“Crisi”:
tale il concetto-chiave di questo libro, e insieme la temibile
insidia a cui esso cerca di offrire una soluzione. «La crisi porta
progresso», diceva Einstein, una delle autorità qui richiamate. La
parola deriva infatti da kríno,
“separare”, “distinguere”, “discernere”, designa allora
un momento risolutivo che determina la dismissione di una maniera di
essere per un passaggio radicale ad un’altra. Si ha la sensazione
di vivere alla fine della storia, viviamo una crisi profonda che ci
rende inclini all’astensione, all’adattamento, all’accettazione
acritica del luogo comune. Insieme all’impressione di una
esperienza incompleta, anonima, “qualunque”. È il mondo-Moloch,
quello dell’urlo di Ginsberg: «Moloch che mi è entrato presto
nell’anima!», «Moloch in cui io sono una coscienza senza un
corpo!», «Moloch che col terrore mi ha tolto alla mia estasi
naturale!» (Howl,
tr. it. di L. Fontana). Ma abdicare a Moloch, sottoscrivendo lo
stigma di soggetti neutralizzati, non è l’alternativa ideale per
Leonardo Caffo, che stando a quanto afferma in Il
bosco interiore. Per una vita non addomesticata in compagnia di Henry
D. Thoreau
(Sonda 2015), ha imparato molto presto a distinguere e a disobbedire.
Il bosco è non-città ma non è totale isolamento o voglia
dell’irrimediabilmente distante. Nel bosco non ci sono soltanto
cose sotto altra luce, ci sono altre cose, sicuramente i presupposti
per un cambio di prospettive.
Con
le opere di Thoreau, filosofo trascendentalista e autore del
manifesto della disobbedienza civile, si cercano qui le ragioni delle
tante anomalie e disfunzioni della situazione presente. Che ruolo
abbiamo, noi, in questo delirio? Avrebbe detto Kerouac. Di Thoreau
vengono elusi riferimenti specifici che seguano rigorosamente la
cronologia delle sue opere (il volume è comunque corredato da una
ampia bibliografia, di una «Thoreau-grafia» per la precisione) allo
scopo di realizzare un discorso essenzialmente sincronico mediante un
continuum
narrativo
e argomentativo ispirato al suo insegnamento, messo ogni volta in
relazione con il contemporaneo: Thoreau è il tramite, e non il fine,
di questo libro, dove ad essere posto radicalmente in questione è il
nostro tempo. Per questo nelle pagine iniziali Caffo parla di
“finzione letteraria”, perché «attraverso Thoreau che critica
il proprio tempo, assistiamo in realtà a un’analisi del nostro».
Ciò suppone meccanismi che si ripetono nel tracciato della storia,
nonché una identità di fondo della natura umana, pur esplicandosi
essa in epoche distanti. Innanzitutto, Caffo dice, è l’umanità
come concetto
che va assunta quale oggetto di osservazione della filosofia.
Ogni
mutamento esige una azione. Un filosofo attuale che analizzi
l’odierna società concluderebbe che l’uomo contemporaneo non
agisce ma, addomesticato in seguito alla espropriazione delle sue
facoltà critiche, si limita a muoversi. Di più: in linea con
Wittgenstein, per cui l’umano è la somma delle sue azioni
possibili, l’uomo contemporaneo non esiste neppure. Unicamente è,
senza esistere. Perché le nostre scelte sono soltanto esteriori,
sono «giochi truccati», scelte falsate e falsanti, preventivamente
orientate dalle già ginsberghiane «fabbriche del pensiero».
Potenzialmente liberi, siamo di fatto asserviti e realizziamo gli
obiettivi di chi ci ha alterati, resi docili, manipolati: omologati
sia sotto il profilo dell’esistere che in quello del valore
individuale. Caffo intravede nella filosofia eccentrica e
radicalmente trasgressiva di Thoreau la ribellione alla rassegnazione
e la possibilità di svincolarsi dal potere assoggettante delle
organizzazioni statali e culturali. In una prospettiva che deprime le
umane potenzialità poco senso avrebbe la domanda: «che fare?»,
piuttosto se ne impone un’altra, osserva Caffo, cioè «che fare
per poter ricominciare a poter fare?».
La
contemplazione in Thoreau, nell’isolamento di Walden, è rivolta al
superamento della condizione del muoversi senza agire, quel movimento
che secondo Caffo è «esattamente un istituzionalizzarsi del fare
senza intenzione», l’interdizione della libertà di esistere come
soggetti di una azione all’altezza di concorrere a trasformare lo
stato delle cose. Ogni azione propriamente detta prelude a un atto,
cioè a «qualcosa che sposta certe proprietà del mondo cambiandolo
dall’interno». Non è metodo, è una res
nova
destinata a permanere. L’atto è centrale, per Caffo. È un’idea
che fa parte del lascito ideale di Carmelo Bene, che faremmo meglio a
considerare anche come un sophos,
un “saggio”, se non proprio un philo-sophos,
certamente sui
generis.
Ecco il nodo solenne cui Caffo fa riferimento: «L’atto è l’oblio
e per agire devi dimenticare, se no non puoi agire». E quindi? Prima
di fare, noi pensiamo di fare, cioè di poter fare. Ma il pensiero di
questo “poter fare” è già condannato in qualche modo, e
depotenziato: è non fare. Perché l’evento da testimoniare ha già
avuto il suo Adamo nomenclatore, è già stato nominato, definito,
concluso. La conseguenza paradossale è che quello che si fa è fatto
soltanto perché lo si può fare.
Una
delle distinzioni preliminari su cui basarsi per una vita
socializzata è quella tra “giusto” e “giustificato”, dove il
giustificato potrebbe contribuire, come di fatto fa, a pregiudicare
l’accezione di “giusto”, legittimata da una diffusa – e
ingiustificata – supposizione di liceità. Così non può esserci
azione, ma solo movimento non compatibile con la nozione di agire.
Perché l’agire si renda fattibile diviene necessario educarsi a
discriminare, non adeguarsi, «scegliere di non scegliere» tra
opzioni imposte oppure vincolate, o palesemente non giuste ma solo
accreditate da una accondiscendenza generalizzata. Ma è possibile
farlo da soli?
La
vacanza sul lago Walden è finalizzata a riconsiderare le idee di una
natura e di un mondo antecedenti alla manomissione su di essi
condotta dall’animal-umano. Ognuno di noi ha il proprio Walden, il
proprio “bosco interiore”, luogo della visualizzazione dell’anima
ritrovata, e Caffo dice del suo. A condizione che il bosco interiore
non si risolva in un desiderio/necessità di emarginarsi che si
converta in distacco, in volontà di defilarsi dallo scenario
compromesso del mondo per una spiritualizzazione della vita o per una
esclusiva focalizzazione su se stessi. Con l’isolamento va invece
perseguito l’obiettivo contrario, cioè il riprendersi la vita
nell’avvertimento del suo legame con le origini, così recuperando
le radici della nostra libertà quale condizione dell’agire.
Scriveva Thoreau che «il migliore dei governi è quello che ci
governa di meno», oppure quello «che non governa affatto». Le
organizzazioni statali deprimono la nostra natura di soggetti
dell’azione, di qui il pensiero anarchico di Thoreau, filosofo
dell’anarchia che cerca di riguadagnarsi una autonomia morale
uscendo dai limiti di un controllo esterno: e in ciò sta il senso
dell’invito alla disobbedienza civile, cioè a una resistenza
attiva tesa a ricominciare da noi stessi, dalle nostre potenzialità
di esistenza e di valore. In Thoreau l’anarchia non si risolve in
una forma di negativismo che si arresti alla fase iniziale; per lui
anarchia – scrive Caffo – «è una sorta di ideale regolativo per
spingere le società a riconoscere l’importanza della valutazione
degli individui, e delle loro singole istanze». Lo Stato non va
insomma accettato in maniera inerte, e qui si inscrive la critica
delle istituzioni da parte di Thoreau, e di Caffo con lui: gli
oggetti sociali, da noi istituiti allo scopo di sostenerci, hanno
finito per esercitare su di noi un’azione di controllo e per
neutralizzarci come soggetti deliberanti. Accettiamo la devastazione
della natura e la mattanza animale come procedure ineluttabili e
irreversibili. Se provassimo a trasferire Thoreau ai nostri tempi,
cosa ci aspetteremmo che dicesse in merito alla sperimentazione
animale, alle centrali nucleari, ai disastri ambientali, alla
gestione dei beni comuni, ecc.?
La
sentenza di Zarathustra per cui “Dio è morto” per Caffo va presa
in senso positivo: è una motivazione a riproporre la questione del
senso volgendosi verso versioni della vita vincolate alla dimensione
del corpo e ad un qui ed ora teso a restituire un rilievo finalistico
all’esperienza quotidiana. «Siamo organi di un unico corpo»,
scrive Caffo in accordo con Thoreau e in opposizione a Cartesio;
rimettersi alla prospettiva di una dissociazione mente/corpo
significa pregiudicare la nostra concezione dell’esistenza, ma
prima ancora la nostra complessità esistenziale. La riflessione da
condurre sul vivente deve essere unitaria, organica, strutturante.
«Siamo tubi digerenti», diceva Carmelo Bene, e per Caffo in tale
assunto non c’è alcunché di riduzionistico, perché la vita è
una biologia, scienza del corpo e racconto del corpo. L’assenza di
una tensione dialettica tra mente e corpo, e insieme l’enfasi
protratta sulla componente intellettuale, hanno finito per
compromettere la contemporaneità.
Lontanando,
nel mettersi alla prova del silenzio, emerge l’imperfetto del
mondo. Il silenzio in Thoreau non ha tendenza infinitiva ma attiva
(Caffo propone la diade «silenzio e rivoluzione», perché è con
l’esperienza del silenzio che si articola l’idea di una
rifondazione comunitaria); la prospettiva lontanante non configura un
abbandono dei rapporti e dei legami, ma risponde all’esigenza di
renderci consapevoli dei vincoli etici e del valore dell’aldiquà.
Quindi nulla di individualistico né di mistico, quanto filosofia da
realizzare qui, adesso, e non in un altrove nebuloso oppure
inaccessibile. Non si tratta tanto di capire il silenzio, di
avvertirlo come dimensione della vacuità, o come blanc
dell’esperienza per poi attribuirgli maggiore eloquenza e pregnanza
rispetto alla parola, quale luogo dello svelamento dell’enigma o di
qualche lato segreto. Bensì di assumerlo come sospensione della
parola superflua, soverchiatrice, sviante, strumentale; come
interludio illuminante che promuova nuove assunzioni etiche e con
esse l’attivazione dell’azione. «E sento di nuovo la domanda che
dimora / nelle nostre menti sull’idea / che è dietro all’uomo il
suo posto nell’universo e / l’universo, il suo posto nell’uomo»
(John Wieners, I
walk under the
distant
stars,
tr. it. di F. Pivano). Con il distacco dall’ultimo orizzonte del
mondo – nel silenzio nella natura e non con il silenzio della
scrittura – emerge come il nostro congedo dalla natura assume una
centralità rilevante in filosofia. Avvertirsi come parte della
natura contribuirebbe ad arginarne la distruzione (che sarebbe
autodistruzione), sentirsi come “animale naturale”, piuttosto che
come risultato della società, determinerebbe inoltre l’estinzione
dell’idea di diversità, e dell’idea stessa di nazione.
Al
silenzio inerisce la bellezza, che ha carattere morale: «bello –
scrive Caffo – è ciò che infonde, al di là delle convenzioni,
una sensazione di unità con il resto delle creature viventi. In
questa parte del bosco, sempre più metaforica e spirituale,
scopriamo che essere artisti significa anticipare il mondo di domani:
distinguiamo, sui bordi del lago, il futuro dall’avvenire. E
facciamo una scelta: il domani non può che essere meglio dell’oggi».
L’idea restituita da Thoreau è che il filosofo sia un artista. Per
lui l’estetica non è teoria della percezione ma teoria dell’arte,
e l’opera d’arte superiore è la natura. Nessuna intenzione
estetizzante, la natura non imita affatto l’arte ma è essa stessa
opera d’arte, con evidente rovesciamento dei canoni che saranno
propri dell’estetismo. In Walking,
che Caffo definisce un’opera estetica «di profonda valenza
ecologica», Thoreau disegna una concezione dell’arte come qualcosa
che va ben oltre le competenze che sottendono agli umani prodotti
estetici. Molto poco di artistico possiedono quelle opere
incoordinate dalla vena dissacratoria (chissà cosa Thoreau avrebbe
pensato di fronte ad opere basate sul sovvertimento dei canoni),
perché l’arte «è anche natura» e il bello non è proprietà che
si possa attribuire dall’esterno, da un atto creativo, e neppure
motivando l’assalto alle forme e l’arbitrarietà eletta a regola
quali antidoti alla rimozione – come talora si argomentava nel
secolo scorso. L’esteticità è ingenita alla natura, di cui le
forme espresse dell’arte sono solo fenomeni secondari. E se al
museo si riservano cure maggiori rispetto a quelle che vengono
destinate al mondo naturale, ciò è emblematico di fino a che punto
possa spingersi il fattore economico, che tutto tende a incorporare e
a tradurre in termini di valore di scambio. Lo sguardo sulla bellezza
deve essere disinteressato, da essa possiamo soltanto trarre quel
senso di armonia, di euritmia, di pienezza e di compiutezza
spirituali, che solo il bello in natura – in virtù della sua
oggettività e indipendenza tanto dal soggetto percepiente che da
convenzioni o soluzioni stilistiche – è in grado di trasmetterci.
Walden
o
la vita nei boschi
è il punto di partenza di un possibile percorso artistico
convergente con la filosofia, parola di cui andrebbe riconsiderata la
base etimologica: la filosofia è critica, e non amica, della
sapienza. «Sovvertire, cambiare e trasformare: la filosofia è la
messa in atto degli ideali, che il bosco interiore, durante tutto il
percorso, trasmette al nostro io più intimo e profondo». Viene
accordata alla filosofia la piena facoltà di tenere distinte (sulla
scorta di Derrida) l’idea di un futuro come scorrimento del tempo
da quella dell’avvenire, cioè di un futuro orientato dall’etica,
che predica il rispetto verso la natura. Tuttavia, le dottrine
possono essere assunte a prescindere dal soggetto che le elabora?
Detto altrimenti, il dire sarebbe ancora attendibile, e ricevibile,
se non conforme al fare? Non per Thoreau, e neppure per Caffo: ogni
filosofia è esercizio sterile qualora non si traduca in applicazione
pratica della teoria e non faccia corpo con la vita, cioè con ciò
che eccede il puro lato speculativo della chiarezza e distinzione o
della disposizione all’universale. «Diventa i tuoi ideali», è
l’esortazione di Caffo.
Il
bosco, come abbiamo visto, è rifugio reale per un riorientamento che
realizzi in atti una visione delle cose scevra da sovrastrutture.
Tuttavia è anche un fattore simbolico. La vita sociale è un’altra
e va vissuta «nonostante», mettendo in opera il paradigma di
Bartleby, I
vould
prefer
non to:
è inevitabile inoltrarsi nella vita, altrimenti tutto si
arresterebbe a un immobilismo senza soluzione, tuttavia è vitale
farlo «nonostante». Leggiamo dai diari di Kerouac: «questa
continua ricerca di un ruolo è in sé nemica dell’esistenza. La
vita potrebbe essere così, “la vita è questa”, potrebbe essere
un desiderio umano e autentico, e tuttavia è anche la parte mortale
dell’esistenza e il nostro scopo, dopo tutto, è quello di vivere
ed essere autentici. Vedremo» (Windblown
World,
tr. it. di S. Villa).
Restano,
nel complesso libro di Caffo, il richiamo forte alla disobbedienza e
una speranza: quella che anche una azione minima, che oggi potrebbe
apparire di scarsa incidenza, potrà rivelarsi decisiva per una
umanità a venire. Il
bosco
interiore
è scandito in sette «fermate»: «Cosa può fare un uomo, solo?»,
che verte sulla valenza dell’azione del singolo; «Ognuno di noi,
ognuno di voi», sulla trasformazione come opera unanime; «Cambiare
ciò che dovrebbe cambiarci», dove l’idea di cambiamento viene
addotta alla luce della disobbedienza verso quelle istituzioni
tradizionalmente deputate all’incremento della creatività
individuale; «Vivere come artisti»: qui, a partire dalla
indissolubilità di etica ed estetica, Thoreau si misura con la
bellezza, che trasposta nel contemporaneo si configura come «bello
artificiale» in quanto monetizzata, rientrando così anch’essa nel
meccanismo del potere; «La politica, veramente», sul divario tra
gli Stati e la società e sulla dimensione comunitaria; «Selvaggio
sarà lei», sul senso dello stare ai margini e sul rapporto con una
natura non sempre docile; «Cosa può un filosofo?», sul ruolo di
una filosofia che oltrepassi una sfera teorica e astrattiva.
Attraversano questo discorso filosofico non professorale
numerosissimi riferimenti e collegamenti con altre discipline e con
altri canoni. Fermarsi ai mezzi termini non porterebbe da nessuna
parte. Senza esclusione di colpi, allora, e con toni a tratti
tutt’altro che deferenti, in questo manifesto aggiornato della
disobbedienza civile – un «Manifesto per una vita non
addomesticata (o del “come vivere liberi nonostante”)»
chiude questo percorso – si tende a far risaltare la tenuta e la
radicalità ispirativa dell’opera di Thoreau e a testarne il valore
perenne nella ricezione da parte delle varie generazioni fino a noi.
Sosta obbligata, la generazione dei beat battuti & beati, dei
vagabondi del Dharma, «o semplicemente “Sulla strada”», diceva
Kerouac. Non
alla
fine della strada.