Sollecitato dalle domande acute e simpatetiche dell'intervistatrice, uno dei più importanti poeti italiani contemporanei rivela alcuni nuclei essenziali della sua concezione. In particolare, nella sua visione la lettura scientifica del mondo si fonde con quella poetica. Lo spazio-tempo in cui si muove l'immaginario del poeta è quello di Einstein, dilatato fino ai confini del cosmo curvilineo, finito ma illimitato, e ricorsivo, tornante su se stesso fino a fondere idealmente infinita lontananza e infinita compresenza del medesimo a se stesso (chi fissasse il confine estremo dell'universo, chi davvero cogliesse “l'ultimo orizzonte”, vedrebbe la propria nuca, così come la parola poetica torna a se stessa e riflette se stessa dopo aver teso a trascendersi, aver tentato di abbracciare l'illimite).
La materia oscura, l'antimateria, la zona cupa, il lato d'ombra dell'essere e dell'esperienza sono l'altra faccia, la metà celata ma baluginante, rivelatoria o inquietante, dell'evidenza e della superficie. Essere e nulla, vita e morte, parola e non-detto (indicibile) si compenetrano e si coimplicano, come per una platonica symploké. L'immaginazione, l'intuizione, allora, non sono affatto evasione dalla realtà, ma, nel senso dell'eidetica husserliana, rivelazione, intuitiva e insieme riflessa, della sua essenza – unomnia o coincidentia opppositorum in senso neoplatonico.
La simbolica e la metafisica della luce che pervadono Le stanze del cielo riassumono in sé tutti i colori, tutte le epifanie, tutte le forme percepite o immaginate, e insieme le trascendono, le inverano annullandole nella loro temporalità contingente e transeunte. Anche la musicalità, il canto del verso dell'ultimo Ruffilli (che non mi pare si possano ridurre, come vorrebbe Alfredo Giuliani, ad una «cantabilità sommessa e antilirica», e mostrano semmai sorprendenti consonanze con il Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini e di Dottrina dell'estremo principiante) divengono, quasi, declinazione immanente, “immagine mobile” di una musica mundana, di una silenziosa armonia eterna che si involge, o sfuma senza dissolversi, nella sublimità del silenzio interiore.
«È qui, dove niente / accade, il tempo / è senza essere / mai stato, un'attesa senza luce / e senza fine». «Il buio negli occhi / e il suono del silenzio / dentro la mente». «Notte eternamente / luminosa / nella sua chiusa / fulminante assenza». (R ed S, Reish e Shin della Cabala: ideofoni eterni ed archetipici, segni di vibrazione e quiete, eterno ritorno dell'uguale e annientamento nella suprema pace, attestazione ed autoriconoscimento del Sé e fatale, ma conscio, naufragio nel mistero e nell'aperto).
La malattia che isola dal mondo intesa come soglia del mistero, come iniziazione all'alterità assoluta. Noche oscura del alma, «luminosissima tenebra», divina caligo, come nel linguaggio dei mistici. Ma anche dark matter e music of the void come nella cosmologia contemporanea – realtà, o irrealtà, attinte ed intuite per via indiziaria, indiretta, indeterministica, quasi aleatoria, confermate per via suppositiva, schermata, più che sperimentale – dunque come opache entità ideali, esangui e nebulosi eide velati di brume. (M. V.).
L’ossessione è motivo emozionale della coscienza, la libertà invece razionale costruzione di se stessi e responsabilità di scelta.
Nel contrasto fra tali elementi nasce forse la tipologia strettamente originale della tua poetica?
La tua interpretazione mi convince e mi chiarifica il mio stesso rapporto conflittuale con l’ossessione della perdita della libertà. Probabilmente comincio a prenderne via via coscienza, dopo la pubblicazione del libro e la serie di affondi perlustrativi che si sono messi in moto a lavoro creativo concluso.
L’immaginazione non è intesa come fantasia, ma come aderenza alle cose che invitano, nella loro realtà, a contemplare altre possibilità che da essa scaturiscono. Il leopardiano “io nel pensier mi fingo” e “la molteplicità del reale” di scuola metafisica tedesca possono spiegare meglio la parola “immaginazione” e sottrarla al termine del fantastico poco consentaneo alla tua poesia?
Analizzando la mia poesia, Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto che la realtà, per me, è in fondo tale solo se pensata dal soggetto. E credo che abbia colto nel segno. Ribadendo tuttavia che non c’è nessun disprezzo della realtà. Ma gli oggetti per me contano come specchi della mente. Io che ho la felice ossessione delle etimologie non posso dimenticare che tutta la famiglia delle parole "speculare", "speculativo", "specola", rimanda a specchio, cioè alla radice indoeuropea SPEK, che indicava il guardare durativo, focalizzato e fisso. Ecco, allora, che qualsiasi genere cambia genere. Perché, in ogni caso, scrivere per me significa usare l’immaginazione, nel senso che intendeva Einstein, cioè come capacità di penetrazione conoscitiva in cui l’intuizione pesca su un fondale tutt’altro che arbitrario. Dunque per me la realtà non è mai quella che si vede e si tocca (non sono un realista). Come realtà pensata, il tessuto informativo trova un momento di risoluzione in quelli che chiamerei "topoi della mente". Cionondimeno, non avverto come più importanti questi rispetto a quello. C’è una connessione indissolubile, anzi parlerei di orchestrazione, usando un termine musicale. Perché, in poesia, per me la musica è tutto o quasi. Senza contare che per me l’autobiografismo, anche in poesia, conta poco o niente, visto che da sempre ho la tendenza a rovesciarmi nella vita degli altri.
“Le stanze del cielo” è un titolo capace di sezionare il concetto di infinito in meravigliosi spazi appartenenti all’uomo. In questo consiste la “laicità spirituale” del poeta o meglio il suo panteismo espanso all’“indefinito”?
Non ci avevo pensato, ma mi ritrovo in questa tua ipotesi.
La libertà quindi è la religione dell’uomo, della quale però egli può essere privato anche senza propria volontà dalla malattia fino alla constatazione
dell’insufficienza della parola?
Sì, è così. E ancora di più. Perché ci sono le limitazioni e le catene che ognuno impone quotidianamente alla propria libertà, costringendosi a non vivere come vorrebbe. Può anche darsi che sia impossibile vivere nel pieno la libertà…
Si può parlare anche in te di correlativo oggettivo? I condannati del libro stanno alla libertà come ossi di seppia allo scheletro dell’uomo?
Qualcuno ne ha parlato a proposito della mia poesia. Ma non saprei dire se a ragione oppure no. In ogni caso, per me la realtà è quella pensata: sempre e solo quella. Ed è una realtà, evidentemente, carica di simboli e di riferimenti.
La mancanza di paesaggi e colori nella tua poesia connota una visione esistenziale che si analizza da dentro senza consolazioni esterne? L’amore per gli interni, quindi, potrebbe essere la ricerca di una stanza del cielo o comunque l’area di concentrazione forte del verso poetico?
Non è nominando i colori che fai colore, così come con gli odori o i sapori. A stimolare i sensi funziona di più l’allusione o la reticenza… Sarà per questo che un mio critico di qualche anno fa, Luigi Baldacci, ebbe a scrivere che a leggermi “si scatenano vista, olfatto, udito, gusto e perfino sensazioni tattili”. In ogni caso, è vero che prediligo gli interni agli esterni. Ma, in entrambi i casi, non descrivo mai. Immagino…
Ti senti di poterti avvicinare nei tuoi scritti poetici ad un’adesione alla poesia congetturale di Borges?
Borges è stato uno dei miei scrittori di riferimento, in particolare per la sua dimensione di pensiero. Anche per me la scrittura è sempre avventura mentale, di pensiero e immaginazione, come ti dicevo.
Avverto nei tuoi testi una mediazione molto bassa con il tema trattato
e con la voce parlante. Quindi il poeta è fingitore in quanto anche menzognero, o solo perché “nel suo pensier si finge” le stanze del cielo? La finzione, la menzogna possono, cioè, essere strumenti di verità, in quanto tramiti dell'immaginazione?
Sì, è proprio così. Del resto, la citazione da Pessoa è lampante. E non a caso Pessoa è uno dei miei scrittori preferiti. Condivido la sua stessa famelica tendenza a rovesciarsi nelle vite degli altri e a rappresentarla attraverso la “finzione” che è l’unico vero modo per conoscere. Il discorso ci riporta all’immaginazione. È l’immaginazione che riesce a rendere tutto più vero del vero, ma non realistico. L’importante è mantenersi in equilibrio tra conscio e inconscio e, a questo fine, l’unica facoltà capace di aiutarti è appunto l’immaginazione. L’unica in gradi di sfuggire al vincolo dei sensi e della ragione e di mettere in rapporto il mondo della psiche e quello della materia.
Più esperienze artistiche convergono nei tuoi testi, quella cinematografica con Fellini è quella che si avverte di più nell’icasticità della parola e nel montaggio degli interni, hai mai pensato di portare in teatro i tuoi ultimi due testi?
Io non ci ho mai pensato, ma ci hanno pensato gli altri. Ho anche scritto per il teatro, sia di prosa (un paio di commedie, appunto rappresentate) sia musicale (un paio di libretti d’opera, appunto musicati e cantati). Però scrivendo poesia non mi sono mai posto il progetto di teatralizzazione. Lo hanno fatto gli altri (registi e adattatori), sia per “Piccola colazione”, sia per “La gioia e il lutto” e perfino per “Le stanze del cielo”.
Per acquistare il libro:
http://www.unilibro.it/find_buy/Scheda/libreria/autore-ruffilli_paolo/sku-12787645/le_stanze_del_cielo_.htm
sabato 13 febbraio 2010
giovedì 4 febbraio 2010
"Ruth Fainlight, la Sibilla elegante" - di Patrizia Garofalo
La poesia di Ruth Fainlight (autrice cosmopolita, capace di fondere in sé diverse identità: quella inglese e quella americana, l'eredità dello spirito ebraico, con la sua perenne ed errante ricerca di un contorno mai compiuto e sempre fluente, e la reminiscenza del mito classico, archetipo remoto e già dato, eppure ricco di sfumature e di nuove possibili riletture) compie, attraverso la parola e la scrittura, un'opera assidua di demistificazione, di ripensamento, di straniamento del quotidiano attraverso l'irruzione improvvisa ed assidua, freudiana, del perturbante, di sovversione del tempo tramite la contaminazione (retroattiva o proiettiva) del passato nel presente, della giovinezza e dell'infanzia con i loro bagliori vividi e contrastati nella luce ferma della maturità.
“Ripartorirsi”, dice la Garofalo: mito ed immagine di rigenerazione, come nel rito della primavera, della fecondazione, dello sbranamento orfico e dionisiaco a cui consegue la perenne rinascita – ma in pari tempo, nell'ottica ebraica, messianica tensione escatologica verso il compimento e la redenzione, ma in un'ottica mondana, contingente, immersa nel quotidiano, senza estasi mistiche.
Redenzione e rinnovamento del linguaggio è anche la traduzione poetica, se a compierla è (con la collaborazione di Alessandra Schiavinato) un poeta come Paolo Ruffilli, che certo trova nella Fainlight un'autrice consentanea alla propria sensibilità più recente, per la consimile tensione verso una ricomposizione degli opposti (vita e morte, passato e futuro, maternità universale ed universale condizione filiale, od orfana).
E certo il poetare si riflette sul tradurre, il poeta non manca di imprimere la propria mano sulla materia della riscrittura.
«Her lips, though still full, meet firmly in a straight hard line» diviene «le sue labbra, anche se piene, restano serrate in una dura linea retta». La sentenza di Sibilla non si perde, come in Dante, "nel vento, sulle foglie lievi" - è, al contrario, pur nella sua ingannevole doppiezza (o forse proprio per rendere quella doppiezza ancor più penetrante ed insidiosa), fissata in sillabe limpidissime, nette, dure e taglienti, come diamanti.
«Into the deep stone bath of water» è, con meravigliosa concisione, «nel profondo bagno di pietra». Non si stenta a riconoscere, nella versione, la pronuncia netta, precisa, quasi tagliente, eppure dolce, musicale, melodiosa, di una levità e una sprezzatura quasi settecentesche, del poeta di Camera oscura e La gioia e il lutto.
Anche lo stile fluido, dall'apparenza sorridente, dalla sapienza dolce e mite, dall'allure al primo sguardo quasi mozartiana, è, invero, strumento di consapevolezza e di demistificazione. Stile ben consono, dunque, all'indole di una poetessa che (amica di Sylvia Plath negli ultimi, tormentati anni, prima che scendesse su di lei, sul suo affanno immedicabile, la nera pace della morte) ha cantato «womanliness, / and love, and anguish, and war», essere donna, e amore, e angoscia, e guerra, e nella poesia ha riposto la funzione, e la missione, forse impossibile, ma eroica e vivida, di sceverare l'intreccio di necessità ed imprevisto, legge indefettibile dell'esistere e mistero di ogni singola, irriducibile, vicenda esistenziale. (M. V.).
Mito e desiderio di cogliere l’eternità, pur consapevoli della caducità delle cose, trovano nella poesia vie di scampo al deterioramento del tempo; Ruth Fainlight, poetessa angloamericana (La verità sulla Sibilla, traduzione e cura di Paolo Ruffilli, Edizioni del Leone), attraverso la possibile verità della Sibilla e la musica di Orfeo, rinnova le stagioni e diventa, allo specchio, madre del suo essere bambina e rinnovata stagione della profezia del vivere.
La libertà della Sibilla è nella sua rinascenza in morte, quando potrà diventare «la faccia della luna – orbitando come lei / liberata dalla sua estasi oracolare / Solo una Sibilla può fissare in faccia il sole».
Non penso che l’articolo indeterminativo stia ad indicare i vari luoghi di venerazione della Sibilla, ma piuttosto una qualità; quella del poeta, che concede eternità nel coagulo di presente, passato e futuro non in successione, ma mescolati come in un gioco di carte: «Collocò l’età dell’oro nel futuro lontano / non nel passato remoto, ed era ostile / all’idolatria come un ebreo. Non cedette ad Apollo / la sua verginità, e non si mise addosso mai nessun profumo».
Come il poeta, prende le distanze dalla richiesta di chi nella menzogna le chiede di sentenziare, dalla stoltezza con cui gli uomini si appropriano di abiti non loro, alterando mente e corpo nel palcoscenico della follia, e comprende l’inutilità della parola; aspettando di prendere il posto della luna, «le sue labbra, anche se piene, restano serrate in una dura linea retta». Solo quando sarà svestita si offrirà autentica al dio, alla parola, alla rinascenza, al verso, alla scarnificazione, alla catarsi dell’acqua gelida «nel profondo bagno di pietra» per ridefinirsi nuovamente bambina, donna, ebrea, madre e poeta.
La prefica piange nell’odore di primordialità, nella tensione di specchiare immagini dentro sé, nel filo di vento «che alza l’angolo del tappeto un momento/ soltanto e poi lo lascia andare come se/ non fosse successo niente ma sai che non è così».
Il tempo lascia segni, rughe, ricordi, fastidi, intemperanze, nostalgie: «È duro segnare l’inizio del complesso di scontentezza / condiviso da ogni primate metafisico /… Ci sono giorni in cui immagino, lontano nel futuro, / qualcuno che mediti sul principio e sulla fine delle cose / piangendo i morti e prendendosi cura del suo giardino».
La metafisica, come tentativo di conciliare gli opposti e di cogliere nei meandri del pensiero l’ordinario come straordinario, conduce le liriche. La poetessa con intensa fisicità vive il tempo del ricordo strappandolo alla dimenticanza e affidandolo allo specchio con l’incisiva capacità di compattare i tempi in un unicum di versi scanditi da una cadenza rituale e da molteplici rifrazioni di luci .
Il rivedere abiti usati le fa scrivere: «La fine e l’inizio / della mia giovinezza, due / manichini in vetrina / che sembrano quasi vivi». E domandare: «Ditemi amiche la verità. Sentite pure voi / talvolta una furtiva e gaia indifferenza, / o meglio ancora, momenti straordinari / in cui state salutando con gioia il nuovo / viso che si è offerto allo specchio / come una madre – non la vostra, ma quell’altra / sognata – che – sempre – avete rincorso. / Il vostro viso, se ci provate, può diventare il suo. Lo deve». Ecco, in questo ripartorirsi credo consista la chiave del libro che dolcemente accetta il rinascere delle stagioni e sente la primavera palpitare sotto il freddo dell’inverno: «…le prime foglie fresche / intatte sembrano fragili coaguli arrossati e grumi / di carne aggrappati ai ramoscelli, come se / fossero venute qui di notte le baccanti / a compiere il sacrificio rituale della primavera, / e avessero gettato i brandelli sanguinanti / delle membra di Orfeo sui rami».
Il mito vuole che la testa di Orfeo scivolasse nell’acqua e continuasse a cantare prima di diventare la costellazione della Lira vicino alla luna, proprio lì dove Ruth Fainlight vorrebbe essere per sempre.
Patrizia Garofalo
“Ripartorirsi”, dice la Garofalo: mito ed immagine di rigenerazione, come nel rito della primavera, della fecondazione, dello sbranamento orfico e dionisiaco a cui consegue la perenne rinascita – ma in pari tempo, nell'ottica ebraica, messianica tensione escatologica verso il compimento e la redenzione, ma in un'ottica mondana, contingente, immersa nel quotidiano, senza estasi mistiche.
Redenzione e rinnovamento del linguaggio è anche la traduzione poetica, se a compierla è (con la collaborazione di Alessandra Schiavinato) un poeta come Paolo Ruffilli, che certo trova nella Fainlight un'autrice consentanea alla propria sensibilità più recente, per la consimile tensione verso una ricomposizione degli opposti (vita e morte, passato e futuro, maternità universale ed universale condizione filiale, od orfana).
E certo il poetare si riflette sul tradurre, il poeta non manca di imprimere la propria mano sulla materia della riscrittura.
«Her lips, though still full, meet firmly in a straight hard line» diviene «le sue labbra, anche se piene, restano serrate in una dura linea retta». La sentenza di Sibilla non si perde, come in Dante, "nel vento, sulle foglie lievi" - è, al contrario, pur nella sua ingannevole doppiezza (o forse proprio per rendere quella doppiezza ancor più penetrante ed insidiosa), fissata in sillabe limpidissime, nette, dure e taglienti, come diamanti.
«Into the deep stone bath of water» è, con meravigliosa concisione, «nel profondo bagno di pietra». Non si stenta a riconoscere, nella versione, la pronuncia netta, precisa, quasi tagliente, eppure dolce, musicale, melodiosa, di una levità e una sprezzatura quasi settecentesche, del poeta di Camera oscura e La gioia e il lutto.
Anche lo stile fluido, dall'apparenza sorridente, dalla sapienza dolce e mite, dall'allure al primo sguardo quasi mozartiana, è, invero, strumento di consapevolezza e di demistificazione. Stile ben consono, dunque, all'indole di una poetessa che (amica di Sylvia Plath negli ultimi, tormentati anni, prima che scendesse su di lei, sul suo affanno immedicabile, la nera pace della morte) ha cantato «womanliness, / and love, and anguish, and war», essere donna, e amore, e angoscia, e guerra, e nella poesia ha riposto la funzione, e la missione, forse impossibile, ma eroica e vivida, di sceverare l'intreccio di necessità ed imprevisto, legge indefettibile dell'esistere e mistero di ogni singola, irriducibile, vicenda esistenziale. (M. V.).
Mito e desiderio di cogliere l’eternità, pur consapevoli della caducità delle cose, trovano nella poesia vie di scampo al deterioramento del tempo; Ruth Fainlight, poetessa angloamericana (La verità sulla Sibilla, traduzione e cura di Paolo Ruffilli, Edizioni del Leone), attraverso la possibile verità della Sibilla e la musica di Orfeo, rinnova le stagioni e diventa, allo specchio, madre del suo essere bambina e rinnovata stagione della profezia del vivere.
La libertà della Sibilla è nella sua rinascenza in morte, quando potrà diventare «la faccia della luna – orbitando come lei / liberata dalla sua estasi oracolare / Solo una Sibilla può fissare in faccia il sole».
Non penso che l’articolo indeterminativo stia ad indicare i vari luoghi di venerazione della Sibilla, ma piuttosto una qualità; quella del poeta, che concede eternità nel coagulo di presente, passato e futuro non in successione, ma mescolati come in un gioco di carte: «Collocò l’età dell’oro nel futuro lontano / non nel passato remoto, ed era ostile / all’idolatria come un ebreo. Non cedette ad Apollo / la sua verginità, e non si mise addosso mai nessun profumo».
Come il poeta, prende le distanze dalla richiesta di chi nella menzogna le chiede di sentenziare, dalla stoltezza con cui gli uomini si appropriano di abiti non loro, alterando mente e corpo nel palcoscenico della follia, e comprende l’inutilità della parola; aspettando di prendere il posto della luna, «le sue labbra, anche se piene, restano serrate in una dura linea retta». Solo quando sarà svestita si offrirà autentica al dio, alla parola, alla rinascenza, al verso, alla scarnificazione, alla catarsi dell’acqua gelida «nel profondo bagno di pietra» per ridefinirsi nuovamente bambina, donna, ebrea, madre e poeta.
La prefica piange nell’odore di primordialità, nella tensione di specchiare immagini dentro sé, nel filo di vento «che alza l’angolo del tappeto un momento/ soltanto e poi lo lascia andare come se/ non fosse successo niente ma sai che non è così».
Il tempo lascia segni, rughe, ricordi, fastidi, intemperanze, nostalgie: «È duro segnare l’inizio del complesso di scontentezza / condiviso da ogni primate metafisico /… Ci sono giorni in cui immagino, lontano nel futuro, / qualcuno che mediti sul principio e sulla fine delle cose / piangendo i morti e prendendosi cura del suo giardino».
La metafisica, come tentativo di conciliare gli opposti e di cogliere nei meandri del pensiero l’ordinario come straordinario, conduce le liriche. La poetessa con intensa fisicità vive il tempo del ricordo strappandolo alla dimenticanza e affidandolo allo specchio con l’incisiva capacità di compattare i tempi in un unicum di versi scanditi da una cadenza rituale e da molteplici rifrazioni di luci .
Il rivedere abiti usati le fa scrivere: «La fine e l’inizio / della mia giovinezza, due / manichini in vetrina / che sembrano quasi vivi». E domandare: «Ditemi amiche la verità. Sentite pure voi / talvolta una furtiva e gaia indifferenza, / o meglio ancora, momenti straordinari / in cui state salutando con gioia il nuovo / viso che si è offerto allo specchio / come una madre – non la vostra, ma quell’altra / sognata – che – sempre – avete rincorso. / Il vostro viso, se ci provate, può diventare il suo. Lo deve». Ecco, in questo ripartorirsi credo consista la chiave del libro che dolcemente accetta il rinascere delle stagioni e sente la primavera palpitare sotto il freddo dell’inverno: «…le prime foglie fresche / intatte sembrano fragili coaguli arrossati e grumi / di carne aggrappati ai ramoscelli, come se / fossero venute qui di notte le baccanti / a compiere il sacrificio rituale della primavera, / e avessero gettato i brandelli sanguinanti / delle membra di Orfeo sui rami».
Il mito vuole che la testa di Orfeo scivolasse nell’acqua e continuasse a cantare prima di diventare la costellazione della Lira vicino alla luna, proprio lì dove Ruth Fainlight vorrebbe essere per sempre.
Patrizia Garofalo
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