamente a noi più vicina e ci è anche particolarmente
vicina perché è la sola che affronti, come -secondo me- anche noi
dobbiamo fare, il linguaggio televisivo.
Vale
la pena ricordare che la televisione nasce ufficialmente in Italia
solo dieci anni prima dello scritto di Pasolini: cioè, nel 1954, a
Milano.
Essa
si deve principalmente al progetto di un gruppo di cattolici
fortemente impegnati nel sociale (che si ricollegano alle teorie di
Felice Balbo, alla rivista “Terza generazione” e al vivo
dibattito sorto intorno alle tesi del personalismo francese).
Tutti
questi intellettuali pensano la cultura, non come luogo elitario di
“coltivazione intellettuale”, bensì come riscoperta di valori
incarnati in una civiltà, come riappropriazione di un originario,
comune, tessuto di valori e tradizioni, espressi in particolare nella
“cultura contadina”; la TV sembra loro costituire finalmente il
nuovo “mezzo”, popolare, unificante e alfabetizzante, per
promuovere in modo efficace una tale cultura e presa di coscienza.
C'è
quindi un intento pedagogico in questa prima televisione:
ci
sono programmi riguardanti i vari costumi, le tante ricchezze e
differenze italiane -come ad es. “Campanile sera” che si propone
di rivelare l'Italia all'Italia con la “sfida” settimanale tra
due paesi diversi;
c'è
una vera e propria “via italiana”, “via nazionale alla tv”,
con i documentari storici, con i “romanzi sceneggiati”;
c'è
Carosello, un'altra
invenzione italiana, “un modo originale e non invasivo di fare
pubblicità”.
(Si
tratta, insomma, di una televisione ben diversa da quella degli anni
Ottanta, con l'invasione di programmi stranieri fino a quel momento
inconcepibili per la RAI, con le frequenti e ripetute interruzioni
pubblicitarie, con l'importazione
dei prodotti seriali dalla tv commerciale americana ecc.)1
Eppure
Pasolini, non lasciandosi ingannare, con grande preveggenza, capisce
e denuncia subito che il linguaggio televisivo in realtà è, in sé,
la cancellazione di tutti i valori e di tutte le tradizioni
umanistiche.
Altrettanto
preveggente era stato il critico musicale Fedele d'Amico, che
ancor prima di Pasolini, nel 1961, in un suo lapidario scritto, “La
televisione e il professor Battilocchio”
http://nuovaprovincia.blogspot.it/2010/11/giselda-pontesilli-nota-su-fedele.html, afferma
che il linguaggio televisivo è, in sé, il contrario della cultura,
perché “cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività”,
mentre la televisione, “in qualunque programma si realizzi,”
“rende l'uomo non pensante, passivo, docile, acritico”.
D'Amico
perciò, in questo scritto, contesta sia i cattolici che le sinistre,
in quanto entrambi si illudono di poter strumentalizzare la
televisione, di veicolare, attraverso il nuovo mezzo, dei contenuti,
i propri -ideologici- contenuti, e non capiscono che la
televisione è, comunque, mistificatrice e azzeratrice di qualunque
contenuto, è comunque letale per la “cosiddetta massa” .
Pasolini
chiama il linguaggio televisivo “orrido”, “feroce”, dice che
“praticamente in televisione non può essere pronunciata nemmeno
una parola in qualche modo vera”.
Dopo
il suo primo scritto, “Nuove questioni linguistiche”, più tardi
ristampato in “Empirismo eretico” (con l'aggiunta delle sue
risposte a vari interlocutori ) il pensiero di Pasolini, riguardo al
linguaggio televisivo, e al neocapitalismo che esso incarna, si
radicalizza sempre di più:
il
linguaggio televisivo è -lui dice del resto già fin da del 1964-
“la lingua della produzione e del consumo” “-e “non la
lingua dell'uomo-” esprime “lo spirito tecnologico” “ossia
lo spirito della scienza applicata, che tende a sostituire i propri
dati a quelli della natura, e quindi a una trasformazione radicale
delle abitudini umane”.
Rimeditando,
oggi, la sua ben nota posizione, si arriva, secondo me, a capire che
lui sostiene in definitiva questo:
“prima”
-cioè prima della televisione, che è -lui ripete- “il più
repressivo totalitarismo mai visto”,
non
c'era, materialmente, una lingua parlata unica, ma, malgrado ciò,
c'era una sostanziale unità linguistica, una unità addirittura
transnazionale (c'erano civiltà -lui dice- “tutte molto analoghe
tra loro”), perché i popoli, pur parlando i propri tanti volgari
eloqui, i propri dialetti, dicevano in fondo le stesse cose, avevano
analoghi, autentici valori etici, condividevano lo stesso senso
della vita e della natura.
Con
l'arrivo dell'italiano televisivo, c'è materialmente un linguaggio
unico (perché esso raggiunge, con la televisione, tutti i paesi e
tutte le case) ma finisce l'unità linguistica autentica e inizia
l'omologazione imposta, l'edonismo consumistico coatto, la riduzione
di tutto a “produrre e consumare”, la fine della cultura, la
catastrofica “mutazione antropologica”.
In
sostanza, quali sono gli esiti del discorso di Pasolini?
Innanzitutto,
c'è una visione apocalittica del presente (che provocò il suo
sostanziale isolamento, come pure l'isolamento di Fedele D'Amico: e
in effetti, diciamo, le loro drastiche posizioni non potevano essere
accettate negli anni '60, cioè negli anni del boom economico e della
“ingenua”, ancora possibile speranza nella scienza e nel
progresso);
Poi,
c'è la consegna ai
poeti di un nuovo mandato: combattere per l' “espressività”
-come lui dice- della lingua, non estraniandosi però, non
coltivandola rimanendo lontani dalla barbarie mediatica, bensì
facendosi carico, in qualche modo, del nuovo linguaggio subìto e
coattivamente parlato senza distinzione, ormai, da tutti;
già
nel 1964, lui scrive: “In seno a questa nuova realtà linguistica,
il fine della lotta del letterato sarà l'espressività linguistica,
che viene radicalmente a coincidere con la libertà dell'uomo
rispetto alla sua meccanizzazione”.
Infine,
c'è il lascito, ai
poeti -e a tutti- di un prezioso tesoro: l'appassionata coscienza,
viva, profonda, anche se non esplicitata, non -filosoficamente,
direi- ricercata, argomentata fino in fondo, che l'unità
linguistica vera non coincide con l'unità linguistica materiale (e
quindi l'unità linguistica televisiva non è assolutamente di per sé
una conquista culturale);
perché,
la vera unità linguistica è quella sostanziale, di chi, pur
esprimendosi magari con idiomi diversi, parla la stessa lingua in
quanto ciò che dice corrisponde alla verità, a qualcosa di
autentico, di libero, di moralmente giusto, di bello; parla la lingua
di “nobilissimo intendimento, d'Amore, di gentilezza, di potenza”
che ci dice Dante.
Questa
lingua vera,
veramente una e unificatrice “manda in ogni luogo il suo profumo e
in niun luogo appare” -come dice Dante- proprio perché non
consiste in parole,
bensì “è un fatto intellettivo”, morale, “è soprattutto
virtù”2.
Ora,
io penso, che noi siamo in grado, oggi, pienamente, di riprendere la
questione della lingua impostata da Pasolini, sia rispondendo alla
consegna, al mandato che Pasolini ha fatto ai poeti, sia
valorizzandone e fondandone speculativamente al massimo la profonda
coscienza della lingua.
Riguardo
alla consegna di combattere per l' “espressività” della
lingua “partendo” dal linguaggio televisivo, noi lo possiamo e
-come lui dice- lo dobbiamo fare; in che modo? Cercando di
ottenerne il concreto cambiamento.
-Oggi,
questo è, a mio parere, un obiettivo realistico, perché non siamo
più negli
anni
'60, bensì in un tempo di crisi, di sfiducia nel progresso, di
riflessione ormai generale, ampia sui disastri morali e materiali del
consumismo, della manipolazione della natura,
dell'industrializzazione: e possiamo dunque sperare di trovare
consenso, appoggio da parte di molti.
-Oggi,
il modello sociale basato sulla produzione in serie e sul consumo di
massa
è
in crisi e quindi può finalmente entrare in crisi anche “la lingua
della produzione e del consumo”, come Pasolini definisce il
linguaggio televisivo.
-Quindi,
direi, che tutti, oggi, possono con relativa facilità capire che il
linguaggio televisivo è disumanizzante, alienante, e possono
mobilitarsi al fine di chiederne il cambiamento
(come
ci si mobilita a favore dell'ambiente, dei diritti umani, contro la
mafia, per il lavoro, per la scuola).
Riguardo
poi alla profonda coscienza pasoliniana di cosa sia veramente
l'unità linguistica, io penso che noi possiamo molto lavorare al
riguardo, cominciando dal chiederci quando, dunque, l'Italia, finora,
è stata più autenticamente unita linguisticamente, cioè unita
nella sostanza culturale, intellettiva, morale.
Penso
che non possano esserci dubbi al riguardo, che ciò sia accaduto nel
Trecento, con Dante, Petrarca e Boccaccio.
Da
loro, dunque, noi possiamo oggi trarre ispirazione, esempio, idee per
ricomporre davvero un'unità, una cultura.
In
che modo?
Innanzitutto,
facendo come Petrarca stesso ha fatto con i classici antichi.
Lui,
opponendosi al proprio tempo, tralasciandolo del tutto, con un salto
drastico, si è rivolto direttamente agli antichi, in modo vivo,
urgente, vitale: non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni
letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si era
perduto, perché vedeva nel passato qualcosa di massima importanza
per il presente, per il risveglio culturale e morale del presente.
Come
ha fatto Petrarca con gli antichi, così noi possiamo fare con lui e
con Dante.
Possiamo
considerare in modo nuovo, diretto, vitale, il loro lavoro.
E
così scopriremo innanzitutto che loro due, nella sostanza, sono del
tutto concordi e simili, non antitetici, come ci tramanda la critica
letteraria. (Pasolini, in un saggio di “Empirismo eretico”, cioè
“La volontà di Dante a essere poeta”, parla, anche lui, di
somiglianza tra Dante e Petrarca...)
III)
Dante è il primo che pone la questione della lingua, con il “De
vulgari eloquentia”. Perché lo fa?
Perché
-dice- vuole cercare “di giovare alla lingua della gente
volgare” ;
perchè
vede “come appunto una tale eloquenza sia a tutti sommamente
necessaria”;
perché,
infine, vede che se non lo fa lui, non c'è nessun altro che sembra
avere intenzione di farlo: nessuno ha ancora “svolto alcuna
dottrina intorno alla eloquenza volgare”.
E'
proprio quello che noi possiamo -e dobbiamo- fare oggi: un analogo,
rinnovato, aggiornato “De vulgari eloquentia”.
Anche
noi dobbiamo cercare di “giovare alla lingua della gente volgare”:
questa lingua, però, oggi, è, o meglio sembra essere, il linguaggio
di tipo televisivo;
al
tempo di Dante, invece, la lingua della gente volgare erano i vari e
“veri” -aggiungerei con Pasolini- idiomi dialettali.
La
gente non era linguisticamente manipolata, non era indotta a parlare
in un certo modo, parlava liberamente, naturalmente, la propria
lingua naturale.
E
Dante sostiene che questi idiomi dialettali, cioè la lingua volgare,
quella che apprendiamo, appena nati -si può dire- dalla madre, è
più nobile di quella letteraria, “grammaticale”, perché:
1)
è la prima che sia il genere umano che i bambini usano (e cioè,
prima, gli uomini, naturalmente, la parlano, poi, basandosi su di
essa, elaborano quella grammaticale);
2)
è fruita da tutto il mondo, benché divisa in tante forme e
vocaboli;
3)
la riceviamo dalla natura.
Che
vuol dire quest'ultimo punto: è più nobile perché la riceviamo
dalla natura? Vuol dire che la riceviamo da un ordine ontologico da
cui l'uomo non può mai prescindere.
-E'
per questo, in definitiva, che Pasolini chiama “immensa” la
cultura contadina, perché essa, che ha avuto -lui dice- “circa
quattordicimila anni di vita”, era naturale, cioè fondata su
quell'ordine necessario, imprescindibile, cui l'uomo partecipa, lo
esprimeva, lo rispettava-
Dante
dice che il poeta, partendo da questo volgare naturale, lo rende
illustre, elevandolo a una coscienza chiara, compiuta di
quell'ordine, di quella natura, di quella giustizia, che è
“l'apriori cui l'uomo è sottoposto”3.
Ora,
noi non abbiamo più davanti a noi la lingua naturale della gente
volgare, bensì un linguaggio, nato appunto dal non riconoscere più
alcuna reale essenza stabile, alcun essere indipendente, non
manipolabile, alcuna norma, alcun oggettivo Logos.
Ma
è proprio questa, oggi, la lingua della gente volgare: non-lingua,
linguaggio imposto, inculcato, reso apparentemente potentissimo dalla
tecnocrazia mediatica; ed è questo che noi dobbiamo sollevare,
correggere, cambiare, così come Dante diceva che il poeta doveva
fare con i dialetti naturali.
E
perché devono fare questo, oggi, i poeti?
Perché
-come dice Dante- non c'è nessuno che lo fa, e dunque i poeti devono
rispondere a questa estrema emergenza e necessità, altrimenti non
sono necessari e, se sono -come oggi sono- emarginati, cancellati, è
perché non assolvono al loro compito, che è quello di essere
“una
guida morale e intellettuale per tutti gli uomini”4.
Ecco,
Dante dice questo della lingua, e Petrarca lo comprende e ne prosegue
l'opera con il suo ontologico umanesimo, che viene compreso, e
diventa l'umanesimo italiano (e poi europeo).
Come
Dante scrive, ritiene necessario scrivere, non solo la “Divina
commedia”, ma anche dei trattati filosofici: il “De vulgari
eloquentia”, il “De monarchia”, il Convivio”, così Petrarca
scrive, non solo il “Canzoniere”, ma anche veri importantissimi
trattati di pensiero, dove mostra la sua profonda, rigorosa,
meditazione filosofica: il “De ignorantia”, le “Invettive” ,
il “De vita solitaria”, il “De otio religioso”.
Entrambi,
visto che altri (a parte Santa Caterina da Siena) non lo fanno,
scrivono lettere ai prìncipi, ai popoli, all'imperatore, al doge, al
papa;
entrambi,
prendono sempre coraggiosamente posizione, ma sempre, al di sopra, al
di là di ogni fazione, di ogni partito, di ogni istituzione.
Se
ripercorriamo le loro vite come le loro opere, restiamo sorpresi dal
constatare quanto puntualmente, precisamente questo accade.
Non
a caso, Wilkins, massimo conoscitore del “Canzoniere” e sommo
biografo di Petrarca, lo definisce nella prefazione alla sua “Vita
del Petrarca”, “l'uomo più grande del suo tempo”: l' “uomo”,
non il “poeta”.
O
meglio: il poeta, che proprio in quanto veramente tale, vuole, deve
essere strenuamente responsabile, moralmente, intellettivamente.
Per
questo! Dante e Petrarca sono, ritengono necessario essere, anche
pensatori politici, e sono profondamente filosofi;
ma
la loro conoscenza della filosofia è dimostrata non tanto da dotti
ragionamenti, da erudite argomentazioni e citazioni, quanto
essenzialmente dal loro rinnovato mettersi in cammino, dal loro
sostanziale riprendere ad agire, dal concepire, socraticamente, il
Vero, come ricerca, impegno morale, non come un oggetto, che si
possa cogliere positivamente, definire, limitare, possedere.
Per
aver fatto questo, essi sono per noi, oggi (come per loro lo erano
stati gli antichi), “l'appello urgente alla nostra libertà
affinché essa riviva per il suo stesso interrogarsi”.
Sì,
in questo, oggi, noi li possiamo imitare.
Sì,
perché nella poesia italiana, dopo di loro, è spesso mancato questo
scambio, che in loro è essenziale, tra poesia e filosofia, questa
fusione, naturale in loro, tra poesia e filosofia.
Lo
stesso Pasolini, autoanalizzando in “Nuove questioni linguistiche”,
il proprio discorso, la propria “prosa enunciativa” -come la
chiama- dice che essa utilizza contributi linguistici della
sociologia, della psicoanalisi, ecc., ma non nomina la filosofia.
E
c'è un grande critico del Novecento, Carlo Bo, che ha una coscienza
davvero articolata, acuta di questi “difetti” della poesia
italiana; in un suo saggio del 1962, “L'eredità di Leopardi”,
Carlo Bo dice che questa mancanza di discorso, di interrogazione
profonda, di fusione tra poesia e filosofia è sempre stata “una
condizione negativa della nostra letteratura”;
e
in un altro suo veemente e attualissimo saggio “Una cultura senza
nome”,
scrive
che “sarebbe opportuno dare finalmente la sensazione che non si
gioca, non si ripete né tanto meno si bara ma che ci sono degli
intellettuali disposti a pagare per le loro parole, degli
intellettuali disposti ad assumere in pieno la propria
responsabilità”.
E
dice anche: “L'Italia della Voce sembra
sepolta per sempre...”
Ecco,
io credo che oggi sia particolarmente urgente una, così
intesa, “ricerca filosofica”.
E quindi, cercando
di ricercare fino in fondo: qual è la pur sorda, pur inconsapevole,
non più indagata, visione del mondo, che sta sotto l'informazione
televisiva?
Io direi quella del
positivismo ottocentesco, della sua riduzione naturalistica, del suo
considerare l'uomo, la società, un oggetto identico agli oggetti
naturali, da indagare e da trattare con lo stesso metodo, gli stessi
scopi che hanno le scienze naturali.
-Aggiungendo, che
queste scienze naturali indagano la natura a partire da una
concezione meccanicistica di essa, cioè considerandola una macchina,
inanimata, inerte -e anche questa concezione, nata coi moderni,
mostra ormai la corda di fronte ai disastri che la natura subisce e,
ribellandosi, provoca;
-e aggiungendo in
più che ormai la scienza non è più “realista”, come lo era
Galileo, cioè non crede più di scoprire come le cose veramente
sono, ma è congetturale, ipotetica, in quanto alla realtà, perché
venga -come oggi si vuole- completamente dominata, non si può
riconoscere nessuna consistenza; essa, e l'uomo con lei, è ormai
soltanto: l'infinitamente manipolabile).
Ora, quando
Pasolini, quando noi inorridiamo davanti a questo modo di trattare
l'uomo, a questo linguaggio televisivo, su quale visione filosofica
ci basiamo, quale pensiero sottendiamo necessariamente, anche se non
lo indaghiamo?
Ecco, lo dobbiamo
sapere infine, lo dobbiamo indagare, dobbiamo trarre tutte le
conseguenze dal nostro intuitivo, istintivo -direi- dissenso.
Noi dissentiamo da
questo linguaggio, perché, infine, non riconosce qualcosa che è un
mistero evidente: l'essere.
E' almeno da
Cartesio in poi che è iniziato l' “oblio dell'essere”; è stato
un cambiamento radicale, inaudito di paradigma, che oggi non ci
sembra più tanto ovvio:
Hannah
Arendt, in “Vita activa”, lo trova assurdo: lei dice: gli
antichi partivano da un'evidenza assoluta: l'essere, e dallo
stupore, thaumazein,
di fronte al mistero del suo esserci; da Cartesio in poi si parte
dal dubbio, dal sospetto; Cartesio, andando contro “il mondo della
vita”, il senso comune, l'evidenza più originaria (ma recependo
così la moderna scienza galileiana), dice: vedo, intorno a me le
cose, l'universo? Ma chi mi dice che esistano davvero?5
Ecco, noi oggi forse
siamo più propensi a un nuovo paradigma, un paradigma che ripristini
lo stupore, che ci sembra più fondato, più giusto: lo stupore di
fronte al mistero, all'essere.
C'è
una grande svolta che è necessaria, e che dei grandi filosofi hanno
già iniziato a fare: Husserl, Heidegger, l'immenso Patočka
(con il suo fondamentale “platonismo negativo”, con il suo
“Platone e l'Europa”)
e in Italia Emanuele Severino, Gennaro Sasso.
Loro
sono riusciti, stanno riuscendo a declinare di nuovo, in modo nuovo,
adeguato a noi, l'antico; è sorprendente con quale pazienza,
sottigliezza, “eroismo della ragione”, Husserl, Patočka,
(ma anche Guido Davide Neri, che è ancora in Italia considerato il
massimo studioso di Patočka)
riescano a trovare modi nuovi, adatti a noi oggi, cioè -oggi-
inoppugnabili, di risollevarci, di ricordarci, di mostrare un senso
che sia di nuovo assoluto e allo stesso tempo accessibile
all'umanità, proprio perché non dogmatico, continuamente ricercato,
problematico.
E di tutto questo lavoro, anche noi, con la nostra ricerca, possiamo essere
parte.
1
Cfr. Leandro Castellani,“La
TV italiana ha cinquant'anni”,
in IL
VELTRO,
3-4
anno
XLVIII -maggio-agosto 2004, pag.
275-286
2Cfr.
GinoScartaghiande, “La gloria della lingua”,
in La parola
ritrovata, Ultime
tendenze della poesia italiana a
cura di Maria
Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio 1995, pag.153-161
4Cfr.
Giancarlo Pontiggia, “Che cosa si deve chiedere oggi ai poeti”,
in La parola
ritrovata, op.
cit. pag.
128-131
5Cfr.
Hannah Arendt, “Vita activa”,
Milano, Bompiani 1966, pag.
203