domenica 3 luglio 2016
Giselda Pontesilli, "Su 'Fare di questo' di Carlo Bordini"
Come affiora dalla lettura sensibilissima e sommessa di Giselda Pontesilli, la poesia di Carlo Bordini sembra sorgere, e trarre alimento ed energia, precisamente da quell'"enorme secondarietà della letteratura" di cui parlava Amelia Rosselli, dalla "grandezza" e dalla "pazienza" infinite del nulla, del silenzio e del bianco su cui fluttuano e palpitano, diceva Beppe Salvia, le parole della poesia - Salvia che infine gettò nel bianco abisso di quel nulla anche la propria voce e la propria vita.
Ma sono - dicono o suggeriscono i versi di Bordini - la vita stessa, l'arte stessa, l' antica e profonda energia che dà corpo, trasfondendovisi, alle manifestazioni e ai monumenti della civiltà, a prendere forma, in fondo, proprio dallo scarto, dal detrito, dalla reliquia, da ciò che sopravvive dopo la combustione della forza vitale e creatrice che si estenua'e si spegne per rinnovarsi, come una fenice, ad ogni svolta di un'eterna anaciclosi.
Anche la morte, la sofferenza, il sacrificio - anche la crudeltà e la distruzione di cui inconsapevolemente ci rendiamo artefici e colpevoli - trovano, nell'economia di questo grande opificium mundi, un proprio ruolo, una propria significazione, se non una giustificazione.
Ma questa lucida consapevolezza, ripetto a cui il lirismo non è evasione o nascondimento, ma presa spietata di coscienza, potrà un giorno essere trasfigurata e rendenta in un'innocenza sapiente, nell'infanzia ritrovata e antichissima del puer aeternus.
Sapienziale candore, scavata e stratificata trasparenza, mistero in piena luce, questi, che si riflettono anche nella lingua e nello stile, tanto più evocativi, profondi, altamente risonanti e rivelatori - quasi, si direbbe, folgorati e stupiti da se stessi - proprio nel momento in cui paiono avvicinarsi alla prosa del quotidiano, all'umana affabilità della conversazione.
(M. V.)
La poesia "Fare di questo" è, primariamente , demistificatrice, poiché -non a parole- ci fa coscienti di un fatto che sapevamo già: per sentire, per esperienza; ma solo ora, solo così tardi, lo comprendiamo davvero:
non è vero -ci dice, non a parole- non è vero che solo alcuni misteriosi uomini (non io, mai io) compiono omicidi; io = omicida : ecce homo.
Non a parole lo dice, poiché «quando si è capito veramente qualcosa dirlo è un atto puramente narcisistico»1 (di qui, «l'enorme secondarietà della letteratura»2); e dunque, non a parole, non per narcisismo, la poesia mi dice che io = omicida.
E aggiunge: «Questo è un fatto molto importante» ; ecco, non dice: «Questo è tremendo, atroce, orrendo», ma solo, "innocuamente": «Questo è un fatto molto importante»; e più oltre, narrandoci del rapporto con S., chiama «l'impulso [...]di ucciderla» semplicemente, temerariamente, tra parentesi « (puro istinto, vero, grande istinto) ».
In tal modo, la poesia non è solo demistificatrice, ma insieme -se mai possibile- consolatrice (se mai possibile), poiché non ci condanna: constata, accerta, rende testimonianza.
Il primo omicidio che constata è quello di Bione, un cane che portato in campagna, abbandonato, cioè «ucciso interiormente», «impazzì»:
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