martedì 21 giugno 2011

L'identità letteraria della Svizzera italiana. Un dialogo con Fabiano Alborghetti

Pubblico questo breve dialogo con Fabiano Alborghetti (una delle più significative e riconoscibili voci della poesia svizzera contemporanea: poeta di confini e passaggi, di esodi ed agnizioni, di transizioni e aperture di senso).

Non ho la pretesa di mettere in discussione uno sguardo così partecipe, informato, acceso dal di dentro della realtà che contempla e in cui si specchia, e capace di dar forma a giudizi e definizioni di una meravigliosa concisione e di una straordinaria incisività, che fanno pensare quasi, senza esagerazioni, al Serra delle Lettere.

Eppure, io mi ostino a credere che anche un'identità letteraria e culturale come quella elvetica, unica al mondo proprio per il suo carattere multiforme, plurilinguistico, polifonico, possa essere in qualche modo definita (per ora sul versante italiano, peraltro aperto, come le annotazioni stesse di Alborghetti evidenziano, al dialogo con le identità germanica e francese).

Il fatto che la scuola filologica di Pavia abbia rappresentato (unitamente al magistero friburghese di Contini) un saldo punto di riferimento in termini di italianità e di rigore filologico, non stempera, mi pare, l'identità letteraria svizzero-italiana, ma semmai ne sottolinea un aspetto saliente, ovvero quello del legame tra poesia e filologia, tra creazione poetica e coscienza critica, da Orelli a Fasani a Pusterla, da De Marchi alla Berra (due autori, questi ultimi, che non mi pare sarebbero immaginabili al di fuori di un paesaggio come quello svizzero, punteggiato di confini, limiti, conche, avvallamenti, barriere, e insieme di aperture, spiragli, illuminazioni, fughe); e la Jurissevich, splendida poetessa che ho scoperto in questa occasione, dimostra come la matrice cristiana, nella fattispecie calvinista (ma uno degli autori a cui la poetessa guarda è certamente Agostino, mentre il suo paesaggio esistenziale e visivo, immoto e niveo, è chiaramente alpino), resti sorprendentemente, miracolosamente viva a distanza di secoli: leggendo i suoi versi ("Da questo ghiaccio liberami, o Signore...") ci si ricorda di Théodore de Bèze, delle sue tragiche psicomachie. (M. V.)


Che rapporto c'è fra gli scrittori svizzeri di oggi e la tradizione della letteratura svizzero-italiana del passato, ad esempio Francesco Chiesa? Di solito si dice che Orelli segni una cesura netta: ma il paesaggio letterario, nel duplice senso di scenario in cui i testi vengono collocati e di contesto culturale, mi pare aver mantenuto inalterate certe costanti, certe invarianti.

Attualmente – ma è un punto di vista personale non c’è grande legame. Resiste certo la tradizione svizzera, ma è lì, parcheggiata. Più memoria o spazio sullo scaffale che non vero e proprio punto di partenza o reinvenzione.

Pusterla, ad esempio, è post-Montaliano. Giorgio Orelli si rifà più al Pascoli che non ad altri. Giovanni Orelli è stato influenzato molto più da Fritsch e Durrenmatt che non da scrittori di lingua italiana.

Direi che ora come ora ci si rivolge – parlando di poesia - più all’Italia che non alla tradizione ticinese (o svizzera di lingua italiana, come è più corretto dire)


Esiste un
esprit helvétique, quale quello teorizzato da Gonzague de Reynold e anche, alla vigilia della prima guerra mondiale, dal grande ed inesplicabilmente dimenticato Carl Spitteler, che pure sdegnava la definizione di svizzero, e si considerava araldo di una sorta di germanicità trascendentale? Per la loro vicinanza linguistica, geografica, culturale, all'Italia (Milano centro di attrazione per i ticinesi, come Parigi per i romandi), in che modo gli svizzero-italiani interpretano l'esprit helvétique? Spitteler mostra una svizzera che osserva, immota ed apprentemente impassibile, le tragedie della storia restando chiusa nelle sue frontiere, e partecipandone silenziosamente. Mi pare che questo accada emblematicamente in certi tuoi testi.

Posso citare una frase di Ramuz: «L’unica cosa che unisce gli svizzeri è l’uniforme dei postini».

Esiste un'identità culturale lombardo-ticinese? E' giusto, com'è stato fatto, additarne uno dei tratti distintivi nella "reticenza", nell'ellissi, nel sottinteso, nel rifiuto di ogni barocco eccesso e nella ricerca di una pulizia, una nettezza, un'esattezza della parola? Eppure, mi sembra che nella poesia svizzero-italiana, già a partire da Chiesa, vi sia anche una concomitante, e apparentemente antitetica, linea di ascendenza simbolista ed ermetica, fatta di analogie, evocazioni, sinestesie, che non escludono ma integrano l'esattezza "oggettiva" della rappresentazione. Questo mi pare evidente anche nel modo di rapportarsi al testo da tradurre e da ricreare, ad esempio nel caso di Pusterla traduttore di Jaccottet: difficile e cangiante equilibrio tra fedeltà ed invenzione, adesione e ricreazione. L'identificazione tout court, senza ulteriori distinzioni, della "linea lombarda" con la cosiddetta "poetica dell'oggetto" pare riduttiva, almeno se quest'ultima viene intesa nel senso di una riproduzione impersonale, mimetica, neutra.

Molti poeti – Pusterla in testa, ma prima anche Giovanni Orelli - vengono “associati” alla linea lombarda. Nulla di più sbagliato o fuorviante.

Alberto Nessi rappresenta sin dagli esordi, forse, quello più vicino alla linea lombarda.

Pusterla, ad esempio, ha studiato a Pavia con Maria Corti e si è confrontato da subito con la massima italianità possibile, non con una parte, la Lombardia, né col Ticino. Erano aree di appartenza vivendole, ma certo non linee guida. Erano appartenenza più geografica che non stilistica.

E così anche per i poeti successivi: Gilberto Isella si rifà ai francesi; Pietro De Marchi a Giorgio Orelli; Aurelio Buletti è quasi una cosa a sé stante, forse influenzato (anche lui, come Giovanni Orelli) da Durrenmatt o Walser (e quindi in parte proiettati verso la germanicità, non come geografismo ma come corrente di pensiero: acume e critica e la capacità di usarne, più che stile da copiare o dal quale prendere esempio). Donata Berra (italiana ma da sempre in Svizzera) addirittura si rifà, da musicologa, più alla musica che a poeti o letterati. Federico Hindermann è forse il più vicino al Chiesa, anche se vivendo ad Andermatt da decenni è ormai tutt’altro, indefinibile: forse l’ultimo dei poeti romantici.

Altro discorso, ma non dissimile, per le nuove leve: Vanni Bianconi è vicino a Walcott ed alla poesia di Shelley, Eliott, io alla poesia di Pagliarani ma soprattutto di qualche decina di poeti americani, tedeschi, o dell’australiana Dorothy Porter. Tommaso Soldini è vicino anch’egli ad una lirica americana contemporanea. Flavio Stroppini proviene dal teatro e dalla drammaturgia, accostata al racconto (è prosatore, drammaturgo, regista…). Elena Jurissevich è prossima ad una poesia ermetica francese con echi religiosi; Pierre Lepori è indefinibile ma certamente “soffre” in positivo il bilinguismo (vive da decenni a Ginevra ed è traduttore, oltre che narratore e poeta). Prisca Agustoni è ermetica ma al contempo è immersa nella lirica sudamericana (vive in Brasile).

Credo che, dal secondo Novecento in poi, la linee guida si siano dissolte.

Un caso a sé stante sono forse i poeti dei grigioni: schiacciati tra l'identità locale (dialetto), l'italianità (per vicinanza di confine) e il peso di una germanicità che li opprime.

Onestamente, non credo esista una identità letteraria della Svizzera italiana. Ma l’interrogativo resta aperto e irrisolto.


Per acquistare i libri di Fabiano Alborghetti, clicca qui.

venerdì 10 giugno 2011

Elisabetta Brizio - “E non è ancora finita…”. Giovanni Lindo Ferretti, A Cuor Contento Tour







affiora al mio sguardo una volta ancora... l'aurora


È tra il tragico e la meraviglia
che muove l’esistenza degli uomini

FLG

Sono sorprendentemente diverse le generazioni che si ritrovano ad assistere a “A Cuor Contento Tour”, l’ultima performance che Giovanni Lindo Ferretti sta portando sui palcoscenici italiani. In varie città il cantore si è esibito e si sta esibendo insieme agli ex Üstmamò Ezio Bonicelli (al violino e alla chitarra acustica), e Luca Alfonso Rossi (alla chitarra elettrica e al basso), diluendo la propria vocalità con una sonorità accuratamente minimale e rifinita con il ricorso all’elettronica. Sull’austera sobrietas di uno sfondo spoglio, in vesti che vagamente evocano l’aria del montanaro, mani rigorosamente in tasca, in veste “a cuor contento” Ferretti sceglie di non proferir verbo fuori contesto, solo nei brevissimi interludi tra un brano e l’altro dispensa agli astanti un sorriso sereno.
Ferretti Lindo Giovanni torna dunque in pianura – ma non più come negli ultimi anni in qualità di voce pressoché esclusivamente narrante–recitante in spazi defilati – e si volge a un pubblico più vasto, riportando sulla scena la rivisitazione di un repertorio quasi trentennale e alternativamente trascorrente dal punk ortodosso ai suoni e ai testi occasionati dall’esperienza della conversione–ritorno alla fede e dalla sua riflessione sul tempo: sul passato, sull’ora e sul futuro che nel presente si percepisce; sul tempo proprio, liturgico, storico. Così avveniva in Reduce, la lirica autobiografia di Ferretti uscita nel 2006.
Nell’alchemica combinazione verbale di propri arcaismi e di designazioni più recenti Ferretti si riappropria dello spessore delle proprie parole sentite e pronunciate nel tempo (“campo di parole”, ha più volte dichiarato, e sappiamo di che pregnanza le sue parole siano fatte, e la musica stessa sembra talora volerle integrare, enfatizzare il loro senso e la loro scansione, rendendole più luminose) e ne pondera oggi la fondatezza referenziale. Scartate quelle non più nominabili e che ormai da anni si astiene dal pronunciare, egli sottopone trent’anni di risonanze verbali al vaglio del tempo attraverso un anacronico e ondivago attingere a testi dell’intera sua produzione, apportandovi minimi ma necessari emendamenti. E il riscontro risulta positivo: le ferrettiane espressioni delle origini paiono ancora assolvere alla loro funzione, seppure in una configurazione interiore, e magari anche estrinseca, profondamente mutata. Assumono nuova legittimità perché “diverso è il modo di intenderle”, precisava Ferretti nella nota intervista di Giorgio Tonelli. Dove tra le altre cose Tonelli ricordava come fatto non casuale che in questi ultimi tempi fossero uscite diverse biografie sull’artista (tra le quali: Matteo Remitti–Stefano Fiz Bottura, Giovanni Lindo Ferretti. Canzoni preghiere parole opere omissioni, Arcana Edizioni, Roma 2010; Luca Negri, Giovanni Lindo Ferretti. Partigiano dell’infinito da Togliatti a Benedetto XVI, Vallecchi, Firenze 2010).
Questi alcuni dei brani che sfilano nell’esemplare florilegio che Ferretti sta proponendo sui vari palcoscenici (ma la scaletta è variabile), brani la cui esecuzione vanifica lo iato inerente alla lontananza dei tempi della loro composizione: Depressione caspica (“la libertà una forma di disciplina / assomiglia all’ingenuità la saggezza”), Annarella (scritto per il padre che Ferretti mai conobbe, poi per una serie di circostanze il testo venne dedicato alla Annarella dei CCCP: un eterno ritorno dei medesimi suoni in riverberante costruzione verbale, una elegia circulata di perpetuazione malinconicamente e nostalgicamente introflessiva, Lebenspathos attenuato e tuttavia confidente in un avvenire di parche essenzialità, quasi incertamente prefigurate seppure emozionalmente reiterate), Narko’$ (superbamente rivisitata con il preponderare di logorate nomenclature e formazioni aggettivali per enumerazione intensiva, le quali per la scarsità di forme verbali non coinvolgono il tempo, dunque paradossalmente alludenti a un contesto non di perennità quanto di decadimento, di stagnazione: in scansione rapsodica si accumulano il disarmonico, l’immorale, l’inestetico “stupefacente” esistere), Radio Kabul, A tratti, Del mondo, Paxo de Jerusalem, Occidente, le spiritualissime e mai esibite live Cronaca d’inverno e Cronaca filiale tratte dal lavoro terminale dei PRG, Polvere, Barbaro (forse, il vero climax della performance, se si tiene conto della testamentaria postilla alla versione di Co.dex, con il quale Ferretti uscì da solista, preludio o terminus ad quem dei giorni del suo fertile isolamento), Unità di Produzione, Per me lo so. Ben lungi da ogni conformità filologica, questi e altri brani sono stati preliminarmente escoriati e indotti all’essenziale, e la voce di Ferretti nella sua elegiaca deriva oscilla tra l’evocazione e quel suo peculiarissimo ipnotico salmodiare in cadenza uniforme quale icona del persistere delle cose (vocalità che tende ad alzarsi di tono solo verso la fine delle varie performance). Come per Dante, sulla scorta della medioevale simbiosi di poesia, retorica e musica, il dire poetico è “fictio retorica musicaque poita”, così, analogamente Ferretti, indugia sulla durata reale e coscienziale del suo eloquio, facendone misura e respiro e nervatura profonda della sostanza musicale. “Non sono un poeta, non sono un musico ma per contingenze fortuite ed accadimenti privati campo di musica assemblando parole in forma di canzone. Necessitano di una musica che le stimoli, che le sostenga, le preveda, che sia limite riconosciuto ed apprezzato. Solo in questo limite possono esistere e, a volte, fiorire rigogliose. Non basta, sgorgate dal cuore e scampate al giudizio della mente devono fuoriuscire dalla mia gabbia toracica, riempirmi la bocca, impastate ai sedimenti fisici dei miei anni, traversandone malattie e cicatrici cumulate”, scrive Ferretti in Bella gente d’Appennino, edito nel 2009, inclusivo di significativi stralci già anticipati nel reading omonimo con Bonicelli al violino, e dove il racconto che affabula sulla trama della propria esperienza, rispetto alla indifferibilità di Reduce, sembrerebbe esser maggiormente prorogabile, e conseguentemente tende a farsi più disteso e meno ermetico il periodare.
In tempi paleoferrettiani, quando molti dei presenti all’ultimo tour (come del resto al penultimo, al terzultimo, al quartultimo) non erano neppure nati, i talora dissoni accordi delle ortodossie, vale a dire del punk filosovietico (ma non filorusso) del Ferretti dei CCCP, poi CSI, intenzionavano e interpretavano non tanto una questione privata, bensì l’autentico sperdimento giovanile per tramite di una mimesi musicale autoctona esplicativa del fatto motivazionale, di una reale visione del mondo che veniva altramente significata, non più ispirandosi agli allora in auge canoni anglo–americani. In controcorrente, i conflitti identitari della provincia emiliana venivano eletti a vestigio dell’accordo tra la provincia italiana e le avanguardie europee. L’individualità della realtà emiliana e il radicamento in essa già nei CCCP costituivano un nesso emblematico, poi in Ferretti chiarificatosi nel corso degli anni come divinazione dell’indissolubile legame con il proprio etimo. Ora, constatata un’invarianza ideale nel succedersi delle cose, “generazione su generazione”, e interiorizzati i percorsi, sedimentati e non estinti, di pulsioni, elevazioni, cedimenti e decondizionamenti (“tutto passa e tutto lascia traccia”), oltrepassata la fase della darkness, non resta che seguitare – ovvero, educarsi – a fruire “a cuor contento” della vita e delle sue acquisizioni progressive: “niente di eclatante a parte l’esistere”, leggevamo in Bella gente d’Appennino.
La risonanza dei tempi lenti, l’assoggettarsi al fluire delle stagioni, nonché l’insegnamento tratto dalla “bella gente d’Appennino”, sembrerebbero assumibili come prologo di “A Cuor contento Tour”. Contento di che? Del miracolo quotidiano non predefinibile né codificabile della vita soggiacente al mistero, del suo consistere nell’unicità di un “dono”, grazia e bellezza non ripetibili. Del fare esperienza dell’armonia delle cose senza tentarne una spiegazione razionale che tutto banalizzerebbe, assunto che la complessità del creato e le sue finalità non possano che superarci. In fin dei conti, anche a voler essere pervicaci o sottili, le circostanze quasi mai sono favorevoli, come ricorsivamente enunciato in Cronaca montana: allora, “bisogna quello che è. Bisogna il presente”. Affermazione la quale, se non implica alcuna svalutazione dell’umano, non esime comunque la vita dal canonizzare, con sole invocazione e lode, la propria veritas peremnis.

(E. B.)


mercoledì 8 giugno 2011

Ludovico Parenti, STRIPSODIA PER UN’OPERA POETICA DI NEIL NOVELLO



Se paradisi esistono mia madre ne avrà (tutto per sé) uno.

E.E.Cummings


Studioso non solo di Pier Paolo Pasolini, cui ha dedicato tra molti scritti un ponderoso volume (Il sangue del re), ma anche di Jean Genet, sul quale è di prossima pubblicazione un rilevante studio (Epopea di bassavita), di Machiavelli, Gadda etc., nonché curatore di diversi volumi sulla letteratura, le arti e il cinema, il quarantaduenne Neil Novello, origini calabresi, residente a Bologna, da tempo ormai si profila come uno dei più appartati, originali e geniali giovani studiosi che si calano nel proprio lavoro come in un mare inesplorato per riemergere con impreveduti tesori grazie a una capacità di prospezione che ha fatto dell’implacabilità linguistica e del rigore della conoscenza la sua regola.

Che fosse poi anche poeta, considerando l’appena edito Falò de’ rosarî, nella elegante collana poetica di Nino Aragno, non stupisce se si ha presente la precedente raccolta, Rosa meridiana (2004), in dialetto calabrese. A dettar legge poetica è un lutto incancellabile, la scomparsa della Madre, da Neil Novello immensamente amata, disperatamente cercata e omaggiata con un trittico dal momento che, tra Rosa meridiana e Falò de’ rosarî , si colloca Mutterland (2006), mediometraggio di poetica suggestione, memore del “cinema di poesia” pasoliniano.

Falò de’ rosarî (titolo bellissimo che sembra orecchiare la pur diversissima opera poetica di Carmelo Bene, ‘l mal de’ fiori) si articola in novantasei composizioni distribuite in nove sequenze che strutturano il tutto (fra le quali “Lager rosario”, “Celù”, “Parallaxis”, che a loro volta affondano e riaffiorano nell’architettura del libro), con l’eccezione di una poesia (“Stasimo in petalo verde giallo”) dalla palese ascendenza ‘sperimentale’, in evidente dissonanza, se non scarto violentemente radicale, dal rimanente corpus poetico; ed è opera, Falò de’ rosarî, che, per entrare nel Mistero, per misteri (come nel rosario) si esprime, agglutinandosi in una scrittura sapienziale misterica e allucinata: pagine e versi da toccare con devozione, sapendo quanto rischioso e arduo sia il tema affrontato/patito: la morte della Madre. Ed è, l’opera, una discesa insieme nella morte della Madre (del poeta) e nella morte delle Madri. Perché, quando muore una madre, è come se morisse ogni madre.

In Falò de’ rosarî l’immagine si fa incandescente nella sua distaccata freddezza. Sodezza, volumetria e scabrezza espressiva riflettono dolorose piaghe dell’animo. Il verso, dal lessico sovente prezioso e insueto, ha sapore di iscrizione sepolcrale, Nessuna linea a guidare, ad alludere a una sia pur approssimativa mappa di un cimitero che divenga emblema di tutti i cimiteri: dove le “urne confortate di pianto” svettino nella loro scenografia lamentevolmente petrarchesca: qui c’è una parola minerale, un’immagine insieme nota e misteriosa strappata alla cenere delle esistenze per farla rilucere nel suo timbro e nella sua forma.

Il sambuco non sa / il croco è già fiore / nostri occhi volati / in violati ossarî di madri // Col tempo tu albore, / sta a te ancora, a nessuno.” La cadenza, spesso monotona, scopre l’insistere e il persistere di un sentimento in sostanza ascensionale, benché spesso stornato, nel crepitìo del “falò” delle metafore, da un pudore che non riesce sempre a prevalere, tanto intuitivo e condivisibilmente afflitto è il groviglio dei sentimenti e dei sensi che, sia pure nella sostanziale ossificazione della tessitura poematica, del ductus oracolare ed evocativo, deflagrano in quasi lussureggianti sequenze, in paradossalmente barocchi prosciugamenti, taglienti e implacabili come certe fioriture figurali negli ‘impronunciabili’ versi di Celan.

Qui non c’è il barthesiano “piacere del testo”, ma il dolore del testo. Limpidamente oscuro (“Il sole rotola su me/ e io bevo luce,/ a testa in giù/ segreto pulviscolo.// Non da così lontano, da così”): bubbone nell’iter ossessivo del poeta – che sembra volercisi sempre più sprofondare per assaporarne l’intimo incomunicabile e straziante dolore, privatissimo e ‘sacro’ – e che spetterà al lettore far scoppiare a sua volta per verificare la vertiginosa fossa, la verticalità della morte della madre del poeta e di tutte le madri. A sua, e a loro gloria.


Ludovico Parenti


Per acquistare il libro, clicca qui.