mercoledì 8 settembre 2010

DANIELE BARNI, POESIE

Presento, qui, dopo un silenzio abbastaza lungo, i versi di Daniele Barni. Versi che trasmettono davvero, a mio giudizio, una "secousse nerveuse", un "frisson nouveau", come dicevano Hugo e Baudelaire: quel brivido cerebrale che può insorgere e diffondersi all'ascolto della musica e della poesia davvero intense, significative, necessarie, sempre nuove per quanto possano essere antiche.
C'è, in questo dettato, lirico e insieme narrativo, qualcosa del Montale più maturo o del Luzi di Nel magma: non dico poesia narrativa o poesia prosastica, categorie abusate e un po' vuote; ma poesia che riversa e fonde e travasa il tempo nell'oltretempo, nell'assoluto della memoria, e muta i fatti, gli eventi, le sensazioni, i nomi, i volti, in emblemi destinati a permanere anche e proprio nella loro immortale volatilità, ad essere perpetuati nella mobile compiutezza di una tramatura fonica solida, necessaria, quasi una rete di "parole sotto le parole", che nasconde, quasi con pudore, nel mezzo e nell'interno dei versi, rime ed assonanze vitali, semanticamente motivate, scandite del ritmo dell'anima e del cuore più profondi ed impregiudicati, e tali da mettere in discussione, come sempre fa la vera poesia, la convinzione (essa stessa convenzionale) della natura convenzionale ed arbitraria del segno linguistico.
Le parole dialettiali non sono richiami gratuiti, note di colore, tratti bozzettistici o macchiettistici, o indizi di un realismo crudo e scabro. Piuttosto, quasi come nel Pascoli dei poemetti, le voci popolari, gergali, perdute, le “parole di legno” del vernacolo o del lessico rusticale sono tratti realistici, punte irte ed acute di intensità e vergine e albale autenticità espressiva ma, in pari misura, anche, per così dire, gocce di quell'oltretempo come cadute da lontano, filtrate e percolate, sottilmente, nel divenire, nel flusso temporale del discorso poetico. Versi, come si accennava, “classici”, di cadenza, a volte, leopardiana o cardarelliana ‒ e insieme divenienti, mobili, discorsivi, dialoganti, aperti ad una misura più ampia e imprevedibile come le circostanze, le contingenze, gli incontri del vissuto e dell'esperienza.
"Morte, madre automatica". "Dora, implora quest’ora che muore che non muoia". "Poi ritrovo l’odore della vita presente, / quest’odore di niente". "Fino a te, sullo stradario afoso dei ricordi".
"Cimitero d’istanti / è la memoria". "A Rimini, d’inverno, ritornai: / dal romorìo nebbioso della macchina / trasparivano all’alba / gli imperterriti muri dei ristori". /T/, /R/, /M/, /O/, i fonemi della morte, della ripetizione, del ritorno ‒ della matrice, della terra, della madre ‒ dell'ossessione, dell'ansia, del timore e tremore, sembrano ricorrere con particolare frequenza, filigranando l'ipnotico, necessitato ricorrere di determinate cadenze versali inscritte forse ab aeterno nel codice genetico del poetare in italiano: tessere foniche che sono, forse, la cifra verbale, l'icona sonora di una condizione esistenziale universale.


(M. V.)




DANIELE BARNI


FINESTRE



DALLA SEZIONE “A QUINTO DI GENOVA”


I

Morte, madre automatica,
noi dalla terrestre
placenta partorisci nell’ignoto. Imbavati
in questa pioggia amniotica,
viscida alle finestre,
sono lampioni, vie, palazzi le tue viscere.
Qui attendo, nella stanza,
scrivendo finché a volte la notte trasparisce,
i giorni della tua gravidanza
volubile. Ma senza pianto sarà il mio parto,
come il parto dei morti.

II

Dora, implora quest’ora che muore che non muoia.
A questa metropolitana noia
di stelle, ora che dormi, sulle spalle il sudore ti fibrilla:
sembra quasi la brina
riottosa e irrisoria che prima di mattina
me sgambettava, salvato da mio nonno, contro le rampe della villa
dove eravamo, come dicevano, a servizio.
Stasera, è il mio piacere quel tuo vizio
di piccola infedele. Più del buio
i tuoi boccoli bui
coprono ciò che scoprono spudorate coperte;
ma poi conserte le tue mani zitte,
pure forse a preghiera, quelle adombrano
durevoli e scabrose
di mia madre che seppero educarmi.
Nella disattenta ombra,
ora addenta il tuo sonno le polpose
trapunte, con lo stesso spensierato appetito
di me, quando la nonna con amorevoli armi
vinto aveva nel buio il bobo arabbito1.
Dora, non risvegliarti,
i tuoi assecondo assibilati scarti
e le più parti lascio a te del letto:
la tua si schiude ora miopia cobalto,
la stessa di mio padre che dall’alto,
come un ambiguo firmamento, prima dava a precipitare
il rabbioso rimbombo, presto poi si riempiva di segreto solare.
Contiene il parapetto
la stracca ebollizione del lungomare stracco,
da cui fino a qui evaporano abbagli di modernità, smacco
e vittoria di bulli in salegiochi,
e da lontano rochi
resti di combustioni di ristoranti e pizzerie. Che accanto
non mi sei più lo dice della doccia
la nebula vanesia che t’imboccia
come in un sogno o in un ricordo. Sei qui ora e sono io altrove:
fra poco sarai altrove
ed io sarò qui. Intanto
che ti rivesti quest’ombroso odore mi riscuote di cuoia.
Dora, implora quest’ora che muore che non muoia.

III

Di momenti volatili
la nostalgia è questo odore rado,
che captiamo impennati
sulle narici prima del suo svelto degrado.
In questa primavera
verniciate fragranti striano l’aria,
che ora appare una tempera
colante di più varii
ricordi: Rem2 ritrovo,
che quella notte mi rubò la doccia
con tutto il poco che di te avevo;
e l’acre stampa acrilica ritrovo
del primo sussidiario; e anche ritrovo
l’incenso che si arroccia3
in riccioli sul capo d’officiante benevolo.
Poi ritrovo l’odore della vita presente,
quest’odore di niente.


DALLA SEZIONE “VIAGGI E TACCUINO”

I

Sirolo, fino a te, sullo stradario afoso dei ricordi,
fin su al ristorante La Conchiglia, ho guidato,
come scabrosa balma incastonato
dentro la balza frettolosa a mare:
una fotografia d’allora sembra
ciò che nel parabrezza rimane incorniciato
non appena risosto nel sudato piazzale.

Lo stesso cameriere, ma con alcune tacche
di più su fronte e guance,
aggiunte nel frattempo
dal tempo, attenda svelto sul tavolo il menù,
da cui ordino ricordi senza prezzo di te:
il vino freddoloso nel quale erano sciolte le parole
che per vergogna mai
avevamo azzardate;
e la chiassosa ciáccia4, plasmata da falangi mascoline
della cuoca da allora imbalsamata,
con la quale la bocca m’impedivi
se parole cosmetiche le guance ti arrossavano.
Fra i pedalò, al tramonto, tratti a secca,
mentre intorno i colori tendono lentamente ad uno solo
e più e più di bar auto salegiochi si arroventa il crogiolo,
riunimmo spaventosi i nostri corpi
come le ritrovate metà di fantasiosi talismani:
recitammo l’un l’altro misteriche promesse,
quasi fosse la formula su scritta
di quella, per noi nuova, stregoneria d’amore.

Dimenticammo, io e lei, quelle promesse;
quell’amore perciò non è dimenticato:
non ha, come il cerino sulla grana, mai sfavillato strofinando sopra
la quotidianità, per poi finire spento bruciando fra le dita.


II

Sugli intricati labbri di lei quante le volte
che impigliato lasciasti per sempre il tuo respiro!
Quante, quante le volte
che dalla tua poltrona più fonda risalirono
aerei testamenti! Quante semmai le volte
che, alla fine dell’agra
meccanica d’ufficio, timbrate sull’ennesima
riga del cartellino, due cifre ti furono la prima
e la postuma anagrafe!

Sono i nodi i ricordi
con cui un filo di tempo rifacciamo da frinzagli5 discordi.

Cimitero d’istanti
è la memoria, e poco l’uno all’altro distanti
ci trovi marmi innumeri
con la tua foto, il nome tuo e i tuoi numeri.

III

A Rimini, d’inverno, ritornai:
dal romorìo nebbioso della macchina
trasparivano all’alba
gli imperterriti muri dei ristori,
lungo la stanca statale cadenzati
che claudica da qui fino alla riviera:
attraverso le rauche finestre i ragazzi vedevo
mentre, ubriachi, allegri e stufi di esserlo,
mandata giù in discoteca la notte con la bevuta,
fra tazzine e dolciumi
ignoravano il sonno.

Sognava ancora la città, blaterando,
quando arrivai: i semafori impettiti
ammiccavano pur sempre a vetture
inesistenti; e sopra i marciapiedi,
polverosi di brina,
le peste diseguali
suggerivano volti
e ghirigori di vite che lì s’erano
incrociate.
Incontro al molo, di gomene frangiato, mi fermai
e poi fermai il fragore: sullo specchietto
retrovisore traballò un istante
il fotogramma del passante; zitto,
acquattato più in là del muricciolo,
sussultava alle prime eliche il mare.

Ai riminesi il coro dei marosi
dispare nelle orecchie
come al supermercato le musiche:
loro il paesaggio appuntano
alla parete dell’abitudine.
Per chi in acrobazia
campa, poi, nel circo serio delle vacanze,
è la bassa stagione
l’ignominiosa rete sotto al trapezio dell’estate.
Eppure a me le seggiole annoiate nei locali
mogi e come stizzito il lungomare,
le giostre intirizzite
sull’insabbiata sabbia
erano cornici che mi sfiguravano d’ammirazione.

E lei mi camminò accanto, intrampolando6
sui tacchi riottosi,
con cui lottava per sembrare donna
neppure forse a diciott’anni.
Nel cellulare bisbigli nascondeva;
poi, scanditi dal metronomo calmo dei fianchi,
ritornelli ripeteva di suoi cantanti.
Sviò, all’improvviso, nel viale
che, simile a traiettoria di fuoco d’artificio,
schioppava in pirotecniche
viuzze. La seguii. Lontano scomparve
il litorale: stracche le saracinesche al vento
mugugnavano; davanti a birrerie
le bottiglie supine
allargavano gore; ancora vigili i lampioni
addensavano intorno a sé il giorno.

L’orizzonte sembrava uno schema aguzzo
di gronde, fra le quali s’incagliava il cielo.
L’ansia ti spintonava verso qualche dove, Rosa Tathiana:
con questo nome ti sentii salutare,
mentre nell’aria frusolavano7 gli allegri
moccoli dei bottegai di Piazza Tre Martiri,
quando, appena prima di presto, il mondo invitavano
nei loro bugigattoli:
gelatai, fruttivendoli, calzolai, pizzicagnoli,
reliquie in mezzo ad agenzie per viaggi,
a vetrine di mode, a esoterici, ancora,
negozi di computers. Quell’innesco di vita
ai miei occhi tramandò lo stupore
del cerino dal Dio scriccato8
nel buio originale.

Dopo, non so dove e da dove, una palazzetta,
scucita nell’intonaco liso,
come seduta a margine in sicura attesa,
su era balzata, mi ammirava educata
dai cent’occhi quadrati. Passai in punta
di fiato. Un terremoto mnemonico
sconquassava ogni cosa: sotto i piedi
la memoria, a strapiombo, si era
divaricata e,
buttandoci lo sguardo,
ne sondavo i cerchi
fin quasi puntiformi del cono. La pensione

trovai dove, bambino,
al guinzaglio zampettavo dei nonni
che, per due o tre settimane, sotto il sole caotico
a posare accorrevano le braccia contadine,
già bruciate dal gomito in giù:
tutto l’anno scorticavano un orto indurito,
barattato con qualche assegno di pensione,
perché la terra, dopo averli invecchiati,
diventata era il vizio.
Nella facciata i vetri incasellai su cui scoperto
avevo le misteriose ragnatele dei polpastrelli,
nelle quali rimasto ero per ore intrigato;
e la stanza in cui, vibratile di febbre,
a trovarmi una volta venuta era la paura:
allora di me, così lontano dalla cruna
del possibile, riso aveva il vecchio dottore e...
Anche tu ridevi adesso, Rosa Tathiana,
e un motivetto cantilenavi inaudito:
“Sono l’amor… te vorrò… te per sempre…”
Mi voltai. Sparita eri di già.

IV

Supino in quell’abbraccio floreale
sembravi, amico mio,
la statua dormiente
di giovinezza. Il prete,
pregando violento,
l’aria come incollata graffiava, ora, d’incenso.
Dei presenti una lacrima è bastata
a spengere la stenta
fiamma d’un’esistenza.


DALLA SEZIONE “A SANSEPOLCRO”

I

Nella finestra s’incornicia il quatto campanile di esatto calcestruzzo,
da cui l’altoparlante compunti scampanii prova a imitare
per convocare al loro divino titolare
i buoni dipendenti. Di sole qualche spruzzo
sul tetto della chiesa ora si asperge,
forse a benedizione. Poi… infrenate9 frenate: ecco parcheggia
il porsche color abisso vicino alla scalea, e a un tratto ne emerge
qui il cellulare con giacca fanatica, di là, dopo il mannaggia
devoto, con stivale che inciampa la frenetica pelliccia.
Lei bacia lui. Ma lui bacia il microfono comiziando in codice
borsistico di azioni, di opa e opzioni. Riattacca. Alcuni spiccioli
spiccio conta al barbone, che di vendere aspetta almeno il suo odio.
Poi di slancio, a lei accanto, compiaciuto,
attraversa la cruna all’Assoluto.

II

Momenti s’improvvisano che tutta la tua vita
cola in una lacrima
o sfioca in un sorriso senza labbra
o come ora nel pugno si compatta
che, afasico, rinserri per non cedere:
come le gore che il respiro quasi
fisso raggruma sul profondo video di questa finestrella,
si dissolvono subito i ricordi, stanotte, e anche i propositi…
La città ancora calda appena sfrigola
di fari e di lampioni, che alle stelle radenti si confondono
fra i capannoni e le ultime ciminiere laggiù
da dove, pur alzandosi, va avanti
a ritroso lo sguardo:
due pupille non bastano per contenere tanto
mistero costellato.
E vorresti al telefono riunirti a qualcuno, lei magari,
ma nessuno potrebbe fino a questa
intima latitudine raggiungerti.


NOTE

1) Bobo arabbito: Orco arrabbiato.
2) Marca di profumo.
3) Arrocciare: ripiegarsi più volte.
4) Focaccia.
5) Frinzaglio: pezzetto di filo, scarto di cucitura.
6) Intrampolare: incespicare, inciampare, camminando in modo precario come su trampoli.
7) Frusolare: il rumore che rilascia l’aria sferzata da un oggetto teso e sottile.
8) Scriccare: strofinare, anche scricchiolare.
9) Infrenare: ingarbugliare, aggrovigliare.

2 commenti:

  1. Mi sono commossa nel provare, leggendo questi versi, le stesse sensazioni che accompagnano i miei ricordi in circostanze simili (il mare d'inverno, le promesse d'amore mancate o soddisfatte, la dolcezza dei nonni e delle vacanze con i nonni e così via).
    Dal basso della mia superficiale conoscenza, concordo con l'opinione dell'autore che ritrova in queste liriche (perchè di questo si tratta, lirismo) le atmosfere di Montale e di Luzi. Roberta

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  2. E' bello sapere che la poesia contemporanea (spesso accusata di freddezza e di intellettualismo) comunica qualcosa anche a livello emotivo.

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