mercoledì 13 gennaio 2010

Patrizia Garofalo, "'Occhi di zagara' di Paola Sarcià"



E tu vento del sud forte di zagare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi.

Questi i versi splendidi, potenti, sonanti, luminosamente lirici e mediterranei, che ad un poeta oggi troppo snobbato dalla critica accademica, Salvatore Quasimodo, furono ispirati dal profumo della zagara (un fiore che, diceva, se non erro, anche D'Annunzio, evoca il suo profumo con il solo suono, lieve, alato e insieme intenso, del proprio nome) - versi da raffrontare, forse, con quelli che Montale rivolse, invece, al gelido vento del nord, che è al contrario salvifico proprio perché blocca, paralizza, "suggella" sul nascere la vita con il suo assiduo, spesso doloroso, moto e mutamento, con le sue potenzialità angoscianti proprio perché indeterminatamente molteplici: "Ritorna più forte / vento di settentrione che rendi care / le catene e suggelli le spore del possibile".

Fiore che ha occhi di poeta, fiore dal profumato pianto, come dice splendidamente la Garofalo, la zagara è, rispetto alla ginestra leopardiana, simile e insieme diversa. Al pari di essa resiste, nonostante tutto, con la sua assurda e vana bellezza spuntata dalle asperità e dall'abbandono, alla dolorosa angoscia del vuoto; ma lo fa non con l'umiltà dello stelo "lento", flessibile, potentemente docile, della ginestra, bensì con l'intensità decisa, con la disperata gioia dei suoi colori (l'opposto del rifiuto montaliano del croco dalle tinte troppo accese e squillanti) e dei suoi afrori.

Ma, in definitiva, nell'un caso come nell'altro, il profumo non consola che i deserti, si innalza, come in "Ognissanti" di Manzoni, "ai deserti del cielo", in offerta generosa e vana, non vista, levata e consacrata ad una alterità e ad un'assenza - eppure in sé, e per il devoto offerente, e forse anche per il misterioso, eterno Altro, essenziale e vitale.

M. V.



“All’inizio fu la stanza dei bambini, con le finestre che davano sul giardino e oltre il giardino, il mare” (V.Woolf, Le onde)

“Fai sempre in modo che l’uomo sia figlio dell’attimo in cui roccia e mare s’incontrano” ( Heine )

Il mare, nella parola dell’autrice, assume una valenza fortemente musicale e, come l’onda e il suo dissolversi, diventa paradigma dell’inarrestabile corso della vita e del tempo perso e ritrovato, nostalgico e inclemente, inaccessibile e segreto, nascita e morte, parola e silenzio.

Una “battigia” semantica di parole cancellate e riscritte sulla riva del dolore , segnano la sabbia di sangue e di rinascite in un non allineamento sentimentale ed artistico che denota , in questa silloge d’esordio, l’onestà artistica dell’autrice.

La zagara è fiore forte, resiste al gelo pur nella fragilità del suo stelo rugiadoso, e ha occhi da poeta. Il fiore assunto a specularità di sé dalla poetessa viene a significare l’ossimoro dell’esistere nell’indissolubile connubio con gli abissi, il naufragio, la morte, la catarsi. Un libro di elaborazione del dolore nei confronti del quale l’autrice non si celebra né si offre vittima: con profumato pianto, diventa lei stessa la zagara che aspetta e nell’attesa si “ripensa” nel mondo dei sentimenti e del reale, suggerendo inconsapevolmente che il riscatto è proprio nello scriversi senza difese e rimozioni, e il suo dare forma al dolore mantiene inalterati i solchi del tempo, le cicatrici e la loro rielaborazione emotiva.

Paola Sarcià nell’accettazione di sé offre versi anche di un solo sintagma, imprigiona il tempo nell’urgenza dello scatto-immagine e, in modo icastico, ogni volta propone versi che incidono la pagina di una assoluta volontà di coscienza. Poesia quindi non immaginifica e sognata ma poesia dell’intelletto che ne contiene l’emozione. La silloge priva di memorialismo, di soggettivismo e personalizzazione costituisce un diario dell’anima; senza date di riferimento, titoli e senza patetismi persegue l’ipotesi di un “noi” come unici protagonisti del nostro attraversamento per mare.

Naufrago
nei tuoi occhi di mare
approdo sicuro
il tuo corpo
pone fine
al mio errare

Tutto
è
ombra e luce
un mare d’acciaio
riflette
la mia anima

Ostinata
perseveranza
fino al dolore dell’anima
fino a quando anche il dolore
si è arreso
all’essenza
di un’assenza
che spegne il fuoco
e prosciuga
il mare

Quest’ultima lirica, la cui incisività concettuale crea un forte impatto emotivo, segna un doloroso prosciugamento della sostanzialità dell’esistere nell’assenza,

L’intensivo iniziale “ostinata-perseveranza” si espande nel cielo che sembra scientemente raccogliere il dolore di una donna e smettere di risorgere luminoso .

Nella paronomasia (essenza –assenza), Paola Sarcià sfida la deriva dell’essenza nella sostanzialità dell’assenza, del vuoto, del baratro che tutto prosciuga, anche il mare - ma non la vita che continua ad essere fissata nel susseguirsi delle liriche con la “fede” di chi crede che il vivere vada scritto per non essere cancellato, e per rinascere alla vestale-poetessa come fuoco inestinguibile.

Inseguendo un profumo
di salsedine
ho confuso
le onde
con le nuvole
e
atteso una notte
di stelle di mare

Una tavolozza d’infinito confonde in un continuum mare e cielo, li profuma di salsedine e trasporta le stelle nel fondo del mare. Ho parlato dell’autrice come poetessa del mare per la varietà di etonimi che sono ad esso attribuibili e sempre così profondamente da sentirne sensibilmente la fisicità anche quella memoriale della nascita e del ritorno, del naufragio e dell’approdo.

“Luna d’Asia / dominatrice / seducente / di vascelli / in cerca / di rotte". Lo spaesamento e il dolore diventano viaggi per mare in cerca di ammaraggi e affidati alla luna, illuminata compagna di viaggio, cifra della solitudine poetica che in simbiosi con il creato rielabora in “fermo-immagine / lo scorrere della follia", in un “ fragore di onde / di spuma / di alghe”; “…l’onda sovrana / sfida la roccia / violenta di cicale /e di fronde nodose…".

Nella ipallage sorprendente in cui la roccia diventa attesa dell’incontro con il mare trovano il loro definirsi i versi di Heine citati in apertura, e il mare diventa il ritorno alle radici dell’autrice, la quale così definisce la sua poesia: "Pensieri / diafani / indistinti / si spandono/ sulla carta / polvere di sabbia…”.

Il mare è ancora “terra” di una bambina che scrive e gioca sulla sabbia, di una donna che ha “scavalcato mura d’ansia… / di labbra stuprate / di radici ferite", foriero di un’ancora probabile
“gita al faro” con tutte le nostalgie che comporterà. Sarà la Sicilia ad accoglierla e lei a “ripensarsi” nel luogo dell’anima, nella assolata terra del padre, e l’andamento lento dei versi la proietta, riconciliata, verso un approdo:

leggero il mio cammino
su questa terra
di ulivi gravidi
di fichi d’india
protesi in un abbraccio
al cielo
di agavi in fiore,
illuse
di distrarre la morte-
Di questo luogo
mi riconosco
figlia
e non più
errante
in un cielo opaco
fra vicoli
senza orizzonti
di una città antica.
Nello specchio
l’immagine riflessa
l’arcano richiamo
di terre assolate
levigate dal vento
bagnate dal mare

La Vestale non ha accettato il fuoco spento, ed esso si riaccende epifanico dentro di lei

Nella mia anima
in punta
di piedi
sono



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martedì 12 gennaio 2010

Elisabetta Brizio, "La grigia 'povertà cogitabonda' nella poesia di Marino Moretti"

La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la sua voce
la sirena del mondo e il mondo è un grande
deserto. Nel deserto
io guardo con occhi asciutti me stesso.


Camillo Sbarbaro


Chinar la testa che vale?
Che vale fissare il sole
e unir parole e parole
se la vita è sempre uguale?

Marino Moretti



Oppressi dalla dannunziana mitologia del poeta-vate i crepuscolari ostentano una povertà stilistica e di contenuti, attenuano i grandi motivi decadenti e decantano la propria incapacità di sostituirli; in tutti c’è l’aspirazione a distanziarsi da esperienze poetiche di carattere assertivo, vale a dire dagli esiti naturalistici o più tipicamente civistici carducciani, dal modello dannunziano, ma anche da Pascoli, che pur con un eccesso di malinconia, l’attenzione verso le piccole cose o la scelta regressiva dice sempre e comunque qualcosa che è, non che non è. La poesia viene dai crepuscolari fatta passare per qualcosa di diverso dalla poesia: è antilirica confessione della negatività, priva di riferimenti, nonché di destinatari, smascheramento - più o meno irriguardoso - della falsificazione. E il presupposto comunicativo della negazione crepuscolare è un rifiuto delle ideologie non ideologicamente caratterizzato: un disconoscimento - di secondo grado dunque - della possibilità stessa che sussistano ancora dei significati.

Della poesia i crepuscolari inverano la morte e una condizione aurorale, aspetti compresenti nell’ambivalenza sottesa alla metafora del crepuscolo che Giuseppe Antonio Borgese inaugurava su “La Stampa” nel 1910:

A interrogare il gran pubblico, si direbbe invece che dopo le Laudi e i Poemetti la poesia italiana si sia spenta. Si spegne infatti, ma in un mite e lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte. Presso un popolo ricco di energie creatrici come il nostro la lirica esaurita sonnecchia stanca, ma non dorme e non muore. In una morbida ignavia soffusa di vaga inquietudine si confondono gli ultimi sospiri di una grandezza che fu coi primi sommessi balbettii di una grandezza che verrà un giorno alla luce, e il chiarore del tramonto si protrae fino a disperdersi nei primi raggi dell’alba. (…). Ecco tre giovani poeti crepuscolari - Marino Moretti, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves - che sono indubbiamente tra i migliori rappresentanti di una scuola poetica ogni giorno più numerosa: quella dei lirici che s’annoiano e non hanno che un’emozione da cantare: la torbida e minacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare.

Marino Moretti - nella trilogia che annovera Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911) e Il giardino dei frutti (1915), cui seguì un lunghissimo, emblematico silenzio poetico protrattosi fino a Diario senza le date, uscito solo nel 1965 - accondiscende all’atmosfera crepuscolare attraverso un impoverimento tanto delle emozioni che della valenza d’eco sia del catalogo oggettuale che dei luoghi del crepuscolarismo. In lui l’obiezione al naturalismo e allo storicismo avviene in una dimensione strenuamente ironica, nell’intrattenersi con una realtà poetabile solo per diminuzione. Non siamo nell’orizzonte della riduzione mallarmeana (pur se umanamente, tragicamente sentita come algida distanza dal mondo, e dunque richiamata, anche se per mediazione intellettuale, entro la sfera di una dolente e tormentosa esistenzialità esperienziale) verso la purezza, né di quella corazziniana verso l’essenzialità e l’astrazione linguistica delle ultime raccolte, nelle quali il soggetto lirico-empirico delinea l’esito di un divenire che tragicamente accede al punto d’arrivo. Con evidente intenzione mistificante - ma fino a che punto? - Moretti esibisce, come uniche emozioni, un cupo grigiore e la noia della vita. Ma sovrappone a tali referti la propria inclinazione riduzionistica vistosamente diminuendoli, e filtrandoli attraverso uno schermo che li riduce fino a rivelare della realtà la sua qualità “lillipuziana”:

Tu vedi: la mia stanza è un bugigattolo,
tu vedi: la mia penna è una matita,
e la mia vita, la mia dolce vita
è come l’arte, un gioco od un giocattolo

(Parole al fratello dispotico, Poesie di tutti i giorni).

Il celebre morettiano “nulla da dire” potrebbe assimilarsi all’indebolimento del verlainiano “Plus rien à dire!”. Il "nulla da dire" di Verlaine (nel celebre sonetto Je suis l'Empire à la fin de la décadence) è comunque inserito in una visione storica quasi vichiano-spengleriana (la decadenza tardo-ottocentesca è rivissuta, individualmente, come eco o riverbero delle tante decadenze di cui è tramata e intessuta, nella ruota dell'eterno ritorno, dei corsi-ricorsi, la storia, e in particolare di quella tardo-imperiale, che tanto affascinò gli spiriti di fine secolo, da Huysmans a Pater).

L'afasia di Moretti può invece apparire più individuale, intimistica, provinciale, marginale, perciò talora anche fastidiosa, oltreché povera di significati letterari e culturali, proprio perché scissa da una percezione della profondità storica e del divenire dei secoli.

Nondimeno, che anche il non-dire possa essere paradossalmente fonte di poesia, che anche il mutismo e il non senso possano generare suono e significato, per quanto grigi e smorzati, è idea molto moderna, che sta, ad esempio, alla base dell'alea musicale così come del teatro dell'assurdo - mentre il théatre du silence di Maeterlinck era dominato da un silenzio espressivo e significante, da una pausa che poneva in rilievo la parola, come in un gioco di chiaroscuro, come l'ombra nella pittura, come il silenzio, la reticenza, la pausa, l'indugio, nella letteratura e nella musica.

Il nulla da dire invade anche i morettiani luoghi della retrospezione e si intreccia con il rammemorare, con la regressione, come in Il ricordo più lontano, posto a chiusura di Poesie scritte col lapis. E tale tendenza al regressus accomuna il poeta agli altri crepuscolari, con la differenza che egli finisce per reificarla sul piano formale attraverso la diminuzione, la ricorsività dei ritornelli, l’ironia gratuita, quasi a tratteggiare un crepuscolarismo ormai fatiscente (scriveva parecchi anni or sono Luigi Baldacci che leggendo Moretti si avverte la sensazione che egli sia intervenuto nel momento in cui la poesia crepuscolare si era pressoché esaurita), come nella dichiarazione apertamente programmatica - e ormai non più neppure antidannunziana - della sua poesia-prosa, emblematizzata nella metafora del frutteto:

Ecco dunque la mia prosa, la mia prosa-poesia

(…)

Qual mia gioia più sincera se al gentil visitatore
che mi chiede a caso un fiore, glielo do con una pera?

(Il giardino dei frutti).

E viene spontaneo qui l’accostamento alla più nota e fors’anche più sottile esternazione di Gozzano, contenuta in L’altro:

Buon Dio, e puro conserva
questo mio stile che pare
lo stile di uno scolare
corretto un po’ da una serva.

Rispetto al più scaltrito Gozzano, il cui prosaismo, com’ebbe a dire Montale, viene sapientemente e imprevedibilmente coniugato con “l’aulico”, con la componente della tradizione, con l’esibizione di una letterarietà travestita da dimessità che ne legittimerebbe la classicizzazione, Moretti, si diceva, sembrerebbe descrivere l’esaurimento del crepuscolarismo, codificarne una versione epigonica e talora quasi caricaturale.

Un crepuscolarismo, quello di Moretti, eideticamente devitalizzato, deprivato di sensibilità e di inquietudine, quasi compiaciuto di stazionare su una ontologica e poetica nihilitas nella quale l’inaridimento viene apparentemente vissuto senza ombra di pathos. Con questo, la morettiana prosa-poesia non è tuttavia esente dal coefficiente aulico: come in Gozzano, la componente letteraria viene solo accortamente dissimulata, e con loro, come poi con Montale, la questione del sublime d’en bas e sublime d’en haut, tra “sublime inferiore e sublime superiore”, come notava Edoardo Sangiuneti, diventa eminentemente una questione tra sublime e non sublime.
La poesia di Moretti si presenta con metrica e forme chiuse, e con l’ostinazione della rima; resistente al verso libero, la sintassi morettiana mostra comunque forti spezzature (ad esempio in A Cesena), con prevalenza di enunciati paratattici sprovvisti di segni funzionali. Lo accomuna a Gozzano un’ironia che impegna il lettore in una decodifica della semanticità del linguaggio poetico, nel tentativo di decifrare il livello profondo dell’espressione. Con Gozzano Moretti condivide anche la dimensione della inafferrabilità del soggetto dell’esperienza, ma rispetto al poeta torinese, che costantemente si propone per poi immediatamente smentirsi, Moretti evita finanche di proporsi, restando al di qua di qualsiasi affermazione:

Aver qualche cosa da dire
nel mondo a se stessi, alla gente!
che cosa, io non so veramente
perch’io non ho nulla da dire

(Io non ho nulla da dire, Poesie di tutti i giorni).

Che senso ha dire in poesia “io non ho nulla da dire”? È una forma di negazione della poesia in quanto tale? Verbalizzare un nulla da dire alluderebbe a un segno più radicale rispetto alla corazziniana negazione, al palazzeschiano divertissement o alla gozzaniana vergogna di essere poeta. Forse è una maniera estrema per non assoggettarsi alla falsificazione: non dire nulla equivarrebbe a non dire menzogne, ad astenersi dal mistificare, dove l’indolente ironia permette al poeta di non sbilanciarsi tra i due eccessi, o poli, dell’azione e dell’astensione. Un inclinare all’impartecipazione, ovvero, per dirla alla Gozzano, alla “rinuncia volontaria”, che talora nondimeno si esprime in forme e toni maggiormente assorti e riflessivi:

Felicità, cosa che sa d’amaro,
parola che si lascia dire e ride,
fior che fiorisce come un frutto raro,
gioia che il cuor sopisce ma non uccide;

felicità, larva di donna, riso
di donna, occhio di donna, ombra di donna,
seppi io forse il tuo gran rombo improvviso,
rabbrividii nel tuo bacio che assonna?

E se la stringo al mio cuore soave
la chiave della mia casa solinga,
felicità, forse t’ho chiusa a chiave,
fior, gioia, donna, infelicità?

(Cosa e parola, Il giardino dei frutti)


A Moretti, rispetto al liricissimo Corazzini, alla sovrabbondante ispirazione di Govoni, al Gozzano perlomeno delle Farfalle, non pertiene quella tendenza a entrare in sintonia - seppure per sottolinearne lo scarto - con le forze cosmiche, in una mistica corrispondenza con il mistero. Così come gli è estraneo il corazziniano indulgere all’ondulazione e alla stilizzazione, quell’andamento a volute, quelle linee curve del verso che ad alcuni crepuscolari derivò dal liberty - vibrazioni e volute di puro suono, ma implicate anche negli innumerevoli simboli tratti dal mondo della natura, di ascendenza simbolista e soprattutto maeterlinckiana.

Quella vicinanza, in altri termini, alle soglie del segreto pare in Moretti risolversi tutta nel prosaismo dell’esperienza e della parola. Laddove l’elemento strutturale, enunciativo, portante mai viene scorporato da ciò che evoca, conservando una consistenza fenomenologica espierenziale ricercatamente minimale.

Un’esperienza eminentemente grigia (“non c’è che un colore: / il grigio”, Che vale?), colore debordante nei versi di Moretti, che sottentra al bianco corazziniano, tonalità del silenzio e della morte. Grigia è la domenica di provincia, pervasa dal grigiore dello spleen crepuscolare:

Voglio cantare tutte l’ore grige
in questa solitudine remota
mentre ripenso, pallida, a una gota,
mentre rivedo, piccola, un’effige

(Che malinconia!, Poesie scritte col lapis);

Non c’è né duolo, né gioia
non ci son luci, né ombre:
il grigio, il grigio che incombe
sui cuori e un tarlo, la noia!

(Che vale?, Poesie scritte col lapis)

Il grigio di Moretti è il colore dell’inazione (l’antecedente crepuscolare è Armonia in grigio et in silentio del più “barocco”, impressionista e coloristico Govoni), è colore che collima con la noia, è il tono smorzato dei segni del lapis, della malinconia e della “tetraggine” (“malinconia / del tuo color che non è più colore”, Ode al lapis). Un “grigio borgo” dove piove e “s’avvicina / l’ombra grigiastra” è Cesena, grigie sono le ore, “grigia è l’immensità in La domenica di Bruggia, grigio il diurno morettiano vagabondare (“lentamente camminando / per la città sconosciuta / dove nessuno mi saluta / fuorché un cane a quando a quando”, La domenica dei cani randagi). La malinconia delle mezze tinte si ricollega all’astensione, al nulla da dire come indistinzione del segno riluttante a significare. Il girovagare, si diceva, il nulla da fare, già sottolineato da Borgese: un vagolamento, un far passare il tempo che non assumono il carattere crepuscolare del notturno come esperienza estetica (stando ai ricordi dei crepuscolari del cenacolo romano) o come insofferenza al vedere quanto lo scopo non-scopo di esteriorizzare il nulla da dire. Nulla da dire e nulla da fare si legano all’idea di versificare durante questo inconcludente vagabondare, nel quale il poeta sembra pago

d’una felicità fatta di cose
randagie, di brevi atti di passanti,
di ritornelli facili, di pose
vecchie d’innamorati interessanti

(A Firenze con Palazzeschi).

La poetica dell’oggetto, del proverbiale oggetto crepuscolare, antefatto letterario del montaliano correlativo oggettivo, subisce con Moretti una sensibile deviazione. Se in Corazzini l’oggetto era il compimento di una visione o la simbolizzazione di un’ossessione emotiva, ovvero l’incarnazione materiale dell’anima, in una parola, “un altro me”, deperibile e soggetto a consunzione, segno d’elezione dell’estrinsecarsi dello spirito, in una relazione paritaria con il soggetto lirico (una variazione del mondo reale dal punto di vista del soggetto), in Moretti l’oggetto trascende il soggetto e sancisce tale distanza conservando una dimensione più realistica e meno astrattiva, e patisce la trasfusione di una mancanza di sentimento. In Moretti gli oggetti non paiono in alcun modo emotivamente o esistenzialmente connotati se non in modo implicito, silente, che eventualmente sarà decifrato dal lettore. Mentre in Govoni la fusione tra il soggetto lirico e l’oggetto è esemplare, in Palazzeschi c’è l’oggetto vuoto, la cosa nuda (“Oro doro odoro dodoro”).

L’indifferenza permea e impregna, avvolge e imbeve anche lo stile di Moretti, che si qualifica come stile al grado zero, insieme alla fredda luce degli oggetti e degli ambienti, che riflettono in modo solo implicito, senza alcun romantico o decadente analogismo, l’assenza di un vero autentico stato d’animo.

Ma non alla maniera del superegotico Gozzano, riempiti di ironico rimpianto, talora sbeffeggiati, ma saturi comunque di un contenuto soggettivo, di un’aura di passato ormai cristallizzato, la sola consistenza che Gozzano riesca a padroneggiare, a fruire, oltreché l’unica a distanziarlo dal presente e da ogni inquadramento ideologico. Il rituale che Gozzano inscena con la poetica dell’oggetto è in vista dell’edificazione di una sorta di “altare del passato”: e il carattere di passato che pervade i versi gozzaniani sopperisce a una tutt’altro che metaforica vacanza di presente.

Gli oggetti di Moretti rivendicano la propria autonomia, e malgrado talora dessero l’impressione di adombrare una evasione, una qualche risonanza, hanno una dimensione univoca e inequivocabile, sono concreti e letterali, per usare la definizione che Roland Barthes associava agli oggetti robbe-grilletiani. Il morettiano oggetto fattuale dunque fa la cosa senza svelarne alcunché. Moretti non ne sperimenta né la vita né la dissoluzione, né li assume, gozzanianamente, come obsoleti nella loro assoluta fissità, e neppure sono obsolescenti come le corazziniane cose “che sanno”, in una poesia dove poeta e oggetto condividono lo stesso destino in una comunione indivisa. E in Corazzini a ragione si può parlare di metafisica dell’oggetto e della prospettiva cosale.

Inoltre, il repertorio oggettuale della poesia di Moretti introduce elementi che esorbitano dal consueto catalogo crepuscolare e in parte già simbolista: l’orario ferroviario, il libro contenitore dei sogni (“tutte conosci le città dei miei / sogni e paesi che non vedrò mai”), e che tanto doveva affascinare Marcel Proust, il quale diceva quanto il suo essere spirituale riuscisse - fantasticando sull’orario ferroviario - a travalicare le “barriere del visibile”, attingendo nel suo stato di reclusione a “voluttà profonde” nella “fascinosa evocazione di quei paesi di luce e di vita”.

Insieme all’orario ferroviario, l’ascensore, il telefono fanno la loro comparsa nei versi crepuscolari, tuttavia deprivati della loro componente usufruibile. Come accade in Ascensore (in Poesie di tutti i giorni, poi non confluita nell’edizione mondadoriana del ’49), “questa celletta piccola e imbottita / che va su che va su”, e in Telefono (anch’essa espunta dall’edizione del ’49):

Sei tu! sei tu! la voce mi giunge
da una profondità d’anima oscura:
ho paura di te, di quest’ordigno,
che al mio povero cuor che più non sogna
dona la voce tua, la tua menzogna
come per uno spirto maligno.

In Moretti non assistiamo al transfert del soggetto nell’oggetto, né a quello che sarà il montaliano passaggio dal fisico al metafisico (come superlativamente nella metafora del muro). Nondimeno, anche in Moretti si verifica uno sconfinamento nell’extraoggettuale: nel monologante dialogare con l’anima, “la dolce anima” di La domenica di Bruggia (testo che riecheggia il titolo del rodenbachiano Bruges-la-Morte), l’”animula da nulla” di Parole al fratello dispotico, e con la Musa, figure vigilanti i grigi segni del lapis.

Oggetto eccentrico, il lapis (per una esemplare interpretazione di Ode al lapis e della poesia di Moretti rimando a Il “lapis” di Marino Moretti di Silvio Ramat), metafora dell’indecisione e dello svaporare nell’invisibile, rispetto agli altri oggetti morettiani nei quali, si diceva, si percepisce una consistenza quasi esclusivamente letterale. Il lapis emblematizza la crepuscolare poesia in tono minore, è prossimità con la consunzione e quindi con il silenzio e il dileguare, è inattitudine a edificare alcunché di duraturo nel tempo. Quale legittimazione del nulla da dire, il lapis tratteggia una poesia preparatoria, è prefigurazione al dire, un dire embrionale in gozzaniana “perplessità”, di sostanza di attesa. Il lapis prefigura lo scolorare dell’attesa, l’evento salvifico del verbo che nondimeno è predestinato a svanire, ma non per questo a fallire:

Poi che se vane furon le parole
che ombrasti appena su le nuove carte
e non ebbero i fremiti dell’arte
perché non germinarono nel sole,

dolce mi fosti e dolce mi sarai
compagno tu nella solinga vita:
vedi, la vecchia penna è arrugginita
e non v’è inchiostro più nei calamai.

(Ode al lapis, Poesie scritte col lapis).

Condizione liminare - quello che resta dell’intenzionalità artistica -, mozione verso l’espressione e indecisione perpetua, il lapis lambisce la parola ancora da dire. Perché, scrive Moretti,

E’ triste. Credetelo, in fondo
è triste. Non essere niente!
Sfuggire così facilmente
a tutte le noie del mondo!

Sentirsi nell’anima il vuoto
quando altri più parla e ragiona!
Veder quella brava persona
imporsi un gran còmpito ingoto!


(Io non ho nulla da dire).


Dice Claudio Di Scalzo, in una delle sue iperboliche “scritture supplementari” (come La maschera funebre di Sergio Corazzini) in margine ad autori amati:

scrivere è il sonno turbato da cento scricchiolii / scrivere è una corsa lungo mura in cattiva salute / scrivere è un volo controvento convinti d’esserne sospinti / scrivere è l’ispirazione sotto vuoto spinto / scrivere è la punta della matita trattata male / scrivere è la trapunta per il velo di una sposa senza attributi / scrivere è la tortura di una penna che ti solletica il cuore / scrivere è un vestito fuorimoda rovesciato / scrivere è il passo lieve sul terreno d’altri / scrivere è rivolta con la lingua capovolta / scrivere è l’avvenire di una mosca che non ha deposto uova / scrivere è uno scivolone sui cornicioni umidi del testo / scrivere è salire una scala malferma che porta alla soffitta di tutti / scrivere é tutta la mia cattiveria (da Rigagnolo senza sorgente per l’orto di Moretti, 1978).

Scrivere dunque, anche stilando con il lapis, per demitizzare la storia e per vaticinare una presenza seppure intrisa di una “povertà cogitabonda” (L’albergo della tazza d’oro) consapevole dell’inattingibilità a una oltranza, scampata comunque sia all’inerzia che a ogni volontà di costruzione: eluso ogni compromesso sentimentale, nonché poetico, resta la libertà “irresponsabile” dell’assenza di scarto tra la vita e la poesia. Le “cognite cose”, dal canto loro, continueranno ad appartenere al mondo:

Essere sempre come un’ombra,
come un’indistinta forma di passante
fra le cognite cose, fra la gente:
essere un’ombra che, fra tante, ha un nome.

(Angolo d’hortulus, Poesie scritte col lapis).

domenica 10 gennaio 2010

UNA CROCIFISSIONE DI RINASCITA. RICORDO DI MARIBRUNA TONI PITTRICE E POETESSA










Nel caso della compianta Maribuna Toni, l'oraziano ut pictura poesis non è una frase fatta o una citazione scontata, ma trova verificato il proprio significato segnico, il proprio valore semantico - parole deposte, stese sulla pagina come tratti di pennello, campiture cromatiche, pennellate incisive, contorni, espressioni.

Quadri, quelli dell'autrice, singolarmente divisi tra il figurativo e l'informale, con qualche forma, qualche tratto o memoria di realtà che affiorano ed emergono a fatica, con sofferenza - e il colore, la materia pittorica trasudano quella sofferenza, e nel contempo disperatamente la redimono - il volto della donna è sfigurato, ma nello stesso tempo inverato, celebrato quasi, dal suo risolversi in pura forma, puro segno, pura sostanza grafico-pittorica.

Lo stesso spasimo del pensiero che esce, che si sprigiona e rampolla dalla materia delle parole, dalla creta e dai pigmenti del linguaggio, come la forma dal blocco e la visione dal bianco della tela, credo di poter scorgere anche nei brani di poesie citati da Patrizia Garofalo nella sua affettuosa rievocazione.

La pittrice poetessa (per la quale certo la poesia era un'appendice, un corollario, della pittura, senza per questo essere marginale, ma acquisendo, piuttosto, il valore di un completamento e di un commentario) depositava, per parafrasare Ardengo Soffici, le parole sulla pagina come il pittore i colori sulla tela.

Viene in mente (non tanto come pittore, quanto come poeta) De Pisis. "ciglia, occhi-ciechi / anima vegetale / che s’offre abbacinata a la luce, / fronte, bocca, mento, cuore". "Dal muro alto sporgono / alberi spogli / forche, braccia, grucce". Parole-segni, tracce-emblemi deposti ed accostati, appunto, sulla pagina-tela, così come si assommano e si affollano sulla scena ilare e tragica del mondo e nello spazio, ammaliato o contorto, dello sguardo.

Come in Maribruna, con un'intensità esistenziale e simbolica se possibile addirittura maggiore:

I muri asciutti
e vinti,
un fondo congelato
che si staglia
e ritaglia i bordi
dei rami,
cinerei fiumi,
sbuffi di terra d’ombra
delle ciminiere
su un fondo cupo
di lavagna.


(M. V.)


“Ho innalzato / su piedistalli di cartapesta / idoli di creta / poi è piovuto./ E ora/ i basamenti son poltiglia / e gli idoli / soltanto una fanghiglia /
Resta intatta solo la memoria / incisa a fuoco dentro la mia carne / così il passato diverrà presente”.

La memoria fa da collante, da tessuto all’oggi di cui siamo protagonisti e responsabili. Nessuna condanna anche nei versi più esasperati dell’autrice,
se non a se stessa che non ha saputo né voluto essere diversa e ha sentito e cantato la pena del disincanto, dell’inganno, dell’amore non ricevuto, dei sogni trovati impiccati alle sbarre: “suicidi disperati per paura / che li uccidessi con l’indifferenza”. Ma l’indifferenza non regna in nessuno dei suoi versi, la ricerca di autenticità è esasperata al punto di affidare a scrigni, segreti, dolori, amori, se stessa e le sue ceneri, in groppa ad un‘onda che la porti lontana e la congiunga al cielo.

Una tavolozza di colori che si mescolano e diventano parola poetica , sconvolgono di pennellate le stelle, il pianto, la vita e la morte e l’ordine delle cose; la ricerca del colore diventa trascendenza, spiritualità, infinito.

Se il mondo non ha voluto entrare nel suo giardino, darle la mano e conoscere “il mio bosco, il mio lago e le foreste/ i paradisi o i magici miraggi di oasi incantate / i giochi, le canzoni, le risate / i flauti, gli organi i violini", la poetessa lo terrà con sé racchiuso nella “veglia della morte mia” dove "non c’è olio sufficiente/ per riaccendere/ il lume dei ricordi", e attraverserà la vita consapevole che l’uomo ha già, da sempre, sostituito l’amore di una carezza con l’indifferenza, elemento in lei presente solo come linea di demarcazione dal suo mondo e mai possibile rifugio al dolore, quale invece la suggerì Montale.

Maribruna penetra il mondo con una fisicità sorprendente, con un’aderenza d’anima che via via si fa sempre più metamorfosi panica con gli elementi della natura, con la quale gioca a vivere creando mosaici puzzle di cui lei stessa è tessera integrante: ”ho razzolato/ tra le nubi/ che concimavano solchi di mare: / cercavo la luna / se ne stava nascosta / pudibonda/ tra le rughe della notte".

Notte che Mariarosa vive nelle sfumature e negli echi delle conchiglie, dei silenzi, delle albe attese, nei tramonti che lasciano tralucere ombre, mistero, ignoto, nella preghiera di un pianto che ristori mentre la luna si specchia sul mare, popolato di “meduse / flaccide e dolenti / racchiuse nel pallore tremolante / di una morte recente".

Consapevole che basterebbe “la svirgolata d’ala/ d’un sorriso” a parare a festa una solitudine, inventa cieli e farfalle e bagliori e ombre fatate, pleniluni tremuli d’acqua e di mare, d’incanti e di salsedine, di bleu cobalto e di meraviglia e di tutto questo stupore si farà “ vestale d’amore” per sempre.

Intense nel dolore che le incide le parole di Giovanna Vizzari: “se non c’è chi ti ascolta a che pro aprirsi ad una vertigine di suoni, meglio nascondere la scoperta del male come un virus e amare indifferentemente uomini e cose a loro insaputa”. La poetessa aveva risposto già alla prefigurazione della sua fine con il silenzio del suo urlo, perché la poesia è anche elaborazione del dolore ma non della propria morte che faticosamente si dipinge e si scrive.

Di essa Maribruna vive la sua investitura per l’infinito.

Mi vesto di paillettes e di perline
mi velo di voiles e di chiffons,
mi lego il collo, le caviglie, i polsi,
con le fredde catene dei bijoux.
Mi ha messo anche un diadema sulla fronte
e un nastro di seta allo chignon,
un anello di ametista al dito
ed alle orecchie due pendents.
Adesso sono pronta per la festa
eccomi prostituta per la strada.
Sono di tua proprietà.
Tu sei il padrone.
Ed io la tua puttana.

Un'investitura solitaria e disperata che non trova conforto se non nell’abbandono di un mondo in cui neanche i gabbiani hanno più ali, il corvo perseguita il sonno, le rondini sono fulminate e le vene sono trapassate inutilmente da aghi, analisi e camici bianchi, il sole è talvolta vissuto come incanto “ubriaco” ma sempre più presenti insistono coni d’ombre, silenzi che neanche nella tela distendono più il colore; resta l’ urlo silenzioso: ”il grido muore / e mi gorgoglia in gola", e la mano che non si distende sulla tela “ha solo dita adunche / chiuse a pugno / rattrappite / in un’imprecazione”, e solennemente addita da lontano la morte come unica nostra proprietà ineludibile.

Ma la vestale non spegne il fuoco , non si spoglia della veglia, non smette di custodire, vive da cieco vate “tra tenaglie d’onde / ripiegate/ in lamine di fogli / di latta / in una lotta / liquida spirale / di cavalli / e creste”, e dona ceneri di vita. “E mentre il vento/ ti si aggrappa in grembo / prendi il mio cuore / e inchiodalo ad un palo / per una crocifissione di rinascita".
Patrizia Garofalo