Chi di noi non ricorda, anche sulla scorta delle memorabili pagine rimbaudiane di Renato Minore (in Rimbaud, Mondadori, Milano 1991) che si intrattengono su una delle rarissime fotografie che restano del poeta, gli occhi assenti e perdutamente rivolti altrove del comunicando Arthur?
Vòlti, forse, verso un destino altro rispetto a quello del fratello Frédéric, ritratto in piedi vicino ad Arthur, istintivamente incurante, quest’ultimo, di dover recitare una parte (cosa che induce a riformulare l’eterna domanda, assumendo Proust come esempio generalizzabile: preferiremmo, a titolo di ipotesi, essere Marcel o suo fratello Robert?). Arthur è seduto, visibilmente suo malgrado, ma più che una attribuzione motivata, la posizione sembrerebbe rispondere ai canoni del cerimoniale fotografico; è seduto e mostra tutta la propria incontenibile insofferenza, impotente e implodente, tanto che sembra accennare ad alzarsi per fuggire via lontano, ma non può che sottomettersi e obbedire, omologarsi, al massimo stringere i pugni, insieme al libretto delle orazioni. Gli occhi estraniati e errabondi di Arthur paiono fin da ora affluire da o verso altre plaghe
(Et dès lors, je me suis baigné dans le Poéme de la Mer)
e fanno da analogon alla sua posa forzata e di circostanza, ma di una circostanza che egli - che già mostra di essere “un autre” - stenta a assecondare, anche perché l’ambiente suppone, aldilà di un tragico invisibile diaframma, la presenza accorta e giudicante della madre, provvida dispensatrice di consigli per come meglio atteggiarsi per immortalare il giorno della festa.
(Elisabetta Brizio, “Je est un autre. Rimbaud tra infanzia sapiente e ‘sofismi della follia’”, in Le vesti dell’anima. Ipotesi per un canone della décadence, Azeta Fastpress, Bologna 2010)
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